Testo integrale con tabelle, note e bibliografia

1. Dal caporale all’algoritmo: l’evoluzione dello sfruttamento del lavoro nella Relazione della Commissione Parlamentare
Favorita dalla rivoluzione digitale degli ultimi anni, l’espansione delle imprese nel settore logistico, nei comparti del corrierato, dei trasporti a lunga percorrenza e del magazzino, avrebbe determinato il repentino scivolamento del lavoro irregolare verso le sfumature più accese dello sfruttamento. Questo almeno, in sintesi, quanto risulta dalle indagini della Commissione parlamentare sulle condizioni di lavoro in Italia appena pubblicate.
I lavori parlamentari rilevano l’estensione di un fenomeno che, oggetto di attenzione fin dalla seconda legislatura, pare rimasto inalterato nel tempo , ancorchè ne siano cambiati i protagonisti.
Rapporto INL 2020

In origine era il “caporale” a fornire manodopera flessibile ed a basso costo; a poco a poco gli si sono affiancate strutture complesse, forme sofisticate e, seppure solo apparentemente, legali, come agenzie di servizi, appalti, subappalti, lavoro in somministrazione, ma anche false cooperative e cooperative senza terra . Ed in questa evoluzione, che ha condotto alla strutturazione di un complesso reticolato di società in cui la figura del datore di lavoro diviene sempre più evanescente, il “caporale” è spesso sostituito da software ed algoritmi cui viene attribuito il potere di dirigere, controllare e sanzionare i prestatori di lavoro.
Di tal che, il fenomeno si decontestualizza rispetto alla specifica realtà sociale e territoriale , così come dal crimine organizzato , la cui contiguità aveva indotto il legislatore ad individuarne gli strumenti di contrasto sul piano della lotta alla criminalità organizzata , ricorrendo a fattispecie penali ed istituti tipici.
A fronte dell’emersione di un “nuovo caporalato”, un “caporalato digitale” o un “caporalato urbano”, come viene via via definito, profondamente mutato rispetto a quello di cui si iniziò a parlare nei primi anni del Novecento , che spesso non si occupa più solo dell’intermediazione del lavoro ma ne gestisce la domanda nella sua interezza, il giudizio circa l’adeguatezza della cornice normativa repressiva di riferimento è particolarmente critico.
Pur a fronte di una valutazione positiva dell’intervento penale in prospettiva repressiva, si conviene sulla inidoneità da solo a contrastare il fenomeno.
Le riforme, di cui si parlerà a breve, hanno sicuramente aperto ad un incremento delle imputazioni per sfruttamento anche nei confronti del datore di lavoro; purtuttavia, il limite più vistoso del reticolato normativo si individua nella incapacità di incriminare gli utilizzatori finali della forza lavoro. I diversi moduli organizzativi, funzionali alla esternalizzazione di servizi o fasi della produzione, utilizzati per creare interposizione, rendono impossibile ricostruire l’intera filiera dello sfruttamento garantendo l’immunità a chi di fatto utilizza il lavoro sfruttato.
Ma anche qualora ciò fosse possibile, la disposizione appare piuttosto idonea a proteggere l’utilizzatore dalle più gravi imputazioni di tratta di esseri umani (art. 601 c.p.), riduzione in condizione di schiavitù (art. 600 c.p.) o estorsione (art. 629 c.p.), la cui cornice edittale è più severa di quella per sfruttamento.
Pur senza ignorare il potenziale dei dispositivi sanzionatori dunque, in chiave di dissuasione/prevenzione generale dei fenomeni di sfruttamento , la Commissione insiste sull’obsolescenza del sistema penale “che affligge non solo la fattispecie codicistica dell’art. 603 bis c.p., ma interessa anche l’intero sistema punitivo della persona giuridica”, facendosi promotrice di un percorso di riforma volto a: contrastare il fenomeno delle cooperative spurie (modifica all’art. 509 bis c.p. “Somministrazione fraudolenta”); delineare una specifica responsabilità dell’Ente nei casi di sfruttamento dei lavoratori (modifica all’art. 5 e 25 bis. 1, D. lgs. 8 giugno 2001, n. 231); inasprire le sanzioni per i casi di sfruttamento dei lavoratori; contrastare l’organizzazione dell’attività lavorativa mediante violenza o minaccia (modifica dell’art. 603-bis e ter c.p.).
Ed il fatto che, nell’articolata prospettiva delle manifestazioni dello sfruttamento (v. infra), la Commissione scelga la specifica e quasi esclusiva declinazione di reiterata violazione delle disposizioni in materia di salute e sicurezza del lavoratore, la induce ad incardinare le prospettive di successo di quegli stessi interventi di riforma sulla revisione della disciplina della sicurezza sul lavoro.

2. La fattispecie “sfruttamento del lavoro” ed i modelli di contrasto

Per una scelta di politica criminale o forse una tecnica legislativa inusuale, il nostro ordinamento ha optato per non dare una definizione del fenomeno “sfruttamento del lavoro” consegnandoci, con la l. n. 199/2016, una fattispecie declinata per indici di derivazione giurisprudenziale con funzione sostanziale, tipizzante, raggruppati in quattro nuclei tematici: retribuzione; orario di lavoro; sicurezza e igiene sui luoghi di lavoro; generali condizioni di lavoro.
Secondo il legislatore, si ha sfruttamento quando insieme all’approfittamento dello stato di bisogno del lavoratore sussiste almeno una delle condizioni elencate: corresponsione delle retribuzioni in violazione della contrattazione collettiva; sottoposizione dei lavoratori a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza o situazioni alloggiative degradanti, violazione reiterata della normativa sull’orario di lavoro ed, appunto, violazione della normativa in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro .
Mentre il dibattito giuslavoristico sembra coagularsi intorno alle questioni del salario minimo e del lavoro tramite piattaforma , il diritto penale punta al contrasto del fenomeno nella sua interezza ed a tal fine, nel giro di pochi anni, ha introdotto (legge 14 settembre 2011, n. 148), e poi modificato (legge 4 novembre 2016, n. 199), la fattispecie penale di intermediazione illecita e sfruttamento lavorativo di cui all’art. 603 bis c.p, estendendone l’ambito di applicazione dalla fase del reclutamento del lavoratore (intermediazione illecita), alle condizioni cui il lavoratore è sottoposto durante lo svolgimento dell’attività lavorativa (condizioni di lavoro) e in cui lo stesso si trova a vivere (condizioni di vita).
La norma individua una fattispecie delittuosa base, che congloba la posizione dell’intermediario e quella del datore di lavoro, integrata da una aggravante ad effetto speciale.
La fattispecie base, all’art. 603 bis, comma 1, punisce l’intermediazione o l’utilizzazione in condizioni di sfruttamento e approfittando dello stato di bisogno. L’aggravante ad effetto speciale di cui al comma 2, punisce la intermediazione e l’utilizzazione in condizione di sfruttamento e approfittando dello stato di bisogno ove i fatti siano commessi con violenza o minaccia. Completano il quadro di tutela agevolazioni per i lavoratori in caso di collaborazione processuale, il controllo giudiziario dell’azienda, il sequestro e la confisca dei beni, del profitto, della stessa azienda in cui è prestata l’attività abusiva oggetto di sfruttamento, cui si aggiunge, con non irrilevanti ripercussioni in merito alla disciplina applicabile ai lavoratori immigrati, l’arresto in flagranza dell’autore di reato.
Vero è che la l. n. 199/2016 affida alla disposizione codicistica una funzione repressiva all’interno di una più ampia strategia di contrasto dei “fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e riallineamento retributivo nel settore agricolo”; la Commissione ne riconosce purtuttavia una applicabilità generalizzata a qualsiasi fenomeno di sfruttamento, in ragione della collocazione topografica che resta simbolicamente il fulcro dell’intero ordinamento penale, tra il “gigantismo” dell’art. 600 c.p. sulla riduzione in schiavitù e l’effimera risposta sanzionatoria delle ipotesi contravvenzionali per il caso di intermediazione illecita (cfr. p. 11).
Se purtuttavia, come è rilevato dalla Relazione, la diffusione del fenomeno dal punto di vista territoriale non si è arrestata ed anzi si è estesa ad altri settori, l’intervento legislativo non può dirsi aver ottenuto i risultati repressivi sperati.
Senza poter analizzare tutta una serie di criticità, di “slabbrature vistose” come definito da taluno , che inficerebbero l’efficienza della norma, una considerazione preliminare vale sicuramente su tutte.
Già nei lavori parlamentari che l’hanno preceduta trapelava l’opportunità di una disconnessione tra repressione penale dello sfruttamento lavorativo e protezione sociale delle vittime, con l’inversione addirittura del rapporto tra l’uno e l’altra .
Ma nonostante la legislazione regionale avesse mutuato tale impostazione, prevedendo un meccanismo di incentivi e disincentivi con cui indurre gli imprenditori (agricoli) a stipulare contratti di lavoro conformi al contratto collettivo territoriale, il Senato ha riformulato il testo del d.d.l. per incentrarlo tutto sullo strumento giuridico penale, cui ricorre forse in una prospettiva per lo più sensazionalistica.
Non si tratta solo della assoluta mancanza di sanzioni “premiali” tra le diverse misure di intervento. Incentivi fiscali, semplificazioni burocratiche ed interventi sul profilo reputazionale, spostando il baricentro dell’intervento repressivo, avrebbero potuto essere più idonee a generare, anche attraverso le scelte dei fruitori dei servizi, meccanismi democratici di controllo del mercato ; ma questo non è il modello evidentemente cui tende il nostro ordinamento, così come i diversi interventi di riforma.

3. Segue. Criticità ed inefficienze
“Non basta la repressione”, scriveva Luigi Mariucci, per sconfiggere le forme di ipersfruttamento del lavoro . Inefficace a contrastare il fenomeno, aggiungiamo noi, è parso anche il reato di somministrazione fraudolenta, ex d.l. n. 87/2018, che continua a configurare la condotta, seppure plurisoggettiva, come un mero illecito contravvenzionale; non raggiunge tale finalità neppure l’art. 22 T.U. sull’immigrazione, laddove raffigura un’ipotesi di reato al fine di contrastare l’immigrazione clandestina; non può dirsi esplicare una funzione di maggiore deterrenza il comma 12 bis dell’art. 22 T.U.
Questa, ben oltre a ragioni di stretta tecnica normativa, è opinione diffusa in ragione dell’assenza di politiche economiche e sociali che consentano in primo luogo ai datori di lavoro di non dover ricorrere a sistemi illegali di reclutamento e di remunerazione per ottenere “una maggiore flessibilità nei confronti della domanda di beni e servizi da parte del mercato”, ovvero risparmi previdenziali, formativi e della sicurezza nei luoghi di lavoro.
Si prenda l’esempio del settore logistico: la trasformazione dei servizi in costi variabili ha condotto ad una concorrenza sempre più intensa nel comparto inducendo i piccoli operatori logistici ad attuare condizioni di dumping contrattuale sulla forza lavoro per mantenere competitività.
In particolare, il modello cooperativo è divenuto lo strumento mediante il quale perseguire la riduzione dei costi imputabili alla forza lavoro e l’aumento dei margini di profitto. Si è sempre più consolidato il fenomeno delle “cooperative spurie”, ovvero di cooperative che operano come società di intermediazione di lavoro, prive di autorizzazione, mediante contratti di appalto irregolari.
Rapporto INL 2020

 

Il fenomeno, come si vedrà in maniera più approfondita poco oltre, sarebbe favorito, se non del tutto determinato, da una presenza consistente nel settore di lavoratori immigrati, il cui “stato di bisogno” genera di fatto una sorta di coazione del soggetto impossibilitato a resistere all’offerta di lavoro.
I lavoratori, in altre parole, accetterebbero determinate condizioni di lavoro in quanto ancor piu drammatiche sarebbero le loro condizioni di partenza, che portano ad uno squilibrio patologico tra la posizione dello sfruttatore e quella dello sfruttato . Chi, si chiedono anche i giudici, accetterebbe una “condizione di effettivo e concreto sfruttamento lesiva dell’attività lavorativa, lesiva della dignità umana e la costante prevaricazione dei diritti dei lavoratori” se non si trovasse “sul piano fattuale … in uno stato di effettivo bisogno” ?
Lo stato di bisogno, come impellente assillo economico, viene considerato atto a limitare la volontà del contraente debole, indurlo ad accettare condizioni contrattuali non negoziabili, apertamente sperequate nei corrispettivi e ampiamente degradanti nelle modalità esecutive del lavoro” . E queste condizioni assorbono a quel punto qualsiasi distinzione si possa fare in ordine allo sfruttato: chiunque accetti di lavorare in situazioni simili è oggetto di sfruttamento. L’assoluta precarietà delle condizioni di lavoro assorbe qualsiasi ragionamento qualificatorio.
Di tal che, la Relazione invita a superare la natura tassativa ed esaustiva degli indici per la prova dello sfruttamento, aprendo ad un accertamento ampio degli elementi di tipicità. Da un lato, inducendo a prendere in considerazione solo le situazioni espressive di una offensività meritevole di gravi conseguenze punitive; dall’altro anche contesti in cui non si riscontri la violazione dei parametri giuridici richiamati dagli indici.
Ma in tal senso, verrebbe meno in verità la necessità, successivamente affermata, di un ampliamento di quegli stessi indici, che mal si concilia anche con la rilevata “genetica” refrattarietà dei concetti di “sfruttamento e “approfittamento dello stato di bisogno” ad una tipizzazione descrittiva.
Dalla prospettiva dello stato di bisogno dell’individuo si giustifica l’assenza di denunce: in uno stato di bisogno umano ed economico, minore è la tutela delle vittime, maggiore è la rassegnazione, l’omertà e l’espansione dello sfruttamento del lavoro organizzato; in altre parole, il collegamento diretto tra lo stato di bisogno, lo sfruttamento, le condizioni di lavoro indegne, la rassegnazione, l’omertà.

3.1. Lo "stato di bisogno" e la disciplina dell’immigrazione per lavoro

Se si concorda sul fatto che lo stato di bisogno sia idoneo di per sé ad alimentare lo sfruttamento del lavoro, il primo fattore su cui dovrebbe incidere un intervento di riforma nell'ottica di una prevenzione efficace del fenomeno è senz’altro l’inesauribile disponibilità di manodopera immigrata ad una occupazione estremamente flessibile ed a difficili condizioni.
Anche perché sono proprio i lavoratori immigrati, assegnatari delle mansioni più faticose, di minor qualifica, a risultare vittime del più alto tasso di infortuni .


Non si tratta però di irrigidire ulteriormente la disciplina dell’immigrazione per lavoro. A fronte di una forte richiesta di manovalanza, soddisfatta solo da un massiccio ricorso alla manodopera immigrata , l’ottica repressiva cui questa è ad ogni livello improntata non pare anzi oggi più sostenibile.
Il quadro normativo di riferimento è molto complesso e non è questa la sede per ricostruirlo. Basti per ora rilevare come l’atteggiamento di accentuata restrizione formale, controbilanciata da forme di tolleranza dei flussi migratori irregolari, impiegati in attività faticose, finisce per innescare un circolo vizioso che, muovendo dalla esiguità delle quote, determina ingressi irregolari e, di conseguenza, alimenta il mercato del lavoro sommerso .
Il fatto che l’attuale disciplina richieda che il rapporto di lavoro legittimante la regolare presenza sul territorio debba sorgere a distanza, senza possibilità di regolarizzazione successivamente, determina una serie di conseguenze: induce coloro che sono in possesso di regolare permesso di soggiorno per lavoro ad accettare qualunque condizione di impiego pur di soddisfare l’esigenza di contrattualizzazione del rapporto e determina il venir meno dell’interesse degli stranieri irregolari, con e senza permesso di soggiorno, a denunciare la situazione di sfruttamento; i primi, in quanto una volta denunciato resterebbero privi di alternative occupazionali ed alloggiative cui fare affidamento, i secondi per evitare l’espulsione per “clandestinità”, ai sensi dell’art. 10bis della l. n. 286/1998.
Vero è che la novella dell’art. 603 bis ha previsto l’applicazione della misura del “controllo giudiziario” dell’azienda e la “rimozione delle condizioni di sfruttamento”, cui il legislatore attribuisce finalità preventive e di continuità aziendale proprio nell’interesse dei lavoratori, per evitare che il timore di ripercussioni sul futuro dell’azienda li freni dal denunciare.
Al netto di questa misura però, anche scarsamente applicata, sul piano delle tutele dei lavoratori l’approccio penalistico non può che rivelare tutti i suoi limiti, non garantendo alcun vantaggio diretto alle vittime di sfruttamento.
Si registra, a questo proposito, solo in rari casi la concessione del permesso di soggiorno ai sensi dell’art. 22, comma 12 quater e mai l’attivazione del percorso di protezione sociale delle vittime di sfruttamento previsto dall’art. 18, del T.U immigrazione .
Una interpretazione dell’art. 22 comma 12 quater TU immigrazione “comunitariamente conforme” e la modifica dell’art. 380, comma 2, che ha reso obbligatorio l’arresto in flagranza di reato in caso di intermediazione , hanno aperto l’applicabilità della norma, in deroga alla disciplina generale, anche agli stranieri che si trovino in situazione di grave sfruttamento lavorativo. In altre parole, anche per questi ultimi è prevista ora la concessione di uno speciale titolo di soggiorno considerato a lungo appannaggio quasi esclusivo delle vittime di sfruttamento sessuale.
Ciononostante, al numero non trascurabile di inchieste aperte per sfruttamento lavorativo fa riscontro la concessione di un numero esiguo di permessi. Ed il rilascio del permesso di soggiorno, la cui durata è legata strettamente all’andamento del processo penale, non contempla, comunque, alcuna presa in carico sociale, lasciando la vittima di sfruttamento priva di qualsiasi tutela.
Sotto questo profilo, la Commissione, sulla scorta dei risultati ottenuti laddove già spontaneamente sperimentato, ritiene di incentivare uno specifico modello di presa in carico delle vittime, fondato sulla cooperazione tra strutture prefettizie, procura della Repubblica, strutture sanitarie ed enti del terzo settore, quale archetipo di un necessario intervento solidaristico.
Intervento questo che risulta purtuttavia già connaturato all’attivazione del percorso di protezione sociale previsto dall’art. 18 del TU immigrazione.
La “protezione sociale” che la norma contempla non si esaurisce infatti nel rilascio di un permesso di soggiorno per chi ne è privo, ma si sostanzia in una vera e propria presa in carico delle vittime, alle quali viene assicurato “un programma di assistenza ed integrazione sociale”, una dimora ed un percorso anche di formazione professionale, verso l’accesso ad impieghi dignitosi. Chi è vittima di sfruttamento lavorativo ha bisogno di essere protetto, più che dallo sfruttatore, dalla condizione di vulnerabilità, da quell’insieme di “situazioni di estrema difficoltà che possono indurre un essere umano ad accettare di essere sfruttato” . Solo interventi di questo genere possono dunque garantire la complicità spontanea delle vittime di sfruttamento, nella prospettiva della sua emersione; non far percepire la repressione dello sfruttatore come un danno alla vittima stessa.

3.1.2. L’(in)efficienza del ruolo ispettivo e la sua implementazione

La parte repressiva della l. n. 199/2016 potrebbe conoscere ben altri livelli di effettività e deterrenza laddove fosse assistita da un rafforzamento dei dispositivi di supporto dell’attività ispettiva, con una connessa maggiore frequenza ed estensione dei controlli; da una complessiva revisione insomma del sistema di vigilanza, secondo le conclusioni della Commissione .
L’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali (FRA) , la Commissione europea e la Conferenza internazionale del lavoro hanno ribadito in diverse occasioni che “le ispezioni sul lavoro svolgono un ruolo fondamentale nell’individuazione degli abusi” e devono essere “rafforzate” in tutti gli Stati membri .
E così è avvenuto nella maggior parte dei Paesi dell’Unione, ove i sistemi di ispezione sono stati riformati nell’ottica di promuovere una cultura della prevenzione in cui gli ispettori del lavoro possono contribuire a garantire il rispetto delle norme in un clima di reciproca fiducia e cooperazione tra datori di lavoro e lavoratori.
Anche il legislatore italiano è intervenuto in materia, con disposizioni specifiche, la l. n. 116/2014, la l. n. 145/2018, art. 1, comma 445, il d.l. n. 146/2021, ma il sistema risulta ancora lontano dal garantire le condizioni richieste dalla normativa internazionale, siano queste un numero di ispettori idoneo ad assicurare un servizio efficiente o la fornitura degli strumenti necessari per effettuare le ispezioni. Si tratta infatti di azioni per lo più settoriali, improntate ad una logica emergenziale, di risposta emotiva a fatti di cronaca, come testimonia l’andamento ondivago del trend dei controlli.
Di tal che, la Commissione ritiene piuttosto di poter incardinare un contrasto efficace allo sfruttamento del lavoro sulla implementazione e valorizzazione del sistema di vigilanza interno, derivante dal potenziamento del ruolo del “preposto”.
Quest’ultimo dovrebbe avere il potere di rafforzare il sistema di prevenzione attraverso il controllo dall’interno della sicurezza dei luoghi di lavoro, contribuendo così anche al contrasto dello sfruttamento del lavoro.
Nel sollecitare le riforme degli artt. 18 e 19 del d.lgs. 81/2008 con l’“obiettivo di riduzione degli infortuni e delle malattie professionali, attraverso la normazione e l’elaborazione di migliori prassi organizzative in materia di informazione, formazione, assistenza e vigilanza”, la Commissione ha indotto l’introduzione dell’obbligo penalmente rilevante in capo al datore di lavoro di individuare e nominare il preposto o i preposti.
La manovra sicuramente determinerà la dismissione della prassi di lasciare l’attività di vigilanza in mano a “preposti di fatto”, ma non è certo migliori realmente la performance svolte all’interno delle aziende con conseguente diminuzione del numero e della gravità degli infortuni, nonché dello sfruttamento dei lavoratori.
Ai sensi del rinnovato art. 19 del d.lgs. 81/08 sugli “obblighi del preposto”, quest’ultimo ha l’obbligo di “sovraintendere e vigilare” sull’osservanza delle disposizioni in materia di salute e sicurezza e “in caso di rilevazione di deficienze dei mezzi e delle attrezzature e di ogni condizione di pericolo rilevata durante la vigilanza, se necessario, interrompere temporaneamente l’attività e, comunque segnalare tempestivamente al datore di lavoro e dirigente le non conformità rilevate”.
Lo “stato di bisogno”, ancora una volta, potrebbe spingere il lavoratore a non interferire nella realizzazione degli obiettivi produttivi del datore di lavoro, pur a fronte di responsabilità per danni da lavoro e per omessa vigilanza, in ragione di un superiore interesse al mantenimento dell’occupazione.

 

 

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