TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Introduzione: la compensazione in generale.
Prima di approfondire le peculiarità che acquisisce quando applicato nell’ambito dei rapporti di lavoro, è opportuno ripercorrere sinteticamente i principali aspetti dell’istituto della compensazione regolato dagli artt. 1241 ss. c.c.
La compensazione è uno dei modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento che ha luogo, secondo quanto prevede la norma testé menzionata, «quando due persone sono obbligate l’una verso l’altra»: già dalla lettura di questa disposizione emerge che primo e fondamentale presupposto di applicazione dell’istituto, dall’impostazione maggioritaria ritenuto insuperabile anche dalla volontà delle parti ex art. 1252 c.c. , è la reciprocità dei crediti, elemento da tenere distinto rispetto alle caratteristiche dei crediti stessi che condizionano l’operatività delle diverse forme (v. infra) di compensazione .
Il suo fondamento è duplice. Innanzitutto la compensazione, secondo quanto suggerisce già «il comune buon senso» , evita gli aggravi di un duplice ed inutile pagamento, consentendo al creditore di vedere soddisfatto il proprio diritto tramite l’estinzione del proprio debito: per questa ragione essa viene pacificamente ricondotta ai modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento di natura satisfattoria ovvero, secondo una diversa classificazione, tra i c.d. «surrogati dell’adempimento» . Da un altro punto di vista la compensazione rappresenta pure un importante strumento di garanzia e di autotutela per il creditore, in quanto gli consente di liberarsi del proprio vincolo senza dovere adempiere per primo esponendosi al rischio dell’eventuale inadempimento della controparte .
Per quanto sia un istituto unitario , la compensazione conosce tre varianti tipologiche, due soltanto delle quali interessano in questa sede: la compensazione legale e la compensazione giudiziale, vale a dire le forme di compensazione che possiamo definire “non convenzionali” in quanto, pur non potendo prescindere (come meglio vedremo oltre) dall’impulso della volontà di uno dei soggetti coinvolti, non presuppongono quell’accordo delle parti nel quale si risolve la compensazione volontaria di cui all’art. 1252 c.c.

2. La compensazione legale.
La compensazione legale, alla quale si riferiscono la grande maggioranza delle disposizioni contenute nella sezione del codice civile ove viene trattato l’istituto , è la forma più importante di compensazione, «l’archetipo» dalla quale le altre «appaiono ramificare» . La prima delle disposizioni in parola è l’art. 1243, 1° co., c.c., il quale ne subordina l’operatività alla sussistenza dei requisiti dell’omogeneità, della liquidità e dell’esigibilità dei crediti.
La necessità del primo requisito discende dalla regola, desumibile dall’art. 1197 c.c., per cui il debitore non può pretendere di liberarsi dal vincolo eseguendo una prestazione diversa da quella dovuta . Dalla previsione secondo cui sono omogenei, oltre ai debiti pecuniari, quelli che hanno per oggetto «una quantità di cose fungibili dello stesso genere» si ricava che deve trattarsi di prestazioni di dare (e non di fare o di non fare) aventi per oggetto cose non indivisibili e cumulativamente connotate da due distinte caratteristiche: la fungibilità, vale a dire l’equivalenza qualitativa tra i beni dedotti in prestazione, i quali risultano conseguentemente intercambiabili per il soddisfacimento degli interessi dei reciproci creditori; l’appartenenza allo stesso genere, ovverosia la riconducibilità ad una medesima (e più o meno ampia) categoria socio-economica . Questo aspetto della compensazione comunque non suscita particolari questioni né in dottrina né in giurisprudenza , che è stata chiamata ad occuparsene solo in poche e risalenti occasioni .
Lo stesso può dirsi anche dell’esigibilità , requisito che la legge richiede allo scopo di evitare che il creditore possa ottenere, mediante la compensazione, la soddisfazione che non potrebbe ottenere chiedendo l’adempimento . L’insegnamento sostanzialmente pacifico reputa esigibili i crediti che possono essere fatti valere in giudizio tramite una domanda di condanna attuale al pagamento in vista di una eventuale esecuzione coattiva della prestazione, escludendo quindi dalla compensazione legale i crediti sottoposti a termine o a condizione sospensiva, quelli correlati ad un’obbligazione naturale e quelli contro i quali è stata opposta exceptio inadempleti contractus . Sono invece soggetti a compensazione legale, in quanto esigibili, i crediti sottoposti a condizione risolutiva, con la precisazione che l’eventuale avveramento della condizione comporterà il venir meno dell’effetto compensativo e la reviviscenza delle obbligazione estinte , così come quelli per i quali il creditore ha concesso gratuitamente dilazione ex art. 1244 c.c. Stesso discorso vale, ai sensi dell’art. 1242, 2° co., c.c., per i crediti prescritti, quando la prescrizione non era compiuta nel momento in cui si è avuta la coesistenza dei due debiti: in questo caso invero non ha luogo quello che viene talvolta definito un fenomeno di «arresto» della prescrizione , ma piuttosto si assiste alla scelta legislativa, fondata su ragioni equitative, di riconoscere al titolare la facoltà di opporre in compensazione il proprio credito nonostante questo si sia estinto .
Rispetto a tutto quanto detto finora il discorso si fa notevolmente più complesso quando si passa a trattare la liquidità, requisito che del resto riveste un’importanza fondamentale sotto diversi punti di vista, primo fra tutti segnare la linea di confine tra la compensazione legale e la compensazione giudiziale . In prospettiva storico-comparatistica è invero possibile evidenziare che mentre le questioni relative alla reciprocità, all’omogeneità e all’esigibilità dei crediti si sono sostanzialmente stabilizzate all’incirca 700 anni orsono, da quell’epoca ad oggi il modo di intendere il concetto di liquidità si è evoluto in maniera assai significativa e tuttora costituisce uno degli snodi centrali dell’istituto, tanto da essere differentemente ricostruito nei diversi ordinamenti europei e, talvolta, pure all’interno degli stessi .
