testo integrale con note e bibliografia

1.- Prima di addentrarmi nello specifico argomento della “sicurezza negli appalti” – su cui sono intervenuto nel libro dedicato ad Aldo De Matteis – non posso resistere alla mozione degli affetti, che per me risponde ad un imperativo morale di riconoscenza, che devo tributare ad Aldo con il massimo della sincerità.

Non so se posso considerami un suo allievo o un degno erede, ma è comunque ad Aldo che devo la trasmissione della passione per questa materia della tutela del lavoratore nel sistema della assicurazione obbligatoria INAIL.
Una materia per la verità, non scevra da tecnicismi ed inconvenienti; primo fra tutti quello selettivo-assicurativo, di cui da più parti si auspica un superamento nella direzione di una più completa visione universalistica, che manca nell’attuale modello che presenta molti buchi (soggettivi ed oggettivi); tanto da stridere - io credo - con il principio predicato dall’art.35 della Cost della “tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”; ma anche con ulteriori principi costituzionali, se è vero che il fondamento della tutela assicurativa ex art 38 della Cost, deve essere ricercato nella protezione del bisogno del lavoratore, considerato come persona; e non tanto nel rischio dell’infortunio.
La tutela sociale cioè guarda all’infortunio dopo che si è verificato - come evento generatore di bisogno tutelato - e proprio per questo non dovrebbe tollerare discriminazioni (né oggettive e tanto meno in chiave soggettiva).

Aldo De Matteis è stato un punto di riferimento, non solo per me ma per tanti; cosa dice “il De Matteis” ed il suo manuale credo sia divenuta per tutti una tappa obbligata nel percorso da attraversare per una soluzione argomentata dei problemi della tutela INAIL.

2.- Anche alcune delle pronunce di legittimità a cui sono più legato come estensore tengono conto ovviamente degli studi di Aldo de Matteis, oltre che delle sentenze da lui firmate.

Penso, ad es. per quanto attiene l’allargamento del versante soggettivo della tutela assicurativa sociale, al caso del lavoratore sindacalista di cui ci siamo occupati con la sentenza n. 13882/2016, che voglio ricordare qui perché sul tema intervenni nel 2016 in un convegno che si tenne proprio nell’aula magna della Cassazione su invito di Aldo de Matteis. E c’era pure il presidente Mammone che parlava proprio della prescrizione della malattia professionale.

Il fatto riguardava un operaio con mansioni di conduttore di mezzi meccanici, nei lavori di costruzione della galleria della linea direttissima dell’alta velocità nella tratta ferroviaria Firenze-Bologna; e che alloggiava nel cantiere lungo la ferrovia in costruzione, nei locali predisposti per gli operai dal datore di lavoro; egli era inoltre membro del Consiglio direttivo della FILCA CISL e dirigente della RSU di cantiere; l’operaio si era quindi recato dal cantiere di Firenze a Bologna, in permesso sindacale, per partecipare ad una riunione sindacale in materia di sicurezza sul lavoro promossa dalla società datrice presso la propria sede. E nel viaggio di ritorno subì un grave incidente in galleria tra la variante di valico Bologna-Firenze con una invalidità di oltre il 50%. La Corte di appello di Catanzaro, riformando la sentenza del tribunale di Crotone, gli negò la tutela INAIL sposando la tesi - all’epoca maggioritaria - secondo cui il lavoratore sindacalista poteva essere tutelato solo se in aspettativa e non in permesso sindacale, e cioè soltanto se si trattasse di un sindacalista di organismi territoriali o nazionali e non di organismi interni all’azienda (nell’ambito della quale pure condivideva i rischi).
Una distinzione che abbiamo ritenuto di superare perché (considerata anche la rilevanza costituzionale dello svolgimento dell’attività sindacale) strideva con tanti principi del nostro ordinamento: con la disciplina soggettiva della protezione assicurativa prevista dal TU ex artt. 4 e 9 cit. e con la nozione c.d. funzionale dell’infortunio in itinere, sostenuta proprio da De Matteis.

