TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

Nel dicembre 2022, il Prof. Giuseppe Santoro-Passarelli mi propose di fargli un’intervista da destinare alla Rivista Lavoro Diritti Europa. L’intervista era stata naturalmente proposta dal Direttore, il Presidente Martello.
Mi spiegò che, per ragioni di opportunità, preferiva evitare che l’“intervistatore” o “intervistatrice” fosse un allievo/a della sua Scuola e che aveva pertanto pensato a me anche in ragione della nostra lunga conoscenza e frequentazione nell’ambito della Commissione di garanzia. Ne fui molto onorata. Il lavoro è stato svolto tra dicembre 2022 e febbraio 2023 ed è stato caratterizzato da lunghe ore di intervista, di persona o telefonicamente, nel corso delle quali il Prof. Santoro-Passarelli mi ha trasmesso, con parole per me indimenticabili, le immagini, gli avvenimenti e gli incontri più importanti che hanno caratterizzato la sua vita familiare – non potrò scordare la descrizione della figura di sua madre, Angela Alberotanza, donna estremamente acuta, di grande bellezza, intelligenza, umanità – la sua formazione, la sua inesauribile passione per lo studio e per l’insegnamento.
Come noto, Egli era una persona molto riservata e, pertanto, per sua scelta, i suoi racconti più personali non hanno potuto trovare spazio in questa sede.
Dopo la sua improvvisa scomparsa, il 28 marzo 2023, non posso non ripensare ad una certa urgenza che avvertivo nella sua voce e nel suo desiderio di ultimare al meglio questa intervista con la quale egli voleva sintetizzare il suo pensiero su alcuni temi di fondo della sua ricerca: da quelli più antichi come il lavoro “parasubordinato” a quelli più recenti come quello della dignità del lavoro e della civiltà digitale.
Gli sono grata per i racconti, per le letture che mi ha fatto scoprire, per la passione e per l’umanità che mi ha trasmesso e di cui conserverò per sempre il ricordo.
Milano, 29 maggio 2023
Orsola Razzolini

Giuseppe Santoro-Passarelli, Professore emerito dell’Università di Roma La Sapienza, Presidente della Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali e socio corrispondente dell’Accademia Nazionale dei Lincei, si è laureato in giurisprudenza all’Università di Roma La Sapienza e ha iniziato la sua attività scientifica e di ricerca come assistente ordinario, lavorando con il prof. Gino Giugni. Nel 1980 ha vinto il concorso a cattedra in diritto del lavoro e ha prestato servizio come professore straordinario, e poi dal 1984 come professore ordinario presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Macerata, della quale è stato anche preside, e direttore dell’Istituto di diritto del lavoro, nonché direttore della Scuola di specializzazione in Previdenza, Sicurezza e Assistenza sociale. Nel 1987 è stato chiamato dalla Facoltà di Economia e commercio dell’Università di Roma “La Sapienza” e, successivamente, nel 1992, dalla Facoltà di Giurisprudenza dove ha insegnato ininterrottamente diritto del lavoro fino al 2016 anno del suo pensionamento. È stato Direttore del dipartimento di scienze giuridiche dell’Università di Roma La Sapienza, e componente eletto del Senato Accademico in rappresentanza delle Facoltà di Giurisprudenza, Economia e Scienze politiche e Prorettore alla semplificazione amministrativa. Presidente dell’A.i.d.la.s.s. per il triennio 2012-2015, Presidente della Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali per il mandato 2016-2022. Nel 2019 è stato cooptato come socio corrispondente dell’Accademia Nazionale dei Lincei, e ha fatto parte di diverse commissioni di studio presiedute, tra le altre, da Luigi Mengoni.
Guido Alpa, in una recensione alla raccolta dei Tuoi scritti, sottolinea che il titolo che hai voluto utilizzare “Realtà e forma” – chiaro rimando a Tullio Ascarelli – sottende il tuo approccio metodologico di fondo definito “giusrealistico”. Come nasce il Tuo interesse per due figure intellettuali, come quelle di Tullio Ascarelli e Gino Giugni, di forte provocazione rispetto al formalismo giuridico allora dominante, accomunate da un insaziabile interesse per l’osservazione e lo studio della realtà e dalla ricerca di un permanente canale di comunicazione tra diritto e realtà?
Per spiegare meglio l’origine e le ragioni degli studi che poi ho intrapreso devo fare un passo indietro e parlare del contesto socio culturale e quindi universitario nel quale mi sono formato.
Nel 1968 avevo 22 anni e frequentavo il quarto anno del corso di studi della Facoltà di Giurisprudenza della Sapienza. Quella facoltà, che ancora oggi considero la mia casa, fino a quell’anno era un ambiente molto austero: era impensabile attaccare alle pareti manifesti di qualsiasi genere, esistevano le bacheche dove erano indicati gli orari delle lezioni e i programmi delle varie cattedre; i professori, tutti ordinari, erano solo 18, e tutti di gran fama, a fronte di una popolazione studentesca già numerosissima; si parlava sottovoce e noi studenti ascoltavamo lezioni eccellenti, ma il rapporto con i professori era inesistente. Parlavamo, quando era possibile, con gli assistenti.
Hanno contribuito alla mia formazione in quegli anni in modo determinante Crisafulli, Gorla, Orestano. Ascarelli era già deceduto e Giugni era ancora professore a Bari.
Ebbene, in quell’anno, all’improvviso il clima cambiò radicalmente. Un gruppo di studenti, autoproclamatosi movimento studentesco, iniziò a discutere di temi di politica e di varia umanità, convocando assemblee inizialmente molto affollate. Molti di loro cominciarono ad attaccare alle pareti con lo scotch i primi manifesti che incitavano gli altri studenti a occupare la facoltà, che infatti fu occupata. Ricordo che i corsi dei vari insegnamenti che all’epoca avevano durata annuale furono sospesi per diversi mesi. E si avvertiva un fervore e una volontà di cambiamento in tutto, nei rapporti interpersonali e nei programmi e in genere una contestazione del sistema: furono contestati duramente certi insegnamenti e certi professori. Ma spesso certe proteste, viste con il senno di poi, apparirono piuttosto velleitarie e certi slogan, sicuramente suggestivi come “l’immaginazione al potere” proveniente dalla Sorbona di Parigi, si ricordano con simpatia ma alla fine, dopo quelle memorabili proteste, almeno nell’università, tutto ritornò come prima. Soltanto aumentò in misura considerevole il numero dei docenti ma non la qualità dell’insegnamento, e soprattutto non furono introdotti metodi innovativi. Quanto alla coalizione del movimento studentesco con quello operaio sicuramente ci fu ma fu una coalizione in superfice, fatta a colpi di slogan per giunta irrealizzabili: non ricordo da parte degli studenti una partecipazione e un approfondimento serio delle questioni che riguardavano il mondo del lavoro.
Nel 1970, già laureato, ebbi l’occasione di leggere un articolo di Giugni, che non conoscevo, sull’autunno caldo sindacale, pubblicato sulla rivista il Mulino (Giugni, 1970). L’a. dà conto della sindacalizzazione della contestazione attraverso l’analisi delle vicende che portarono alla conclusione del contratto dei metalmeccanici con la mediazione necessaria del Ministro del Lavoro perché le parti non riuscivano neppure a parlarsi. E certamente Giugni, definito, non a torto, il padre dello Statuto dei lavoratori, riuscì in un’impresa veramente ardua: mediare tra le diverse culture che indubbiamente sostenevano con forza nell’ambito della sinistra le ragioni dei lavoratori e del sindacato. Come è noto lo Statuto dei lavoratori riuscì a rendere complementari i due blocchi di normative che si rifacevano a concezioni sociali e politiche radicalmente diverse: quello di matrice costituzionalista, il Titolo I in particolare, a garanzia i diritti individuali dei lavoratori, e il Titolo III, la cosiddetta anima promozionale dello Statuto, che rendeva effettiva la tutela dei diritti attraverso l’introduzione del sindacato in fabbrica. Una norma tipica degli ordinamenti anglosassoni è l’art. 28 che Giugni ha riprodotto nello Statuto ricordando le unfair labour practices negli Usa.
