Testo integrale con note e bibliografia

1. Una premessa: la necessità di una lettura ampia del welfare aziendale

L’espressione “welfare aziendale” è divenuta ormai familiare, nel linguaggio comune come nel dibattito dottrinale; si tratta di un fenomeno che conta numeri importanti, in virtù, soprattutto, del suo collegamento con le dinamiche legate alla detassazione dei premi di risultato: i dati forniti dal Ministero del Lavoro sul deposito telematico dei contratti collettivi aventi ad oggetto la detassazione dei premi di risultato indicano (alla data del 14 Settembre 2020) un numero pari a 57.393 dichiarazioni di conformità compilate ai sensi dell’art. 5 del d.i. del 25 marzo 2016: fra queste, 12.939 riguardano contratti attivi (9.961 aziendali e 2.978 territoriali, per un totale di 3.200.742 lavoratori beneficiari coinvolti) dei quali 7.616 prevedono misure di welfare aziendale .
La definizione del perimetro del welfare aziendale è impresa per nulla scontata, dal momento che manca un quadro normativo chiaro in materia ; per tale ragione, esso viene definito un fenomeno «disorganico e a-sistematico» , identificato tradizionalmente con «l’insieme dei benefit e servizi forniti dall’azienda ai propri dipendenti al fine di migliorarne la vita privata e lavorativa, che vanno dal sostegno al reddito familiare, allo studio, e alla genitorialità, alla tutela della salute e fino a proposte per il tempo libero e agevolazioni di carattere familiare» . Già questa definizione dà l’idea di come la tematica in questione sia riconducibile a diversi ambiti normativi: ai più classici profili attinenti alla previdenza complementare ed all’assistenza integrativa si affiancano quelle forme di retribuzione non monetaria le quali, «a differenza delle prime, vengono in rilievo esclusivamente nella dimensione fiscale e contributiva» (mio il corsivo). Il vantaggio, in tal senso, per il lavoratore, è duplice: al valore monetario delle prestazioni che egli percepisce sotto forma di welfare, «come contributo diretto messo in campo dall’azienda (le spese per i fondi sanitari integrativi, per i servizi per i minori, per spese scolastiche varie ecc.)», si unisce il risparmio negli acquisti di determinati beni e servizi direttamente dai fornitori, grazie alle agevolazioni ottenute dall’azienda. Si tratta, insomma, di quelle iniziative, tanto di stampo unilaterale quanto, principalmente, negoziate a livello di impresa (si parla infatti anche di welfare contrattuale ), inclusive di un insieme di prestazioni volte a migliorare la vita privata e lavorativa del dipendente ed a sostenerne il reddito.
Tale prospettiva è classicamente collegata alla visione del welfare aziendale come “secondo welfare”, con ciò accentuando l’avanzamento della forza privata in risposta all’arretramento dei servizi che dovrebbero essere garantiti dal welfare statale ; in tal senso, esso diventa uno «strumento giuridico con cui fornire, privatisticamente, prestazioni sociali ad integrazione esterna, tendenzialmente aggiuntivo-compensativa se non proprio sostitutiva, di quelle (sempre meno) garantite (indistintamente e qualitativamente) dalle politiche (difficilmente sostenibili) del benessere di stato, ossia, classicamente: previdenza, assistenza, istruzione e sanità» .
Un tal tipo di ricostruzione presenta, a mio avviso, almeno due controindicazioni: in primo luogo, appare limitativo soffocare le potenzialità del welfare aziendale nel ruolo di “co-protagonista” del benessere dei lavoratori; un ruolo il cui copione potrebbe arricchirsi o snellirsi sulla base della presenza scenica, più o meno ampia, dell’attore pubblico, con le sue risorse e la promozione, o meno, di un certo tipo di politica fiscale. Un approccio di più ampio respiro alla tematica dovrebbe invece valorizzare il ruolo propulsore del welfare aziendale nel quadro di un mutamento di prospettiva delle dinamiche intro-aziendali (v. infra). La progressiva consapevolezza del nesso tra benessere del lavoratore e produttività consente infatti oggi di affermare che le politiche aziendali di welfare stanno evolvendo «non tanto come una soluzione all’arretramento del welfare pubblico, quanto piuttosto come un processo spontaneo di risposta degli attori del sistema di relazioni industriali alle profonde trasformazioni del mondo del lavoro, causa e non conseguenza della crisi del nostro modello sociale» .
Al di là di queste considerazioni, vi è, peraltro, un ulteriore profilo: il riferimento pressoché esclusivo alla dimensione economico-fiscale del welfare aziendale sembra tralasciare le implicazioni che derivano da una delle poche certezze in argomento, ovvero il costante collegamento tra questo fenomeno ed i concetti di benessere – anche nell’accezione di benessere organizzativo – e fidelizzazione del personale, anch’essi non agevolmente inquadrabili , ma per i quali è pacifico il superamento di una prospettazione meramente “monetaria”: basti pensare che gli stessi includono, fra l’altro, ricollegandosi a quanto detto poc’anzi, la dimensione della conciliazione tra vita professionale e privata , che abbraccia profili legati all’organizzazione flessibile del lavoro, con un evidente richiamo al lavoro agile ed al part-time, alla flessibilità oraria in entrata e in uscita, al job sharing, alla banca delle ore, al sistema dei congedi, attivabili dall’impresa a prescindere da qualunque incentivo fiscale.
Il concetto di benessere del lavoratore è ampio e complesso, e non sarà oggetto di approfondimento in questa sede; tuttavia, preme evidenziare come esso sia strettamente collegato ad una visione di “integrità” della persona in cui anche la componente emotiva, accanto quella fisica, riveste un ruolo fondamentale.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità, nella sua Costituzione – firmata il 22 luglio del 1946 – definisce il well-being «uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale», che «non consiste solo in un assenza di malattia o d’infermità». D’altra parte, gli studi psicosociali approfondiscono la c.d. “psicologia della felicità” dimostrando che la percezione della felicità degli individui deriva non solo dalla componente economica, ma anche da numerosi altri ambiti, tra cui rientrano la qualità del lavoro e delle relazioni di lavoro ; a tal proposito, studiosi quali Feldman e Weick parlano di sensemaking per indicare come le persone interpretano, danno un senso a ciò che producono ed alla realtà in cui si trovano. Nella relazione lavorativa, è comprovato che la “soddisfazione”, intesa come appagamento nello svolgimento delle proprie mansioni e nelle dinamiche relazionali, anche in termini di rafforzamento del senso di appartenenza alla compagine aziendale, ha ricadute estremamente positive in termini di incremento della produttività ; al contrario, una persistente insoddisfazione del lavoratore, in cui prevalgano demotivazione e percezioni negative, può portare a situazioni limite come il burnout , caratterizzato da un esaurimento fisico ed emotivo, con conseguente calo della produttività.
Un elemento strettamente correlato al benessere del lavoratore è la fidelizzazione; e proprio indagando le origini di questo concetto, e verificandone la “traslazione” nel rapporto di lavoro, si proverà a smarcarsi, almeno in parte, da quella impostazione concettuale limitata e asfittica del welfare aziendale che ricollega tale fenomeno in maniera pressoché esclusiva alle norme delle recenti Leggi di Stabilità che, tra il 2015 ed il 2018 , in particolare, hanno regolamentato il regime fiscale di una serie di beni, servizi e prestazioni che il lavoratore può scegliere in sostituzione, parziale o totale, del premio di produttività, rendendo invece ad esso il giusto tributo in una prospettiva nella quale il benessere del lavoratore travalica tale dimensione, divenendo una componente essenziale delle dinamiche contrattuali: del resto, come emerge chiaramente dal Secondo Rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale (le cui risultanze sono state presentate il 30 gennaio 2019), il dibattito sull’argomento «è ancora troppo appeso alla sua origine spuria, al suo essere un pezzo del più generale mondo dei benefit, a sua volta finanziato da una fiscalità amica che poco è interessata al welfare propriamente detto e meno ancora ai bisogni a cui esso dovrebbe rispondere» .