È questo il caso del nostro sistema giuridico, ove l’orientamento giurisprudenziale tendenzialmente compatto sul punto viene per lo più criticato dalla dottrina, a sua volta però suddivisa in una composita serie di ulteriori proposte ricostruttive alle quali, nell’economia di questo contributo, potranno essere dedicati solamente pochi cenni.
Esiste, invero, un significato minimo e indubitabile di liquidità, sul quale si riscontra una sostanziale unanimità di vedute: per essere considerato liquido il credito deve (innanzitutto) avere un ammontare determinato o determinabile mediante operazioni di mero conteggio aritmetico , la necessità di questo requisito spiegandosi considerando che l’indeterminatezza quantitativa di uno o entrambi i crediti contrapposti renderebbe incerta la misura della loro reciproca estinzione .
Secondo un orientamento diffuso soprattutto in giurisprudenza, il requisito in discorso va però riferito non solo al quantum, ma pure all’an del credito, che per essere considerato liquido deve quindi possedere (anche) la caratteristica della «certezza» in merito alla sua stessa esistenza . Era dello stesso avviso la dottrina più risalente , mentre quella a noi più vicina tende a tenere distinta la certezza del credito dalla sua liquidità osservando come l’inesistenza del diritto in realtà non influisca sul profilo della liquidità né sugli altri attributi del medesimo, ma piuttosto comporti la mancanza del presupposto fondamentale della compensazione, ovverosia la reciproca compresenza di obbligazioni contrapposte .
Ma, al di là di quanto appena riferito, il vero punto controverso concerne il rapporto tra la liquidità del credito opposto in compensazione dal convenuto da un lato e le contestazioni dell’attore circa l’esistenza e/o l’ammontare del credito stesso dall’altro.
La giurisprudenza di gran lunga prevalente intende la certezza/liquidità del credito (anche) come incontrovertibilità processuale del diritto, sicché esclude che possa aversi compensazione quando il credito opposto dal convenuto si trova sub iudice in un altro processo, è fondato su di un titolo giudiziale non ancora passato in giudicato o viene contestato, nell’an e/o nel quantum, nel medesimo giudizio in cui è sollevata l’eccezione, salvo che la contestazione appaia pretestuosa o palesemente infondata . Va osservato che in questa prospettiva, avallata anche da una non lontana pronuncia delle Sezioni Unite , il carattere litigioso del controcredito finisce molto spesso per ostacolare non solo l’operatività della compensazione legale, ma pure la praticabilità della compensazione giudiziale, in quanto si tende a ritenere che il requisito della facile e pronta liquidazione menzionato dall’art. 1243, 2° co., c.c. senz’altro manchi quando il controcredito è soggetto a contestazione .
Sebbene siano ispirati dall’obiettivo, in sé condivisibile, di tutelare il creditore dal rischio di vedere la sentenza di condanna in proprio favore ingiustificatamente ritardata da eccezioni di compensazione pretestuose , questi orientamenti vengono aspramente criticati dalla grandissima parte della dottrina osservando come essi si pongano in contrasto con il generale principio secondo cui le condizioni richieste dalla legge per aversi un determinato effetto giuridico vanno valutate in modo puramente oggettivo, prescindendo da eventuali contestazioni delle parti, le quali rendono piuttosto necessario lo svolgimento della consueta attività di accertamento da parte del giudice: il carattere litigioso del credito opposto in compensazione, quindi, non dovrebbe poter modificare il titolo della compensazione o addirittura impedirla, ma solamente differirla fino al momento in cui siano state compiute le opportune verifiche giudiziali . Diversamente opinando, la concezione “processualistica” della certezza/liquidità dei crediti propugnata dalla giurisprudenza introduce surrettiziamente un limite all’operatività della compensazione non previsto dalla legge e per giunta rimesso all’arbitraria decisione dell’attore, al quale è invero sufficiente contestare l’an e/o il quantum del controcredito opposto dal convenuto per modificare il titolo della compensazione da legale a giudiziale o addirittura impedire che essa abbia luogo .
Nella prospettiva dottrinale, occasionalmente accolta pure da talune sporadiche pronunce , le contestazioni da parte del debitore andrebbero invece chiarite in sede giudiziale per poi sfociare in tre possibili esiti: l’accertamento del fatto che il credito opposto esiste ed era fin dall’origine liquido, al quale consegue la declaratoria dell’avvenuta compensazione legale; l’accertamento dell’esistenza del credito opposto, illiquido ma di pronta e facile liquidazione, che apre le porte alla compensazione giudiziale ex art. 1243, 2° co., c.c.; l’accertamento del fatto che il credito opposto non esiste oppure è illiquido ma non di pronta e facile liquidazione, che comporta il respingimento dell’eccezione di compensazione . Nell’ipotesi, poi, in cui venga sollevata un’eccezione di compensazione infondata, l’attore potrebbe trovare adeguata tutela invocando la responsabilità processuale aggravata della controparte ex art. 96 c.p.c. ; e si osservi che, prima del contrario pronunciamento delle Sezioni Unite di cui si è detto sopra, un intervento della Suprema Corte aveva pure declinato queste idee con riguardo ai casi in cui il credito opposto in compensazione sia sub iudice in un altro processo, individuando una serie di soluzioni finalizzate a coordinare i due giudizi e consentire il simultaneus processus .
Sul concetto di liquidità si ritornerà più avanti, trattando della compensazione giudiziale. Prima di procedere oltre resta da esaminare un ultimo importante profilo della compensazione legale, quello relativo al suo modo di operare, che il 1° co. dell’art. 1242 c.c. disciplina in modo ambiguo disponendo che «la compensazione estingue i due debiti dal giorno della loro coesistenza», ma non può essere rilevata d’ufficio dal giudice.