In un convegno ebbi l’occasione di conoscere personalmente Giugni e da quell’incontro è iniziata la nostra frequentazione e stima reciproca. Mi condusse perfino a Bari dove ho conosciuto tutti i componenti della sua Scuola. In particolare, ho avuto rapporti più stretti con Franco Liso che viveva già a Roma. Tra le tante letture che mi consigliò Giugni campeggiavano Perlmann, Khan-Freund allievo di Sinzheimer, Simitis, Ramm e tra gli italiani ovviamente Ascarelli, Santi Romano, Carnelutti ma debbo dire che rimasi colpito da Ascarelli perché mi sentii consentaneo con il suo metodo di indagine, giurista attento all’analisi della realtà sociale come risulta da un articolo fondamentale Norma giuridica e realtà sociale. E non mi fa velo l’ammirazione per lui ma l’indagine di Ascarelli mi sembra ancora di grande attualità eppure è deceduto nel lontano 1959. Mi ritrovo molto in quanto scrisse Giugni nell’introduzione a Lavoro legge contratti laddove sottolineava l’esigenza di “cucire” la sapienza dogmatica con moderne impostazioni di metodo e, in particolare, ricordando proprio Ascarelli, con “l’attenzione alla realtà giuridica effettuale”.
In verità, anche Tuo padre, Francesco Santoro-Passarelli, non può considerarsi una figura intellettuale in totale contrapposizione a queste due. Infatti, ha nutrito sempre uno spiccato interesse per il diritto del lavoro che, come il diritto commerciale, è legato a doppio filo ai fatti economici e al loro divenire ed è stato l’autore della privatizzazione del diritto sindacale, coniugando schemi e categorie del diritto privato come il concetto di autonomia privata con la nozione di interesse collettivo e con la Costituzione (in particolare con gli artt. 2 e 39). Nel suo scritto “Quid ius?”, di cui hai di recente sottolineato l’importanza, egli parla della fine del sogno del diritto positivo come diritto scritto ed arriva ad affermare che, se l’oggetto della scienza giuridica resta il diritto come è e non come dovrebbe essere, “il fatto sorretto dal consenso fa legge” (tra gli esempi cita la partecipazione progressiva dei sindacati alla funzione pubblica e lo sciopero politico). Ci aiuti a comprendere meglio questo aspetto del suo pensiero?

Anche in questo caso è doverosa una premessa. Francesco Santoro-Passarelli aveva assorbito la lezione del suo maestro Polacco che considerava le clausole generali gli organi respiratori dell’ordinamento per dire che attraverso le clausole generali la realtà entra e può modificare l’ordinamento.
E quindi Santoro, per qualificare l’attività del sindacato come soggetto privato e quindi libero ma collettivo, non esita ad inventare la categoria dell’autonomia collettiva come specie dell’autonomia privata, non in forza di un ragionamento astratto ma desumendola dall’osservazione della realtà. E anche perchè si era reso contro che non sarebbe mai intervenuta l’attuazione dell’art. 39 comma 4 Cost.
Libertà sindacale e sindacato come soggetto privato titolare di un interesse collettivo e non pubblico e conseguente autonomia privata collettiva sono gli elementi di un trinomio inscindibile e possono considerarsi il risultato cui perviene Santoro-Passarelli.
Quanto allo scritto “Quid jus” la risposta è abbastanza agevole ed è la conseguenza della tesi di Santoro quando afferma che quello che conta è il diritto effettivo tant’è vero che norme costituzionali importanti come gli artt. 39 e 40 Cost che pure prevedono condizioni e limiti per stipula del contratto collettivo con efficacia generale e per l’esercizio dello sciopero da parte del legislatore ordinario, pur non essendo intervenute, non hanno impedito la stipula dei contratti collettivi giustamente denominati di diritto comune e lo sciopero in tutte le sue forme e applicazioni tant’è che oggi anche sindacati inesistenti possono proclamare scioperi generali perché il legislatore non ritiene di intervenire sulla regolazione della rappresentatività sindacale.
La storia giuridica e delle sue figure intellettuali più significative è, per usare le parole di Luigi Capogrossi che lo ha di recente sottolineato, una dimensione onnipresente nei Tuoi scritti insieme all’attenzione alla politica.
Forse onnipresente è una valutazione eccessiva, ma certo mi sono interessato in qualche articolo alla storia del diritto del lavoro italiano. E in particolare mi sono reso conto, attraverso la lettura dei giuristi del lavoro prima di Barassi, del clima politico e culturale della fine del secolo XIX e degli inizi del secolo XX contraddistinto da una serie di leggi a tutela del lavoratore ma anche da forte contrasti politici e culturali determinati, come è noto, dalla diffusione dell’industria e dal consolidamento del movimento operaio e da una forte depressione economica che aveva determinato un aumento dei prezzi del pane e dei generi di prima necessità. Aumenti che diedero il via a forti tumulti repressi duramente dal Governo Pelloux.
Anche la Chiesa era già intervenuta sulla questione sociale con la nota enciclica del pontefice Leone XIII Rerum Novarum dando corpo alla dottrina sociale della Chiesa, e nello stesso anno fu fondata la camera del lavoro a Milano poi diffusesi in diverse città italiane fino alla costituzione nel 1906 della CGdL e nel 1892 fu fondato il Partito Socialista che collaborò alla emanazione di diverse leggi sociali.
E in questo scenario tra i diversi orientamenti politici, ancor prima della mediazione riformatrice di Giolitti con la collaborazione di Turati, si inseriscono gli interventi di molti giuristi che auspicavano, da un lato, l'intervento dello Stato per fare cessare lo stato di guerra tra capitale e lavoro e, dall'altro, reclamavano l'esigenza di eliminare la conflittualità sociale attraverso la legislazione sociale.
A mio avviso, in quel contesto storico gli orientamenti politici dei giuristi che si occupano di problemi del lavoro possono essere classificati convenzionalmente in due schieramenti: 1) i socialisti della cattedra come Cimbali, Salvioli, Gianturco, Vadalà Papale, richiedevano una revisione radicale del codice e quindi un codice sociale, 2) i cosiddetti riformisti o solidaristi, secondo i quali le cd. leggi sociali dovevano essere interpretate all'interno del sistema del codice civile, come Vivante e, accanto a lui, Sraffa, Messina, Redenti e Carnelutti. Secondo questo indirizzo metodologico i fatti e i valori emergenti dalla nuova società non possono essere ignorati, ma devono essere inseriti nel sistema.
Tra i predecessori di Barassi, mi riferisco in particolare a Tartufari, che manifesta la sua contrarietà all'interpretazione estensiva delle norme della locazione di cose alla persona del lavoratore, perché questo a. ben avverte la peculiarità del contratto di lavoro:
"in nessun altro caso la prestazione oggetto del contratto si presenta così strettamente connessa alla persona che ne è il subbietto, e in nessun altro caso la persona medesima entra in modo così diretto nell'adempimento degli obblighi contrattuali onde (si riscontra) fra locatore e conduttore una personale dipendenza del primo verso il secondo congiunta ad una morale ed economica padronanza di questo su quello che negli altri contratti è affatto sconosciuta".
Ma la lucida e anticipatrice analisi di Tartufari non risulterà vincente, perché non riesce ad individuare nel sistema principi unitari e conclude la sua denuncia con la richiesta di un intervento legislativo che non sarà approvato neppure nel 1902 ma vedrà la luce solo molti anni dopo e limitato solo agli impiegati.
In questo contesto la monografia di Barassi sul contratto di lavoro nel diritto positivo italiano del 1901 (I ed.) è risultata vincente rispetto agli apporti dei suoi predecessori perché ha utilizzato categorie esistenti nel sistema del codice come la locatio operarum e la locatio operis e ha messo in evidenza la grande elasticità e adattabilità di questi istituti, tale da renderli sempre accetti.
Negli stessi anni la dottrina che ha più approfondito il tema del contratto collettivo nel periodo precorporativo è stato Giuseppe Messina (il concordato di tariffe nell’ordinamento giuridico del lavoro 1904). E fu il primo autore a riconoscere la disparità di forza contrattuale tra le parti e di conseguenza a favorire lo sviluppo di normative inderogabili. In particolare, il saggio di Messina riesce a superare la figura del contratto plurisoggettivo perché individua nel gruppo un contraente unico che ha un interesse collettivo e quindi risolve in qualche misura il problema dell’efficacia ultra partes, anche se è perfettamente consapevole dell'inidoneità del contratto collettivo a risolvere senza l'ausilio della legge il problema cruciale della sua efficacia reale e, conseguentemente, della sua inderogabilità da parte del contratto individuale. Con riferimento ai concordati di tariffe va ricordata l’istituzione già dal 1893 della Magistratura dei Probiviri che decide le controversie secondo equità. Dalla raccolta di questa giurisprudenza ad opera di Redenti (Introduzione al Massimario delle Giurisprudenza dei probiviri 1906) risulta che tale magistratura per la competenza tecnica dei suoi componenti, non togati, predispose una serie di massime a tutela degli interessi dei lavoratori che costituirono una sorta di disciplina applicabile ai casi uguali o simili. Un surrogato della legge sull’impiego privato sarà denominata da Carnelutti.
