Testo integrale con note e bibliografia

1. La tavola rotonda giustamente non vuole inserirsi in modo retrospettivo nel discorso sulla genesi e sulla matrice neoliberista o meno delle recenti riforme, legge Fornero e Jobs Act. Tuttavia, nella sua apparente neutralità – come si legge nella sua presentazione: «riflettere in modo aperto ed inclusivo sul rapporto tra potere legislativo e giurisdizione» – parte già dall’assunto che di quelle riforme nel diritto vivente sia rimasto ben poco ed addirittura della necessità di una nuova stagione riformatrice.
La premessa, neppure tanto sottintesa, è che la “giurisdizione” (e penso soprattutto alla giurisprudenza sui licenziamenti) abbia compromesso le riforme dell’ultimo ventennio e che sia auspicabile un nuovo intervento riformatore (ovviamente maggioranze parlamentari permettendo).
Come tecnici e come operatori del diritto, naturalmente, non possiamo negare che alcune riforme degli ultimi anni – pensiamo, appunto, al tema topico della riforma della disciplina dei licenziamenti – già nate a fatica e con scelte non cristalline (specie la cd. legge Fornero) siano state colpite da interventi sicuramente invasivi della Corte costituzionale ed anche, seppure con intrinseca minore forza di resistenza a revirement, della Corte di cassazione .Tuttavia, alzando un po’ lo sguardo, siamo certi che ciò di cui le imprese ed i lavoratori hanno realmente bisogno è una nuova disciplina dei licenziamenti? O non sono altri i problemi che incontra il mondo che pulsa fuori dai nostri studi professionali e accademici?
Ne elenco alcuni: taglio del cuneo fiscale, far fronte all’inflazione, garantire le forniture energetiche, realizzare la transizione digitale a fronte di gran parte della popolazione digitalmente analfabeta, risolvere i problemi del mercato del lavoro.
Su quest’ultimo punto un passo avanti deve essere fatto, senza ripetere, come una stanca cantilena, che si devono potenziare i centri per l’impiego. È veramente (solo) questa la strada? Vorrà pure dire qualcosa se, come risulta dai dati INAPP, ancora oggi la gran parte dei rapporti di lavoro nasce attraverso canali informali: non vanno bene i centri per l’impiego (con il 4,2 % di rapporti intermediati), ma neppure le agenzie private (6,4%), mentre interessanti, seppure basse (5%), sono le performances di università e scuole .
Gli scarsi risultati dei centri per l’impiego – seppure con i dovuti distinguo – non saranno forse dovuti a cause più profonde (magari culturali e legate alla piccola dimensione dell’impresa italiana, la quale vede con sospetto i successori di coloro che hanno sempre imposto obblighi e sanzioni), dell’inefficienza delle loro strutture? E quindi, se questo è vero, non è il caso di cambiare rotta, magari distribuendo maggiormente le competenze, affidandosi a strutture/istituzioni che le imprese soprattutto piccole, le meno attrezzate e le più esigenti nella ricerca del personale, non vedono con diffidenza? Si pensi a quanto alcune professioni, come i consulenti del lavoro, potrebbero fare.
E non sarà forse il caso di domandarsi perché dei ventidue incentivi attualmente esistenti per le assunzioni solo cinque funzionino realmente, come risulta da una tabella recentemente stilata da Il Sole-24 Ore ?
E poi che dire dei rapporti collettivi, del salario minimo, della gestione algoritmica dei rapporti di lavoro? Sono tutti temi neppure toccati dalle ultime riforme cui si fa riferimento.

