Testo integrale con note e bibliografia

Premessa

A modo di preliminare, mi preme rilevare che il mondo cooperativistico, erede di una lunga storia di solidarietà creativa, rappresenta una voce significativa nel vasto concerto di attori economico-sociali che, in una prospettiva ‒ ci si augura ‒ di aperta concertazione con le forze istituzionali, dovranno essere chiamati in causa per l’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Si tratta, d’altra parte, di una realtà viva nel tessuto dell’economia e della società, con attenzione specifica a settori operativi e d’intervento (Lavoro, Sanità, Ambiente, servizi di Cura, realtà Socio-educative…) al centro dell’attenzione dello stesso Pnrr. Per questo, il settore delle cooperative nutre il convincimento di poter dare il proprio contributo al grande Piano di ripresa del paese, pur nella consapevolezza di dovere attuare, esso per primo, al proprio interno quei processi di rinnovamento organizzativo e tecnologico (incominciando dall’incremento della digitalizzazione) indispensabili per reggere le sfide presenti e future.
Ciò detto, vediamo di entrare nella vasta realtà cooperativistica, ponendo in luce linee d’impegno e realizzazioni attuate, sempre in ossequio al principio solidaristico, che di tale realtà rappresenta cifra costitutiva.

Organizzare la solidarietà in forma d’impresa

L’economia sociale è sempre più riconosciuta a livello internazionale come attore economico rilevante, in grado di esprimere la capacità trasformativa della società civile organizzata e, in essa, di consolidare la dimensione imprenditoriale, nonché la propensione alla generazione di valori economici e alla produzione di servizi da parte delle organizzazioni cooperativistiche.
Basti pensare alla riforma del Terzo settore e dell’Impresa sociale, ancorché incompleta per alcuni aspetti, realizzata in Italia. Ma sono molti gli Stati che hanno adottato provvedimenti giuridico-legislativi che riconoscono le finalità e le funzioni d’interesse generale delle organizzazioni espressioni dell’economia sociale. A questo proposito, un’interessante analisi comparativa è disponibile in un testo pubblicato dalla Confederazione europea delle Cooperative di Produzione e Servizi, curato da Antonio Fici , già autore nel 2017 di una ricerca, per conto del Parlamento europeo, in cui si approfondiva la nozione giuridica di imprese dell’economia sociale .
Anche la Commissione europea da molti anni riconosce il ruolo e l’importanza delle organizzazioni dell’economia sociale, in particolare per la loro capacità di promuovere innovazione sociale e di creare significative occasioni di lavoro; a ciò si è aggiunto recentemente l’interesse per il ruolo che tali imprese possono svolgere, onde favorire investimenti a impatto socio-ambientale positivo, atte a creare uno sviluppo economico sostenibile e inclusivo . Un interesse che dovrebbe concretizzarsi in uno specifico Piano d’Azione per l’Economia Sociale annunciato dalla Commissione europea per il prossimo autunno 2021.
È questo, dunque, un tempo favorevole per incrementare il livello e la qualità del riconoscimento dell’economia sociale, utile per una piena accessibilità ai mercati, in particolare a quello di capitali, che dimostra un interesse crescente verso gli investimenti a impatto sociale.
Ma è importante che si consolidi il riconoscimento del fatto che sono le persone e le comunità locali il cuore propulsivo dell’economia sociale; non, quindi, il capitale o il profitto o l’accumulazione come fine, bensì la creazione di valore generativo e condiviso. Un valore con una specificità non trascurabile, visto che le organizzazioni dell’economia sociale nell’Ue generano fino all’8% del Pil europeo . Si tratta per altro di un Pil “pregiato” sia per qualità e persistenza dei servizi realizzati in favore dei cittadini sia per la quantità e la qualità dei posti di lavoro creati e mantenuti anche durante i mesi di pandemia, con esempi straordinari d’impegno e solidarietà.
Questa funzione centrale nella creazione e nel mantenimento dell’occupazione si esprime con oltre 13,6 milioni di posti di lavoro retribuiti in Europa, pari a circa il 6,3% della popolazione attiva dell’Ue. Un patrimonio d’impegno sociale e civile, oltre che economico, che alimenta anche un tessuto di partecipazione diffusa con i suoi 232 milioni di soci di cooperative e mutue. Complessivamente 2,8 milioni d’imprese e organizzazioni costituiscono, in Europa, una forza economico-produttiva pulsante, con decisa propensione all’innovazione sociale.
Le cooperative, dimostrando che il lavoro si crea dal lavoro, rovesciano la mitologia dell’economia finanziarizzata del denaro creato dal denaro.
Oltre alla tipica governance partecipativa democratica, l’esperienza cooperativistica ha fatto registrare una considerevole capacità di resistere agli shock, dimostrata da recenti ricerche sulla resilienza delle imprese cooperative nei contesti di crisi.
Molto significativa, poi, per l’economia sociale, è l’ampia presenza di lavoratrici, che in vari casi arriva a superare il 70% della forza lavoro (in generale, si attesta su percentuali superiori al 50%).