Agli inizi del secolo il legislatore non fu favorevole a regolare come tipo legale il contratto di lavoro tanto è vero che il disegno di legge Cocco Ortu Baccelli del 1902 sul contratto di lavoro, pur presentato, non fu neppure discusso in Parlamento.
Solo nel 1905 il Consiglio superiore del lavoro, a seguito della mancata approvazione del progetto di legge Cocco Ortu Baccelli, fu dell'opinione che sarebbe stato più produttivo affrontare il problema, anziché nel suo complesso, per categorie e così fu presentata alla Camera una proposta di legge per regolare solo il rapporto di impiego privato dall'on. Luzzatti il 12 dicembre 1912 e su di essa Orlando presentava il 24 aprile 1913 la nota relazione nella quale opportunamente chiarisce che si tratta di un progetto che per la natura inderogabile di alcune norme, costituiva una novità assoluta nel diritto privato dell'epoca dominato dal principio dell'uguaglianza delle parti e costituiva perciò un vulnus "alla libertà, intesa nel suo triplice senso di libertà giuridica , economica e politica"
Turati, invece, era favorevole all'approvazione di questa legge perché aveva ben presente la diversa capacità di aggregazione degli operai e parimenti lo stato di disorganizzazione e di frammentazione del ceto impiegatizio. "I commessi di negozio sono sparpagliati in mille botteghe e subiscono più facilmente le rappresaglie dei padroni, difficilmente possono fare con successo uno sciopero che sarebbe pure un'arma difensiva non indifferente”.
Secondo Turati questa legge doveva assolvere ad una funzione di uniformità della disciplina simile a quella che avevano avuto le norme proposte dalle camere di commercio rispetto agli usi e alle consuetudini e all'equità del giudice ma si rendeva conto dell'impossibilità di disciplinare nella legge il contratto di lavoro di tutte le categorie di impiegati privati e di coagulare una materia così mobile entro la formula ferrea di un articolo di legge. Non a caso nel progetto di legge sul contratto di impiego privato modificato secondo i voti del consiglio superiore non compare la definizione di impiegato. Questo era il clima dell’epoca.
Dopo 7 anni, solo nel 1919, venne realizzato un primo abbozzo della legge sull’impiego privato che sarà poi promulgata nel 1924. D’altra parte, nel 1926, la Carta del lavoro estende la tutela al lavoro manuale che poi sarà riconfermata anche nel 1942 dal Codice civile.
E a proposito della regolamentazione del lavoro va sottolineato che Barassi è rimasto del tutto estraneo alla redazione del libro V e il nuovo codice civile (art. 2094 c.c.) ha trasformato in archetipo quello che per Barassi era un sottotipo.
In realtà, come è stato osservato anche da Mengoni, la definizione legale dell’art. 2094 c.c. deriva dalla dottrina di Paolo Greco secondo cui “il contratto di scambio non indurrebbe in sé e per sé lo stato di subordinazione ove non si combinasse con l’ingresso o la permanenza, stabile o transitoria, del lavoratore nell’organizzazione dell’impresa”.
La formulazione dell’art. 2094 c.c. è in una certa misura condizionata dalla concezione corporativa dell’impresa confermata anche nell’art. 2086 c.c. perché, riconosce la dipendenza gerarchica dei lavoratori dall’imprenditore mediata dall’inserimento degli stessi nell’impresa. E per questa ragione l’art. 2094 c.c. finisce per accogliere come dato tipico della fattispecie la subordinazione del lavoratore nell’impresa e non quella elaborata da Barassi,
Ma al di là di questi rilievi sul tipo lavoro subordinato, a proposito del diritto del lavoro bisogna porsi un interrogativo di maggior rilievo, analogo a quello che Ascarelli si poneva per il diritto commerciale, come singolare conseguenza dell'unificazione del diritto privato con il codice del 1942, nel campo dell'interpretazione, e cioè se la "civilisation" del rapporto di lavoro da parte della dottrina lavoristica all'ombra del nuovo codice abbia ostacolato o rallentato o fuorviato il processo di attenzione alla multiforme realtà del lavoro dal quale il nostro diritto prende nome e ragione.
A questa domanda si potrebbe rispondere con Mengoni che, sul piano dell'interpretazione, la civilisation del rapporto di lavoro ha rafforzato la convinzione nella maggior parte della dottrina che “per il diritto del lavoro il problema è di correggere la logica tradizionale del contratto non di rifiutarla”.
Poi viene il periodo corporativo che è stato caratterizzato da figure intellettuali e interpreti tra loro molto diversi – penso a Giuseppe Bottai e Alfredo Rocco – e da una netta discontinuità rispetto al periodo precedente. Quali sono i principi dominanti alla base dell’ordinamento corporativo e quanto hanno influito sulle principali disposizioni codicistiche in materia di diritto del lavoro, alcune ritenute implicitamente abrogate altre a tutt’oggi vigenti?
Con la Carta del lavoro del 1926, la valorizzazione del contratto collettivo come fonte regolativa diversa dalla legge (da preferire al comando legislativo, perché pur condividendone i caratteri della generalità e dell'astrattezza non ne ha la rigidità) sancisce sicuramente l’abbandono della natura privatistica del contratto collettivo ma costituisce un passo avanti nella diversificazione e nella pluralità delle fonti.
D’altra parte, talune teste pensanti dell'ideologia corporativa: da un lato Alfredo Rocco, il vero estensore della legge del 1926, è perfettamente consapevole che questa legge cambia il volto del diritto del lavoro perché incide profondamente nella regolazione delle relazioni industriali e priva i sindacati della libertà e dell'autonomia.
Dall'altro lato Giuseppe Bottai, promotore culturale, è ben consapevole della debolezza scientifica dei suoi interpreti, come Costamagna e Volpicelli e giudica controproducenti gli estremismi dei cd. giuristi politici i quali pretendono la fascistizzazione della scienza giuridica quando essa non è ancora completata a livello legislativo.
Nella Teoria del Regolamento collettivo, cui antepone il titolo di Lezioni di diritto industriale, Carnelutti chiarisce, a mio avviso, due punti importanti, che poi continueranno a costituire croce e delizia per il contratto collettivo di diritto comune.
E cioè che il contratto collettivo che l'a. denomina "proprio" può avere effetti reali e non solo obbligatori come il concordato di tariffe, solo per effetto di una disposizione di legge che attribuisca al contratto collettivo l'efficacia di regolare i rapporti individuali senza o contro la volontà dei soggetti che lo contrarranno o, in altre parole, una disposizione di legge che regoli il rapporto tra contratto collettivo e contratto individuale. “Il contratto collettivo è precisamente l'accordo di due o più sindacati opposti per regolare i rapporti di lavoro della categoria alla quale i sindacati appartengono". E segue la frase rimasta scolpita nel tempo: "Pertanto il contratto collettivo è un ibrido che ha il corpo del contratto e l'anima della legge; attraverso il meccanismo contrattuale gioca una forza che trascende il diritto soggettivo e si sprigiona in un movimento che va oltre il rapporto giuridico tra le parti”.
Il codice civile del 1942 conferma che il contratto collettivo è fonte di diritto come risulta dall’art.1 delle preleggi e a quel punto è agevole stabilire la prevalenza del contratto collettivo e la sua inderogabilità da parte del contratto individuale. Tale inderogabilità è scolpita dall’art. 2077 c.c. che stabilisce non solo la nullità delle clausole peggiorative del contratto individuale ma anche la loro sostituzione automatica mentre fa salve speciali condizioni più favorevoli del contratto individuale. Per la sua chiarezza questa norma è talvolta ancora utilizzata dalla giurisprudenza per spiegare i rapporti tra contratto collettivo che non è più fonte e contratto individuale.
Di recente, Ti sei occupato proprio di Francesco Carnelutti, come giuslavorista di cui hai sottolineato i numerosi pregi ma anche, in un certo senso, la facilità di adattarsi ai mutamenti rilevanti intervenuti con l’avvento del regime corporativo rispetto al regime liberale e poi la difficoltà di accettare i valori e diritti della Costituzione repubblicana.
Parlo solo della produzione lavoristica di Carnelutti.A mio avviso la più originale è quella sugli infortuni sul lavoro quando frequentava la rivista di diritto commerciale di Vivante e Sraffa e quando appunto affermava solennemente che la rivista prima di interpretare la legge interpretava la vita.