2. Le origini commerciali della fidelizzazione: customer retention e customer loyalty

Il termine fidelizzazione, nella sua accezione più comune, richiama quelle strategie di marketing volte a creare il più elevato grado di soddisfazione del cliente – mediante l’elargizione di benefici, vantaggi o premi – in modo da rinsaldare il legame tra lo stesso e l’azienda, e, di conseguenza, con il marchio che essa rappresenta. Si tratta di un fenomeno complesso, oggetto di studi di diverso genere: la visione economista si accompagna a prospettive sociologiche e psicologiche, che indagano la complessa figura del cliente-acquirente e delle sue aspettative.
Alla base della fidelizzazione vi sono due fattori principali, ovvero «la mobilità delle proposte della concorrenza e la tendenza all’infedeltà del consumatore» (miei i corsivi). Lo studio delle attitudini dei consumatori, dei loro atteggiamenti di acquisto, consente di identificarli come soggetti «sempre più ondivaghi nelle scelte», o, per dirla con Ehrnooth e Grönroos, come «Hybrid consumers» . D’altra parte, essi rappresentano degli indiscussi «value creators» , generatori e moltiplicatori di profitto per le imprese; per tale ragione, diviene fondamentale, per le stesse, avvalersi delle più svariate tecniche promozionali al fine di stabilire e mantenere con essi relazioni durature, uscendo dalla c.d. «trappola del marketing indifferenziato» ed offrendo la percezione di una proposta unica ed originale .
La fidelizzazione viene spesso identificata con la c.d. retention, ma non sembra una sovrapposizione condivisibile; entrambe rappresentano tappe di un complesso percorso che, partendo dall’esigenza di soddisfare un determinato desiderio, va progressivamente ad incidere sulla dimensione volitiva del consumatore: una volta “innescato” il senso del bisogno, inteso in termini di divario tra lo stato attuale e quello desiderato , il soggetto varerà una serie di alternative possibili atte a soddisfarlo; dopodiché, si orienterà verso l’offerta che, a suo dire, rappresenta per lui un valore aggiunto rispetto alle altre prese in considerazione, per arrivare infine al consumo ed alla successiva valutazione del prodotto/servizio offerto .
La c.d. customer satisfaction, ovvero proprio il risultato del bilanciamento tra le aspettative del consumatore prima dell’acquisto e la «performance effettiva» percepita dal prodotto, rappresenta la chiave per la reiterazione (o meno) dell’esperienza di acquisto, ponendosi come «un flusso prodotto a seguito di ogni interazione che il cliente ha con l’impresa. Tale flusso alimenta uno stock: la fiducia , intesa quale pregiudizio riguardante la capacità dell’impresa di offrire un valore congruente con quanto atteso» .
Se nelle prime due fasi del percorso di cui si è detto vengono in rilievo dati esteriori – l’acquisto ed il riacquisto – coniugati ad un atteggiamento positivo verso un certo prodotto/servizio, è nella fase della retention che si assiste ad un passaggio ulteriore e cruciale, che prevede un ruolo attivo da parte dell’impresa per mantenere il cliente: in senso “negativo”, come creazione di barriere in uscita con lo scopo di trattenerlo; oppure con valenza “positiva”, nel senso di uno sforzo relazionale da parte del marketer, il quale si propone come soggetto attivatore di un comportamento d’acquisto attraverso attività strutturate di customer relationship management (CRM) .
L’ultima fase, quella della fidelizzazione, è la più complessa, perché è qui che il consumatore «esprime la propria fedeltà (loyalty) cognitiva e non solo comportamentale all’impresa», che si manifesta attraverso la presenza di «tutte e tre le componenti racchiuse nel significato proprio di fedeltà», ovvero un atteggiamento favorevole verso il prodotto/servizio che si accompagna non solo al dato formale di un acquisto ripetuto, ma, soprattutto, alla c.d. allegiance, ovvero una fedeltà comportamentale nel lungo periodo (customer loyalty) che determina una quasi esclusività di uno, o comunque pochi e ben definiti prodotti od esercenti, grazie al rinsaldamento di un atteggiamento positivo nei confronti degli stessi .
Ben si intuisce la portata positiva di tali dinamiche, nell’ambito delle quali è interesse di ciascuna parte rinsaldare la relazione commerciale: l’impresa, anche analizzando le abitudini e le preferenze commerciali dei consumatori, si impegna ad erogare prodotti/servizi di qualità, divenendo per gli stessi un punto di riferimento; questi ultimi, a loro volta, compensano l’impegno e le energie profuse dall’azienda divenendone clienti, in tal modo sancendo un importante passaggio dalla sfera dell’occasionalità ad una abitualità commerciale che può assumere le vesti di brand loyalty (fedeltà ad una certa marca) e/o store loyalty (fedeltà a determinati punti vendita).
La fidelizzazione dei clienti comporta indiscutibili vantaggi sia di carattere economico che di marketing, se solo si pensa alla notorietà di un brand ed alla influenza sulla posizione competitiva: al punto che, al di là della fidelizzazione, si parla di “rifidelizzazione”, un processo di mantenimento nel tempo della clientela che, pur comportando degli indiscutibili costi – tra cui la gestione di un database e la perdurante implementazione della comunicazione e del contatto con i clienti – possiede anche dei vantaggi economici importanti: acquisire un nuovo cliente costa infatti almeno cinque volte di più che fidelizzarlo ; e, d’altra parte, un aumento del 5% nella fidelizzazione dei clienti può aumentare la redditività dell’azienda del 25-95% .