Sul punto si fronteggiano due impostazioni. La giurisprudenza e una parte nettamente minoritaria della dottrina ritengono che la compensazione legale operi automaticamente, ovverosia estingua ope legis i crediti contrapposti per il solo fatto della loro coesistenza, interpretando il divieto del rilievo officioso del fenomeno come una regola che attribuisce al debitore la facoltà di decidere se avvalersi o meno dell’effetto estintivo già verificatosi: dopo che il debitore abbia manifestato tale volontà, la sentenza del giudice si limiterà ad accertare l’avvenuta estinzione dei crediti reciproci e pertanto avrà natura dichiarativa . Secondo la dottrina di gran lunga maggioritaria, dall’analisi della disciplina dell’istituto invece si ricava che la coesistenza dei crediti determina soltanto una situazione di “compensabilità”, alla quale si accompagna il diritto potestativo delle parti di provocare l’effetto estintivo tramite una dichiarazione di volontà (manifestabile tanto in sede giudiziale quanto al di fuori del processo): secondo questa ricostruzione, la prima parte del 1° co. dell’art. 1242 c.c. assume allora il significato di disporre l’efficacia retroattiva della compensazione, anche se alla sentenza del giudice si attribuisce comunque natura dichiarativa e di accertamento dell’effetto prodotto sul piano sostanziale dalla dichiarazione di compensazione .

3. La compensazione giudiziale.
La compensazione giudiziale è contemplata dal 2° co. dell’art. 1243 c.c., il quale consente la reciproca elisione dei debiti contrapposti quando il controcredito opposto in compensazione, pur non essendo liquido, è di «di pronta e facile liquidazione».
Per comprendere questo profilo bisogna rammentare che, secondo la giurisprudenza, la liquidità viene meno ogni qual volta il credito venga contestato nell’an e/o nel quantum dal debitore. In questa prospettiva, la valutazione circa la possibilità di una pronta e facile liquidazione del credito viene pertanto riferita ad entrambi gli aspetti testé menzionati e si ritiene di poterla ravvisare quando i medesimi possono essere accertati in maniera agevole e senza ritardare in misura significativa la decisione sul credito principale . Ciò non esclude che si possa eventualmente svolgere un’attività istruttoria, purché vengano in rilievo mezzi istruttori di numero contenuto, non complessi e di agevole acquisizione: di principio non vengono ritenuti tali, per esempio, la consulenza tecnica e la prova testimoniale .
Ben diversa, come visto in precedenza, è la concezione prevalente in dottrina, che ritenendo la liquidità insensibile alle contestazioni processuali riferisce la pronta e facile liquidabilità alle sole ipotesi in cui si tratti di stabilire l’ammontare di un credito che non è già determinato, né può essere calcolato mediante operazioni di mero conteggio aritmetico, ma può essere comunque quantificato in maniera spedita e senza particolari difficoltà .
Qualora ritenga sussistente il requisito in discorso il giudice può procedere, in dipendenza delle circostanze, secondo tre diverse modalità. La prima consiste nell’accertare e liquidare nella sua totalità il credito opposto in compensazione, accogliendo quindi l’eccezione per intero. In secondo luogo egli può accertare e liquidare una parte soltanto del credito de quo, limitandosi a pronunciare la compensazione per quella parte: si pensi, per esempio, all’ipotesi in cui venga opposto in compensazione un credito risarcitorio del quale il giudice sia in grado di determinare subito un importo minimo, da compensare con il credito principale senza dover svolgere tutte le attività necessarie a individuare con esattezza il valore del risarcimento dovuto. Infine, il giudice può sospendere la condanna per il credito liquido fino all’accertamento del credito opposto in compensazione, ovverosia rinviare la pronuncia al fine di poter procedere all’accertamento del secondo credito e successivamente, all’esito di tale verifica, eventualmente dichiarare la compensazione totale o parziale .
La compensazione giudiziale, alla pari di quella legale, non è rilevabile d’ufficio , ma si differenzia dalla prima per le caratteristiche della sentenza, che ha natura costitutiva anziché dichiarativa e produce effetti ex nunc, non retroagendo al momento della coesistenza dei debiti ; di conseguenza, non è possibile opporre in compensazione giudiziale un debito prescritto come invece è consentito fare, ai sensi dell’art. 1242, 2° co., c.c., nell’ambito della compensazione legale nell’ipotesi in cui la prescrizione non era compiuta al momento della compresenza delle obbligazioni contrapposte .

4. I crediti non compensabili e la legittimazione a far valere la compensazione.
L’art. 1246 c.c. elenca una serie di ipotesi nelle quali la compensazione è esclusa in considerazione della particolare natura di uno dei crediti reciproci. Il divieto, generalmente ritenuto applicabile tanto alla compensazione legale quanto a quella giudiziale , comprende fattispecie assai eterogenee, con riguardo a ciascuna delle quali persegue scopi diversi , anche se rimane sempre fermo l’obiettivo di assicurare il diretto soddisfacimento, tramite l’adempimento, del credito di volta in volta considerato incompensabile . Dal punto di vista pratico spicca per importanza il riferimento ai crediti impignorabili contenuto nel n. 3) della norma, che secondo taluni dovrebbe essere invero considerato, più che un divieto di compensazione, la previsione di un requisito di operatività dell’istituto, la pignorabilità del credito, da aggiungere a quelli contemplati dall’art. 1243 c.c. .
Un ultimo profilo generale della compensazione che merita di essere ricordato attiene alla legittimazione ad invocare questa causa di estinzione delle obbligazioni.