Ma il nostro Carnelutti, per usare un eufemismo, ha sempre risentito del contesto in cui viveva tant’è vero che nel 1927, dopo la promulgazione della legge del 1926, Carnelutti invia alla rivista "Il diritto del lavoro" fondata da Giuseppe Bottai un articolo dal titolo “Sindacalismo” che inizia così: "In linea di massima non ci sono cose nuove da dire". In questo articolo, l'a. tiene a sottolineare che le idee che ora manifesta sono risalenti e "non procurate oggi per comodità" e afferma "dopo un'evoluzione ultrasecolare attraverso una guerra e due rivoluzioni, il processo di depurazione del sindacalismo è compiuto. Noi abbiamo oggi, in Italia del sindacalismo puro".
Negli ultimi scritti in materia di lavoro, Carnelutti, in più occasioni, assume un atteggiamento fortemente critico nei confronti del nuovo assetto regolativo dello sciopero contenuto nella Costituzione. Per Carnelutti “lo sciopero come la serrata è un vero atto di guerra sociale e la Costituzione riconoscendo il diritto di sciopero ha riconosciuto agli operai il diritto di guerra e la questione è se la guerra, sia pure economica tra gruppi sociali possa essere consentita. Se questa fosse una conseguenza del carattere democratico dello Stato, povera democrazia”.
Il Carnelutti lavorista può essere considerato un interprete riformatore e innovatore all'inizio, mentre già nel 1930 egli stesso afferma che il giurista deve essere conservatore.

In effetti, Carnelutti si inserisce nel movimento intellettuale che ruotava intorno alla Rivista di diritto commerciale e che faceva capo a Maestri come Vivante per i quali il giurista “moderno” deve interpretare la vita prima delle leggi. Un approccio in cui tutt’oggi, come abbiamo già visto, Ti riconosci.

A quasi sessant’anni dalla scomparsa di Carnelutti, Consolo osserva che il nostro a. non ha avuto dopo la morte un seguito pari alla "risonanza" del suo magistero in vita.
Perché, a mio avviso Carnelutti, nella sua lunga esistenza, è arrivato a tutti gli appuntamenti importanti fissati dalla storia per il diritto del lavoro, dominando sempre la scena da protagonista ma, proprio per questo, venendo condizionato in positivo e in negativo dai diversi contesti.
E infatti per quanto riguarda il diritto del lavoro si può dubitare che il nostro sia stato sempre coerente con il metodo appreso alla Commerciale dell'interpretazione della vita.
Come si è detto Carnelutti, non ha avuto difficoltà ad aderire all'esperienza corporativa anche se le soluzioni proposte dalla legge del 1926 non convergevano con quelle da lui professate nella rivista di diritto commerciale agli inizi del secolo.
Infatti il nostro ha abbandonato il metodo professato e cioè di interprete della realtà giuridica, quando è diventato sostenitore del nuovo metodo corporativo e, ancora, ha continuato a sostenere tali tesi, direi nostalgicamente, senza tener nel minimo conto il rovesciamento di valori e di diritti attuato dalla Costituzione, in particolare in materia di libertà sindacale e di sciopero, e ancor più quando non ha preso in considerazione il sistema sindacale reale sviluppatosi post e praeter Costituzione.
E ciononostante è riuscito, insieme a Barassi, che rimane il nostro padre fondatore, a percorrere il lungo itinerario fino alla Repubblica e a convivere con le diverse esperienze che hanno attraversato la nostra disciplina senza osservare mai il silenzio.
Altri, pur autorevoli giuristi come Redenti e Messina, pur essendo approdati nello stesso periodo "nell'insula in flumine nata" del diritto del lavoro, e pur avendo svolto funzioni non secondarie, uno come annotatore della giurisprudenza dei probiviri, l'altro come esperto del Consiglio superiore del lavoro, ad un certo punto si defilarono per non tornarvi più, probabilmente perché la nostra materia si era trasformata nel diritto corporativo.
Infine mi piace richiamare di Carnelutti un passo dei Colloqui della sera, ripreso anche da Irti, dove il tono non è più quello aspro di critica al riconoscimento del diritto di sciopero, ma sembra quello più distaccato del congedo: "Luce della notte è il silenzio. In queste brevi pause della nostra vita turbinosa, vorrei che imparassimo ad ascoltare. Anch'io come voi starò in ascolto.......Io non sono che un interprete. L'interprete, se sa interpretare, rende trasparenti le parole altrui”.
E ancora il tono del disincanto: “Credo che pochi uomini come me hanno amato il diritto. Se ho avuto un torto è quello di amarlo di un amore esclusivo. Una delle mie deficienze, che era la limitazione della mia cultura, è derivata proprio da questo. Non dico che il diritto non mi abbia ricompensato, ma è stata una strana ricompensa quella di rivelarmi, al fine, la sua miseria. Io non l'ho amato meno per questo......ma ho perduto sul suo conto le illusioni”.
E da questa confessione contenuta nella lettera agli amici, sembra che Carnelutti sia approdato alla libertà del Paese, un po’ frastornato e senza molta fiducia nel nuovo mondo.
Perché Carnelutti, pur dichiarando di avere molto amato il diritto, afferma che, alla fine, il diritto gli ha rivelato la sua miseria?
L'interrogativo sorge spontaneo ma è destinato a rimanere senza risposta, anche se non nasconde un forte scetticismo nel diritto, che richiama alla mente il suo scritto sulla morte del diritto del 1953: “Il diritto morrà perché è mortale”. Ancor più amara è un'altra considerazione: "Il diritto non è fatto che per i mediocri; i buoni non ne hanno bisogno, i cattivi non ne hanno paura".
Di fronte a questo scetticismo che si tramuta in pessimismo quasi senza speranza, credo che per i giuslavoristi possa condividersi la valutazione molto semplice ma chiara di Pera, pronunciata al convegno promosso in Udine il 18 novembre 1995 a trenta anni dalla sua scomparsa, e cioè "che Carnelutti resta vivo e attuale nella nostra storia di giuslavoristi per quanto costruì agli albori".

Veniamo ai Tuoi lavori più importanti. È del 1979 la tua monografia Il lavoro “parasubordinato”, aggettivo che Tu, al tempo, mettevi giustamente tra virgolette ma che poi è entrato a tutti gli effetti nel linguaggio comune. Come Ti venne in mente l’idea di utilizzare questo termine?
Per la verità non ho inventato io questo termine ma prima di me aveva scritto un articolo Giuseppe Pera sui rapporti di lavoro parasubordinato. Per quanto mi riguarda ho usato questo termine per chiarire che, come l’art. 409 n. 3 c.p.c. estendeva la disciplina del processo del lavoro e quindi una forma di tutela anche a rapporti lavoro non subordinato, si poteva tentare una estensione della disciplina sostanziale del lavoro subordinato anche a rapporti di lavoro non subordinati contraddistinti dalla debolezza del contraente lavoratore. E’ noto che per il codice è contrattualmente debole la parte che non può modificare la proposta della controparte (artt. 1341 comma 2 e 1342 c.c.). Insomma lo scopo era quello di estendere le tutele del lavoro subordinato anche a rapporti di lavoro autonomo continuativi e coordinati deboli anche se prevalentemente personali. Ovviamente la proposta prendeva atto che il legislatore aveva introdotto una forma di lavoro autonomo continuativo e coordinato in cui l’oggetto della prestazione era il lavoro in sé e per sé considerato eseguito in forma prevalentemente personale e non in forma di impresa. E’ quindi un contratto di durata diversamente dal contratto d’opera che è un contratto a esecuzione istantanea o prolungata. E diversamente dall’agenzia che è un contatto di durata ma ha un oggetto predeterminato dal legislatore e cioè promuovere, anche in forma di impresa, a favore dell’altra parte la conclusione di contratti, o del mandato a tempo con il quale una parte si obbliga a compiere uno o più atti giuridici a favore dell’altra parte.
La mia proposta considerava la fattispecie dell’art. 409 n. 3 c.p.c non soltanto processuale ma riferibile a rapporti di varia origine e natura, e pensavo a contratti di lavoro autonomo debole ma genuino e per questo ho affermato che il coordinamento non poteva essere considerato un potere o una prerogativa unilaterale del committente ma è il risultato di una attività negoziale svolta di comune accordo tra le parti.