2. Non voglio, però, sottrarmi all’interrogativo che è stato posto, vale a dire quale è stato l’impatto del diritto vivente sulle riforme degli ultimi venti anni. Ebbene, non si può negare che l’impatto sia stato forte, in particolare nella disciplina del licenziamento (sebbene sovvengano altri casi: si pensi, da ultimo, alla limitazione giurisprudenziale dell’operatività dell’art. 8 della l. n. 148 del 2011, di cui un esempio è Cass. n. 33131/2021 ).
Prendendo posizione sul dibattito apertosi subito dopo la gragnuola di ricorsi avanti alla Corte costituzionale nei confronti del Jobs Act, e sottoponendomi alla fatica della analisi e del tentativo di sistemazione prima di proporre nuovi interventi riformatori, ero giunta alla conclusione che il Jobs Act segnasse un punto di non ritorno dopo che la Corte costituzionale, correggendone i duri automatismi, più che distruggerlo, l’aveva avallato .
Se, come ripetutamente ricordatoci dalla Corte, molteplici – e non solo la reintegrazione – possono essere i rimedi idonei a garantire una adeguata compensazione per il lavoratore arbitrariamente licenziato e, una volta scelta la via indennitaria, privo di copertura costituzionale è il principio della integralità del risarcimento, dovendo tuttavia essere la sanzione per il licenziamento adeguata e dissuasiva; se tutto questo è vero, si poteva ben concludere che, con le razionalizzazioni operate ed ancora operabili dalla giurisprudenza, il Jobs Act non risultasse meritevole di quelle urgenti manutenzioni legislative, più o meno radicali, richieste in un senso o nell’altro dagli interpreti. Essendo consapevoli, tra l’altro, della difficoltà tecnica e politica di rimettere mano ad una materia frutto di ripetuti e ravvicinati compromessi politici.
Anche la forchetta molto ampia di indennizzo, compresa tra i 6 e i 36 mesi dopo il cd. decreto dignità, frutto della prima sentenza della Corte costituzionale, la n. 194 del 2018, come risulta da alcune ricerche condotte sulla giurisprudenza edita , è stata governata in modo meno imprevedibile di quello che molti si aspettavano, essendosi dato prioritario rilievo al criterio dell’anzianità di servizio, applicato col meccanismo di incremento divisato dal Jobs Act, sia pur corretto sulla base degli altri criteri.
All’esito di questa analisi, mi sentivo dunque di concludere che il vero nodo insolubile in sede interpretativa era il doppio regime, distorsivo anche in sede applicativa, dei licenziamenti collettivi. Così come semmai sarebbe stata responsabilità del legislatore l’adeguamento del regime rimediale per le piccole imprese. Ciò che è poi stato riconosciuto dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 183 del 2022.

3. Essendomi iscritta, circa un anno fa, al partito, forse minoritario, di quelli che invitavano alla cautela nella prospettazione di ipotesi di riforma, devo domandarmi se le cose sono cambiate dopo le ultime due sentenze della Corte costituzionale: la n. 59 del 2021, sull’obbligo del giudice di disporre la reintegrazione nel caso di insussistenza del fatto, e la n. 125 del 2022, sulla “manifesta” insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che hanno inciso, questa volta, sull’art. 18 riformato dalla cd. legge Fornero, rivitalizzando – oltre le intenzioni legislative – il rimedio reintegratorio per i rapporti costituiti ante 7 marzo 2015.
Certo, si tratta di decisioni che – apparentemente – accentuano la divaricazione tra regime ante e post 7 marzo 2015: una divaricazione, frutto di un compromesso politico, da molti di noi criticata, anche da un punto di vista giuridico . E, tuttavia, occorre prendere atto che questa divaricazione di regime, in relazione al momento di costituzione del rapporto, è stata ritenuta legittima dalla stessa Corte costituzionale (già nella sentenza n. 194 del 2018): non contrastando, così afferma la Corte, la modulazione temporale dell’applicazione del d.lgs. n. 23 del 2015 con il canone di ragionevolezza e, quindi, con il principio di eguaglianza se «ad essa si guarda alla luce della ragione giustificatrice […] costituita dallo “scopo”, dichiaratamente perseguito dal legislatore, di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione (alinea dell’art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014) » .
E, prosegue la Corte, «lo scopo dell’intervento […] mostra come la predeterminazione e l’alleggerimento delle conseguenze del licenziamento illegittimo dei lavoratori subordinati a tempo indeterminato siano misure dirette a favorire l’instaurazione di rapporti di lavoro per chi di un lavoro fosse privo e, in particolare, a favorire l’instaurazione di rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato». Per concludere che «il regime temporale di applicazione del d.lgs. n. 23 del 2015 si rivela coerente con tale scopo. Poiché l’introduzione di tutele certe e più attenuate in caso di licenziamento illegittimo è diretta a incentivare le assunzioni a tempo indeterminato, appare coerente limitare l’applicazione delle stesse tutele ai soli lavoratori assunti a decorrere dalla loro entrata in vigore, quelli, cioè, la cui assunzione avrebbe potuto essere da esse favorita. Pertanto l’applicazione del d.lgs. n. 23/2015 ai lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato a decorrere dalla data della sua entrata in vigore, in quanto conseguente allo scopo che il legislatore si è prefisso, non può ritenersi irragionevole. Di conseguenza, il deteriore trattamento di tali lavoratori rispetto a quelli assunti prima di tale data non viola il principio di eguaglianza» .
Su questa parte, la più sofferta, della decisione stipite della Corte, nel rincorrere la gragnuola di sentenze successivamente intervenuta, normalmente non ci si sofferma, nonostante essa sia, in una visione complessiva della “sistematizzazione” operata dalla Corte, fondante. Essa colloca in due bolle – o due sistemi – non comunicanti legge Fornero e Jobs Act.