In base alla regola della reciprocità, di principio sono legittimati a far valere la compensazione i soggetti che cumulano le qualità di creditore e di debitore dei rapporti obbligatori contrapposti . In alcuni casi, tuttavia, la legge deroga a tale principio attribuendo la facoltà di invocare la compensazione ad soggetti diversi, quali i concreditori e i condebitori solidali ai sensi dell’art. 1302 c.c., i terzi garanti (fideiussore e terzo datore di pegno o ipoteca) ai sensi dell’art. 1247 c.c. e il debitore ceduto ai sensi dell’art. 1248 c.c. .
Quest’ultima disposizione, come vedremo oltre, riveste particolare interesse nell’ambito della nostra trattazione. Dalla lettura dei due commi di cui si compone la norma si ricava che, nonostante la cessione, il debitore ceduto conserva la facoltà di opporre in compensazione al cessionario i crediti nei confronti del cedente anteriori alla notificazione della cessione nonché quelli posteriori qualora egli, già prima dell’eventuale notificazione, abbia accettato la cessione riservandosi tale facoltà: in questo modo viene tutelato l’interesse del debitore ceduto alla certezza della compensazione, mettendolo al riparo dall’eventualità di contestazioni basate su una cessione sconosciuta o non comunicatagli e di accordi fraudolenti tra cedente e cessionario . Qualora però accetti la cessione «puramente e semplicemente», come si esprime il 1° co. dell’art. 1248 c.c., il debitore ceduto perde la facoltà di opporre al cessionario la compensazione che avrebbe potuto opporre al cedente.

5. La compensazione nelle procedure concorsuali.
Oltrepassando gli steccati del codice civile, va infine esaminata per la sua enorme importanza la disciplina della compensazione nel fallimento e nelle altre procedure concorsuali, attualmente contenuta nell’art. 56, 1° co., l.fall. e ripresa con variazioni meramente lessicali dall’art. 155, 1° co. del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14) che dovrebbe entrare in vigore nei prossimi mesi .
Nel disporre che «i creditori hanno diritto di compensare coi loro debiti verso il fallito i crediti che essi vantano verso lo stesso, ancorché non scaduti prima della dichiarazione di fallimento», la norma in esame introduce una vistosa eccezione al principio della par condicio creditorum e del concorso paritetico dei creditori sul patrimonio del fallito con riguardo alla posizione di colui che di quest’ultimo è, al contempo, creditore e debitore: la sua ratio viene generalmente individuata, sulla scorta della Relazione illustrativa alla legge fallimentare del 1942, in esigenze di natura equitativa, ritenendosi iniquo che il titolare di un credito e di un debito verso il fallito debba, da un lato, soddisfare integralmente il proprio obbligo e, dall’altro, subire la falcidia fallimentare del proprio diritto . Va sottolineato che questa disposizione rappresenta un’importante novità rispetto al sistema previgente, posto che nel vigore del cod. comm. abrogato, mancando una specifica disciplina della compensazione, l’operatività dell’istituto nel corso della procedura era di principio esclusa come conseguenza dell’indisponibilità attiva e passiva prodotta dalla dichiarazione di fallimento .
Lo spazio di ammissibilità della compensazione nel fallimento è stato, del resto, esteso dalla giurisprudenza spingendosi anche oltre i confini segnati dalla formulazione letterale dell’art. 56, 1° co., l.fall. e dalla disciplina codicistica. Seppure dopo alcune oscillazioni, la Suprema Corte è invero giunta a ritenere che la compensazione fallimentare possa operare anche quando alla data della dichiarazione di fallimento manchino: l’esigibilità dal lato del credito del fallito anziché del creditore in bonis, per essere il primo non ancora scaduto ; l’omogeneità dei debiti, essendosi ammessa la compensazione tra un credito del soggetto in bonis avente per oggetto una prestazione di cose diverse dal denaro e un credito pecuniario del fallito ; la liquidità dell’uno o dell’altro dei due crediti, ammettendosi che gli stessi possano essere liquidati dopo la sentenza dichiarativa di fallimento secondo la logica e in presenza dei presupposti della compensazione giudiziale .
In definitiva, l’unico vero limite all’operatività dell’art. 56 l.fall. richiesto dalla giurisprudenza attiene alla necessaria preesistenza, rispetto alla dichiarazione di fallimento, dei rapporti di credito e di debito rispetto ai quali la compensazione deve operare. Questo requisito è in realtà intrecciato con il presupposto fondamentale dell’istituto, la reciprocità: fintantoché al credito del soggetto in bonis sorto verso il fallito prima della dichiarazione di fallimento si contrappone un suo debito avente le stesse caratteristiche, tale presupposto sussiste e la compensazione può operare; diversamente, non vi è reciprocità e la compensazione resta esclusa quando al credito del soggetto in bonis verso il fallito si contrappone un suo debito sorto verso la massa dopo la dichiarazione di fallimento .
Secondo costante giurisprudenza, perché la compensazione possa operare è peraltro sufficiente l’anteriorità alla dichiarazione di fallimento del «fatto genetico» (o della «radice causale») del credito e del controcredito, irrilevante essendo che solo successivamente l’uno o l’altro vengano accertati o acquisiscano i requisiti necessari per la reciproca elisione : criterio, questo, decisamente largheggiante e dai contorni poco definiti, che secondo diversi studiosi suscita notevole incertezza applicativa e porta a prendere decisioni incoerenti .

6. La compensazione impropria: le fattispecie in materia di lavoro.
Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, l’operatività della compensazione presuppone l’autonomia dei rapporti cui si riferiscono le contrapposte ragioni di credito delle parti, sicché tale istituto non trova applicazione in presenza di obbligazioni scaturenti dal medesimo rapporto giuridico, ancorché complesso, o da rapporti accessori: in questi casi ha invece luogo, secondo questa impostazione, il diverso fenomeno della c.d. compensazione impropria (o atecnica), il quale si risolve in un mero accertamento contabile del saldo finale di contrapposte partite di dare e avere, come tale sottratto all’applicazione della disciplina predisposta per la compensazione “vera e propria” .