Infatti, a pag. 66, sostenevi che il coordinamento non configura un potere o una prerogativa unilaterale del committente ma è il risultato di un’attività bilaterale e consensuale svolta di comune accordo dalle parti; per questo il coordinamento, a differenza dell’eterodirezione, è compatibile con il lavoro autonomo. Pensi che la Tua tesi, proposta e sviluppata anche da altri a., abbia ricevuto una definitiva consacrazione nell’articolo 15 della legge n. 81/2017?
Nella realtà le collaborazioni coordinate e continuative si sono diffuse rapidamente per circa un trentennio e cioè dal 1973 al 2003 anche se furono completamente travisato il senso e gli scopi della mia proposta che individuava come connotato di questo rapporto la debolezza contrattuale senza individuare per il suddetto rapporto di lavoro una disciplina diversa da quella del lavoro subordinato. Invece, come è noto, la dottrina prevalente ha valorizzato la coordinazione e ha teorizzato l’esistenza di un potere di coordinamento unilaterale del committente distinto dal potere direttivo senza chiarire in modo esaustivo quale fosse l’oggetto di questo potere rispetto a quello direttivo del datore di lavoro.
D’altra parte non si può negare che nel concreto svolgimento del rapporto è difficile distinguere la coordinazione dalla subordinazione E proprio l’ambiguità della ricostruzione del potere di coordinamento ha favorito la diffusione fraudolenta di questo rapporto anche perché, come è dimostrato, al lavoro coordinato e continuativo che arrecava al committente un’utilità molto simile a quella del lavoro subordinato non si applicava la normativa sui licenziamenti; nel 1970 era stata, da poco, introdotta la sanzione della reintegrazione per il licenziamento ingiustificato e soprattutto la contribuzione da parte del datore di lavoro ammontava allora al 10% rispetto al 33% dovuto per il lavoro subordinato.
E l’art. 15 della legge n. 81 del 2017 credo che abbia in qualche misura confermato l’esattezza della mia tesi che escludeva che il coordinamento fosse un potere unilaterale ma le parti determinano, come in ogni contratto, di comune accordo, le modalità di esecuzione della prestazione e, nel rispetto delle suddette modalità, il prestatore di lavoro organizza autonomamente la propria attività.
Desidero aggiungere che il potere di coordinamento unilaterale non può fondarsi neppure sull’art. 1746 c.c. Questa norma stabilisce che l’agente deve compiere l’incarico affidatogli in conformità alle istruzioni ricevute. Ciò significa che le istruzioni sono impartite come in ogni contratto di lavoro autonomo, nel contratto, e non durante lo svolgimento del rapporto come invece avviene nel rapporto di lavoro subordinato con l’esercizio del potere direttivo, e quindi non sono idonee a modificare l’oggetto della prestazione ma a specificarlo.
Un discorso critico simile si può fare rispetto al potere organizzativo che secondo autorevoli dottrine si distinguerebbe da quello direttivo sulla base dell’art. 2, c. 1 e darebbe luogo ad un quartum genus con il compito da parte del giudice di individuare la disciplina applicabile e cioè solo una parte della disciplina del lavoro subordinato, mentre l’art. 2 comma2 del dl. 81 del 2015 abilita solo i contratti collettivi a stabilire una diversa disciplina da quella del lavoro subordinato.
Insomma, archiviato il potere unilaterale di coordinamento, la dottrina inesauribile individua il potere organizzativo con uno scopo analogo.
Ma non a caso la Cassazione in una sentenza del 20 gennaio 2020 n. 1663 che pure prende in considerazione il caso Foodora, regolato dalla normativa anteriore alle modifiche legislative del 2019 all’art. 2 del d.lgvo n.81 del 2015, non solo respinge la qualificazione accolta dalla Corte di Appello di Torino come tertium genus, ma non esita ad affermare al par. 27 che la disciplina del lavoro subordinato si applica “anche a prestatori ritenuti in condizione di debolezza economica operanti in una zona grigia tra autonomia e subordinazione ma considerati meritevoli comunque di una tutela omogenea”. Se così è, ben si può dire che la Cassazione preferisce utilizzare la categoria della subordinazione socioeconomica anzichè quella della etero-organizzazione.
D’altra parte, a prescindere da ogni osservazione tecnica, lo sforzo di distinguere il potere di coordinamento o il potere organizzativo dal potere direttivo ha come scopo principale se non esclusivo, di individuare una fattispecie sulla quale costruire, allo stato ad opera del giudice, una disciplina meno favorevole per il lavoratore di quella del lavoro subordinato e quindi è il modo per favorire l’elusione di quest’ultima disciplina.
Ormai dopo tanti anni mi sono convinto che, se l’art. 2094 resta in vigore, è vano individuare fattispecie contigue a questa fattispecie e ad esse applicare discipline anche parzialmente diverse, perché incombe il rischio di favorire forme di falso lavoro autonomo.
In conclusione per evitare il rischio di possibili elusioni della disciplina del lavoro subordinato il legislatore dovrebbe modificare la formula dell’art. 2094 o affermare l’esistenza di una pluralità di subordinazioni come è avvenuto per la proprietà in un’opera celebre La proprietà di Salvatore Pugliatti. Se poi, come qualcuno sostiene, si vuole superare la necessità di individuare una nuova fattispecie, diventa indispensabile identificare criteri diversi per applicare alle diverse materie del lavoro un’apposita disciplina con l’avvertenza di non abbandonare la natura inderogabile delle norme di tutela.
Quali sono state, a Tuo parere, le tappe successive più significative dell’evoluzione del significato di rappresentatività dopo il 1993?
Per provare a rispondere sinteticamente partirei dall’accordo interconfederale del 1993 che, pur introducendo un criterio di misurazione della rappresentatività dei sindacati a livello aziendale, conservò alla Triplice un sostanziale monopolio nella gestione delle relazioni sindacali e contenne le spinte centrifughe conseguenti alla consultazione referendaria del 1995.
E’ altrettanto noto che il referendum del 1995 eliminò la categoria della maggiore rappresentatività sindacale e riconobbe come rappresentativi i sindacati che firmavano i contratti collettivi di qualsiasi livello.
Il nuovo criterio di identificazione della rappresentatività, per effetto del referendum, si fonda sul mutuo riconoscimento tra le organizzazioni datoriali e quelle sindacali e amplia conseguentemente la platea dei soggetti legittimati a costituire r.s.a.
Questa interpretazione è stata avallata dalla sentenza della C. Cost. n. 244 del 1996 che ha escluso il rischio paventato dall’ordinanza di rimessione del giudice a quo sul possibile potere di accreditamento dell’organizzazione sindacale da parte della controparte datoriale.
Fino a quando, a seguito di un contenzioso promosso da quei sindacati che pur essendo rappresentativi non siglavano alcun contratto e conseguentemente non potevano per questa ragione costituire r.s.a., intervenne nuovamente la C. Cost. nel 2013 con la sentenza n. 231 che, pur a legislazione invariata con una sentenza additiva, stabilì che la rappresentatività potesse essere riconosciuta a quei sindacati che, pur non avendo siglato il contratto collettivo tuttavia avessero partecipato alla negoziazione relativa allo stesso contratto quali rappresentanti dei lavoratori dell’azienda.
Certamente la sentenza del 2013 tiene conto del contesto mutato, non più contrassegnato dalla unità di azione sindacale come nel 1996 ma da un’accentuata tensione tra le tre confederazioni, come è dimostrato dal fatto che un sindacato sicuramente rappresentativo, come la Cgil non aveva sottoscritto il contratto di primo livello della Fiat e neppure quello della categoria dei metalmeccanici e neppure l’accordo interconfederale del 2009.
Si deve aggiungere che la Corte pur affermando “di non potere individuare un criterio selettivo della rappresentatività sindacale ai fini del riconoscimento della tutela privilegiata di cui al Titolo III dello Statuto dei lavoratori in azienda in caso di mancanza di un contratto collettivo applicato nell’unità produttiva in caso di mancata attività negoziale o in caso di impossibilità di prevenire ad un accordo aziendale”, tuttavia lo individua nella partecipazione all’attività negoziale.
E tuttavia va detto che questo criterio, diversamente da quello della sottoscrizione non è oggettivamente verificabile nel senso che non indica in modo incontrovertibile cosa debba intendersi per partecipazione alle trattative.
Per esempio, la semplice presentazione di una piattaforma rivendicativa non è sufficiente ad integrare gli estremi della partecipazione alle trattative.
A colmare questa lacuna avevano provveduto nel 2014 le parti sociali con la sigla del patto, denominato significativamente Testo Unico, con il quale sono stati individuati i parametri per identificare i soggetti che partecipano alle trattative. E tuttavia, come è a tutti noto, per ragioni mai chiarite, il suddetto Testo Unico non ha mai avuto attuazione, come pure quello del 2018 nel quale si metteva in evidenza l’assoluta necessità di misurare anche la rappresentatività della parte datoriale.
