Testo integrale con note e bibliografia

Con la sentenza del 19 maggio 2022, n. 125 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della l. 20.5.1970, n. 300, come modificato dall’art. 1, comma 42, lett. b), della legge 28.6.2012, n. 92, limitatamente alla parola “manifesta”, così venendo a modificare, con una sentenza manipolativa a carattere ablativo, implicante la cancellazione di singole parole contenute nel testo, il contenuto della disposizione predetta introdotta a seguito della riforma Monti-Fornero nella parte in cui prevede che affinché trovi applicazione il regime sanzionatorio della reintegra attenuata di cui al comma 4 del novellato art. 18, in luogo dell’indennità risarcitoria prevista dal successivo comma 5, sia necessario un quid pluris dato dalla dimostrazione dell’essere l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, appunto “manifesta”.
La Corte costituzionale completa così la riscrittura del regime sanzionatorio dettato dalla legge Monti-Fornero con riguardo al licenziamento per giustificato motivo oggettivo iniziata con la sentenza del 7 aprile 2021 n. 59 con la quale era stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge 20.5.1970, n. 300, come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge 28.6.2012, n. 92 nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo “può altresì applicare” - invece che “applica altresì” – la disciplina di cui al medesimo art. 18, comma 4, così sancendo l’obbligatorietà, per il giudice, dell’applicazione nell’ipotesi considerata (all’epoca l’accertata “manifesta” insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo) della sanzione della reintegrazione attenuata.
L’esito della più recente pronunzia era da ritenersi sostanzialmente preannunciato, trovando ampia eco nell’immediato precedente, sia per quel che riguarda il fondamentale indirizzo di politica del diritto perseguito, dato dall’intento di dare più ampia estensione all’ambito applicativo della sanzione della reintegrazione con riferimento al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, circoscritto dalla riforma Monti-Fornero per la preferenza accordata all’applicazione dell’indennità risarcitoria con risoluzione del rapporto in essere, sia per le basi concettuali che ne costituivano il fondamento.
Anche nella decisione in parola l’illegittimità costituzionale della disposizione è dichiarata per contrasto con il principio costituzionale di uguaglianza-ragionevolezza, cui il Giudice delle leggi, espressamente richiamandosi alla precedente decisione n. 59/2021, afferma essere il legislatore tenuto, nonostante il ribadito orientamento per cui l’attuazione del diritto “a non essere estromesso dal lavoro ingiustamente o irragionevolmente” è stata ricondotta nell’alveo delle valutazioni discrezionali del legislatore, quanto alla scelta dei tempi e dei modi della tutela, anche in ragione della diversa gravità dei vizi e di altri elementi oggettivamente apprezzabili, come, per esempio, le dimensioni dell’impresa, fermo restando che la reintegrazione non rappresenta “l’unico possibile paradigma attuativo” dei principi costituzionali.
Ed anche nella presente decisione la violazione del principio di uguaglianza, da intendere sia come obbligo di parità di trattamento sia come canone di ragionevolezza nell’esercizio del potere legislativo, è predicata con riferimento alla ritenuta inconfigurabilità di ipotesi di ingiustificatezza aggravata del licenziamento .
Nella sentenza n. 59/2021, questa costituisce il presupposto in base al quale la Corte costituzionale giunge ad escludere l’ammissibilità della graduazione delle sanzioni e l’obbligatorietà della comminazione della reintegrazione mentre nella sentenza n. 125/2022 integra la ragione stessa della sancita inapplicabilità delle due distinte sanzioni e dell’opzione in favore della reintegrazione.
Sennonché vi è un vizio logico nella trasposizione da una decisione all’altra delle medesime argomentazioni: se l’interpretazione del “può” in termini di obbligatorietà dell’applicazione della reintegrazione trova giustificazione nell’originaria formulazione della disposizione, che, non essendo investita dell’eccezione di incostituzionalità nella parte recante il riferimento al termine “manifesta”, aveva riguardo appunto alla manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento e, così, ad ipotesi di ingiustificatezza aggravata del licenziamento, legittimanti pertanto, l’applicazione della sanzione massima, l’espunzione dal testo della disposizione del termine “manifesta”, che riflette la negazione dell’articolazione delle fattispecie invocate a giustificazione del licenziamento secondo il criterio della gravità connessa alla loro insussistenza, non è logicamente sostenibile se riferita al “fatto posto a base del licenziamento”.
