testo integrale con note e bibliografia
1. Il caso.
In ragione dei suoi rilevanti risvolti applicativi, nonché della centralità degli interessi sottesi, l’istituto delle ferie è stato negli anni oggetto del dibattito giurisprudenziale con riferimento a disparati profili . Come noto, assai controverse sono state le questioni attinenti alla collocazione temporale delle ferie, alla loro sovrapposizione rispetto ad altri congedi o, ancora, ai limiti e alle condizioni di esercizio del diritto di monetizzazione delle ferie non godute. Peraltro, proprio su quest’ultimo punto, è tornata ad esprimersi lo scorso anno la Corte di Giustizia, che ha giudicato la normativa italiana sul pubblico impiego non conforme alla direttiva 2003/88/Ce, laddove nega(va) al dipendente dimissionario l’accesso all’indennità sostitutiva delle ferie .
La vicenda che si commenta in questa sede permette di riflettere su un ulteriore aspetto, ossia quello della determinazione della retribuzione da corrispondere durante il riposo annuale. Come si vedrà, sulla spinta della giurisprudenza eurounitaria, la sentenza della Corte d’appello di Napoli si inserisce nel solco di un orientamento ormai consolidato nel nostro ordinamento, e che ha trovato conferma anche in altre recentissime pronunce .
Come già riscontrato in analoghe vicende, il caso coinvolge un lavoratore addetto ad un servizio di trasporto pubblico , il quale lamenta di non aver ricevuto, durante la fruizione delle ferie, una indennità equiparabile alla retribuzione che gli veniva corrisposta nei periodi di servizio. In particolare, nel calcolo della retribuzione feriale non erano state considerate due voci della retribuzione variabile (oltre ai ticket mensa), ossia l’indennità perequativa e l’indennità compensativa, entrambe introdotte dall’Accordo regionale del 16 dicembre 2011 (e recepite nell’accordo aziendale del 25 luglio 2012) al fine di garantire condizioni economiche equivalenti a quelle godute in virtù degli accordi di secondo livello in precedenza in vigore .
Uniformandosi all’indirizzo prevalente, il Tribunale accoglie il ricorso, stabilendo che la base di calcolo per la retribuzione feriale deve ricomprendere anche le predette indennità (mentre non si pronuncia sui ticket buoni pasto, rispetto ai quali si era formato un giudicato interno).
A fronte dell’impugnazione proposta dalla società, la Corte territoriale di Napoli ritiene infondate le ragioni di doglianza e conferma la decisione del giudice di prime cure. La motivazione ruota essenzialmente attorno all’esigenza – esaltata dalla giurisprudenza della Corte di Lussemburgo – di assicurare l’effettivo esercizio del diritto alle ferie, con l’effetto, in concreto, di delimitare il ruolo di “autorità salariali” storicamente assegnato alle parti sociali nel nostro ordinamento, con conseguente lesione, secondo alcune e non condivisibili ricostruzioni, dell’art. 39 Cost.
2. La cornice normativa sovranazionale del diritto alle ferie annuali retribuite.
Prima di entrare nel merito delle argomentazioni del giudice territoriale, è ineludibile una sintetica ricostruzione del quadro giuridico di riferimento del diritto al riposo annuale retribuito, che affonda le proprie radici in una pluralità di fonti normative di stampo sovranazionale.
Più precisamente, esso è sancito: nelle Convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro nn. 52/1936 e 132/1970 ; nella Dichiarazione universale dei diritti umani dell’O.N.U. del 1948 che stabilisce, all’art. 24, il diritto alle ferie periodiche retribuite (unitamente al diritto al diritto al riposo e allo svago e ad una limitazione dell’orario di lavoro); nella Carta sociale europea del 1961, revisionata nel 1996 (art. 2, n. 3) e nel Patto delle Nazioni Unite del 1966 sui diritti economici, sociali e culturali (art. 7, lett. d), che individuano il diritto alle ferie annuali retribuite quale espressione di condizioni di lavoro eque e giuste.