Ne consegue che la nozione di rappresentatività è ferma alle indicazioni della sentenza n. 231 del 2013. Diventa, perciò, urgente un intervento legislativo sulla rappresentatività sindacale, ormai invocato da tutte le parti sociali.
Bisogna, comunque, essere consapevoli che una legge sulla rappresentatività sindacale presuppone la necessaria determinazione dell’ambito in cui misurare la stessa rappresentatività di ciascun sindacato, così come avviene nel lavoro pubblico. E si potrebbe pensare ad un accordo interconfederale che individui come nel lavoro pubblico i diversi comparti di contrattazione avendo presente però che un’operazione di questo tipo, nel lavoro pubblico è più agevole perché esiste un solo soggetto della parte datoriale l’Aran, mentre nel lavoro privato esiste una pluralità di datori di lavoro.
Alla fine del discorso, nel settore privato, resta fermo il principio della libertà contrattuale, riconosciuto dalla sentenza del 1996 che individuava per l’appunto il reciproco riconoscimento come criterio selettivo dei soggetti legittimati a stipulare il contratto collettivo e di conseguenza a costituire rappresentanze sindacali aziendali. E non deve meravigliare il fatto che in omaggio alla libertà contrattuale poi proliferano contratti collettivi tra agenti contrattuali di dubbia rappresentatività.
Non per caso, di recente, si è tornati a discutere molto dell’esigenza di selezionare sindacati e imprese sulla base della rappresentatività e riperimetrare le categorie e/o aree contrattuali anche nel settore privato al fine di governare la concorrenza al ribasso e il dumping sociale, favoriti dalla proliferazione incontrollata del numero di CCNL (992 nel 2021).
Nell’archivio del Cnel risultano più di 900 contratti collettivi . Aggiungo che a mio avviso non compete all’interprete ma al legislatore di concerto con i sindacati più rappresentativi individuare criteri per selezionare i sindacati abilitati a sottoscrivere i comparti e i contratti collettivi con efficacia erga omnes.
In conclusione, si può dire che la rappresentatività sindacale ha cambiato i suoi connotati ma è ancora in trasformazione. Siamo passati dall’epoca del diffuso orientamento dell’inutilità dell’attuazione dell’art. 39 comma 4 al tempo recente nel quale tutti o quasi reclamano, forse a parole, un intervento legislativo sulla rappresentatività sindacale, non solo da parte delle grandi confederazioni sindacali perché non hanno più il monopolio della contrattazione collettiva, come si è detto esistono 900 contratti collettivi nell’archivio del Cnel, ma anche da parte della Confindustria che vede insidiato il suo potere rappresentativo. Ma è anche vero che per una serie di motivi non tutti trasparenti, non sono stati ancora attuati gli accordi del 2014 e del 2018. Come ha sottolineato Tiziano Treu, l’incertezza sui criteri di rappresentatività ha costi economici perché favorisce la concorrenza al ribasso fra contratti e attori negoziali.
Con riferimento ai rapporti tra legge e autonomia collettiva, hai spesso sottolineato che a quest’ultima sempre più spesso è stata riconosciuta la facoltà di derogare in peius alle norme di legge. Ritieni che dal 2011 in poi sia in atto un progressivo allentamento dell’inderogabilità e un processo di “aziendalizzazione” della contrattazione collettiva?
Come è noto, l’accordo interconfederale del 1993 affidava al contratto nazionale il compito di individuare le materie regolate dal contratto aziendale. Una giurisprudenza successiva stabilì che il contratto aziendale, perché più prossimo all’esigenze dei lavoratori dell’azienda, in base al criterio di specialità, potesse derogare anche in peius le clausole del contratto nazionale purché fosse stipulato dalle corrispondenti strutture a livello aziendale dei sindacati nazionali.
In quegli anni frequenti furono i rinvii della legge alla contrattazione per gestire situazioni di crisi aziendale (legge n. 223 del 1991) o per derogare certe rigidità legislative, come ad esempio la devoluzione alla contrattazione collettiva in tema di contratto a termine (legge n. 56/1987) o di contratti di solidarietà (l. n. 863/1984) o di indennità di fine rapporto o la ri-regolazione dell’orario di lavoro, per eliminare certe rigidità di leggi vecchissime come quella sull’orario di lavoro del 1923, o per modificare il vecchio collocamento abolendo gradualmente il sistema di intermediazione pubblico senza lasciare posto ai soli meccanismi del mercato. E si veda anche il cd. Pacchetto Treu del 1996- 97.
Si trattava, comunque, di rinvii alla contrattazione per flessibilizzare la rigidità di talune norme, ma si trattava di una flessibilizzazione, autorizzata dal legislatore e avveniva sotto il controllo del sindacato.
E a questo proposito bisogna chiedersi se il principio cardine dell'inderogabilità delle norme di legge e di contratto collettivo che ha assicurato dalle origini la tutela del lavoro subordinato regga ancora o la sua tenuta, come avviene per molti diritti sociali, sia messa in discussione dalla globalizzazione dei mercati e dai vincoli economici e finanziari della normativa europea.
Secondo qualche dottrina questi presupposti sarebbero cause sufficienti a giustificare, nell’attuale contesto socioeconomico, il superamento del principio della norma inderogabile perché, come è stato detto, tali norme, il più delle volte a precetto generico, si sono moltiplicate fino regolare tutti gli aspetti del rapporto di lavoro e per questa ragione attuerebbero una sorta di "uniformità oppressiva" che contrasterebbe con le esigenze di sviluppo e di competitività delle imprese e con le mutevoli esigenze della produzione e, pertanto, bisogna accettare la tesi che, per garantire l'occupazione, l'apparato di tutele predisposto dal nostro ordinamento nell'arco del secolo ventesimo a favore dei lavoratori, in particolare subordinati, debba essere progressivamente smantellato nel secolo XXI perché, essendo troppo costoso, da un lato, compromette la necessaria competitività delle imprese sul mercato internazionale e, dall'altro, non è attrattivo per le imprese estere che vogliono operare in Italia?
Per rispondere a questa domanda bisogna osservare che il sistema della flessibilità controllata dai sindacati confederali ha retto fino al 2011.
A mio avviso questa data segna un cambio di paradigma perché la norma inderogabile cede progressivamente spazio, a causa della globalizzazione dell’economia, a normative che privilegiano le esigenze delle imprese ma, soprattutto, scomparso ogni residuo di concertazione, i sindacati confederali conservano faticosamente il controllo della gestione del conflitto che si trasferisce e si risolve sempre più spesso, come si vedrà, a livello aziendale.
Come ha messo ben in evidenza TREU, il cambiamento del contesto ha influito non solo sugli accordi fra i vertici confederali delle due parti ma anche col potere pubblico perché i governi, anche di diverso orientamento, hanno fatto a meno del consenso sindacale senza subire danni ma è stato colpito anche il contratto nazionale da pressioni nazionali e internazionali le quali hanno messo in discussione la funzione tipica del contratto nazionale «di togliere i salari dalla concorrenza».
Infatti, l’art. 8 del d.l. n. 138 del 2011 stabilì il principio che la legge per particolari finalità poteva autorizzare il contratto aziendale a derogare norme di legge, saltando il livello nazionale. La possibilità di deroga era prevista pure dall’accordo interconfederale del 2013 ma la deroga era consentita nei limiti e secondo le procedure previste dal contratto nazionale. La differente portata tra le due previsioni era evidente: l’art. 8 mirava a depotenziare la centralità del contratto nazionale e la sua funzione di governo del conflitto mentre quello previsto dall’accordo interconfederale del 2013 conservava al contratto collettivo nazionale il governo del conflitto. Come è noto è stato rimesso alla corte costituzionale il giudizio sulla costituzionalità del suddetto art.8. E’ importante capire se influirà anche sull’art.51.
Come è noto, all’art. 8 è seguito l’art. 51 del d.lgs. 81 del 2015 che sancisce una sostanziale fungibilità tra contratti collettivi di diverso livello, con il risultato di ampliare lo spazio del contratto collettivo aziendale perché i rinvii operati dalla legge possono essere effettuati indifferentemente al contrato collettivo nazionale o territoriale o aziendale purché siano rispettivamente stipulati da sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale e i contratti aziendali siano stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali.