3. Fidelizzazione e diritto del lavoro

Alla luce di quanto sin qui detto, appare certamente non semplice rapportare il concetto di fidelizzazione all’ambito giuslavoristico : il prototipo di relazione lavorativa – ben diversamente da quella commerciale – dominata dalla scarsità di risorse e da un’eccedenza dell’offerta di lavoro rispetto alla domanda, è caratterizzata da una subordinazione tecnico-funzionale, ed economica, del prestatore, che non può certo permettersi di essere, al pari del customer, “mutevole” e “capriccioso”, dovendo piuttosto “obbedire” a e “collaborare” con un imprenditore che, oggi più che mai, può permettersi una flessibilità piuttosto ampia nella gestione del rapporto, supportato da una legislazione che ne favorisce una posizione forte con riguardo ad aspetti cruciali dello stesso .
Invero, la più classica, ma anche sdoganata, visione della fidelizzazione in ambito giuslavoristico, è legata ad una prospettazione c.d. “vincolata” o “difensiva” – che potrebbe essere paragonata, nel settore commerciale, alla menzionata “retention in senso negativo” – racchiusa nell’«insieme delle tecniche e strategie manageriali volte alla conservazione della forza lavoro maggiormente qualificata e utile alla efficienza e qualità del processo produttivo» (mio il corsivo). Essa è dunque riconducibile a quegli strumenti di natura normativa, o più propriamente pattizia, volti a tutelare l’investimento del datore di lavoro nei confronti di specifiche risorse, in termini economici e di energie profuse per la crescita professionale delle stesse: si pensi, al di là del disposto di cui all’art. 2105 c.c., al patto di non concorrenza (art. 2125 c.c.) , alla clausola di durata minima garantita ed al prolungamento del periodo di preavviso , tutte tecniche volte ad assicurare, in una dimensione “costrittiva”, una lealtà più o meno accentuata dei lavoratori più preziosi, senza quello “sforzo relazionale” del commitment che caratterizza la fidelizzazione . Del resto, potrebbe sembrare quasi improprio, rispetto a quanto sin qui detto, parlare in questo caso di una vera e propria “fedeltà” del lavoratore all’azienda, poiché qui il comportamento finale del prestatore è legato ad una responsabilità contrattuale, e non corrisponde certo all’atteggiamento propositivo di “scelta” consapevole che caratterizza l’implementazione della relazione azienda-cliente nel marketing.
Il richiamo alla fidelizzazione, nel diritto del lavoro, fa piuttosto riferimento alla dimensione di engagement del personale, inteso come accrescimento del suo senso di appartenenza all’azienda, con le ricadute positive di cui si è detto in termini di miglioramento del clima aziendale e produttività. Tale prospettiva è legata alla progressiva (ri)considerazione del prestatore e delle sue qualità personali nella relazione lavorativa.
In un contesto originario dominato dalla «descrizione fittizia del lavoro come bene di scambio», che portava, sul piano giuridico, ad una «deformazione della categoria romana della locatio operarum», l’autonomia contrattuale dei privati si poneva come «libertà delle parti di darsi un regolamento di interessi sul quale si verifica[va] una convergenza delle loro volontà»; tale convergenza, peraltro, «non garanti[va] un potere equilibrato di influire sulla determinazione del contenuto del contratto, ma la libera decisione di ciascuna parte di stipulare il contratto a certe condizioni sulle quali l’altra conv[eniva]» . La subordinazione, allora, sembrava non potersi sganciare da quel «certo sapore di servilità che vi par necessariamente riconnesso, e a cui l’autocrazia industriale … sembra[va] aver dato alimento» .
Molta strada è stata fatta, da allora. Tuttavia, è ancor oggi possibile affermare che il tratto caratterizzante del lavoro subordinato sta nel suo essere «il solo a porre, sia pure per necessità istituzionale, un soggetto alle dipendenze di un altro» . Non solo: il diritto del lavoro, «forgiato sul modello di una impresa monolitica»; «pensato per una competizione tra le imprese che tendenzialmente si risolveva nei confini nazionali e per un sistema economico che poteva far fronte alle diseconomie del sistema produttivo e del conflitto industriale con manovre finanziarie endogene, quali, ad esempio, la svalutazione monetaria»; «cresciuto nel panorama di un’economia affluente e con un tasso di disoccupazione stabile e comunque accettabile» , vive un continuo processo di metamorfosi, al punto da poter affermare che esso, ormai da anni, si è progressivamente «trasformato in “altro da sé”» : le recenti riforme del mercato del lavoro, in particolare, hanno determinato una progressiva «metamorfosi funzionale» del contratto di lavoro, divenuto un «ponte per giungere al mercato e non la chiave per accedere al rapporto» . Con la stagione della flessibilità si è riproposta una situazione di squilibrio tra organizzazione e subordinazione segnata dal progressivo superamento delle “rigidità garantistiche” proprie del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e pieno, e «culminata, in consonanza con il rilievo attribuito, anche in sede comunitaria, all’obiettivo dell’occupabilità e della flessibilizzazione del mercato del lavoro, nella disarticolazione tipologica di quel modello che ha indotto l’aggiramento dello statuto protettivo proprio del tipo, pur rimasto con riferimento a questo sostanzialmente invariato» . Nell’ambito di questi profondi mutamenti , la globalizzazione, fra l’altro, ha determinato un accrescimento del potere contrattuale «in favore di quelle imprese che possono approfittare della mobilità dei capitali nello scacchiere globale e sono, quindi, in grado di esercitare una inedita forza di pressione nei confronti di lavoratori e sindacati» .