Il principale – anche se non esclusivo – ambito di applicazione di questa teoria è costituito dal rapporto di lavoro , non soltanto subordinato ma anche parasubordinato nonché autonomo . Ciò non è frutto del caso, ma dipende dalle caratteristiche dei rapporti di cui si discute: «nel rapporto di impiego, infatti, intorno alle due posizioni reciproche di prestare il lavoro e di corrispondere la retribuzione, “si dispone una costellazione di situazioni giuridiche soggettive accessorie o strumentali, le quali, pur senza identificarsi con la relazione obbligatoria principale, compongono il contenuto complesso del rapporto globalmente considerato”. Pertanto, la natura stessa del rapporto, la sua articolazione in una “costellazione” di posizioni soggettive e la sua connotazione di relazione destinata a protrarsi nel tempo creano condizioni propizie al verificarsi, nello sviluppo dell’attività di collaborazione, di ipotesi in cui si riscontrino crediti del dipendente e dell’imprenditore, tutti liquidi, omogenei ed esigibili» .
Dall’analisi della casistica giurisprudenziale in tema di lavoro subordinato emerge come vengono principalmente in rilievo, dal lato del lavoratore, crediti aventi per oggetto il pagamento della retribuzione, del t.f.r. o di emolumenti affini, mentre dal lato del datore di lavoro pretese riconducibili a due tipologie di ipotesi.
La prima riguarda i casi in cui il datore di lavoro pretende la restituzione di somme indebitamente versate al lavoratore a titolo, oltre che retributivo, di indennità di trasferta , di indennità di anzianità , di assegno familiare , e così via . In maniera analoga, si è ritenuto operare la compensazione impropria fra il credito del lavoratore alla pensione di inabilità ed all’indennità di accompagnamento ed il contrapposto credito dell’INPS alla restituzione di somme indebitamente percepite dal lavoratore per i medesimi titoli . Diversamente, è stata considerata un’ipotesi di vera e propria compensazione la fattispecie che vede contrapporsi un debito dell’INPS al versamento di somme dovute a titolo di indennità di accompagnamento e un credito del medesimo istituto alla restituzione di somme indebitamente percepite dalla controparte a titolo di assegno sociale ex art. 3, 6° co., l. n. 335 del 1995, osservando come il mero fatto che entrambe le prestazioni hanno natura assistenziale non significa che esse abbiano il medesimo titolo e dovendosi al contrario sottolineare l’assoluta diversità dei presupposti che giustificano l’erogazione dell’una e dell’altra .
Un secondo gruppo di ipotesi vede il datore di lavoro opporre in compensazione al lavoratore crediti risarcitori o indennitari aventi titolo nella riparazione di pregiudizi cagionati dalla controparte. Negli ultimi anni tali fattispecie sono cresciute per numero e per rilevanza in conseguenza di due fattori: il sempre maggiore utilizzo, nelle attività economiche e produttive, di attrezzature molto sofisticate e costose, che se non correttamente utilizzate possono facilmente danneggiarsi e/o cagionare danno agli altri beni dell’impresa; il massiccio ricorso al lavoro non specializzato, dettato dalla finalità di diminuire i costi, che tuttavia incrementa notevolmente il rischio del concretizzarsi di pregiudizi riconducibili all’imperizia di lavoratori inesperti . I crediti del datore di lavoro ai quali si fa riferimento possono comunque nascere dalle più svariate fattispecie, quali una prestazione lavorativa negligente , le dimissioni comunicate senza rispettare il termine di preavviso previsto a pena del pagamento di una determinata indennità , la commissione di un fatto illecito nei confronti del datore di lavoro o anche verso soggetti terzi: in questo ambito per esempio si riconosce che, nel caso in cui il lavoratore alla guida dell’automezzo aziendale commetta un’infrazione stradale che obbliga il datore di lavoro, quale proprietario del veicolo, a pagare la relativa sanzione pecuniaria, l’ammontare di quest’ultima può essere detratta dalla retribuzione a titolo di compensazione impropria .
Quest’ultima, come si diceva, trova poi spazio anche nel lavoro parasubordinato e in particolare in tema di agenzia, dove al credito dell’agente alla provvigione o all’indennità di fine rapporto si può contrapporre quello del preponente alla corresponsione di somme riscosse dall’agente per conto della controparte , al risarcimento dei danni cagionati da quest’ultimo esorbitando dai propri poteri o trascurando di vigilare sull’operato di un subagente , o ancora al versamento di somme dovute per effetto del patto di “star del credere” concluso entro i limiti dell’art. 1746, 3° co., c.c. .
Infine, non mancano pronunce che applicano la compensazione impropria in tema di lavoro autonomo: a tale fenomeno sono state per esempio ricondotte, con riguardo al rapporto di lavoro autonomo che si instaura tra le ASL e i medici convenzionati per l’erogazione delle prestazioni di medicina generale, le operazioni di conguaglio, in positivo e in negativo, che l’ente compie nel calcolare la retribuzione ogni qual volta si verifica una variazione, in aumento o in diminuzione, del numero di persone assistite dal medico .