Con riferimento al quadro giuridico dell’UE, a fronte di un iniziale timido riconoscimento, il diritto in esame ha acquisito vigore, dapprima attraverso le previsioni della Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 9 dicembre 1989 e, successivamente, con la Carta dei diritti fondamentali dell’UE del 7 dicembre 2000. Quest’ultima, all’art. 31, par. 2, sancisce, in termini imperativi e incondizionati , che «Ogni lavoratore ha diritto a una limitazione della durata massima del lavoro e a periodi di riposo giornalieri e settimanali e a ferie annuali retribuite» .
L’istituto trova, poi, una apposita disciplina nella direttiva “codificata” 2003/88/Ce concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro (che riprende le disposizioni già contenute nella precedente direttiva 93/104/Ce).
In particolare, il diritto alle ferie annuali retribuite per un periodo minimo di quattro settimane è fissato dall’art. 7, par. 1, che rimanda alla legislazione e/o alla prassi nazionale la definizione di condizioni di concessione e ottenimento dello stesso. Al par. 2 viene sancito il divieto di sostituire detto periodo con una indennità finanziaria, salvo che alla cessazione del rapporto di lavoro, così da evitare che il dipendente, mosso da un desiderio di un maggior guadagno o dietro pressione del datore di lavoro, rinunci a godere del riposo annuale.
È importante sottolineare che ambedue le richiamate previsioni mirano a salvaguardare l’effettività del diritto in esame, salvaguardando le ragioni di tutela cui lo stesso è preordinato , cioè quelle connesse alla salute e della sicurezza dei lavoratori (espressamente richiamate dal legislatore eurounitario ) nonché la necessità di garantire agli stessi un periodo di ricreazione e distensione .
Peraltro, questo secondo profilo, che valorizza la salvaguardia del tempo di non lavoro da dedicare allo svago e alla vita personale e familiare, assume maggior pregnanza proprio con riferimento al riposo annuale. Invero, tutte le tipologie di riposo contemplate dalla richiamata direttiva 2003/88/Ce sono connotate da questa duplice finalità , che però assume intensità differenziate, evidenziandosi, secondo alcuni, in relazione alle ferie, una prevalenza degli interessi etico-sociali rispetto a quelli fisiologici .
3. La c.d. nozione europea di retribuzione feriale: i criteri elaborati dalla Corte di Giustizia.
Nonostante la pluralità di fonti che riconoscono il diritto al riposo annuale retribuito, l’apporto esegetico della giurisprudenza, intervenuta a più riprese sull’argomento, si è rivelato determinante per garantire una tutela efficace di questo istituto , che «appare tuttora come un istituto simbolico del contenzioso in materia sociale» .
In materia, il ragionamento della Corte di Giustizia prende essenzialmente le mosse da due imprescindibili presupposti: da una parte, l’insopprimibile effettività del diritto alle ferie annuali retribuite , così come regolato dal diritto dell’UE; dall’altra, il suo inquadramento quale diritto sociale comunitario particolarmente importante, non suscettibile di subire eccezioni in ambito nazionale, non essendo l’art. 7 ricompreso tra le disposizioni derogabili dagli Statu membri ai sensi della stessa normativa eurounitaria.
La sua attuazione da parte delle autorità nazionali competenti può essere quindi effettuata solo nei limiti esplicitamente indicati dalla direttiva 2003/88/Ce . Ciò implica, da un lato, che esso non è assoggettabile ad una interpretazione restrittiva e, dall’altro che gli Stati possono precisare le circostanze concrete di esercizio del diritto, ma non sono legittimati a condizionarne la costituzione, che scaturisce direttamente dalla disciplina eurounitaria .
Inoltre, in quanto espressamente riconosciuto anche dall’art. 31, par. 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, il diritto alle ferie annuali retribuite può subire limitazioni soltanto rispettando le rigorose condizioni previste all’articolo 52, paragrafo 1, della Carta e, segnatamente, il contenuto essenziale di tale diritto .