Nondimeno, pur nella evidente «contrapposizione fra persona e mercato» , il continuo mutare delle condizioni tecnico-economiche della produzione, la crisi della grande impresa, con la segmentazione delle attività produttive, hanno determinato una progressiva ridefinizione del ruolo del prestatore, il quale, con l’acquisizione di competenze specialistiche, e le sue qualità personali, diviene sempre più una risorsa strategica per l’azienda . Dunque, le azioni che un’impresa decide di mettere in campo tanto nei confronti dei cc.dd. core workers, quanto nei riguardi di una più ampia forza-lavoro, alla stregua di vere e proprie politiche aziendali, devono fronteggiarsi con le mutevoli dinamiche che governano la relazione contrattuale, in considerazione della “forza” contrattuale delle parti. In tali dinamiche, il welfare aziendale si presenta come elemento che arricchisce il sinallagma contrattuale: se con l’art. 2094 c.c. la prestazione retributiva è stata incardinata all’interno della relazione lavorativa quale vero e proprio diritto del prestatore di lavoro subordinato – per assurgere, con la Carta Costituzionale, nell’ambito del riconoscimento del lavoro come valore, a strumento di elevazione professionale e personale del lavoratore stesso – oggi le politiche di welfare aziendale rappresentano un fondamentale tassello del passaggio dal canone della corrispettività “pura” ad una visione che abbraccia profili inscindibilmente connessi all’implicazione della persona del prestatore nel rapporto di lavoro ed ai suoi diritti/doveri nei confronti della società ; nell’«arricchimento dello scambio tipico della relazione lavoristica», in un’ottica di total reward che supera la dimensione prettamente economica per abbracciare profili diversamente connessi ai bisogni ed ai valori del lavoratore, «confluiscono nuovi elementi qualificativi quali il work environment (qualità del luogo di lavoro, clima organizzativo, formazione, coaching, mentoring, sviluppo e carriera, diversity management), il company environment (bilancio sociale; certificazioni su ambiente, qualità, sicurezza; valori e comportamenti), il work-life balance (flessibilità temporale e spaziale del lavoro; servizi per il benessere personale; servizi per la famiglia)» .
In un’ottica di rivisitazione del diritto del lavoro, che ne accentui la caratteristica di «strumento di gestione dell’impresa e di regolamentazione delle modalità di incontro tra capitale e lavoro» al di là della sua naturale funzione di tutela del contraente debole, ben si inquadrano le riflessioni sulle svariate tecniche adottate dalle imprese per garantirsi l’affezione dei propri dipendenti per il buon andamento dell’attività: nel delicato equilibrio che regge la relazione mercato-impresa-risorse, certe scelte coinvolgenti, in senso lato, il benessere aziendale, vanno lette nella cornice di una precisa politica di gestione delle risorse umane; ecco perché apparirebbe alquanto limitativo soffocare le potenzialità della fidelizzazione entro gli angusti ambiti del rapporto tra l’impresa ed i lavoratori “di punta” ; è interesse del datore coniugare una buona qualità dell’occupazione – attraverso un esame delle istanze intro-aziendali – con una risposta quanto più funzionale possibile agli input dei mercati globali, mediante la costruzione di un rapporto duraturo e proficuo per entrambe le parti. Con la propria offerta di benefit – non solo in termini di vantaggio economico – anche il datore va dunque in qualche modo ad incidere – come accade rispetto al consumatore – sulla dimensione “volitiva” del lavoratore, nel senso di favorirne un atteggiamento positivo verso l’azienda mediante mirate policies aziendali, volte ad ottenere la c.d. allegiance, ovvero una fedeltà comportamentale nel lungo periodo: a tal fine, sarà un’attenta analisi della compagine aziendale la chiave per effettuare scelte imprenditoriali che inevitabilmente influenzeranno la qualità delle dinamiche relazionali in azienda; il passaggio fondamentale da atteggiamento positivo a fiducia ed infine a fedeltà del lavoratore può avvenire nel migliore dei modi solo valorizzando al massimo la dimensione dell’ascolto e della personalizzazione dell’offerta, esattamente come avviene nel marketing: è, questa, l’unica via attraverso la quale l’azienda potrà predisporre dei piani di welfare che siano la corretta rappresentazione di uno specifico contesto, in risposta ad un più ampio concetto di benessere che pone al centro la “persona” del lavoratore, con le sue esigenze ed aspettative, sino ad arrivare – nelle prospettazioni più rosee – all’adozione di sistemi partecipativi che rafforzino ai massimi livelli il senso di appartenenza del lavoratore all’azienda .