4. Insomma, l’assist a favore della reintegrazione dato dalla Corte costituzionale (in parte nella sentenza n. 59 del 2021, ma specie nella sentenza n. 125 del 2022, oltre che dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 11665 del 2022 ), è tutto interno al regime della legge Fornero (di cui, a ragione o a torto, si rileva la intrinseca irragionevolezza) . Esso non è destinato a riverberarsi sul d.lgs. n. 23 del 2015,il cui impianto indennitario è stato, al di là della questione della misura massima dell’indennità lasciata impregiudicata, in modo inequivoco, totalmente avallato dalla Corte.
Né sembra facile ipotizzare, sull’onda delle citate pronunce, un allargamento, ad opera della Corte, della tutela reintegratoria nel d.lgs. n. 23 del 2015, in totale controtendenza rispetto alla scelta legislativa indennitaria (avallata dalla stessa Corte costituzionale) .
Il discorso è troppo complesso per esser affrontato qui funditus, ma almeno non si può negare che la disarmonia interna alla legge n. 92 del 2012, per avere ancorato la scelta tra tutela indennitaria e reintegratoria a quella “manifesta” insussistenza del fatto, non ricorre nel Jobs Act.
Certo, l’operatore pratico vorrebbe un diritto più semplice da applicare e il giurista cartesiano un diritto con scelte nette e senza sbavature. Ma francamente non mi pare vi siano le condizioni per rimettere mano in termini complessivi ad una materia così incandescente e di grande rilievo simbolico . Tanto più che, come rilevavo all’inizio, mi pare che i problemi che incontrano imprese e lavoratori e in generale il mondo produttivo siano ben altri rispetto al tema, forse più identitario per i giuslavoristi che per i lavoratori, dei rimedi contro il licenziamento illegittimo.

5. Vi sono dati, provenienti dal Ministero della Giustizia, che denunciano una drastica caduta, dal 2012 al 2021, del numero dei procedimenti giudiziari definiti in materia di contratto a termine, licenziamento collettivo e licenziamento individuale, sia disciplinare che per giustificato motivo oggettivo . È un dato che può prestarsi a diverse interpretazioni, ma che non si può ignorare nel nostro dibattito.
Per contro, non si è mai insistito abbastanza sulla necessità di pratiche di valutazione degli effetti delle norme. In effetti, la cd. legge Fornero (art. 1, co. 2-5) aveva previsto una procedura permanente di monitoraggio, presso il Ministero del lavoro, delle misure introdotte, come base per eventuali correzioni normative «anche alla luce dell’evoluzione del quadro macroeconomico, degli andamenti produttivi, delle dinamiche del mercato del lavoro e, più in generale, di quelle sociali». E, per inciso, pure in altri provvedimenti normativi (ad es., recentemente, nella disciplina del lavoro autonomo tramite piattaforma: art. 47-octies, d.lgs. n. 81 del 2015) è stata prevista una procedura di monitoraggio e valutazione.
Sebbene la previsione di un controllo sull’andamento applicativo della legge sia stata salutata con favore, essendo auspicabile che strumenti di tal genere siano disponibili anche in Italia, specie nel diritto del lavoro, per contrastare le tendenze a valutare le leggi sulla base di pregiudizi spesso di segno opposto , si è trattato nulla più che di un annuncio politico. E, per la verità, una reale analisi di impatto implicherebbe l’esplicitazione degli obiettivi della legge e, in sede di valutazione, di rispondere a una serie di precise domande già prefigurate, nonché di stanziare apposite risorse per lo svolgimento della stessa. Ciò che in effetti manca nei nostri provvedimenti normativi.
Ebbene, credo che una valutazione dell’impatto dell’attuale quadro normativo (ovviamente quale risultante, oltre che dagli interventi del Giudice delle leggi, anche dal diritto vivente) sia più che mai necessario prima di progettare ipotesi di riregolazione o, ancor più, di impegnative riforme.

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