Orbene, questa norma conferma l’orientamento seguito dall’art. 8 del d.l. n. 138 del 2011 convertito con modifiche in legge n. 148 perché il d.lgs. n. 81 del 2015, e se così si può dire lo generalizza perché non subordina a finalità particolari la funzione di derogare alle norme di legge o alle clausole del contratto nazionale.
La sempre più estesa facoltà di deroga del contratto nazionale da parte di quello aziendale nel nome della lotta all’uniformità “oppressiva” della normativa inderogabile del contratto nazionale rischia di compromettere, di fatto, la funzione solidaristica che il contratto nazionale tradizionalmente assume.
Le condizioni minime stabilite nel contratto nazionale, infatti, proprio perché uniformi, sono determinate tenendo conto dei differenti contesti socio-economici del territorio italiano e assicurano i minimi di trattamento a quella miriade di lavoratori che non hanno un contratto aziendale.
Il potenziamento del contratto aziendale, soprattutto se svincolato dal controllo a monte da parte del contratto nazionale, rischia inevitabilmente di far saltare il primo livello di contrattazione e le relative logiche solidaristiche, a tutto vantaggio di discipline pattizie aziendali che tengono conto esclusivamente di interessi particolari e in cui il sindacato può essere più condizionato dalla controparte.
Allo stato attuale, come riconosce lo stesso TREU, «la regolazione dei rapporti tra livelli contrattuali e delle modalità del decentramento contrattuale continua ad essere una questione irrisolta non solo nel dibattito ma anche nella prassi negoziale che infatti continua ad essere differenziata nelle diverse categorie».
Negli ultimi anni pressoché tutti hanno notato un allentamento delle tutele dei lavoratori e un aumento della precarizzazione e i rapporti. Come si configura oggi il rapporto tra i diritti costituzionali fondamentali della persona garantiti dai primi articoli della Costituzione e la libertà di iniziativa economica?
E’ evidente che il mutamento del contesto socioeconomico e le rilevanti modifiche apportate dal legislatore nell’arco di 50 anni in materia di lavoro impongono all’interprete di affrontare il nodo cruciale del rapporto tra principi e valori costituzionali.
A questo proposito si tratta di verificare se i doveri inderogabili dell’art. 2, poiché richiamano i doveri di solidarietà economica dell’art. 41, co. 2, limitano la libertà di iniziativa privata e se la tutela della dignità come pure la tutela della salute del lavoratore debbano essere, comunque, privilegiate di fronte alla libertà di iniziativa economica.
Quanto al valore della dignità è a tutti noto che gli artt. 3, c. 2, e 4 sono diretti a tutelare, prima di tutto, la dignità della persona del lavoratore.
A garantire la dignità del lavoratore sono rivolte anche altre norme: a cominciare da quelle del titolo primo dello Statuto dei lavoratori rubricato “Della libertà e dignità del lavoratore” (artt. 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8 o le norme del Titolo II sugli atti discriminatori) o il d.l. 12 luglio 2018 n. 87 convertito in legge 9 agosto 2018 n. 96 contenente nel Capo I misure per il contrasto al precariato. O anche norme di carattere generale e di formulazione aperta del codice civile, come ad esempio l’art. 2087 c.c. che non contempla soltanto la tutela dell’integrità fisica ma anche la personalità morale del lavoratore che altro non è che la dignità del lavoratore.
Secondo quanto ha ribadito di recente Proto Pisani, l’art. 41 subordina la legittimità dell’iniziativa privata al rispetto del valore della dignità umana e ricorda i suoi tentativi di rileggere le tecniche di tutela storicamente sviluppatesi a tutela del diritto di proprietà, a tutela dei diritti della persona, diritti normalmente a contenuto non patrimoniale, attraverso il ricorso alla tecnica raffinata della denuncia di danno temuto (art. 1172 c.c.).
E tuttavia si deve dare atto che una parte autorevole della dottrina (Persiani) sostiene che l’art. 41 c. 2 realizza un contemperamento tra interessi contrapposti. Si è infatti affermato di recente che l’attenuazione della norma inderogabile si giustifica in ragione delle esigenze del sistema di produzione capitalistico.
E questa affermazione aiuta a comprendere e spiega perfettamente perché in un’economia globalizzata, negli ultimi 10 anni, il legislatore italiano, in omaggio al principio della concorrenza e quindi della competitività fra le imprese, ha: 1) ridotto progressivamente il ricorso alla norma inderogabile che è il vero presidio della tutela della parte debole del rapporto di lavoro; 2) e quindi ha limitato sensibilmente l’effettività della tutela della dignità del lavoratore. Ovviamente la discrezionalità del legislatore, a mio avviso, può essere limitata solo dall’intervento della Corte Costituzionale
Con queste affermazioni non si vuole affatto negare la rilevanza costituzionale della libertà di iniziativa economica, del resto di recente protetta, in occasione del coronavirus, da una iniezione di liquidità senza precedenti. Tanto che gli aiuti di Stato, severamente vietati dalla normativa comunitaria, sono tornati di attualità e irrompono nella nostra economia e addirittura prefigurano un ritorno dello Stato imprenditore.
Il riconoscimento della dignità della persona non significa neppure che si debba garantire la tutela del lavoratore attraverso la costituzione coattiva di rapporti di lavoro e scaricare sulle imprese il costo delle tutele dei lavoratori in cerca di prima occupazione e che hanno perso il posto di lavoro. Sarebbe opportuno prevedere norme idonee a contrastare la pratica della sequenza dei contratti temporanei preliminari all’assunzione e, in generale, a prevedere tutele per i lavoratori nel mercato
In terzo luogo, perché il principio del bilanciamento è inevitabilmente condizionato da un’economia ormai globalizzata, aggravata da una forte crisi economica come l’attuale.
In altri termini la concorrenza e la conseguente competitività tra le imprese, riducendo progressivamente i costi di produzione e tra questi quello del lavoro, spostano inevitabilmente in termini economici il bilanciamento a favore dell’interesse dell’impresa e, di conseguenza, limitano progressivamente le tutele del lavoro. Un risultato analogo è determinato dalla delocalizzazione delle imprese nei Paesi della stessa Unione europea dove il costo del lavoro è più basso e l’imposizione fiscale più leggera.
Questa autonoma e preminente rilevanza riconosciuta alla dignità della persona risulta quanto mai opportuna in un periodo di crisi economica perché è agevole constatare che negli ultimi dieci anni il legislatore italiano ha previsto un numero vistoso di contratti temporanei e precari e, conseguentemente, ha ridotto progressivamente il ricorso alla norma inderogabile che è il vero presidio della tutela della parte debole del rapporto di lavoro e ha quindi limitato sensibilmente l’effettività della tutela della dignità del lavoratore.
E’ indubbio che il diritto del lavoro sia naturalmente connesso alla economia e alla politica non solo nazionale ma anche europea e mondiale ma questa connessione ha determinato in una parte dei giuslavoristi la convinzione, invero crescente, anche su influsso della crisi di valori che investe l’Unione europea, di una sorta di dipendenza naturale del nostro diritto dalle scelte di politica economica, dimenticando che il diritto del lavoro è strettamente connesso alla tutela di valori e principi sanciti dalla nostra Costituzione che riguardano il lavoratore non solo come contraente debole ma anche, come ho già rilevato, come persona .
Pertanto non sembra che l’art. 41, c. 2, Cost. abbia la funzione di bilanciare la libertà di iniziativa economica con i diritti che attengono alla persona del lavoratore, ma consente al legislatore di apporre limiti ai poteri dell’imprenditore affinché si possa configurare un’impresa sostenibile che riesca a sopravvivere in un regime di forte competitività senza sacrificare la dignità dei lavoratori.
Ovviamente la partita della concorrenza e della competitività è persa in partenza rispetto all’economia di Paesi come gli Stati Uniti e la Cina che, pur profondamente diversi, hanno in comune una legislazione di tutela del lavoro, quasi inesistente. Se vogliamo inseguire questi Paesi, eliminando le tutele del lavoro abbiamo perso in partenza. E tuttavia la competizione avviene ugualmente ed è vincente sotto il profilo della qualità e della originalità di certe produzioni. Basti pensare alla moda, alla produzione di automobili, ai prodotti alimentari ecc.
Come è possibile apporre limiti all’esercizio dei poteri datoriali, a tutela della libertà, dignità e sicurezza umana, quando tale esercizio è del tutto automatizzato e spersonalizzato?
Un esempio emblematico in cui sta emergendo prepotentemente il problema della discrezionalità del legislatore in ordine alla limitazione di poteri datoriali è quello della c.d. gestione algoritmica della prestazione lavorativa, strettamente legata alla c.d. quarta rivoluzione industriale determinata dall’introduzione di sistemi di intelligenza artificiale.