3.1. L’employer branding process

A proposito di coinvolgimento del personale, merita un cenno il c.d. employer branding.
È ben noto come nel mercato dei prodotti il brand (o marca) rappresenti non di rado una notevole attrazione per il consumatore, sia come “simbolo” della personalità dell’azienda da cui promana, sia come dimensione nella quale il cliente proietta la propria immagine, in qualche modo riconoscendosi in esso. La creazione della brand identity – che riflette la vision, nonché la mission dell’azienda – diviene dunque uno strumento fondamentale per attirare i clienti e fidelizzarli, poiché, come è stato evidenziato, il potere del brand risiede «nella mente del consumatore» .
Ora, se nel marketing “esterno” emerge la rilevanza di un rapporto con il cliente che tenga conto delle sue esigenze ed aspettative, simile discorso vale per il marketing c.d. “interno”, nella consapevolezza che la fidelizzazione dei lavoratori rappresenta, come si è detto, una leva fondamentale – anche – per una continua crescita di competitività, in quanto stimolo delle potenzialità del capitale umano e della sua affezione all’azienda. Da questo punto di vista, L’Employer Branding Process (EBP) diviene «una strategia di marketing finalizzata a creare un’immagine aziendale coerente con l’identità dell’impresa come employer (luogo di lavoro), in sintonia con il target di riferimento e ben distinta da quella dei competitors, attraverso la quale attrarre e fidelizzare le persone di talento» .
Alla base dello sviluppo di questa strategia, evidenziano gli studiosi, si pone un’accurata attività di recruitment e selezione dei candidati, rispetto ai quali verificare l’attitudine all’inserimento nella cultura organizzativa in termini di valori personali e/o skill , in modo da assicurare che l’allineamento con la vision aziendale faccia dei collaboratori i portatori, e sostenitori, all’esterno, del valore identitario dell’a-zienda .
L’interesse verso questa pratica selettiva è in notevole aumento sin dai primi anni 2000 , e moltissime imprese ormai considerano l’employer brand un vantaggio competitivo tramite l’individuazione delle migliori risorse che, orientate verso i valori dell’impresa, possano rappresentare fonte di ricchezza e innovazione per la stessa .
Se un brand forte ha la capacità di attivare l’immaginario collettivo, evocando all’esterno la reputazione stessa di una certa azienda, la sua corporate image diviene la sintesi di una serie di valori tra i quali spicca la gestione dei rapporti di lavoro, tale da determinare «... una condizione di best place to work … for the best people, rispetto a cui le persone migliori (best) sono quelle maggiormente allineate in termini di esigenze e aspettative dell’organizzazione» .
Rispetto alle aspettative dei lavoratori, il parametro per “misurarne” il grado di soddisfazione rispetto alla vita in azienda sarà determinato dall’employee value proposition (EVP), concetto che può sintetizzarsi nella «somma complessiva di tutto ciò che le persone vivono e ricevono nell’ambito del rapporto di lavoro con un’azienda: la soddisfazione intrinseca per il lavoro, l’ambiente, la leadership, i colleghi, la retribuzione e altro ancora. È quello che fa l’azienda per soddisfare i bisogni, le aspettative e anche i sogni dei collaboratori» . In uno scenario così attento alla persona che lavora, non manca peraltro l’interessante prospettiva di chi rinviene in tali dinamiche il rischio di nuove, diverse forme di subordinazione, evidenziando che, «mentre diminuiscono le forme di controllo diretto sulla prestazione, fino a generare la falsa impressione di un “tramonto della subordinazione” e di un’espansione dell’autonomia, crescono invece, e tendono a prevalere, le forme di controllo indiretto sui risultati, e perfino sull’adesione del dipendente a “valori” e “mission” aziendali, che virano nella direzione opposta, di una neo-subordinazione, la quale, se sotto il profilo dei contenuti sembra diversa da quella tradizionale, sotto il profilo giuridico resta facilmente – forse addirittura più facilmente – riconducibile alla tradizionale etero-direzione barassiana, consacrata dall’art. 2094 cod. civ.» .

4. La partecipazione tra ruolo del sindacato e relazione diretta tra impresa e lavoratori

Una riprova del fatto che la considerazione del welfare aziendale debba svincolarsi dalle mere dinamiche fiscali si rinviene nella circostanza, evidenziata anche nel Primo Rapporto Censis-Eudaimon in materia, che molte aziende hanno attivato dei piani di welfare ben prima delle recenti Leggi incentivanti di Stabilità. Tale scelta è ricollegata, da un lato, ad una «visione meno conflittuale del rapporto tra lavoratori e impresa e/o meno unilaterale dal punto di vista dei ruoli e della distribuzione del valore creato»; dall’altro, alla crescente importanza «del progressivo consenso verso culture aziendali improntate alla convergenza di interessi tra imprese e lavoratori» (mio il corsivo). Cresce, cioè, la consapevolezza che «solo la costruzione di una comunità di intenti può consentire di tenere il passo di una competizione che, se basata solo ed esclusivamente sulla pressione sui lavoratori, rischia di essere fragile e saltare alla prima occasione» . Invero, le esperienze italiane di partecipazione hanno avuto un’origine per lo più contrattuale, maturando nell’ambito di accordi aziendali conclusi principalmente in grandi imprese ; ad esse si accostano forme di coinvolgimento diretto di piccoli gruppi di lavoratori, da parte dell’azienda, per lo svolgimento di attività operative, «con maggiore o minore autonomia e possibili estensioni in ambito organizzativo (un esempio è la previsione di comitati stabili bilaterali)». Tuttavia, tali forme partecipative, «il cui potenziale di diffusione è testimoniato da non poche ricerche, presentano … elementi di ambivalenza, perché risentono del contesto in cui operano e della prevalente iniziativa manageriale. Per tali motivi esse tendono ad assumere connotazioni se non antisindacali, spesso tali da escludere la rilevanza dell’azione sindacale» : è, questo, un aspetto su cui le parti sociali devono lavorare assiduamente, ai fini di implementare il welfare aziendale in un’ottica di sereno, rispettoso e responsabile confronto. Le relazioni sindacali, a tutti i livelli, divengono immagine di quel processo, di cui si è detto, di arricchimento del sinallagma contrattuale, espressione di nuove istanze dei lavoratori, che, al di là del profilo economico, abbracciano «le dimensioni dello status e della crescita professionale, della partecipazione ai processi decisionali, del benessere organizzativo e più in generale della qualità della vita lavorativa e non» :