Un ultimo profilo d’interesse riguarda l’eventualità che al rapporto di lavoro si affianchi un ulteriore e distinto rapporto contrattuale, intercorrente tra le stesse parti, che può dare vita a pretese creditorie suscettibili di contrapporsi a quelle nascenti dal rapporto d’impiego. Nonostante ci si trovi di fronte alla contrapposizione di crediti insorgenti da relazioni contrattuali diverse, in giurisprudenza si tende ad attrarre comunque tali fattispecie nell’orbita della compensazione impropria qualora si possa riscontrare una qualche forma di collegamento fra i due rapporti coinvolti. In questo modo si è ragionato, per esempio, in una vicenda giudiziaria in cui, alla pretesa del lavoratore al pagamento del t.f.r., si contrapponeva il credito del datore di lavoro alla restituzione di una somma di denaro concesso al primo a titolo di mutuo, rapporto che secondo i giudici era divenuto, per volontà delle parti, «parte integrante del rapporto di lavoro, perdendo la sua autonomia genetica e funzionale» . La stessa conclusione dovrebbe poi valere nelle ipotesi in cui le parti, per esempio, di un contratto di agenzia stipulino un distinto contratto di concessione di vendita e/o di distribuzione e/o di deposito: in presenza di ragioni creditorie contrapposte nascenti da queste relazioni contrattuali da un lato e dal rapporto di agenzia dall’altro, il riscontro di un collegamento negoziale fra i due potrebbe elidere l’autonomia dei debiti coinvolti e nuovamente far transitare la fattispecie dall’ambito della “vera e propria” compensazione all’alveo della mera operazione contabile . La compensazione impropria dovrebbe invece rimanere esclusa quando il rapporto contrattuale che affianca il rapporto di lavoro non presenta con quest’ultimo alcuna connessione, come per esempio si è opinato con riguardo ad una fattispecie in cui il datore di lavoro vantava nei confronti della controparte crediti derivanti da prestazioni di natura alberghiera e di riparazione di un’autovettura .

7. (Segue) La disciplina applicabile.
Come già accennato, le conseguenze che la giurisprudenza trae, seppure non senza qualche oscillazione, dalla teoria della compensazione impropria sono estremamente rilevanti e consistono nella tendenziale disapplicazione della disciplina prevista per l’istituto.
La compensazione impropria è innanzitutto sottratta al divieto di rilievo d’ufficio previsto dall’art. 1242, 1° co., c.c., sicché il giudice può procedere all’accertamento contabile del saldo risultante dalla somma algebrica delle rispettive poste anche in assenza di formale eccezione di parte o di apposita domanda riconvenzionale, mentre restano inapplicabili le norme processuali che pongono preclusioni o decadenze alla proponibilità delle relative eccezioni . Si è peraltro precisato che il giudice non è investito di poteri officiosi d’indagine quanto all’esistenza dei rispettivi crediti delle parti e può procedere all’accertamento del saldo contabile solamente sulla base di circostanze tempestivamente dedotte in giudizio, diversamente verificandosi un illegittimo ampliamento del thema decidendum: di conseguenza, anche nell’ambito della compensazione impropria permane l’onere, a carico della parte interessata, di allegare e provare le rispettive voci di credito nel rispetto del principio del contraddittorio . Inoltre, se è vero che le parti possono sollecitare in corso di causa l’accertamento contabile del saldo finale delle contrapposte partite senza sollevare formale eccezione o proporre domanda riconvenzionale, la compensazione impropria non può essere invocata per la prima volta sede di legittimità, il ricorso per cassazione potendo investire solamente questioni già comprese nel tema del decidere del giudizio di appello .
Dal punto di vista sostanziale, la compensazione impropria è svincolata dai requisiti dei crediti richiesti dall’art. 1243, 1° co., c.c. per aversi compensazione legale ; ed analogamente è stata dichiarata inapplicabile la regola, di cui al 2° co. della norma, secondo cui il debito opposto in compensazione, qualora non sia liquido, deve essere di pronta e facile liquidazione per potersi pronunciare la compensazione giudiziale . Peraltro, se quanto appena riferito appare sostanzialmente pacifico per l’esigibilità e l’omogeneità , il discorso appare meno sicuro per la liquidità , alcune recenti pronunce avendo affermato che in ogni caso dovrebbe rimanere ferma, anche per la compensazione impropria, la necessità che i crediti contrapposti siano certi, vale a dire – secondo la concezione giurisprudenziale già esposta in precedenza – non sottoposti a contestazione e incontrovertibili dal punto di vista processuale .
La compensazione impropria è pure sottratta alla regola sulla prescrizione prevista dall’art. 1242, 2° co., c.c.: proprio con riguardo ad una controversia lavoristica è stato precisato che, fino al momento in cui il giudice compie il calcolo del dare e dell’avere delle parti, gli opposti crediti restano separatamente esposti ai relativi eventi estintivi, compresa la prescrizione .
Fra le norme che non si applicano alle ipotesi di nostro interesse figura, poi, l’art. 1246, n. 3), c.c., la cui più rilevante applicazione consiste senz’altro nell’impignorabilità parziale degli stipendi, dei salari, delle pensioni e di ulteriori attribuzioni pecuniarie dovute al lavoratore prevista dai commi 3°-5° e 7°-8° dell’art. 545 c.p.c.
Le limitazioni alla pignorabilità dei crediti di lavoro, che trovano evidente fondamento nella necessità di non pregiudicare la soddisfazione delle esigenze di vita del debitore e delle altre persone poste a suo carico , si differenziano a seconda che il pignoramento debba aver luogo ai fini della coattiva soddisfazione di crediti alimentari oppure per altra causa: nel primo caso il limite viene fissato volta per volta dal giudice, con provvedimento autorizzativo ad hoc; nel secondo caso il pignoramento è invece consentito, senza bisogno di apposita autorizzazione, nella misura legalmente predeterminata di un quinto della somma dovuta .
È soltanto nella suddetta misura del quinto che dovrebbe poter operare, quindi, la compensazione tra un credito del lavoratore e un controcredito del datore di lavoro . Tale conclusione viene tuttavia smentita dalla giurisprudenza, che disapplicando l’art. 1246, n. 3), c.c. sulla scorta della teoria della compensazione impropria consente al datore di lavoro di detrarre dalle attribuzioni dovute al lavoratore l’intero ammontare del credito vantato nei suoi confronti . Nelle ipotesi in cui tale credito trovi fonte in un fatto illecito del lavoratore, questa soluzione parrebbe fondarsi anche sulla base di ragioni di giustizia sostanziale, posto che appare iniquo imporre al datore di lavoro l’obbligo di corrispondere comunque al lavoratore i quattro quinti dello stipendio (o del t.f.r. in caso di cessazione del rapporto), senza poter defalcare ulteriormente quanto necessario a riparare il danno subito, per poi dover agire in giudizio ai fini di ottenere il risarcimento del danno medesimo .