3- Sul versante oggettivo della tutela INAIL potrei citare la pronuncia che ha svoltato sulla copertura assicurativa del c.d. mobbing una soluzione in cui gli approfondimenti di Aldo - sotto il profilo del finanziamento del rischio - hanno portato un contributo importante, anche per superare l’ostacolo che all’epoca la giustizia amministrativa (il Consiglio di Stato) aveva frapposto all’iniziativa meritoria dell’INAIL con la famosa circolare sulla costrittività organizzativa - che aveva fatto da apripista.

Con questa pronuncia del 2018 la tutela assicurativa INAIL è stata estesa nel nostro Paese ad ogni forma di malattia, fisica o psichica, che possa ritenersi conseguenza non solo dell’attività di lavoro, ma anche soltanto dell'organizzazione del lavoro e dei rapporti anche interpersonali che si instaurano nel suo ambito.

Anche nella costruzione di tale sentenza si può intravedere la matrice dematteisiana, se posso permettermi il neologismo, soprattutto laddove venne affermato che il premio assicurativo sociale non ha - come invece quello privato - la funzione di delimitare la tutela assicurativa a rischi precisamente individuati nella polizza o in base alle tabelle; assolvendo invece la precipua funzione di provvedere al finanziamento del sistema, in conformità ai requisiti fondanti ed ai fini della tutela costituzionale (Corte Cost. sent.n.100/1991) sollecitata da un’interpretazione dell’articolo 38, 2 comma, coordinata con l’articolo 32 della Cost. allo scopo di garantire con la massima efficacia la tutela fisica e sanitaria dei lavoratori” (ancora Corte Cost. n.100/1991).

4.- Questa costruzione espansiva è stata riaffermata, da ultimo, nella pronuncia n. 21204/2024 con la quale abbiamo dovuto annullare un orientamento che ai fini di una polizza assicurativa non considerava assicurato INAIL il più debole e sfruttato tra i lavoratori del nostro Paese: quello cioè somministrato illecitamente attraverso un appalto di manodopera delle pulizie che era però finito per lavorare ad una macchina pericolosa dove aveva perso un braccio. I giudici di merito – accogliendo le difese della Compagnia assicurativa privata – gli avevano negato qualsiasi copertura, perché, appunto, a termini di polizza questo sventurato non poteva essere considerato né un lavoratore regolare ma neppure “terzo danneggiato”; ed era quindi una sorta di invisibile per l’ordinamento.
E gli abbiamo dovuto riconoscere la giusta esistenza giuridica chiarendo che in un caso del genere non possa porsi in discussione l’esistenza de iure del rapporto di assicurazione sociale che si costituisce appunto immediatamente ed automaticamente ope legis in forza della prestazione di legge resa al datore di lavoro effettivo (anche ai fini dell'efficacia di una polizza assicurativa privata da questi stipulata contro gli infortuni dei propri dipendenti).

5.- Quest’ultimo riferimento all’appalto illecito mi offre l’opportunità di ritornare al volume di cui ci occupiamo ed al mio saggio sull’argomento che muove da una riflessione di Aldo sulla banalizzazione della nostra disciplina dell’appalto contenuta nell’art. 29 del d.lgs. 276/2003.