Come è ormai noto, quando si affronta l’argomento della cosiddetta quarta rivoluzione industriale bisogna avere chiaro che siamo davanti a diverse fattispecie ovviamente non ancora regolate dalla legge: basti pensare a questo proposito ai robot dotati di intelligenza artificiale e di auto apprendimento che alla fine sono in grado di decidere da soli senza l’intervento umano.
Bisogna quindi distinguere il lavoratore addetto all’uso delle macchine e delle procedure necessarie per lo svolgimento della prestazione lavorativa che richiede un aumento delle sue competenze. E perciò la conoscenza diventa un elemento qualificante della prestazione di lavoro subordinato. Di conseguenza va garantito al lavoratore un diritto alla formazione.
Accanto a questo tipo di rapporti che richiedono un’alta qualificazione professionale nell’industria 4.0 sono presenti altre forme di lavoro come, ad esempio, il lavoro che si svolge su piattaforma (Amazon, Turk, TaskRabbit) e tramite piattaforma (Uber, Foodora e Deliveroo). In entrambi casi il lavoratore è un’appendice della macchina che in realtà è un datore di lavoro, invisibile e spersonalizzato. Questa spersonalizzazione, lungi dall’indebolire, aumenta l’intensità del potere direttivo e di controllo del datore di lavoro sullo svolgimento della prestazione. Basti pensare alle vicende dei fattorini Amazon nel film di Ken Loach e di conseguenza all’algoritmo che spesso viene programmato in un momento antecedente rispetto al materiale esercizio del potere direttivo del datore di lavoro e che ha come obiettivo l’efficientamento della prestazione lavorativa e presuppone una rigida organizzazione del lavoro e trascura invece i più elementari diritti del lavoratore. Tanto che qualcuno ha scritto: il mio capo è un algoritmo. Alla spersonalizzazione del datore di lavoro corrisponde, come si dice oggi, una tracciabilità permanente del singolo lavoratore. Basta pensare alla geolocalizzazione che si ottiene attraverso il cellullare, il tablet e altri strumenti telematici.
In questo tipo di lavoro anche il concetto di orario di lavoro si relativizza per la reperibilità richiesta al lavoratore attraverso l’uso degli strumenti di comunicazione ormai di uso comune come il cellulare. E parimenti il luogo di lavoro non è determinato. Non esiste un luogo di lavoro per il fattorino e autista di Amazon. È evidente che di fronte a queste diverse forme di lavoro così eterogenee nell’ambito della quarta rivoluzione industriale si aprono almeno due problemi.
Un primo problema è quello della qualificazione giuridica del rapporto di lavoro che è regolato in modo non sempre coerente dal nostro legislatore. Infatti da un lato l’art. 2 comma 1, 2 del d.lvo n. 81 del 2015 stabilisce che il rapporto degli addetti alle piattaforme è soggetto alla disciplina del lavoro subordinato mentre l’art. 47 bis comma 1 definisce il rider lavoratore autonomo. Un secondo problema è quello della gestione algoritmica della prestazione lavorativa, quando, come avviene in particolare proprio per i lavoratori mediante piattaforma, l’esercizio di poteri datoriali quali il potere direttivo e il potere di controllo avviene sulla base di sistemi decisionali e di monitoraggio automatizzati.
La gestione algoritmica, cioè i limiti all’esercizio dei poteri direttivo e di controllo del datore di lavoro nei sistemi decisionali automatizzati, è in parte regolata dall’art. 1-bis del d.lgs. n. 104/2022 di attuazione della direttiva (UE) 2019/1152 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019, relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione europea. Infatti, questa norma introduce specifici obblighi di informazione a carico del datore di lavoro, da osservare nel caso in cui “le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante l’utilizzo di sistemi decisionali o di monitoraggio automatizzati”. L’adempimento di questi obblighi di informazione dovrebbe garantire efficaci strumenti di controllo sulle decisioni automatizzate che incidono sul rapporto di lavoro a tutela della dignità dei lavoratori
Altri due aspetti positivi delle nuove disposizioni sono senz’altro le misure di tutela, volte a rafforzare l’effettività dei diritti di informazione e il coinvolgimento del sindacato, posto che, come è noto, il lavoratore può non essere portato a fare causa al datore di lavoro/committente. Rendere il sindacato co-destinatario degli obblighi informativi, invece, apre la strada all’azione ex art. 28 Stat. lav. in caso di inadempimento dell’obbligo e assicura, sotto questo punto di vista, una tutela, anche collettiva, sicuramente più efficace ed effettiva.
Vorrei concludere questa intervista con una domanda sul Tuo impegno istituzionale. Tu sei avvocato ma Ti sei dedicato prevalentemente all’Università in senso istituzionale oltre che scientifico. Oltre che Presidente della Commissione di garanzia scioperi e Presidente Aidlass, sei stato a lungo Direttore del Dipartimento di scienze giuridiche dell’Università di Roma La Sapienza dedicando passione e tempo alla promozione e alla valorizzazione dei giovani studiosi e agli studenti. Ci puoi raccontare in breve queste esperienze?
Vorrei rispondere compiutamente a questa domanda. In primo luogo sono convinto che la professione di avvocato integri l’esperienza del giurista teorico perché gli impone di prendere in esame questioni concrete che possono sfuggire all’analisi teorica. E’ evidente che sono diversi i due metodi perché l’avvocato deve partire necessariamente da una tesi precostituita, per difendere efficacemente le ragioni del cliente, mentre il giurista teorico deve andare alla ricerca della soluzione del problema, senza avere una tesi precostituita, anche se inevitabilmente, soprattutto nella nostra materia, rilevano in una certa misura le opzioni di politica sindacale pro business o pro labour. E’ importante, a mio avviso, che la professione di avvocato non soverchi quella del professore. Ho svolto marginalmente la professione di avvocato ma, come Presidente della Commissione di garanzia scioperi mi sono reso conto di quanto sia importante conoscere le questioni concrete e le dinamiche sindacali. Indubbiamente arricchiscono l’esperienza dello studioso. E come presidente dell’Aidlass avevo intrapreso vittoriosamente l’iniziativa di consentire alla nostra Associazione di svolgere corsi di perfezionamento per gli avvocati, in concorrenza con l’Agi, ma poi ho saputo che questa competenza è stata sottratta all’Aidlass da una sentenza del Consiglio di Stato.
E’ vero, ho dedicato molto tempo alla organizzazione della nostra Facoltà che, ultima, fu costretta dalla legge a organizzarsi in dipartimenti ai quali erano contrari i professori più anziani perché sarebbe venuta meno l’unità dell’insegnamento giuridico. E debbo dire che fui indotto ad assumere l’incarico di direttore del dipartimento di Scienze Giuridiche, come tu hai ricordato, dal mio predecessore prof. Luigi Capogrossi. Il compito inizialmente non fu agevole perché persistevano le contrarietà dei colleghi ad avviare questa nuova struttura già presente in tutte le Facoltà della nostra Università, che si distingueva dalle altre Università perché il rettore del tempo, Luigi Frati, aveva comunque conservato la struttura delle Facoltà e, di conseguenza, il Dipartimento inizialmente unico doveva convivere con la Facoltà di Giurisprudenza. Fortunatamente con il tempo, con il distacco delle materie penalistiche e della filosofia del diritto inizialmente e poi con il passaggio del diritto costituzionale attualmente esistono due dipartimenti.
Ricordo ancora come fu travagliata l’impresa di chiamare il primo professore associato, figura inesistente nel dipartimento perché da molti colleghi anziani non era considerato un vero professore. Insomma, è vero, l’istituzione e il funzionamento del dipartimento inizialmente creò non pochi problemi organizzativi e anche umani. Ma poi, dopo qualche anno, il clima si rasserenò a tal punto che io fui pregato di rimanere a dirigere questa struttura fino al mio pensionamento ed ebbi la soddisfazione di vedere aumentare progressivamente il numero dei docenti, ordinari, associati e ricercatori. La prova che svolgevo con efficacia il mio ruolo del direttore penso sia stata confermata dall’elezione in Senato accademico come rappresentante eletto delle Facoltà di Giurisprudenza, Economia e Scienze politiche e, infine, su indicazione del rettore Eugenio Gaudio, con il quale si era instaurato un rapporto di reciproca stima, fui nominato anche prorettore alla semplificazione amministrativa fino al mio pensionamento. Et de hoc satis.

 

 

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