Proprio in occasione dell’esame di una controversia di questo tipo, nella quale veniva in rilievo un’appropriazione indebita del lavoratore, la compensazione impropria è stata pure sottoposta al vaglio della Corte costituzionale in quanto sospettata di violare, tramite la disapplicazione del limite del quinto dello stipendio previsto dagli artt. 1246, n. 3), c.c. e 545 c.p.c., due norme della Carta fondamentale: l’art. 36 Cost., sacrificando la funzione alimentare dello stipendio con riguardo ai bisogni primari del lavoratore e della sua famiglia; l’art. 3 Cost., comportando una irragionevole disparità di trattamento fra il datore di lavoro e gli altri creditori del lavoratore . Tali censure sono state però respinte dalla Consulta, la quale ha escluso che la compensazione impropria contrasti: tanto con l’art. 36 Cost., in quanto l’art. 545 c.p.c. non costituirebbe «inderogabile attuazione» di quella norma e potrebbe essere pertanto disapplicato senza violarla ; quanto con l’art. 3 Cost., posto che non sarebbe privo di razionale giustificazione riservare al credito del datore di lavoro fondato sul delitto commesso dal dipendente, ovverosia su un comportamento che realizza una grave violazione dei doveri incombenti sul secondo nei confronti del primo, un trattamento diverso rispetto ai crediti verso il lavoratore facenti capo ad altri soggetti e fondati su differenti ragioni .
Nel concludere la disamina della disciplina codicistica dell’istituto va evidenziato che la Suprema Corte, distanziandosi dalla contraria soluzione adottata dall’unico precedente di legittimità in materia , ha recentemente stabilito che la compensazione impropria si sottrae anche alla regola in tema di cessione del credito contenuta nell’art. 1248, 1° co., c.c.: sulla scorta di questa premessa, è stato consentito alla società datrice di lavoro di una dipendente che aveva ceduto ad una società terza una quota dello stipendio e del t.f.r. la possibilità di opporre in compensazione a quest’ultima il controcredito al pagamento dell’indennità di mancato preavviso generato dalle sopravvenute dimissioni «in tronco» della prestatrice di lavoro, nonostante la società ceduta non si fosse riservata la facoltà di eccepire la compensazione al momento della cessione .
La teoria della compensazione impropria ha poi giocato un ruolo importante nelle procedure concorsuali nel vigore del cod. comm. abrogato, posto che nell’ipotesi della contrapposizione di crediti del fallito e del soggetto in bonis nascenti dallo stesso rapporto veniva ravvisata un’eccezione al principio, allora dominante, dell’inoperatività della compensazione nel corso del fallimento . Con l’introduzione dell’art. 56 l.fall. la teoria in parola ha vissuto alterne fortune in questo ambito ed invero non mancano pronunce che hanno negato doversi attribuire ogni rilevanza, in sede fallimentare, alla «distinzione tra compensazione ordinaria e contabile» . In diverse occasioni, però, la giurisprudenza è ricorsa all’impiego di questa impostazione teorica anche in sede concorsuale con il risultato di agevolare l’ingresso della compensazione nel fallimento, seppure seguendo traiettorie argomentative diverse: in taluni casi si è riconosciuta l’inapplicabilità alla fattispecie dell’art. 56 l.fall. e il conseguente venir meno della necessità di rispettare i limiti di operatività dell’istituto ivi previsti ; in altre ipotesi, invece, la riconducibilità dell’insorgenza dei crediti contrapposti al medesimo rapporto ha consentito una più agevole verifica della sussistenza, nel caso concreto, del presupposto fondamentale che quella norma richiede, vale a dire l’anteriorità alla dichiarazione di fallimento del «fatto genetico» (o della «radice causale») del credito e del controcredito .
Un ultimo importante aspetto della materia riguarda, infine, lo spazio da riconoscersi all’autonomia privata. Sul punto è stata proprio la giurisprudenza in materia di lavoro a stabilire che il principio secondo cui non sono applicabili le norme di legge sulla compensazione se non sussiste l’autonomia dei rapporti cui si riferiscono i contrapposti crediti delle parti, la valutazione delle reciproche pretese in tal caso risolvendosi in un semplice accertamento contabile di dare ed avere, può essere pattiziamente derogato, eventualmente anche tramite la contrattazione collettiva, non opponendosi a ciò alcuna norma di legge né i principi generali dell’ordinamento giuridico .

8. Riflessioni conclusive.
La compensazione impropria suscita reazioni diverse in dottrina.
Non pochi studiosi si limitano a prendere atto dell’elaborazione giurisprudenziale sopra illustrata, talvolta mostrando, almeno implicitamente, di condividerla .
Altri invece ritengono che l’unica forma di compensazione ammessa nel nostro ordinamento sia quella prevista dal codice civile e conseguentemente censurano le sentenze che allargano la sfera applicativa di questo istituto al di fuori dei limiti tracciati dagli artt. 1241-1252 c.c. sulla scorta della mancanza di autonomia dei rapporti obbligatori coinvolti, accusando tale ricostruzione di essere non solo sfornita di qualsivoglia appiglio normativo, ma pure in contrasto con quella parte dell’art. 1246 c.c. ove si prevede che «la compensazione si verifica qualunque sia il titolo dell’uno o dell’altro debito» .