6.- La materia degli appalti è in effetti sterminata: c’è ne occupiamo nelle aule di giustizia quotidianamente con riferimento a tante questioni legate al trattamento retributivo, alla tutela del rapporto, alla sua continuità, alla tutela sindacale, all’individuazione del vero datore di lavoro, oltre che alla sicurezza.
Io ho scelto di occuparmene nel libro che presentiamo in relazione a quest’ultimo aspetto e la matrice delle mie riflessioni come dicevo muove da uno scritto di Aldo che pur risalente a 15 anni fa (A. DE MATTEIS, Sicurezza negli appalti alla luce del decreto correttivo, in Dir. prat. lav., 2010, n. 6, 308 ss.), ha un incipit folgorante che voglio leggervi: “Nelle numerose notizie di gravi infortuni sul lavoro avvenuti all’interno di notorie aziende nazionali ed internazionali, la direzione di queste (imprese committenti) si affretta a precisare alla stampa che l’infortunio non riguarda i propri dipendenti, bensì i dipendenti di ditte appaltatrici. Le stesse fonti di cronaca ci dicono che le vittime di gravi infortuni, anche mortali, sono spesso gli stessi titolari di aziende artigiane, padroncini, lavoratori autonomi” e per finire Aldo conclude, con icastica preveggenza, rilevando come “gli appalti costituiscano il punto debole di tutta la materia della sicurezza del lavoro”; “è un problema di cultura generale della sicurezza, nell’ambito di un problema più generale di cultura della legalità’.
7.- Ho voluto prendere a prestito queste parole, perchè sembra che il tempo si sia fermato, e che anzi la questione della sicurezza sul lavoro dei lavoratori nel nostro Paese sia peggiorata.
8.- Le stime dell’INL registrano una crescita (più 44%) delle violazioni riscontrate dalla vigilanza negli ultimi anni (il 32% delle imprese non fa formazione e informazione; idem per la sorveglianza sanitaria; mentre arriviamo al 60% di imprese con DVR carente o gravemente carente; non parliamo del DUVRI sui rischi interferenziali da parte del committente; o in materia edile del raccordo quasi sempre inesistente tra PSC (piano sicurezza e coordinamento) anche qui a carico del committente e POS (piano operativo di sicurezza) a carico dell’appaltatore; adempimenti spesso sconosciuti ai più.

Si è passati complessivamente dall’80-82% al 93,4 % di imprese in cui sono state riscontrate violazione alla salute e sicurezza; praticamente in tutte, basterebbe solo andarci, soprattutto nei cantieri. Ma per andarci ci vogliono gli ispettori, che rimangono però sempre troppo pochi (3500 in tutto; con 20.000 accertamenti annui; niente rispetto all’enorme numero di 4 milioni e mezzo di imprese da ispezionare). La speranza di farla franca è perciò molto alta.

Ed è paradossalmente cresciuta ancora di più da quanto nell’agosto scorso - con il d.lgs. estivo n. 103/24 in vigore dal 2.8.24 - a poco più di un mese dall’orribile omicidio di Satnam Singh il bracciante indiano senza contratto morto dopo aver perso un braccio dentro un macchinario nell’agro pontino - il governo (con un tempismo degno di miglior causa) ha ulteriormente allentato la morsa già sfrangiata dei controlli ispettivi, prescrivendo che d’ora in poi prima di una ispezione bisogna dare un preavviso di dieci giorni e rispettando un intervallo di dieci mesi tra una ispezione e l’altra.
In questo quadro è più che mai illusorio pensare di risolvere il problema della legalità e della SSL solo con le ispezioni e la repressione sempre evocate unitamente alla necessità di un reato aggravato di omicidio sul lavoro; alla cui efficacia io non credo.
Credo piuttosto che dovrebbe essere incentivata la prevenzione a monte, con l’adozione dei modelli organizzativi e dei sistemi di gestione (i c.d. mog. del d.lgs. legge n. 231/2001) interni all’impresa; ed estendere questo modello coinvolgendo gli organismi pubblici per il sostegno anche per le piccole imprese.

Si tratta di far sì che la prevenzione non sia come oggi concepita soltanto come qualcosa di marginale, secondario o episodico rispetto all’organizzazione dell’attività produttiva, ma che divenga - come dice sempre Paolo Pascucci - consustanziale all’attività di lavoro: l’art 41 della Cost. prevede infatti che l’attività di impresa non può svolgersi in modo da recare danno…. Ed è in quel modo che bisogna allora collocare la sicurezza; cioè dentro l’attività di impresa, ab origine, nel cuore della sua organizzazione come avviene per l’attività amministrativa, gestionale, produttiva – accanto ed anzi prima di esse se vogliamo rispettare pienamente il dettato costituzionale.

Così purtroppo non è; e basti pensare che nel nostro Paese si può essere imprenditori e fare i datori di lavoro senza neppure l’obbligo di un corso di formazione sulla sicurezza, senza sapere nulla sulla sicurezza, senza nessuna qualificazione (l’obbligo di formazione pur previsto dal d.l. n. 146/21 conv. in l. n. 215/21 non è stato mai attuato in mancanza di accordo della conferenza permanente per i rapporti tra Stato e Regioni).
Per fare sicurezza sul lavoro bisogna perciò prevenire ed intervenire a monte, e non solo punire a valle dopo che i gravi infortuni sono già avvenuti.

9.- Guardiamo quello che sta accadendo nel Paese.

In pochi mesi abbiamo assistito in particolare a cinque infortuni mortali di inaudita gravità per il numero dei lavoratori coinvolti, e che se fossero morti in altro modo non esiteremmo a parlare di stragi: dalle Alpi alle piramidi
Brandizzo, Firenze, Suviana, Palermo; fino all’ultima strage a dicembre 2024 a Calenzano: ma cosa avevano in comune queste stragi? Il fatto di essere avvenute tutte proprio nell’ambito di lavori dati in appalto; ed il fatto di denunciare tutte la mancanza di qualsiasi modello di prevenzione e di organizzazione sulla SSL. Del resto di quali modelli di prevenzione possiamo parlare se si può lavorare sui binari delle ferrovia per una delle più grandi aziende pubbliche del nostro Paese improntando la strategia di sicurezza in questi termini: “se dico treno spostatevi”! E questa assurda espressione dimostra però, meglio di tanti discorsi, come il problema centrale della materia sia costituito dallo scarto enorme che ancora esiste tra le regole formalmente vigenti e la loro concreta osservanza. Il problema cioè dell’ineffettività delle regole.
10. Ed è per questo che la questione della SSL negli appalti dovrebbe essere denunciata partendo dalla realtà; nel quadro cioè della frammentazione dell’impresa e della segmentazione del processo produttivo; che è oramai il modello ordinario di organizzazione della impresa moderna.
Un modello che è stato reso più agevole dalle nozioni soft introdotte nell’ordinamento in materia di esternalizzazioni ed internalizzazioni (come per appalti di servizi, subappalti, cambi appalti, subforniture, lavoro in cooperativa, consorzi, cessioni di azienda e di rami di azienda, somministrazioni di manodopera, distacchi, associazioni tra imprese e quant’altro). Ed il maggior ricorso a queste figure organizzative (che non è a costo zero per chi lavora) avviene soprattutto negli appalti di servizi; anche endoaziendali e nell’edilizia; danno luogo a tante questioni diverse da cui emerge però una costante: e cioè che l’esternalizzazione è sempre rivolta alla riduzione dei costi; quando non ad occultare l’esistenza del vero datore di lavoro: una prassi molto diffusa, anche in grandi imprese del nostro paese dove si pratica non solo l’appalto, ma anche il caporalato e la somministrazione illegale di manodopera. Dove, quindi, in pratica, l’appalto è finalizzato a potenziare organico del committente assicurando allo stesso notevoli risparmi sul costo del lavoro
Basta oramai seguire addirittura la cronaca penale: la Procura ed i giudici di Milano stanno cercato di mettere un argine a questa prassi ponendo sotto amministrazione giudiziaria diverse aziende, non pesci piccoli ma anche multinazionali del calibro di DHL, Geodis, Amazon, l’altro ieri FEDEX, specialisti della logistica e del delivery (recuperando in tal modo più di mezzo miliardo di evasione fiscale; Iva non pagata, contributi previdenziali non versati; e regolarizzato 14 mila lavoratori.)

Tutto questo accade perché nel nostro ordinamento è ammesso un sistema di appalti senza soste (non solo nel privato, ma oramai anche nel pubblico), una infinita serie di subappalti a cascata, che genera evidenti problemi di sfruttamento e di sicurezza della manodopera; perché in ogni passaggio devono di necessità abbassarsi i costi; e quindi i primi a farne le spese sono i salari dei lavoratori e le loro condizioni di sicurezza.

11.- Bassi salari e condizioni di insicurezza sono due facce della stessa medaglia.

L’insicurezza sul lavoro è anche figlia dell’insicurezza del lavoro. Ed è vero perché la prima forma di protezione della salute e della sicurezza del lavoro è la legalità , la cultura della legalità, di cui parlava Aldo De Matteis: sono i diritti alla stabilità, alla paga giusta, all’orario giusto, alla tutela sindacale, al corretto inquadramento, alla formazione, alla effettività della tutela processuale.
Aspetti che sono tutti in effetti collegati. Guardiamo al tema della contrattazione collettiva e dell’inquadramento professionale e della retribuzione.
Nell’ottobre 2023, come è noto, la Corte di cassazione è stata chiamata ad interrogarsi sul tema del lavoro povero, con le sentenze sul salario minimo costituzionale pronunciate sempre in relazione a rapporti di lavoro svolti nell’ambito di appalti di servizi interni all’impresa, rispetto ai quali - venuto meno il principio di parità di retribuzione a parità di lavoro stabilito dalla legge n. 1369/1960 - si assiste ad una sorta di giungla retributiva e ad una polverizzazione delle categorie contrattuali: il salario dei lavoratori è divenuto una variabile, che diminuisce in ragione del numero dei passaggi e della proliferazione dei contratti nazionali di categoria che alimentano il fenomeno del dumping contrattuale (“grazie alla possibilità del datore di lavoro di scegliere in autonomia il CCNL da applicare sulla sola base della economicità”).

Una situazione che è frutto della crisi della contrattazione collettiva, ma forse sarebbe meglio dire dall’anomia che vige nella materia della contrattazione (abbiamo circa 1000 contratti collettivi e solo 200 sono sottoscritti dai sindacati confederali mentre per il resto si parla più o meno di contratti pirata).

12.- Ed anche questo dell’efficacia oggettiva e soggettiva della contrattazione (dominata dal c.d. diritto comune, cioè in pratica da una unica volontà quella datoriale) è un grosso problema del nostro ordinamento; che contribuisce ad alimentare il quadro critico che si pone nel settore, per le evidenti disfunzioni che determina anche in materia di sicurezza.

Come ci conferma la realtà di ogni giorno. Nel cantiere edile di Firenze dove nella costruzione del supermercato della Esselunga sono morti 5 operai, alcuni lavoratori erano inquadrati nel settore metalmeccanico piuttosto che edile; ma potevano esserlo legalmente (allora) anche nel settore agricolo … perché? Perché a quell’inquadramento del personale facevano fronte minori costi ed oneri, anche in materia di formazione e sicurezza. Ancora; i 5 operai della ditta che lavorava in subappalto per l’Amap, la municipalizzata che gestisce la rete idrica e fognaria a Palermo, avevano le qualifiche giuste per i lavori specializzati e pericolosi da affrontare nel sottosuolo dentro una vasca di sollevamento di acqua reflue?
Nell’autocisterna esplosa a Calenzano mentre faceva rifornimento alla pensilina con 5 morti, pare che i vapori degli idrocarburi, altamente infiammabili, siano entrati in contatto con l’innesco provocato da altri lavori effettuati, da una ditta in appalto che nelle vicinanze procedeva al sollevamento di un carrello. Niente di nuovo sotto il sole. Si chiama rischio interferenziale ed il suo più tragico esito nel nostro Paese lo ha avuto proprio a Ravenna, dove abito, quando il 13 marzo 1987 in una motonave di proprietà Mecnavi, morirono in un incendio per asfissia 13 operai, i c.d. picchettini, in quel momento impegnati nel cantiere di manutenzione per umili operazioni di pulizia. L'incendio era stato causato appunto dalle operazioni di una altra squadra di operai intenti a lavori di saldatura in una cisterna, ignari della presenza di persone al piano inferiore, dentro la stiva (anche perché molti di lavoro lavoravano in nero).
Gli operai che cagionarono l’innesco andarono via senza nemmeno accorgersi del fatto, di quello che resta il più grave infortunio sul lavoro della storia all’interno del nostro Paese.

13.- Ecco questi sono i fatti; e siccome accadono troppo spesso bisogna allora alzare lo sguardo e guardare più in alto ed in profondità. Occorre chiedersi sempre perché non si pone mano a queste questioni. A chi giova questo sistema? Cui prodest?

14.- Ciononostante nell’art. 29 del d.lgs. n. 276/2003 rimane ancora lo stigma originario; il nodo squisitamente regolativo e politico del problema degli appalti che il saggio di De Matteis, richiamato in esordio, individuava esattamente, parlando in proposito della “ banalizzazione dell’appalto” per “ la riduzione del requisito civilistico dei mezzi necessari” al quale com’è noto viene equiparata nella norma la direzione del personale impiegato nell’appalto; facendosi balenare in molti l’idea che sia lecito stipulare un qualsiasi contratto d’appalto il cui oggetto possa consistere anche nella mera fornitura di personale purchè mediata dalla sua direzione (esercitata ovviamente attraverso un preposto, un coordinatore o come si chiamava un tempo una semplice testa di paglia). Aldo sosteneva poi che, di conseguenza, “per la tenuta del sistema di sicurezza, sarebbe richiesto quantomeno un maggior coinvolgimento dell'imprenditore committente”. Ora proprio su questo aspetto della sicurezza negli appalti e della responsabilità del committente occorre ricordare la trama normativa essenziale che è contenuta nell’art. 26 TU 81/2008 e per l’edilizia ed i cantieri mobili nell’art. 90 dello stesso TU. La disciplina presenta alcuni snodi teorici complessi ed anche una intelaiatura normativa articolata; con tantissime disposizioni che riguardano i soggetti coinvolti; i luoghi fisici aziendali dentro cui si estende la responsabilità del committente, i vari obblighi che incombono sui diversi soggetti, i loro limiti ed i presupposti della responsabilità penale e civile; i rapporti contrattuali che vi sono compresi: non solo appalti, ma anche lavoro autonomo e somministrazione, trasporto ed altri contratti dove insiste il rischio interferenziale (che è il presupposto essenziale di tutta la disciplina, inteso come rischio aggiuntivo per la sicurezza che si produce per la sola coesistenza nello stesso ambiente di lavoro di lavoratori appartenenti ad imprese differenti).

15.- Mi preme ricordare, è essenziale farlo oggi, che anche questa disciplina della sicurezza, in questo settore degli appalti, dettata dal TU 81/2008 (che ha recepito con vari e successivi adattamenti quella precedente stabilita dall’art. 7 della legge 626/1994) è una normativa che il nostro Paese è stato obbligato ad emanare per attuare varie direttive comunitarie; e che pertanto senza Europa non avremmo avuto questa normativa; non è superfluo ricordarlo visto che si parla spesso con superficialità di come potersi svincolare dagli obblighi comunitari di armonizzazione giuridica.

16. Non è possibile farlo qui; ma sarebbe utile una disamina dei tanti problemi applicativi di questa disciplina prevenzionale, dal punto di vista della giurisprudenza che si pronuncia oramai in continuazione su questo tema centrale della responsabilità per infortunio negli appalti e del rischio interferenziale.

17.- Formulo allora un auspicio, se è vero che come diceva Aldo la materia della sicurezza sul lavoro è oggi la materia della sicurezza negli appalti, appare urgente e anzi necessario che la stessa scuola Superiore della Magistratura ma anche l’INAIL se ne facciano carico, promuovendo incontri di studi, confronti, approfondimenti tematici, sui tanti aspetti prevenzionali, assicurativi e risarcitori, oltre che penali.

18.- È vero siamo dinanzi ad una materia di difficile sistemazione e complessità.

Ma ciò può spiegare, ma non giustificare, il fatto che a tutt’oggi nella materia della responsabilità del committente e degli appaltatori, non sembra si sia pervenuti ad un’applicazione chiara e coerente della disciplina e ad una giurisprudenza che possa dirsi assestata proprio nella direzione auspicata da Aldo de Matteis, quella del maggiore coinvolgimento dell’imprenditore committente.

19.- Suscitano perplessità soprattutto alcune pronunce (sia penali, sia lavoristiche di cui parlo nel mio scritto) che dimostrano come non si sia ancora digerito – nonostante i 30 anni dall’art. 7 della legge n. 626/1994 - nemmeno il cambio di paradigma fondamentale nella disciplina di questa responsabilità del committente di un appalto tra la disciplina di derivazione comunitaria e quella tradizionale del codice civile: il passaggio cioe’ dalla regola dell’autonomia dell’appalto e dell’appaltatore (a cui secondo la vecchia concezione dell’art. 1655 c.c. si doveva trasferire tutto il rischio compreso quello legato alla sicurezza); alla nuova regola della sinergia secondo la configurazione della materia, delineata nel TU 81/2008 ( e prima dalla 626/1994), dove sono stati introdotti una serie di obblighi autonomi in capo al committente ispirati appunto al diverso criterio del suo pieno coinvolgimento nell’apprestamento dell’apparato di prevenzione e dell’organizzazione della sicurezza, di cui il committente non si può più disinteressare ( essendo il principale responsabile nella valutazione dei rischi, per le informazioni, formazione, adozione di misure, cooperazione all'attuazione delle misure, coordinamento, controllo; vigilanza; rischi interferenziali ma anche rischi generici comuni propri del datore di lavoro percepibili con facilità).


20.- Venendo ai problemi applicativi ed alla giurisprudenza, svariate pronunce sia di legittimità che di merito (relative anche ad azioni di regresso dell’INAIL), invece di misurare la responsabilità del committente sul catalogo molto ampio di obblighi autonomi su di lui incombenti, secondo la nuova disciplina dell’art. 26 TU, continuano ancora oggi a ribadire - secondo vecchi stilemi e massime superate (v. ad es. Cass. sez. lavoro n. 2991/2023) - che in materia di appalti per affermare la responsabilità del committente sia necessario che egli si sia reso garante della vigilanza relativa alla misura da adottare in concreto e si sia riservato i poteri tecnico-organizzativi dell'opera da eseguire.
Se così fosse veramente, l’ordinamento si sarebbe evoluto invano da oltre trent’anni, introducendo con la legge n. 626/94 obblighi prevenzionali di diretto coinvolgimento del committente, in relazione alla predisposizione dell’apparato di sicurezza nell’ambito degli appalti. Queste pronunce ripetono invece, ahimè, meccanicamente massime relative a fatti ricadenti nel regime normativo precedente a qualsiasi disciplina espressa in tema di responsabilità del committente; esse sono relative a fatti rientranti nel regime della autonomia civilistica, quando per individuare la responsabilità del committente c’era soltanto la culpa in vigilando ed in eligendo, l’ingerenza, la violazione dell’obbligo di vigilanza sulla inosservanza percepibile ictu oculi.
Nel nuovo impianto normativo il committente è invece autonomamente destinatario di obblighi prevenzionali a prescindere dall’ingerenza e (nell’ipotesi in cui la violazione di tali obblighi è causalmente correlata alla verificazione di eventi infortunistici) deve risponderne, a prescindere dal fatto che si sia ingerito o meno.
Né questo significa che egli risponda oggettivamente (il che richiederebbe comunque di esaminare la natura penale o civile della responsabilità e nell’ambito di quella civile se di tipo contrattuale o extracontrattuale); e tanto meno che egli sia chiamato a rispondere in re ipsa (come dice la Cassazione) che è una forma di responsabilità che non esiste mai, nemmeno in ambito civile e configura anche una espressione equivoca che andrebbe bandita da questa materia.
Ogni garante risponde sempre per fatto proprio e nessuno vuole affermare una responsabilità per fatto altrui; si risponde solo se è provata la propria responsabilità penale o nell’ambito della responsabilità contrattuale anche in mancanza della prova della irresponsabilità, non essendo stata fornita la prova dell’adempimento di tutti gli obblighi previsti, essendo l’onere della prova dell’adempimento gravante in capo al committente ex artt. 1218 e 2087 c.c.
21.- Dove non risponde invece il committente?

È utile ricordarlo perché su questo punto saremo chiamati a breve a pronunciarci con uno dei referendum sul lavoro promossi dalla CGIL; ed è dunque interessante come giuristi essere consapevoli almeno noi di cosa si stia parlando. Il committente non risponde anzitutto se manca un elemento materiale, costituito dallo svolgimento dell’attività lavorativa in un luogo di cui egli abbia la disponibilità giuridica dei luoghi; come avviene negli appalti extraziendali. Inoltre, l’altra importante delimitazione degli obblighi del committente deriva dalla tipologia di rischio; ed è stabilita dall’art. 26, comma 3, 4° periodo, allorché la norma stabilisce che le disposizioni del presente comma non si applicano ai rischi specifici propri delle attività delle imprese appaltatrici o dei singoli lavoratori autonomi.
Il committente non ha quindi alcun coinvolgimento nel governo dei rischi propri ed esclusivi dell’appaltatore; l’art. 26 enuncia esplicitamente che gli obblighi di promuovere la cooperazione ed il coordinamento e quello di adozione del DUVRI non riguardano i rischi specifici propri delle attività delle singole imprese appaltatrici o dei singoli lavoratori autonomi.

Ecco il rischio specifico è un limite alla responsabilità del committente (per una attività che ovviamente non deve dar luogo a rischio interferenziale), anche se esso è stato inteso in senso stretto; in relazione alla specifica competenza tecnica sottesa alla misura di prevenzione.
In altri termini, per rischio specifico (a cui è estraneo il committente) non si intende tutto ciò che riguardi la generale attività svolta dell’appaltatore; ma soltanto quanto si riferisca alle precauzioni che richiedono una specifica competenza tecnica nelle procedure da adottare in determinate lavorazioni (nella utilizzazione di speciali tecniche o nell’uso di determinate macchine).
Detto ciò , va considerato che il rischio specifico dell’appaltatore (secondo il 4 comma) esclude non solo la responsabilità diretta del committente, ma anche la responsabilità solidale del committente; quindi benché l’infortunio sia ascrivibile ad un appaltatore che opera nella sua azienda, il committente non risponde neppure solidalmente per il danno differenziale che attenga ad infortuni derivanti da rischio proprio dell’appaltatore.
Questa limitazione è del tutto illogica; perché nei fatti esclude sempre la responsabilità solidale. Se non c’è rischio specifico il committente è infatti responsabile diretto; mentre l’unica vera responsabilità solidale, che il referendum chiede di introdurre, è proprio quella legata al rischio specifico dell’appaltatore.
Inoltre, come le altre norme di cui si chiede l’abrogazione con gli altri coevi referendum, anche questa norma di favore per le imprese non era presente nell’impianto originario dell’ordinamento (ad es. nell’art. 7 del d.lgs. n. 626 del 1994, come mod. dalla l. finanziaria del 2007) che non conteneva la limitazione oggetto del quesito referendario.
La deroga in questione è stata introdotta in seguito. E rappresenta perciò il prodotto di una politica e di una cultura che negli ultimi venti anni hanno avuto come obiettivo costante la continua erosione dei diritti di chi lavora e la realizzazione di una sempre più accentuata dose di precarietà: unico modello dentro cui i governi di varia estrazione, aderendo alle richieste del mondo dell’imprese - vero protagonista della stagione - hanno saputo concepire la condizione dei lavoratori.
Il referendum mira a promuovere il rafforzamento della sicurezza e della salute dei lavoratori, in quanto anche la responsabilità civile solidale può assolvere ad una funzione di deterrenza spingendo chi ha delegato ad altri i propri obblighi in materia - introducendoli nei luoghi dell’impresa - a non disinteressarsi del tutto della sicurezza del lavoro.

22.- Concludo tornando alla cruda realtà dei fatti, all’indomani della strage dei 5 operai successa a Palermo nel maggio 2024, il responsabile della azienda municipale proprietaria delle fognature ha affermato: “E' incomprensibile che i lavoratori non si siano protetti”; ed è in questa spontanea ed inconsapevole ammissione che si conferma per intero il dramma valoriale del lavoro in Italia.
Quegli operai erano senza dotazioni di maschere, senza formazione, senza professionalità adeguata, senza sorveglianza e senza un piano di sicurezza adatto alla pericolosità della lavorazione e dei luoghi.

Ma purtroppo il lavoro ed i lavoratori valgono così poco che il problema della sicurezza nemmeno è più percepito come fondamentale obbligazione dell'impresa, se mai lo è stato; ed è per questo che si può dire senza timore che quei lavoratori non si siano protetti…appunto da soli.

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