Senza addentrarsi, in questa sede, nella complessa tematica della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, da sempre «grande assente dal diritto sindacale e dal sistema di relazioni industriali italiani» , caratterizzato da una grande conflittualità, tuttavia si ritiene opportuno evidenziare alcuni punti connessi alla nostra tematica: sul fronte legislativo, le recenti Leggi di Stabilità hanno incentivato la partecipazione agli utili e l’azionariato dei dipendenti , prevedendo, da un lato, l’applicazione di un regime di tassazione agevolata (al 10%) anche per le somme erogate sotto forma di partecipazione agli utili dell’impresa, e, dall’altro lato, un regime di totale detassazione per il «valore delle azioni di cui all’articolo 51, comma 2, lettera g), del testo unico delle imposte sui redditi … anche se eccedente il limite indicato nel medesimo articolo 51, comma 2, lettera g), e indipendentemente dalle condizioni dallo stesso stabilite» .
Al di là del profilo – nuovamente – economico/fiscale, vengono fatti piccoli passi verso un coinvolgimento dei lavoratori (non a livello decisionale, ma) nell’organizzazione del lavoro: il comma 189 dell’art. 1 della Legge di Stabilità per il 2016 consentiva infatti, nelle due prime versioni della norma, l’aumento del limite massimo di importo del premio variabile cui applicare il regime fiscale agevolato nel caso di coinvolgimento paritetico dei lavoratori nell’organizzazione del lavoro. Tale ultima espressione è considerata «sufficientemente ampi[a] per comprendere gran parte delle questioni di interesse per la produttività e la qualità del lavoro in azienda nonché per la vita quotidiana dei lavoratori» ; tuttavia, la formulazione del comma 189 apre all’incertezza di confini non ben definiti, poiché «astrattamente … potrebbe ritenersi la riconducibilità all’organizzazione del lavoro di ogni aspetto che riguardi, anche in senso lato, il coordinamento dell’impiego dei prestatori di lavoro con gli altri fattori produttivi» .
La norma, peraltro, è stata lodata come «il più significativo risultato nel campo delle iniziative progettuali a sostegno del coinvolgimento paritetico delle parti che il nostro ordinamento abbia finora conosciuto» . Tale coinvolgimento implicherebbe una relazione diretta tra l’impresa ed i lavoratori coinvolti nel processo produttivo, distinta dalla relazione con il sindacato, che, comunque, resta un soggetto «pur sempre importante, perché la norma prevede che questo coinvolgimento paritetico dei lavoratori debba essere previsto dal contratto collettivo» . A tal riguardo, v’è chi sostiene peraltro che il comma 189 conterrebbe un «apparente paradosso del sostegno contrattuale alla partecipazione diretta dei lavoratori», poiché «da un lato si incentiva la [loro] partecipazione attraverso un rapporto diretto, non mediato dalla rappresentanza, nella gestione della organizzazione del lavoro con l’obiettivo di incremento della produttività; dall’altro, questo processo di individualizzazione nella gestione della prestazione di lavoro viene in qualche modo mediato e validato dalla contrattazione collettiva di secondo livello. Con un apparente ossimoro si incentiva, dunque, allo stesso tempo, mediazione sindacale e individualizzazione delle relazioni di lavoro» .
Sul versante della contrattazione collettiva, al di là dei dati che emergono dal menzionato Rapporto del Ministero del Lavoro sul deposito telematico dei contratti collettivi ai fini della detassazione del premio di risultato – che, alla data del 14 Settembre 2020, mostra come dei 12.939 contratti attivi solo 1.551 prevedono un piano di partecipazione, a fronte dei 7.616 che prevedono misure di welfare aziendale – non può non segnalarsi positivamente come il Patto della fabbrica, siglato il 9 marzo 2018, in cui Confindustria e le tre grandi Confederazioni sindacali si ripropongono di accompagnare i processi di innovazione che stanno investendo le realtà produttive italiane, indicano tra i pilastri portanti il welfare aziendale e la partecipazione dei lavoratori; la valorizzazione, nella frase di chiusura dell’accordo, di forme di partecipazione «nei processi di definizione degli indirizzi strategici dell’impresa» (v. il par. 6, lett. e), appare esplosivo nelle potenzialità del suo significato, poiché «costituisce il preludio per l’apertura di una breccia … nel muro del tradizionale ostracismo delle parti sociali al tema della partecipazione “istituzionale”» .
Ora, è evidente che nel nostro Paese sia difficilmente ipotizzabile la diffusione di sistemi di partecipazione alla governance aziendale alla stregua del modello tedesco; pur tuttavia, l’apertura di spazi partecipativi «risponde … a bisogni profondi di valorizzazione del lavoro e di autorealizzazione dei lavoratori» e «introduce elementi di responsabilizzazione sociale dell’impresa e di trasparenza dei suoi comportamenti: elementi tanto più importanti nell’attuale contesto globale di forti turbolenze economiche e finanziarie» .

5. Le sfide del welfare aziendale, tra criticità e promozione della qualità del lavoro

Il welfare aziendale, lo si è detto, è un fenomeno che conta numeri sempre maggiori e si aggiudica risultati sicuramente positivi : il 66,1% dei lavoratori che beneficiano di misure di welfare aziendale ritiene che esso stia contribuendo a migliorare la propria qualità della vita; tra questi, l’89,5% è rappresentato da dirigenti e direttivi, il 60% da impiegati, e il 78,8% di operai ed esecutivi . Pur tuttavia, la fidelizzazione di tipo promozionale ha ancora molta strada da fare: se è vero che le tecniche “vincolistiche” di cui si è detto sono in grado di intervenire in maniera incisiva negli equilibri della dimensione individuale del rapporto di lavoro, a vantaggio, di regola, del datore, cui fa da contraltare una giurisprudenza che tenta di individuare quel corretto bilanciamento di interessi che consenta di considerare legittime le singole pattuizioni negoziali, nel welfare aziendale – in particolare, quello contrattuale – la soddisfazione delle aspettative dei lavoratori dipende da fattori endogeni ed incerti, tra i quali spiccano la forza del sindacato al tavolo delle trattative e le effettive possibilità/capacità della singola azienda di predisporre adeguati piani di welfare sulla base di una corretta mappatura delle esigenze dei dipendenti .
Nelle realtà più virtuose, gli imprenditori «considerano le responsabilità sociali e gli obiettivi di business come reciprocamente funzionali: l’azienda cresce in modo sostenibile e migliora le proprie performance anche grazie alla propria capacità di occuparsi delle esigenze dei lavoratori e di gestire le relazioni con l’ambiente in cui opera». In questi casi il welfare aziendale «è una strategia dell’impresa, non è rubricato sotto la voce “amministrazione del personale”, e gli imprenditori e i manager che dirigono l’azienda se ne occupano direttamente» . Una proficua implementazione del welfare in azienda, volta a garantirsi la c.d. allegiance dei dipendenti – ovvero una vera e propria loyalty, incardinata nella consapevole volontà di tessere un rapporto duraturo – è operazione lunga e complessa, che non può non tener conto della conformazione «strutturale e sociale» dell’occupazione, in un mercato del lavoro assolutamente “territoriale”, in cui il Mezzogiorno resta il fanalino di coda , e caratterizzato da un numero sempre crescente di lavoratori “non standard”, assunti con tipologie contrattuali flessibili, e da un aumento dei lavoratori part-time rispetto agli assunti a tempo pieno ; da un aumento dei lavoratori ultra cinquantacinquenni rispetto ai più giovani , molti dei quali, peraltro, si ritrovano impiegati in mansioni inferiori al proprio titolo di studio, con il rischio di una «disaffezione e frustrazione nei confronti del proprio lavoro» e più basse prospettive di reddito ; da una prevalenza di donne, soprattutto nel settore del terziario ; infine, dall’incremento di nuove «forme familiari», in particolare single e genitori soli .
Diventa dunque essenziale studiare la compagine aziendale, per offrire soluzioni il più possibile personalizzate, rispondenti ad aspirazioni, e necessità, diversificate, espressione di una sinergia tra le parti del rapporto, e non mero “palliativo” dal sapore paternalista.
Per far ciò, è fondamentale instaurare un circuito virtuoso tra conoscenza e comunicazione del welfare aziendale, aspetto che presenta tutt’oggi nodi problematici: molti cittadini, tra cui lavoratori, ignorano il fenomeno, o non ne hanno, in ogni caso, una conoscenza adeguata: il Primo Rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale, più volte menzionato, parlava a tal proposito di vere e proprie «cavità informative» o «nella migliore delle ipotesi … [di] informazione incompleta o confusa» ; un dato, questo, che non sembra migliorare in maniera decisiva nei due Rapporti successivi, rivelando invece un andamento alquanto discontinuo e, complessivamente, non particolarmente positivo: suddividendo i lavoratori in tre gruppi – quelli che hanno una precisa cognizione del fenomeno, quelli che lo conoscono a grandi linee, e quelli che lo ignorano del tutto – il trend degli anni 2107-2018-2019 risulta il seguente: per il primo gruppo, si passa dal 17,9% al 17,6% al 22,9%; per il secondo, dal 58,5% al 41,4% al 41,3%; relativamente, infine, all’ultimo gruppo, si va dal 23,6% al 40,9% al 35,8% .
Del resto, sono le stesse aziende, che dovrebbero “comunicare” il welfare ai propri dipendenti, a non essere, spesso, perfettamente consapevoli del fenomeno e delle sue implicazioni positive: il Rapporto Welfare Index PMI – che, lo si ricorda, ha coinvolto, nella ricerca, oltre 4.500 piccole e medie imprese in tutti i settori produttivi, in un arco temporale che va dal 2016 al 2019 – mostra, ad esempio, a fronte di un “balzo in avanti” delle stesse, con un incremento percentuale delle imprese «molto attive» nel welfare aziendale dal 7,2% al 19,6% , come il 54% delle pmi non sia ancora realmente consapevole dei vantaggi del welfare aziendale: un limite, questo, che si traduce spesso in «iniziative sporadiche e poco rilevanti che non aiutano gli stessi lavoratori a preferire e chiedere premi di produttività in ambiti socio-economici importanti (salute, previdenza, conciliazione vita- lavoro, servizi di assistenza, sostegno all’istruzione dei figli etc.) anziché in denaro (per di più soggetto a tassazione)» .
Emerge dunque chiaramente la necessità di ripensare la comunicazione in materia di welfare aziendale, sia “dall’alto”, a livello di campagne mediatiche pubbliche, che rispetto alle singole imprese . Una volta colmato il gap conoscitivo a livello aziendale, diviene poi fondamentale, ai fini della corretta pianificazione del welfare, generare un flusso comunicativo efficace nei confronti dei dipendenti, dal momento che «le persone che hanno una più alta e precisa conoscenza del welfare aziendale sono anche le più favorevoli e quelle che più ne interpretano le potenzialità positive» , con evidenti ricadute, come si è anticipato, anche in termini di fidelizzazione ; ancora una volta, le più recenti indagini statistiche ci offrono dati non confortanti: sempre il Rapporto Welfare Index PMI evidenzia – relativamente alle misure di welfare aziendale previste nei Ccnl – una comunicazione «sistematica e completa solamente nel 29,6% dei casi, del tutto assente nel 41,5%» ; un dato, questo, che ben si comprende alla luce della maggior difficoltà, per le aziende più piccole, di dotarsi di strutture e competenze dedicate.
Ma non è solo questo il punto: la distinzione dimensionale tra le imprese incide su contenuto e sostenibilità dei servizi di welfare aziendale, e ancora le imprese “micro”, con un massimo di 9 lavoratori, e “piccole”, che ne hanno tra 10 e 50, sono quelle dominanti, nel panorama nazionale, e quelle che hanno superato la «selezione feroce indotta dalla competizione nella crisi» hanno difficoltà ad affrontare le continue sfide che il mercato presenta . A ciò si aggiunga la circostanza che il welfare aziendale non riesce a smarcarsi da un accentuato territorialismo – che segue quello occupazionale – e settorialismo, come dimostrano i dati del Ministero del Lavoro sul deposito dei contratti collettivi aziendali e territoriali aventi ad oggetto la detassazione del premio di produttività, che incasellano il fenomeno con una netta prevalenza al Nord e nel settore dei servizi .
La conseguenza più evidente è che la consistenza numerica – insieme alla dislocazione territoriale –dell’impresa incide sul divario tra insider e outsider, separando i lavoratori più fortunati da quelli che lo sono decisamente meno; una situazione, questa, che si perpetua anche nella classica distinzione tra lavoratori subordinati e “tutti gli altri” .
Si tratta di situazioni che dovrebbero essere prese seriamente in considerazione dai poteri centrali, al fine di incentivare, non solo con detrazioni fiscali, ma con un sostegno economico mirato, le realtà aziendali che si trovano in maggiore difficoltà. Emerge, peraltro, sempre più, l’esigenza che il welfare aziendale si trasformi, al di là di esperienze sporadiche , da «fenomeno frammentato e puntiforme, in cui ogni azienda è protagonista autonoma della trasformazione» a fattore propulsivo di sviluppo di specifiche realtà territoriali, grazie ad una proficua collaborazione tra pubblico e privato, in un coinvolgimento che «deve creare valore non solo in azienda ma anche per e nel territorio nel quale l’azienda è inserita» .