Con specifico riferimento alla determinazione del trattamento economico, in assenza di precise indicazioni da parte del legislatore, la Corte di Giustizia ha delineato alcuni criteri attraverso cui interpretare l’art. 7, par. 1, direttiva 2003/88/Ce, che vanno a comporre quella che è stata definita dalla Corte di cassazione la “nozione europea di retribuzione dovuta al lavoratore durante il periodo di ferie annuali” .
In particolare, la Corte di Lussemburgo ha chiarito innanzitutto che l’espressione «ferie annuali retribuite» (di cui all’art. 7, n. 1, direttiva 2003/88/Ce) significa che la retribuzione va mantenuta; in altre parole, per la durata delle ferie, il lavoratore deve percepire la retribuzione ordinaria per tale periodo di riposo. Questa lettura mira evidentemente a salvaguardare l’effettività del diritto, scongiurando il rischio che il lavoratore si astenga dall’esercitarlo per evitare di incorrere in un pregiudizio economico .
In proposito si è più puntualmente osservato che il diritto alle ferie annuali e quello dell’ottenimento di un pagamento a tale titolo costituiscono «due aspetti di un unico diritto» . In altri termini, il lavoratore durante le ferie deve trovarsi in una «situazione paragonabile, dal punto di vista della paga, a quella dei periodi di lavoro» ; e, più precisamente, la retribuzione feriale deve essere calcolata in modo da coincidere «in linea di principio con la retribuzione ordinaria del lavoratore» .
Al contrario, qualsiasi prassi od omissione del datore che abbia effetto potenzialmente dissuasivo sulla fruizione delle ferie annuali deve ritenersi incompatibile con la finalità perseguita dalla disciplina di cui all’art. 7 della direttiva . La determinazione del trattamento retributivo non deve costituire, in altre parole, un deterrente per un concreto utilizzo delle ferie da parte del dipendente. Parimenti, si deve ritenere incompatibile con i precetti eurounitari «una indennità determinata ad un livello appena sufficiente ad evitare un serio rischio che il lavoratore non prenda le sue ferie» .
Maggiori chiarimenti sugli elementi che devono concorrere a formare la retribuzione feriale sono stati offerti dalla Corte di Giustizia con la sentenza del 15 settembre 2011, che riguardava la fissazione della retribuzione da corrispondere a un pilota di linea durante le sue ferie annuali.
A ben vedere, in questo come in altri casi, le vicende concrete coinvolgono essenzialmente lavoratori addetti a servizi di trasporto, il cui trattamento retributivo nei giorni di servizio comprende anche indennità aggiuntive, sulle quali si pone il problema dell’inclusività o meno nella base di calcolo del trattamento da garantire durante le ferie.
In particolare, in quella occasione, si è statuito che, quando il trattamento spettante per i giorni di servizio è formato da diverse voci, non solo fisse ma anche variabili, occorre svolgere una analisi specifica. E in tali circostanze la retribuzione feriale deve comunque obbligatoriamente includere «qualsiasi incomodo intrinsecamente collegato all’esecuzione delle mansioni» e, in ogni caso, «tutti quelli correlati allo status personale e professionale del lavoratore» .
Al contrario devono essere esclusi gli elementi della retribuzione complessiva «diretti esclusivamente a coprire spese occasionali o accessorie che sopravvengano in occasione dell’espletamento delle mansioni che incombono al lavoratore in ossequio al suo contratto di lavoro» .
Pertanto, attraverso molteplici interventi, la Corte di Lussemburgo è giunta a delineare i criteri da adottare per individuare la struttura della retribuzione feriale che risponda agli obiettivi sottesi alla disciplina di cui all’art. 7 della direttiva, pur nel rispetto dei limiti di competenza dell’UE. È vero infatti che la materia retributiva rientra nella potestà legislativa dei singoli Stati ; e tuttavia questi non possono fissare un livello della retribuzione feriale che incida sul diritto del lavoratore di godere, nel corso del suo periodo di riposo e di distensione, di condizioni economiche paragonabili a quelle assicurate quando svolge la propria attività lavorativa .