Quest’ultimo argomento è stato invero fatto proprio pure da un indirizzo giurisprudenziale, inaugurato da un risalente intervento delle Sezioni Unite al quale si sono però allineate solamente poche pronunce successive, secondo cui andrebbe operata una distinzione: la tesi della non compensabilità delle obbligazioni non autonome coglierebbe nel segno quando le obbligazioni derivanti da un unico negozio siano tra loro legate da un vincolo di corrispettività, perché la reciproca elisione di tali pretese verrebbe a paralizzare l’efficacia stessa del negozio, privandolo della possibilità di svolgere la sua funzione; mentre quando le obbligazioni, ancorché aventi causa in un unico rapporto, non siano in posizione sinallagmatica e presentino carattere autonomo , non vi sarebbe ragione per escludere la fattispecie dall’area della compensazione “in senso tecnico” e disapplicarne la disciplina .
Queste affermazioni, formulate già da una risalente dottrina, vengono però confutate da altri studiosi, che esattamente evidenziano come le obbligazioni scaturenti dai contratti a prestazioni corrispettive normalmente non siano omogenee e, pertanto, si sottraggano al meccanismo della compensazione già per questa ragione, senza necessità di sviluppare ulteriori (e fuorvianti) ragionamenti . D’altro canto, nell’inverosimile ipotesi che venisse stipulato un contratto sinallagmatico avente per oggetto prestazioni omogenee, come tali destinate ad estinguersi per compensazione già nel momento della loro stessa insorgenza, si sarebbe con ogni probabilità di fronte ad un negozio nullo per mancanza di causa ; e «se, poi, si pensa al contratto di lavoro, quello appena prospettato come un esito poco verosimile per l’assenza di un effettivo interesse, diventa, invece, del tutto irrealizzabile, visto che lavoro e retribuzione sono reciprocamente privi delle suddette caratteristiche di equivalenza» .
Nemmeno costituiscono una valida giustificazione della teoria della compensazione impropria, secondo i suoi detrattori, le ragioni di giustizia sostanziale invocate per disapplicare i limiti alla pignorabilità degli emolumenti dovuti al lavoratore nel caso in cui i contrapposti crediti del datore di lavoro hanno natura risarcitoria, perché un siffatto esito, lungi dal poter essere attinto dall’interprete tramite un’operazione di «ortopedia giuridica» , potrebbe essere raggiunto solo dal legislatore riformando la disciplina della materia . Che anzi, in queste fattispecie sembra emergere un ulteriore elemento di criticità della compensazione impropria, vale a dire il fatto che, per suo tramite, la giurisprudenza finisce per “ratificare” ex post l’operato del datore di lavoro che, anche quando il lavoratore neghi ogni addebito, provvede a defalcare dalle somme spettanti a quest’ultimo quelle a suo dire necessarie a riparare il danno subito senza che prima si sia proceduto ad accertare l’an e il quantum della responsabilità della controparte .
Infine, secondo un’ulteriore e più convincente corrente di pensiero, la teoria della compensazione impropria merita di principio approvazione, perché la sussistenza di elementi di connessione fra crediti contrapposti giustifica sul piano della giustizia sostanziale l’agevolazione della loro reciproca elisione e risponde a condivisibili esigenze pratiche degli operatori economici, ma per non tradursi in un vulnus dell’ordinamento abbisogna di essere meglio definita sotto due profili. Innanzitutto è necessario tracciare in maniera più netta e precisa di quanto sono soliti fare i nostri giudici i confini applicativi della figura, elaborando criteri affidabili e coerenti da impiegare nella verifica della sussistenza (o meno) della connessione fra crediti contrapposti che giustifica la riconduzione della fattispecie all’alveo della compensazione atecnica , questa essendo caratterizzata da una marcata tendenza espansiva che rischia di erodere in maniera incontrollata lo spazio operativo della compensazione “vera e propria” . In secondo luogo dev’essere respinta la frettolosa e indiscriminata sottrazione delle fattispecie di compensazione impropria alla disciplina della compensazione, disciplina della quale andrebbe piuttosto verificata l’applicabilità alle fattispecie in discorso, se non in via diretta, quantomeno in forza di interpretazione estensiva o analogica , secondo termini e modalità da definire volta per volta in considerazione della specifica norma presa in esame .
D’altro canto non si può trascurare, nel dare un giudizio su tale impostazione teorica, che la compensazione impropria trova importante riscontro tanto nelle origini storiche dell’istituto quanto sul piano comparatistico, già a partire dagli ordinamenti che maggiormente hanno ispirato il codice civile italiano, ovverosia quello francese e quello tedesco. In materia di compensazione quest’ultimo infatti conosce, accanto alla “vera e propria” Aufrechnung dei §§ 387-396 BGB, ipotesi di c.d. Anrechnung, non solo previste dalla legge ma anche elaborate in via interpretativa dalla dottrina e dalla giurisprudenza, nelle quali il fatto che le ragioni creditorie coinvolte trovino origine nello stesso rapporto porta ad escludere che ci si trovi di fronte a due autonome pretese contrapposte ed a ritenere che si tratti piuttosto di tenere conto di determinate poste attive o passive nel calcolo dell’entità di un unico diritto di credito, con conseguente tendenziale disapplicazione della disciplina prevista per l’Aufrechnung . Ancor più significativo appare il confronto con l’ordinamento francese, dove il fervente lavorio giurisprudenziale finalizzato a svincolare la c.d. compensation de dettes connexes dai limiti di operatività della compensazione, del tutto simili a quelli dettati dal nostro codice civile, è stato recepito dal legislatore in occasione della riforma del diritto delle obbligazioni e dei contratti portata dall’Ordonnance n. 2016-131 del 2016: il nuovo art. 1348-1 code civil, infatti, codifica espressamente questa forma di compensazione per sottrarla ad alcuni dei principi che regolano il funzionamento dell’istituto, in particolare prevedendo che essa può essere pronunciata dal giudice anche in presenza di debiti privi del carattere della liquidità o dell’esigibilità e che non è impedita dall’acquisto di diritti sui crediti coinvolti da parte di terzi .

 

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