In questo senso, il welfare aziendale «ha notoriamente la capacità di generare esternalità positive per il territorio attraverso il sostegno alla domanda di servizi che non possono che essere locali, ossia erogati dove le persone e le famiglie vivono e lavorano e può giungere, nei casi più evoluti, sino ad offrire esso stesso servizi dei quali l’intera comunità può beneficiare … esprimendo appieno la sua funzione integrativa rispetto all’offerta di welfare pubblico disponibile» .
La combinazione tra contratti di rete e contrattazione collettiva territoriale diviene dunque elemento sinergico di un welfare aziendale in cui la – quantomeno parziale – “retrocessione” dell’attore pubblico a favore di quello privato si trasforma in una rinnovata responsabilizzazione del primo, chiamato a divenire partner di piani ispirati a logiche di condivisione . Non può infatti sottacersi il rischio, in una dimensione del fenomeno alla stregua di “secondo welfare”, di «un incastro opportunistico tra primo e secondo welfare», nel senso che il secondo potrebbe assumere «soltanto un significato simbolico e non sistemico e finirebbe per deresponsabilizzare gli interventi di riforma e attenuare le pratiche di efficientizzazione del primo welfare» .
D’altra parte, come si è detto, tale prospettiva finisce inevitabilmente con lo svilire la portata del welfare aziendale, che va piuttosto letto come una vera e propria rivoluzione copernicana del “modo” di rapportarsi alla forza-lavoro: l’autonomia negoziale, tanto individuale quanto (ancor più) collettiva, può cogliere le sfide della stagione attuale del diritto del lavoro percorrendo diverse strade che si innestano in un ventaglio di opportunità offerte da quello stesso ordinamento che con le recenti riforme “toglie” (garanzie) al lavoratore, facendosi per altro verso portatore, in uno strano gioco di (dis)equilibri, di istanze sociali divenute, negli anni, sempre più variegate; tra i possibili percorsi, vi è certamente quello relativo alla detassazione e “welfarizzazione” dei premi di produttività , mediante la possibilità di convertire questi ultimi, in tutto o in parte, nei beni e servizi indicati dal Tuir. Tuttavia, rivolgere lo sguardo alle sole dinamiche fiscali/retributive non porta lontano: infatti, da questo punto di vista, il welfare aziendale costituirebbe «soltanto un intervento sul costo del lavoro e di rimodulazione delle voci retributive; oggetto quindi di interesse dei tributaristi e al massimo di consulenti del lavoro. Un problema alquanto delimitato, e denso di tecnicalità, limitato alla retribuzione come obbligazione corrispettiva piuttosto che come retribuzione sociale» . Non solo; l’attenzione prevalentemente concentrata sul premio di risultato è in qualche modo in contraddizione con l’essenza stessa del welfare aziendale: in quanto emolumento aggiuntivo ed eventuale, esso è «per sua natura aleatorio e incerto. Tutto il contrario dei bisogni a cui il welfare dovrebbe rispondere: concreti, duraturi nel tempo, certi nella loro necessità di spesa. Proprio per questo, la possibilità di convertire in welfare una parte o tutto il premio di risultato è sicuramente un’opportunità per le imprese … ma non può che essere una componente di un impegno aziendale in tema di welfare più ampio e articolato» .
Del resto, come si è detto in premessa, proprio il richiamo alla fidelizzazione, nonché la stessa realtà del mercato del lavoro, sono la prova evidente del fatto che le istanze dei dipendenti abbracciano sempre più – accanto ai classici pilastri della previdenza e assistenza integrativa – profili la cui forza prorompente va ben oltre l’alveo economico-fiscale: basti pensare all’enorme rilievo assunto dalla disciplina del lavoro agile (anche) nell’era del Covid-19, alla stregua di fondamentale strumento di tutela della salute del lavoratore, e sempre più sdoganato dalla sua “appartenenza” pressoché esclusiva al mondo femminile e genitoriale, ma diffuso e ricercato tra i giovani ed i Millennials, per i quali «il peggioramento dell’orario e l’intensificazione del lavoro sono un cruccio» . Oggi lo smart work «è un altro aspetto che rinvia ad una concezione più estesa di benessere e che quindi richiama anche una idea più ampia, contemporanea di welfare aziendale. Non solo rispondere ai bisogni sociali basic, dalla salute alla vecchiaia, ma fare anche promozione e costruzione quasi preventiva di benessere, con una organizzazione dell’orario di lavoro e di luoghi di lavoro (non ultima la propria abitazione) che allentano la pressione di un lavoro che comunque si è andato intensificando» .
Appare dunque quanto mai necessario, in questo periodo storico così difficile per tutti, «allargare i confini e i contenuti del welfare aziendale a partire da un suo ripensamento che allontani i rischi di una deriva dei flexible benefit» anche come «antidoto concreto all’incertezza diffusa» : i dati più recenti presentati nel Terzo Rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale mostrano infatti come l’Industria 4.0 veda contrapporsi al «tecnoentusiasmo» delle aziende – convinte, in maggioranza, che la rivoluzione tecnologica migliorerà la qualità della vita e del lavoro per tutti – la «tecnopaura» dei lavoratori, soprattutto di quelli che si trovano più in basso, nella scala gerarchica, «legata presumibilmente alla loro esposizione, più di dirigenti e intermedi, ai cambiamenti innescati dalla robotica e dell’automazione dei processi produttivi i cui potenziali impatti negativi sono generalmente più temuti rispetto a quelli legati alla introduzione nel lavoro di strumenti digitali» .
Il percorso evolutivo del welfare aziendale è di certo non semplice, né scontato: esso vive ancora la perenne contraddizione tra l’essere un fenomeno indefinibile, giuridicamente , e il vivere “all’ombra” di dinamiche fiscali che sembrerebbero invece volerne definire i confini. L’accostamento con la fidelizzazione è uno degli elementi-chiave che consentono di guardare ad esso sotto una luce diversa, smarcandolo dalla mera funzione di “secondo” welfare, e valorizzandolo piuttosto nell’ottica di un necessario «riconoscimento reciproco» tra le parti: solo così esso può realmente essere la «cartina di tornasole di un cambiamento di natura strutturale del modo di organizzarsi dell’impresa» , nel quale la persona che lavora diventa essa stessa attore e protagonista del progetto da realizzare – anche – mediante un responsabile e sereno confronto sindacale , in una dimensione contrattuale in cui il benessere, nell’ampia accezione di cui si è detto, assurge a componente del sinallagma non meno importante della retribuzione, tassello imprescindibile per la costruzione di un percorso duraturo e proficuo basato sull’ascolto e la condivisione di obiettivi.
Solo, dunque, una genuina e seria cultura del welfare aziendale rappresenterà ancor di più, nella lenta ripresa dall’emergenza Covid , l’elemento dirimente tra le aziende cc.dd. «free riding» e le aziende «sharing value», ovvero tra quanti hanno «“fatto” WA avendo in mente innanzitutto (o esclusivamente) l’immagine dell’azienda o, più spesso, la possibilità di alleggerire un po’ i costi relativi alla parte variabile dello stipendio» e quanti «hanno saputo abbracciare da tempo la cultura del “valore condiviso” tra azienda, lavoratori e altri stakeholder, applicandola alle logiche interne di HR management e a serie politiche di people care integrate nelle strategie aziendali» : in questo senso, lo sviluppo del welfare integrativo, da parte dell’impresa, diviene «uno degli indicatori più concreti della sua responsabilità sociale» , strumento, fra l’altro, della «legittimità e [del] valore dell’azione imprenditoriale nei confronti degli azionisti, sia del più vasto ambito degli stakeholders» .

 

 

 

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