3.1 (segue) … e la loro applicazione in ambito nazionale.
Sulla scia dei precedenti arresti sul tema , la decisione della Corte d’appello che si commenta si è uniformata ai principi elaborati dal giudice eurounitario, le cui pronunce spiegano efficacia vincolante per quello nazionale. Secondo un costante orientamento invero a tali sentenze va attribuito «il valore di ulteriore fonte del diritto comunitario, non nel senso che esse creino ex novo norme comunitarie, bensì in quanto ne indicano il significato ed i limiti di applicazione, con efficacia erga omnes nell'ambito della Comunità» .
Si consideri inoltre che, in virtù del principio di interpretazione conforme, il giudice nazionale, nell’applicare le norme di diritto interno, è tenuto a leggerle, per quanto possibile, alla luce del testo e dello scopo delle direttive europee, così da conseguire il risultato perseguito da quest’ultima, alla stregua di quanto imposto dall’articolo 288, terzo comma, TFUE .
Sicché, nel caso di specie, sulla scorta della c.d. nozione europea di retribuzione feriale, attraverso adeguate argomentazioni, la Corte territoriale è giunta a considerare l’indennità perequativa e quella compensativa quali elementi necessari della retribuzione feriale.
Benché si tratti di un indirizzo decisamente maggioritario, la trasposizione dei criteri definiti dalla Corte di Giustizia nell’ordinamento interno può prestare il fianco a qualche obiezione . Sono due, segnatamente, gli argomenti – tra di loro connessi – solitamente posti alla base del tentativo di operare un restringimento del perimetro della retribuzione feriale: l’obbligo di far coincidere in linea di principio la retribuzione feriale con quella ordinaria, da un lato, implicherebbe una reviviscenza del principio di onnicomprensività della retribuzione e, dall’altro, minerebbe il ruolo delle parti sociali cui, storicamente, è affidata la disciplina del trattamento retributivo, con conseguente supposta lesione della libertà sindacale e della libertà di impresa.
Ebbene, è pacifico che, nell’ambito del nostro ordinamento, la contrattazione collettiva rappresenti la sede deputata a fissare la c.d. retribuzione-parametro. Parimenti indiscusso è il fatto che – atteso l’ormai definitivo abbandono della regola della onnicomprensività della retribuzione , pur largamente applicata in passato , e in assenza di specifiche indicazioni sulla struttura della retribuzione ex artt. 36 Cost. e 2109 c.c. – gli attori collettivi non siano tenuti a includere tutte le voci normalmente corrisposte al lavoratore quando svolge la sua attività, fermo restando il necessario rispetto del canone della sufficienza. Né, come rilevato dalla giurisprudenza di legittimità, una simile interpretazione contrasta con la convenzione Oil n. 132 del 24 giugno 1970, la quale, «nel garantire al lavoratore in ferie “almeno la normale o media retribuzione”, non ne impone una nozione onnicomprensiva (o comunque inderogabile), ma rinvia, per la determinazione della retribuzione garantita, agli ordinamenti nazionali» .
Tuttavia, occorre considerare che la contrattazione collettiva «non si muove nel vuoto normativo», ma opera in un sistema di fonti “multilevel”, in base al quale le fonti collettive devono rispettare le prescrizioni non solo del diritto italiano, ma anche del diritto dell’UE, senza che da ciò possa inferirsi la violazione della libertà sindacale e della libertà d’impresa .
Su tali profili ha preso espressamente posizione la Corte d’appello di Napoli che, con un percorso argomentativo condivisibile, ha sottolineato come le voci fisse e continuative della retribuzione presentino «una intima connessione con il trattamento riconosciuto al dipendente in funzione della sua qualifica, del suo status personale, dell’espletamento delle sue mansioni» e, dunque, in sostanza con il trattamento ordinario. Pertanto, esse devono obbligatoriamente far parte della retribuzione feriale.