L’alternativa secca basata sul binomio sussiste/non sussiste, cui la Corte costituzionale semplicisticamente riconduce il proprio ragionamento, se può valere relativamente alla legittimità del licenziamento, come, al limite, potrebbe sostenersi con riguardo al problema dell’interpretazione del “può, altresì, applicare”, postulando la ricorrenza dell’ipotesi dell’accertata illegittimità del recesso e, così, del non dover essere del licenziamento l’applicazione della reintegrazione, non è certo riferibile al “fatto posto a base del licenziamento”, essendo con riferimento ad esso ravvisabile una ulteriore alternativa, data dall’essere il fatto stesso astrattamente riconducibile alle ragioni giustificative indicate dall’art. 3, l. n. 604/1966, ovvero a “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” ma, in concreto, non idoneo a legittimare l’esercizio del potere di recesso o, in altri termini, data dalla configurabilità di un atto dell’imprenditore avente natura gestionale, attinente cioè a circostanze riferibili alla produzione e all’andamento economico dell’azienda, come la perdita di valore o di utilità della prestazione del lavoratore, realmente verificabili anteriormente al licenziamento, ma valutato come insuscettibile di giustificare l’assunzione del provvedimento espulsivo .
A monte di questa impostazione binaria del ragionamento della Corte costituzionale sta una concezione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo riflessa nel passo della motivazione della sentenza in questione, che, non a caso, riecheggia un analogo passo recato dalla motivazione della sentenza n. 59/2021, per cui “il fatto che è all’origine del licenziamento per giustificato motivo oggettivo include tali ragioni (quelle di cui all’art. 3, l. n. 604/1966) e, in via prioritaria, il nesso causale tra le scelte organizzative del datore di lavoro e il recesso dal contratto, che si configura come extrema ratio, per l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore. Al fatto si devono dunque ricondurre l’effettività e la genuinità della scelta imprenditoriale”.
E’, in effetti, in questa prospettiva, in cui “il fatto posto a base del licenziamento” non individua soltanto il presupposto organizzativo/gestionale del licenziamento ma assorbe in sé tutti gli elementi rilevanti ai fini della legittimità del recesso, che l’alternativa secca sussiste/non sussiste può attagliarsi al fatto stesso.
Una prospettiva che sembrerebbe trovare riscontro nel diritto vivente in relazione all’orientamento espresso dalla Corte di Cassazione con la sentenza del 2 maggio 2018, n. 10435 e successivamente ribadito, tanto che la Corte costituzionale nella decisione n. 29/2021 richiama a riguardo altra pronunzia del giudice di legittimità, la n. 29102 dell’11 novembre 2019, secondo cui “la verifica del requisito della “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” concerne entrambi i presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, quindi, sia le ragioni inerenti all’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa sia l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore”.
Ma a riguardo non può sottacersi come ad una tale lettura si opponga l’opzione interpretativa accolta dalla stessa Corte di Cassazione con la sentenza n. 25201 del 7 dicembre 2016 , per la quale il giustificato motivo oggettivo potrebbe essere legittimamente intimato a fronte di qualsiasi determinazione del datore di lavoro che implichi una modifica dell’organizzazione aziendale tale da riverberare sulla posizione del lavoratore rendendola eccedentaria, a prescindere, dunque, dalla ragione determinante il disposto riassetto organizzativo.
Un’opzione che, mentre impone la considerazione ai fini della giustificatezza del licenziamento di ragioni idonee ad attribuire rilevanza nell’ambito del rapporto obbligatorio alla garanzia di libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost. ed ai poteri di organizzazione dell’imprenditore che valgono a definire in favore di questi un ambito di discrezionalità piena, cui rimandano le determinazioni in ordine al se, al quanto al come e al dove della produzione, ammette che i fatti posti a base del licenziamento, comunque sussistenti, sottendano atti di natura organizzativo/gestionale insufficienti a giustificare il singolo licenziamento, così come legittima il contrapporsi a quelli di fatti neppure idonei ad integrare in astratto il presupposto organizzativo/gestionale del licenziamento stesso, dovendosi far risalire gli stessi ad una volontà o intenzione dell’imprenditore di predisporre o addirittura simulare il mutamento organizzativo o la vicenda produttiva dell’azienda, e tutto questo al solo scopo di disporre il licenziamento .
Basti qui rilevare la necessaria priorità della modifica organizzativa rispetto alla soppressione del posto che della prima deve costituire necessaria conseguenza, di modo che quella modifica non può identificarsi nel provvedimento stesso di espulsione del lavoratore , non ammettendosi pertanto un licenziamento motivato dalla sostituzione del lavoratore con altro lavoratore a minor costo, perché retribuito meno per lo svolgimento di identiche mansioni, per risolversi un simile provvedimento nella mera volontà di espellere il lavoratore per ragioni, queste sì meramente economiche, non riconducibili al discrezionale potere organizzativo del datore ed, in ultima analisi, alla sua libertà economica, idonei a rendere “ragionevole” il sacrificio dell’interesse del lavoratore alla conservazione del posto.
In questa prospettiva la disposizione, nel testo residuato dall’intervento manipolativo della Corte costituzionale, potrebbe ancora legittimare l’articolazione della fattispecie secondo il criterio della gravita del difetto di giustificazione e l’applicazione ad esse, in conformità a quanto ancora prevede la formulazione testuale della norma, delle distinte sanzioni della reintegrazione e dell’indennità risarcitoria.

 

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