Innovazione sociale e sostenibilità

L’economia sociale è in particolare l’espressione di organizzazioni che sanno interpretare e accompagnare i cambiamenti della società senza perdere di vista la dimensione solidale, indispensabile per fare in modo che lo sviluppo sia inclusivo e mobiliti la partecipazione attiva delle comunità locali, come dimostrano gli oltre 82,8 milioni di volontari nelle organizzazioni di questo settore.
Frequentemente le imprese in tal senso coinvolte sono il principale gestore di servizi essenziali per la popolazione: servizi educativi, socio-sanitari, assistenziali, di formazione e inserimento lavorativo per persone svantaggiate. Molto rilevante anche il ruolo da esse svolto per favorire l’integrazione di lavoratori migranti, di rifugiati e richiedenti asilo nei paesi dell’Unione europea . In parecchi casi i servizi sono realizzati con la partecipazione diretta degli stessi destinatari e hanno un radicamento territoriale che è parte stessa della missione svolta.
Molte imprese dell’economia sociale stanno sviluppando nuova occupazione e iniziative d’innovazione anche nel contesto della green economy per uno sviluppo sostenibile. Così come sono in crescita le esperienze di economia circolare, fattori di nuova occupazione nel settore del riuso o dell’agricoltura sociale in aree rurali .
Nell’ambito di questi servizi le cooperative sono una delle forme organizzate di economia sociale più diffuse. Seguono un modello di business specifico, basato su sette princìpi: adesione volontaria e aperta; controllo democratico dei membri; partecipazione economica degli stessi; autonomia e indipendenza; istruzione, formazione e informazione; cooperazione tra i membri; interesse per la comunità.
Tra le diverse tipologie cooperativistiche, in quelle particolarmente dedicate alla promozione dello sviluppo locale cooperative di lavoro troviamo: cooperative sociali (una forma nata in Italia negli anni ’80, con 350.000 addetti, e da allora introdotta in Polonia, Portogallo, Spagna); cooperative collettive e d’interesse comunitario (presenti, oltre che da noi, in Francia e nel Regno Unito).
Date le loro caratteristiche, le cooperative rappresentano un modello economico particolarmente interessante per le zone rurali. Quelle di agricoltori sono note per il ruolo trainante nello sviluppo delle attività legate a quei contesti. Stanno anche dimostrando sempre più la loro capacità di fornire soluzioni digitali innovative a sfide specifiche poste dall’agricoltura “di precisione”. Oltre alle cooperative agricole, altre imprese cooperativistiche, riguardanti, ad esempio, i settori della mobilità, del benessere, del turismo e della cultura, aiutano a promuovere lo sviluppo locale, creando, mantenendo o migliorando i servizi e concorrendo a ridurre il fenomeno dell’emigrazione giovanile dai territori decentrati. Tutto questo con un sempre maggiore ricorso anche all’impiego di tecnologie digitali.
Nella nostra esperienza, il ruolo delle cooperative si sta rivelando particolarmente importante in quattro campi: sanità; istruzione, specialmente per adulti, in un’ottica di formazione permanente e programmi di sviluppo del senso di comunità; mobilità; accesso alle infrastrutture digitali, come strumenti ormai indispensabili per i contatti con i vari servizi.

Transizione digitale

Nel processo di rapida trasformazione delle imprese, il ruolo della digitalizzazione ha assunto una funzione strategica fondamentale, tanto da essere pervasiva di tutti i settori di attività, arrivando a interessare l’intero ciclo della catena del valore di prodotti e servizi, coinvolgendo sia le grandi imprese sia le piccole e le micro.
In questo contesto, un ruolo sempre più rilevante viene assunto dalle “piattaforme digitali” che stanno ridefinendo le infrastrutture di erogazione di servizi, di commercializzazione e di produzione, creando le condizioni per “industrializzare” processi produttivi decentralizzati che possono consentire di fare produzioni di massa anche a piccolissime imprese o singoli professionisti, così come di personalizzare le grandi produzioni in una sorta di “individualizzazione” di massa che sta portando cambiamenti profondi nell’organizzazione del lavoro. Le piattaforme, quindi, non sono una mera struttura di mediazione e incontro, ma ridefiniscono un vero e proprio contesto o spazio sociale con rilevanti effetti economici, relazionali e giuridici.
Particolarmente interessante è il ruolo che le cooperative di lavoro possono svolgere per rendere più inclusive le nuove forme d’imprenditorialità realizzate mediante le piattaforme digitali ; questo, al fine di rendere più sostenibile e condivisa la partecipazione di lavoratori e utilizzatori, per sviluppare nuove forme di mutualità e di solidarietà, mediante tecnologie digitali, capaci di favorire una partecipazione diffusa oppure per dare maggiore protezione a lavoratori autonomi in settori come quelli della produzione culturale e artistica o delle attività legate all’indotto delle filiere dell’economia digitale.
Le forti e rapide trasformazioni che si accompagnano alla digitalizzazione dell’economia e della vita sociale comportano nuove esigenze di flessibilità e velocità di adattamento; ciò, in taluni casi, porta a nuove forme di frammentazione e parcellizzazione del lavoro, come processo non solo scomposto in fasi (secondo le classiche catene di montaggio), ma anche in termini spaziali e temporali, che disarticolano spesso la stessa distinzione tra tempi di lavoro e tempi di vita delle persone coinvolte in alcune fasi di questi processi. È noto ormai il fenomeno dei lavoratori del settore delle consegne o della mobilità urbana – fattorini e autisti – che rappresentano la forma più visibile di quella che qualcuno definisce come “uberizzazione” del lavoro.
Autisti e ciclo-fattorini, tuttavia, sono solo una parte di un fenomeno molto più ampio e complesso, che spesso riguarda anche professioni qualificate, cui vengono affidate parti del processo produttivo, mediante contratti di “libera professione”. Pensiamo, ad esempio, al mondo dei programmatori informatici, degli analisti di dati e degli sviluppatori di applicazioni, ai moderatori di contenuti dei social network, oppure ai fornitori di servizi ausiliari sempre più decentralizzati. Questo ha sicuramente il vantaggio di una grande flessibilità, ma implica una notevole dispersione di competenze e molta discontinuità.
Anche la pandemia, con l’ampio e diffuso utilizzo del telelavoro, sta costringendo a ripensare le forme di organizzazione del lavoro a distanza o in un ambiente digitale. A tale proposito, l’esperienza lavorativa in forma cooperativa può offrire suggerimenti importanti per la gestione dignitosa, flessibile e responsabilizzante sia del lavoro a distanza e dello smart working sia della regolazione della dinamica tra vita lavorativa e vita familiare.
Spesso i lavoratori delle piattaforme sono stati considerati come autonomi; tuttavia, vi sono molte contraddizioni in questi approcci, di conseguenza in parecchi casi e in diversi paesi europei si è dovuto ricorrere al giudizio dei tribunali. Appare però evidente che un fenomeno in così rapida trasformazione non può essere regolato per via giudiziaria e attraverso i contenziosi, ma richiede soluzioni specifiche in grado d’interpretare adeguatamente i profondi cambiamenti in corso.
Nell’ambito delle piattaforme digitali, un ruolo distintivo sembra emergere da quelle organizzate in forma cooperativa, che stanno dando vita a un fenomeno di “cooperativismo di piattaforma”, per altro, dai contenuti ancora in via di definizione. Il fatto che una “cooperativa di piattaforma” possa essere un’azienda costituita in forma mutualistica e governata democraticamente (grazie a un’infrastruttura informatica che interfaccia diversi dispositivi, fissi e mobili, organizza la produzione e lo scambio di beni e servizi) può aprire potenzialità importanti per rispondere alle esigenze di trasformazione del mercato del lavoro senza rinunciare alla tutela della dignità dei lavoratori.
Le trasformazioni in atto chiedono alle organizzazioni dell’economia sociale di saper essere agenti attivi per ricomporre le divaricazioni che rendono sempre più diseguali le società europee, soprattutto grazie alla funzione di ridistribuzione di potere ai cittadini e alle comunità locali. Per assumere tale funzione, è necessario che le cooperative ‒ espressione, in questo contesto, dell’economia sociale forse meglio attrezzata ‒ acquisiscano competenze in grado di sfruttare il potenziale delle tecnologie digitali, dotate di grandi possibilità per favorire forme di partecipazione collettiva accessibile, decentralizzata e trasparente.
Dinanzi a simile sfida, le cooperative devono impegnarsi nella formazione e informazione dei propri soci e lavoratori, con adeguati investimenti finalizzati alla via cooperativa per la trasformazione digitale; diversamente, il rischio è quello di “adattare” organizzazioni e lavoratori a un uso semplicemente strumentale delle nuove tecnologie. Infatti, non si tratta solo di “informatizzare” il lavoro, ma di trasformare radicalmente la cultura e l’organizzazione del lavoro stesso, per assumere un modo di pensare “digitale”, così da attingere e gestire, secondo le modalità tipiche dell’economia sociale, il propellente principale della trasformazione digitale. Ovvero i dati!
Acquisire, trattare e scambiare i dati diventa allora strategico. Per questo dobbiamo saper cogliere l’opportunità offerta dalla recente iniziativa della Commissione europea sulla governance dei dati (Data Governance ACT) , che cita espressamente le “cooperative di dati”, così come le organizzazioni non lucrative per una gestione “altruistica” dei dati stessi: si tratta, dunque, di una pista di lavoro considerevole per le organizzazioni dell’economia sociale, chiamate a proseguire nell’opera di democratizzazione dell’economia digitale.

Sviluppo sostenibile, diseguaglianze, persona

L’impressionante crescita delle diseguaglianze negli ultimi decenni è ulteriormente accelerata dalla digitalizzazione dell’economia e dal cosiddetto «capitalismo di sorveglianza» di cui le piattaforme della gig economy sono la rappresentazione più ampia. Si tratta di contesti nei quali l’individualizzazione di massa provoca quella perdita di «unità della personalità umana» che già a metà del secolo scorso l’economista Wilhelm Röpke definiva come una pericolosa deriva fatta di frantumazione dell’esperienza lavorativa, alla quale chiedeva di rispondere con un’«umanizzazione dell’economia» entro un ecosistema sostenibile, dove la partecipazione anche alle scelte strategiche delle imprese diventava parte stessa di un modello di sviluppo sostenibile e inclusivo.
Temi che papa Francesco ha proposto con forza nelle encicliche Laudato si’ e Fratelli tutti. Prima di lui, Benedetto XVI vi si era soffermato con altrettanta chiarezza nella Caritas in veritate e, risalendo indietro nel tempo, si può giungere alla Populorum progressio (1967) di Paolo VI. In essa, il papa bresciano richiamava la necessità di uno «sviluppo integrale dell’uomo». Così, infatti, scriveva: «Economia e tecnica non hanno senso che in rapporto all’uomo ch’esse devono servire. E l’uomo non è veramente uomo che nella misura in cui, padrone delle proprie azioni e giudice del loro valore, diventa egli stesso autore del proprio progresso, in conformità con la natura che gli ha dato il suo Creatore e di cui egli assume liberamente le possibilità e le esigenze».
Le parole di Paolo VI anticipavano di vent’anni il rapporto Brundtland (1987) che ha formalizzato il concetto di sostenibilità, tornato in auge negli ultimi anni con gli obiettivi per lo sviluppo sostenibile (SDGs, Sustainable Development Goals) delle Nazioni Unite e con il New Green Deal europeo lanciato dalla presidente Ursula von der Leyen.
Orbene, con analoga tensione morale andrebbero impegnate le straordinarie risorse economiche messe a disposizione dal programma Next Generation EU che danno in particolare all’Italia un’occasione irripetibile per mettere in atto riforme idonee a farla evolvere dalla piega “estrattiva”, che troppe componenti dell’economia e della politica hanno dato alle attività d’impresa e a quelle amministrativo-burocratiche, allo sviluppo della funzione “generativa” propria del lavoro e dell’economia.
In questa direzione le cooperative e le organizzazioni del Terzo settore devono essere una forza di trasformazione, con un progetto di società opposto a un modello economico fondato sulle diseguaglianze. Serve tornare a essere “organizzazioni di proposta”: leali verso una visione economica a servizio delle persone, attivi nell’organizzare la solidarietà per abbattere le barriere che si frappongono alla piena partecipazione dei cittadini e delle comunità locali a un mercato che, lungi dall’essere guidato da una “mano invisibile”, sia piuttosto ispirato da genuina sensibilità etica e democratica.

 

 

 

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