Da quanto osservato però non se ne può ricavare la (re)introduzione di un principio di onnicomprensività della retribuzione feriale poiché, a differenza di quelle fisse, le voci variabili sono da ricomprendere solo se collegate allo status personale o professionale del lavoratore e se non coprono spese occasionali ed accessorie connesse all’espletamento delle mansioni. In altri termini, devono presentare un nesso di funzionalità con le mansioni tipiche del lavoratore.
La Corte di Lussemburgo invero non ha offerto un «concetto di retribuzione per ferie di tipo “quantitativo”», ma l’ha definito sotto un «profilo teleologico», al fine di evitare che l’eliminazione di alcune componenti della retribuzione ordinaria scatenino un effetto deterrente sull’effettivo esercizio del diritto alle ferie.
Né, hanno soggiunto i giudici, la soluzione della questione può essere incentrata – come fa erroneamente l’appellante – sul «dualismo retribuzione fissa/retribuzione variabile e sulla asserita necessità di trarne conseguenze in tema di effettiva prestazione lavorativa», ma deve ruotare attorno alla «connessione voce retributiva/mansioni-status-qualifica del dipendente in un contesto caratterizzato dalla necessità di un trattamento salariale uniforme. Il cui collante è costituito dal binomio prestazione ordinaria/retribuzione “ordinaria”».
In proposito particolarmente interessante è il passaggio della sentenza in cui – pur a dispetto di una opposta tendenza rilevata nel contesto nazionale – si è precisato che non deve esserci necessariamente piena sovrapposizione tra retribuzione normale e retribuzione feriale. Invero, quest’ultima potrebbe anche risultare di ammontare inferiore rispetto alla pima, e ciò non contrasterebbe con le indicazioni del giudice eurounitario sempre che, comunque, tali diminuzioni non siano tali da minare il godimento in concreto delle ferie.
Infatti «ove il giudice comunitario avesse inteso ritenere che la retribuzione dovesse essere identica/uguale con quella erogata durante il servizio non avrebbe utilizzato aggettivi come “paragonabile” o “in linea di principio” o, ancora, non avrebbe fatto riferimento alla diminuzione di retribuzione che fosse idonea a dissuadere i lavoratori dal godimento delle ferie» .
Tali principi devono essere rispettati anche in un ordinamento, come quello italiano, in cui la tutela il diritto alle ferie annuali retribuite è rafforzata dalla garanzia, di matrice costituzionale, della irrinunciabilità (art. 36, comma 3, Cost.), e nel quale la determinazione di un livello retributivo che rispetti i canoni eurounitari è comunque volta ad assicurare un pieno godimento del diritto . Del resto, la necessità di garantire tempo di non lavoro (non solo, quindi, strettamente del tempo di riposo) costituisce un tema che negli ultimi anni ha assunto, come noto, una crescente rilevanza, tanto da innescare un processo di rimodellamento, in via ermeneutica, della nozione di “orario di lavoro” di matrice eurounitaria .
Da ultimo, per ragioni di completezza espositiva, si segnala che la Corte d’appello di Napoli è tornata a pronunciarsi qualche mese fa su una vicenda analoga a quella in commento . La sentenza è degna di menzione perché in tale circostanza il Collegio, oltre ad aver confermato la riconducibilità dell’indennità compensativa e di quella perequativa tra gli elementi della retribuzione feriale, si è altresì espresso sui ticket buoni pasto (aspetto rimasto, come si è detto, estraneo al giudizio conclusosi con la sentenza del 28 marzo 2024), affermandone l’esclusione dalla retribuzione “ordinaria” e quindi da quella spettante al lavoratore durante il periodo di ferie. In questo caso, il ragionamento dei giudici è decisamente più agevole e lineare, fondandosi sul consolidato orientamento che esclude dette voci dalla retribuzione normale, atteso che integrano agevolazioni di carattere assistenziale, collegate al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale.