Testo integrale con note e bibliografia

 

1.- Introduzione.
In questa relazione illustrerò i principi affermati a proposito dei contratti di lavoro a termine nel lavoro pubblico contrattualizzato dalla più recente giurisprudenza della Corte di cassazione, ma lo farò sulla base di una sintetico ricordo delle tappe principali del lungo e non sempre lineare cammino che ha portato a tali decisioni tra accordi sindacali, interventi del legislatore, della Corte di Strasburgo, della Corte di Giustizia UE, della Corte costituzionale e delle Sezioni Unite della Corte di cassazione.
E, sempre in una prospettiva diacronica, darò anche conto della giurisprudenza di legittimità più recente riguardante altri contratti di lavoro flessibile utilizzati dalle Pubbliche Amministrazioni.
Del resto, il suddetto cammino è ancora in corso e quindi avere memoria del passato può aiutare a comprendere meglio il presente e a prepararsi al futuro, come ci ha insegnato anche il grande Luigi Mengoni.
2.- Uso e abuso dei contratti di lavoro flessibile da parte delle Pubbliche Amministrazioni.
Il fenomeno dell’uso e dell’abuso di contratti di lavoro flessibile da parte delle Pubbliche Amministrazioni ha origini remote e, in questo ambito, i contratti di lavoro a termine sono sicuramente la forma contrattuale che, fin dall’inizio, ha avuto la maggiore applicazione.
Ancora oggi la stragrande maggioranza dei rapporti di lavoro pubblico flessibile alle dipendenze di P.A. sono rapporti a tempo determinato. Mentre hanno applicazione numericamente inferiore i contratti di somministrazione di lavoro a termine, quelli di lavoro interinale, di lavoro accessorio, di tipo formativo, i lavori socialmente utili e i contratti di lavoro autonomo con i quali si conferiscono incarichi individuali ad esperti di particolare e comprovata specializzazione anche universitaria, in presenza dei presupposti di legittimità indicati dalla legge (art. 7, comma 6, d.lgs. n. 165 del 2001 nel testo vigente), fermo restando il divieto per le P.A. di sottoscrivere contratti di collaborazione che abbiano le caratteristiche di etero-organizzazione vietati dall’art. 2, comma 4, d.lgs. 81 del 2015 e quindi dall’art. 7, comma 5 bis, d.lgs. n. 165 del 2001.
I contratti di lavoro pubblico a termine si concentrano – e, secondo recenti rilevazioni, risultano anche in aumento – nei Comparti della Scuola e della Sanità, anche se le assunzioni a termine del personale scolastico sono governate da un regime particolare visto che il reclutamento di tale personale è sottratto alla disciplina generale sui contratti a termine nel lavoro pubblico, essendo regolato da un sistema di norme in base alle quali è lecito, anzi doveroso, per le autorità scolastiche, al fine di coprire i posti vacanti, assumere un medesimo lavoratore, da un anno all’altro, con contratti a tempo determinato, anche ripetuti nel tempo.
Peraltro, in linea generale, nelle Regioni e negli enti locali si riscontrano molti abusi nell’utilizzazione dei contratti a termine, sicché può dirsi, con uno sguardo di insieme, che nel governo del personale delle nostre Pubbliche Amministrazioni vi sono incisive criticità che si traducono sia in violazione dei diritti fondamentali dei lavoratori sia in una complessiva disorganizzazione che produce aumenti della spesa pubblica per molteplici aspetti, lede l’immagine delle Pubbliche Amministrazioni (e, quindi, dell’intero Paese), crea disagi per gli utenti, che a loro volta possono essere fonti di spesa e non solo.
Del resto, se la P.A. datrice di lavoro maltratta i propri dipendenti questi ultimi avranno maggiori difficoltà a trattare bene l’utenza: il rispetto delle regole si può ottenere sono con esempi virtuosi e le Pubbliche Amministrazioni dovrebbero essere le prime a darli.
Si tratta di instaurare circolo “virtuoso” di comportamenti, in modo da restituire alla popolazione fiducia nei reciproci rapporti e in quelli con le Istituzioni, ma questo comporta la necessità di tornare ad investire “nel capitale sociale”, fatto di relazioni solidali, ponendosi l’obiettivo di combattere la scarsa fiducia che gli italiani tradizionalmente manifestano in loro stessi (autostima) onde puntare alla creazione di un clima diffuso di fiducia, nella consapevolezza che la fiducia individuale e quella sociale sono aspetti dell’emancipazione dei Paesi e delle persone che si alimentano l’una con l’altra. E che hanno un loro “peso” anche economico, visto che gli investimenti nazionali o stranieri sono condizionati dalla fiducia o dalla sfiducia nutrita nel futuro del Paese.
Come è stato detto durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario della Corte d’appello di Napoli dall’avvocato Gennaro Esposito (Presidente del Comitato di Vivibilità Cittadina) non si può pretendere che i cittadini si sentano tali se poi le istituzioni non li trattano da cittadini il che significa ‒ mutatis mutandis ‒ che se la P.A. non rispetta la dignità e i diritti fondamentali dei propri dipendenti sarà più difficile che questi trattino gli utenti in modo adeguato ai principi di buona amministrazione, tanto più che in una società sempre più violenta i dipendenti pubblici ‒ soprattutto in alcuni settori come la Sanità e la Scuola ‒ spesso subiscono, durante lo svolgimento del loro lavoro o a causa di questo, aggressioni verbali, giudiziarie e fisiche che anche quando non sono di grande entità certo non contribuiscono alla loro serenità.
Si deve anche sottolineare che l’applicazione del modello di lavoro “flessibile” ha comportato la massiccia utilizzazione abusiva dei contratti a termine, non solo nel settore pubblico, ma anche in quello privato e questa prassi non è stata mai dismessa nel corso degli anni, anche se è stata espressamente condannata a più riprese dal legislatore nazionale nel c.d. Jobs Act con i relativi decreti attuativi e nella Riforma Madia, oltre che nel c.d. decreto dignità (che però non riguarda il lavoro pubblico).
Tutto questo si è tradotto in una indiscriminata “precarizzazione” del mondo del lavoro che ha creato molti guasti sia per i diretti interessati sia per l’intero sistema, confermando l’opinione di Giuseppe Prezzolini secondo cui: “in Italia nulla è stabile fuorché il provvisorio”.
Ma questa opinione è stata espressa negli anni ottanta del novecento e certamente non con riguardo ai lavoratori e, ancor meno, con riferimento ai pubblici dipendenti.
Certo Prezzolini non poteva immaginare che quell’opinione si attagliasse, ad esempio, alla situazione lavorativa di ricercatori, infermieri o medici ‒ che svolgono lavori molto complessi e delicati ‒ i quali sono rimasti in una situazione di precarietà per dieci, quindici o venti anni, senza avere alcuna certezza sull’an, il quomodo e il quando della stabilizzazione.
Eppure questa è la situazione che si è verificata nel nostro Paese!
Il mancato rispetto da parte dei datori di lavoro sia privati sia pubblici delle regole previste per l’utilizzazione dei contratti di lavoro flessibile e, in particolare, dei contratti a termine ha dato luogo ad un imponente contenzioso ‒ che ha contribuito all’aumento dei costi della vicenda ‒ mentre i molteplici interventi succedutisi sia sul fronte della contrattazione collettiva sia sul fronte legislativo non sono stati risolutivi. E neppure lo sono state le sentenze delle Corti europee centrali in materia, anche se il loro apporto è stato molto significativo e come tale considerato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di cassazione.
L’elemento che è stato maggiormente dibattuto riguarda le conseguenze dell’abuso di contratti a termine e le diversità esistenti al riguardo tra i due suddetti settori.
La differenza fondamentale emerge ictu oculi dalla lettura dell’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001, ove si stabilisce che “la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione”.
In sintesi, mentre per i lavoratori privati è prevista la possibilità della trasformazione del contratto in contratto a tempo indeterminato, oltre alla corresponsione, a titolo risarcitorio di una indennità parametrata alle retribuzioni (vedi art. 32, commi 5-7, della legge n. 183 del 2010 e oggi art. 28 del d.lgs. n. 81 del 2015), ciò non accade per i lavoratori del settore pubblico.
Questa differenza di trattamento – con riguardo alla disciplina del contratto a termine – del lavoro pubblico rispetto a quello alle dipendenze di privati deriva principalmente dalla diversità di disciplina, rispettivamente applicabile nei due suddetti macro-settori, in materia di modalità di assunzione del personale, diversità principalmente incentrata sulla estraneità all’impiego privato del principio del pubblico concorso, sancito dall’art. 97, terzo comma, della Costituzione.
Il pubblico concorso in quanto metodo che offre le migliori garanzie di selezione dei più capaci è “un meccanismo strumentale rispetto al canone di efficienza dell’Amministrazione, il quale può dirsi pienamente rispettato qualora le selezioni non siano caratterizzate da arbitrarie forme di restrizione dei soggetti legittimati a parteciparvi; forme che possono considerarsi ragionevoli solo in presenza di particolari situazioni, che possano giustificarle per una migliore garanzia del buon andamento dell’amministrazione” (vedi, fra le tante: Corte cost., sentenze n. 194 e n. 373 del 2002; n. 293 del 2009).
Si tratta di un elemento che caratterizza il lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni e che va collegato al fatto che in questo ambito il capitale umano è uno dei principali fattori produttivi, visto che le P.A. non sono chiamate a creare direttamente profitti ma “valore” sicché, dovendo le loro strategie e capacità di gestione essere valutate in quest’ottica, per ottenere un reale miglioramento del servizio il personale “di qualità” ha un ruolo determinante.
Del resto, nonostante la riforma, tra il lavoro privato e quello pubblico, contrattualizzato o non, restano fisiologicamente notevoli differenze che ruotano principalmente sulle diverse individualità e caratteristiche dei datori di lavoro e sui loro differenti obiettivi, sicché può dirsi che anche il lavoro pubblico “contrattualizzato” comunque non è stato realmente privatizzato.
Questo, del resto risulta indirettamente confermato anche dall’art. 1, comma 3, del d.l. 12 luglio 2018, n. 87, convertito dalla legge 9 agosto 2018, n. 96 (Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese, c.d. “decreto dignità”) che ha escluso i contratti di lavoro stipulati dalle Pubbliche Amministrazioni dalle disposizioni da esso introdotte in materia di contratti di lavoro a tempo determinato, di esonero contributivo per favorire l’occupazione giovanile e di somministrazione di lavoro.
Nonostante la descritta situazione, derivante direttamente dagli artt. 97 e 98 Cost., da sempre l’imponente contenzioso – interno ed europeo ‒ relativo alla reiterazione o alla costituzione di rapporti di lavoro a tempo determinato da parte di Pubbliche Amministrazioni in violazione delle norme imperative, nel quale vengono in rilievo anche disposizioni di derivazione comunitaria, si incentra sulla indicata diversità di regime e sulle conseguenze che ne derivano.
Ma va detto che oggi il quadro normativo e giurisprudenziale è piuttosto definito sicché il peso delle incertezze interpretative è divenuto più lieve.
3.- La “stabile precarietà” effetto perverso della “flessibilizzazione” estrema.
Volendo trovare un momento iniziale al fenomeno della massiccia utilizzazione dei contratti a termine, si può fare riferimento al famoso rapporto dell’OCSE sull’occupazione del 1994 (Job Study), nel quale si sosteneva che per tutta l’Unione europea la politica della “flessibilizzazione” estrema era lo strumento giusto per affrontare la crisi occupazionale e imprenditoriale dell’epoca.
In ambito nazionale tale rapporto è stato seguito dal cosiddetto “pacchetto Treu”, cioè con la legge 24 giugno 1997, n. 196 (Norme in materia di promozione dell’occupazione) che ha rappresentato l’innovazione normativa più importante, nella seconda metà degli anni ‘90, in tema di contratti atipici e di revisione strutturale dei mercato del lavoro.
Con il Libro bianco sul mercato del lavoro presentato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali nell’ottobre 2001, la legge delega 14 febbraio 2003, n. 30 e il successivo d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 si è poi provveduto alla cristallizzazione della flessibilità dei rapporti di lavoro, rendendo così più visibile quella condizione di “stabilità precaria” − o “stabile precarietà” − dei “lavoratori non-standard”, cioè non assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Questa complessa normativa, basata sulla promozione della flessibilità esasperata e sulla creazione di un eccessivo numero di tipologie contrattuali possibili – che ha messo, di fatto, in discussione il primato del lavoro a tempo indeterminato – ha determinato un’enorme crescita, nel nostro mercato del lavoro, di forme di “lavoro ibrido” (secondo la definizione del CENSIS), non collocabili nei format di profili ordinariamente individuabili nel sistema organizzativo tradizionale (operai, impiegati, professionisti, imprenditori), trattandosi di un’area di lavoro “collocabile in quella terra di mezzo tra il lavoro dipendente tradizionale e autonomo di tipo imprenditoriale e professionale”, giunta nel 2013 a contare quasi 3,4 milioni di occupati (tra temporanei, intermittenti, collaboratori, finte partite Iva e prestatori d’opera occasionale), vale a dire il 15,1% del totale degli occupati, con punte fino al 50,7%, con riguardo all’occupazione dei giovani tra i 15 e i 24 anni.
La stessa logica è stata applicata al pubblico impiego, per effetto della privatizzazione del lavoro pubblico contrattualizzato disposta con il d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, dandosi ingresso anche in questo settore, ad una serie di contratti di lavoro non-standard , dopo il superamento, sul fronte dell’orario di lavoro, della regola originaria contenuta nell’art. 60 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 – secondo cui il rapporto di impiego pubblico era caratterizzato dal fondamentale connotato della esclusività – che ha comportato il riconoscimento, per le Amministrazioni dello Stato e degli enti pubblici istituzionali e territoriali, della possibilità di costituire rapporti di lavoro a tempo parziale (vedi, per tutte Corte cost. sentenza n. 141 del 2012).
Peraltro, deve essere sottolineato che la principale ragione dell’utilizzazione dei lavori non-standard dal lato della domanda viene identificata nella possibilità di favorire le cosiddette esigenze di flessibilità delle imprese onde accrescerne la competitività sicché si tratta di un elemento che eventualmente può valere per le imprese e in genere per le organizzazioni che producono profitti, mentre di questa tipologia di lavori si sono avvalse e si avvalgono tutti i tipi di organizzazioni lavorative e pure le Pubbliche Amministrazioni.
Inoltre, già da tempo è emerso che la flessibilizzazione del lavoro non ha prodotto gli effetti prefigurati originariamente dall’OCSE di freno alla dilagante disoccupazione, concentrata soprattutto al Sud e, in generale, tra i giovani e le donne, nonché di strumento utile per fare emergere l’ampio settore della economia sommersa e del lavoro in nero.
L’effetto principale è stato soltanto l’aumento della precarietà con conseguenti minori garanzie di tutela dei lavoratori assunti con contratto atipico, che sono condannati a “vivere nel presente” e che, se non emigrano, rischiano di entrare a far parte della terribile categoria degli schiavi del terzo millennio (alimentata dal caporalato che, purtroppo è tuttora presente e anzi è in espansione in tutto il territorio nazionale).
Infatti, a partire dagli anni novanta del novecento lentamente ma progressivamente in Europa e nel nostro Paese abbiamo assistito all’affermazione di un modello di occupazione che ci ha portato alla prevalenza di un lavoro poco dignitoso e “precario”, specialmente per i giovani e per i soggetti socialmente vulnerabili e che, in quanto tale si pone in contrasto con gli artt. 1 e 4 della nostra Costituzione, ove il diritto al lavoro dignitoso è delineato – al pari al diritto alla tutela della salute, sia pure in termini non del tutto coincidenti ‒ in una duplice dimensione individuale, cioè come diritto fondamentale delle singole persone, ma in una dimensione anche sociale, perché finalizzato al miglioramento del benessere dei singoli e contemporaneamente del corpo sociale in cui sono inseriti e, quindi, al futuro di entrambi.
In altri termini, in quella che il compianto Zygmunt Bauman ha definito “società liquida”, anche il lavoro è diventato “liquido” e, per un processo di eterogenesi, la dimensione sociale del diritto al lavoro è stata riferita alla “occupazione”, termine che si collega ad un’attività che consente di procurarsi un reddito e di vivere o anche solo sopravvivere nel presente, a differenza del “lavoro” che, per come lo intende anche la nostra Costituzione, non solo consente di procurarsi un reddito, ma anche di farlo mettendo a frutto i propri talenti e dando così un “un contenuto concreto” alla partecipazione del singolo alla comunità, in una dimensione che non è quindi solo legata al presente ma è proiettata verso il futuro.
Questa trasformazione è stata una conseguenza della globalizzazione che, nella fase attuale iniziata negli anni novanta del novecento (fase chiamata globalizzazione neo-liberista), nasce da ragioni tecnologico/scientifiche e, come tale, è un fenomeno economico-sociale inarrestabile perché legato all’evoluzione della stessa società moderna, come è confermato dal fatto secondo la definizione standardizzata OIL, adottata dagli istituti statistici di tutti i Paesi che fanno riferimento all’ONU è considerato occupato chi ha più di 15 anni e, nella settimana presa in considerazione, ha svolto almeno un’ora in un’attività che preveda un corrispettivo monetario o in natura, oppure ha svolto almeno un’ora di lavoro non retribuito nella ditta di un familiare.
Pertanto, possono rientrare tra le situazioni di “occupazione” anche quelle – che riguardano soprattutto giovani e migranti – di supersfruttamento, precarietà, assunzione di tutti i rischi da parte di un lavoratore considerato “autonomo” che tale non è nella realtà, le quali spesso si nascondono anche nella c.d. gig economy (che prende il nome da «gig», l’ingaggio a serata degli spettacoli jazz del primo Novecento e che viene anche definita come “economia dei lavoretti”) che, in alcuni casi, può consistere in una nuova forma di caporalato, il “caporalato digitale”, caratterizzato dall’assenza di posti di lavoro – a tempo determinato o indeterminato – e dall’offerta di prestazioni lavorative, prodotti o servizi quando c’è richiesta, nonché da un penetrante controllo a distanza, tramite algoritmi (per questo si parla di “algocrazia”) .
E se nelle Pubbliche amministrazioni non si è arrivati a tanto va però considerato che l’uso eccessivo, nel corso degli anni, delle forme contrattuali temporanee ‒ di vario tipo ‒ riscontratosi specialmente dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 276 del 2003 ha determinato molteplici effetti negativi, per i diretti interessati, ma anche per l’efficienza e l’immagine delle Pubbliche Amministrazioni.
Tali criticità non sono state ancora del tutto superate, benché ormai da tempo ‒ grazie alle sollecitazioni provenienti dalla UE, dall’OIL e dall’ONU in genere ‒ si sia diffusa l’esigenza di puntare su Pubbliche Amministrazioni organizzate secondo il canone del “benessere organizzativo”, canone che benché in origine – a partire dalla Convenzione OIL n. 155 del 1981 ‒ aveva come specifico obiettivo la salute e la sicurezza dei lavoratori (anche con riguardo ai rischi psicosociali allo stress lavoro-correlato), nel corso del tempo è divenuto comprensivo della tutela sia della salute e della sicurezza dei lavoratori sia della “salus” di tutto il contesto lavorativo, quindi della legalità e dell’etica di tale contesto e ‒ tramite il lavoro pubblico ‒ della legalità e dell’etica dello Stato.
4.- Contratti di lavoro a termine stipulati con le pubbliche amministrazioni. I principi affermati dalla Corte di Giustizia UE.
Anche l’anzidetta osservazione conferma che il tema del trattamento dei lavoratori e, in particolare, quello dei contratti a termine sia un tema di interesse per l’Unione europea (oltre che per l’OIL e la CEDU).
Questo interesse si è manifestato con l’emanazione della direttiva 1999/70/CE, “relativa all’accordo quadro CES, UNICE, CEEP sul lavoro a tempo determinato”, contenente la prima compiuta regolazione del contratto a termine in ambito UE.
Va anche considerato che, per costante giurisprudenza della CGUE, il carattere pubblico dell’ente datore di lavoro non incide sulla tutela di cui beneficia un lavoratore in base alla clausola 5 dell’accordo quadro, in quanto la direttiva 1999/70 e l’accordo quadro sono applicabili anche ai contratti di lavoro a tempo determinato conclusi con le Amministrazioni e gli altri enti del settore pubblico (vedi, in tal senso, sentenze 4 luglio 2006, Adeneler e a., C 212/04, punto 54, nonché 7 settembre 2006, Vassallo, C 180/04, punto 32), poiché la definizione della nozione di «lavoratori a tempo determinato» ai sensi dell’accordo quadro, figurante nella clausola 3, punto 1, di quest’ultimo, include tutti i lavoratori, senza operare distinzioni basate sulla natura pubblica o privata del loro datore di lavoro (vedi, in tal senso, sentenze del 4 luglio 2006, Adeneler e a., C 212/04, punto 56; 26 novembre 2014, Mascolo e a., C 22/13, da C 61/13 a C 63/13 e C 418/13, punto 67; 14 settembre 2016, Pérez López, C 16/15, punto 24; sentenza 25 ottobre 2018, Martina Sciotto, C.-331/17, punto 43 ).
A questa direttiva è stata data attuazione con il d.lgs. 6 settembre 2001 n. 368, la cui disciplina è stata molto contestata, sul principale rilievo secondo cui tale decreto avrebbe addirittura consentito un utilizzo indiscriminato del contratto a termine, attraverso un superamento dei principi restrittivi prima vigenti in ambito nazionale.
Comunque, quel che va sottolineato è che la direttiva e la sua disciplina attuativa hanno avuto l’effetto di provocare ‒ da parte dei nostri giudici nazionali ‒ numerosi interventi sia della Corte costituzionale sia della CGUE nonché della Corte di cassazione.
Le sentenze della CGUE relative alla nostra normativa nazionale in materia sono molto numerose, ma al vaglio della Corte di Giustizia, per effetto della nuova direttiva, sono state sottoposte anche legislazioni di altri Paesi UE attuative della direttiva stessa, basta pensare che la prima delle sentenze emesse al riguardo ‒ la famosa CGUE 22 novembre 2005, C-144/04, Mangold ‒ si è riferita alla legislazione tedesca ed ha esaminato importanti questioni interpretative, tra cui, in particolare, quella riguardante l’ambito applicativo della c.d. clausola di non regresso (clausola 8.3 dell’Accordo quadro recepito dalla suddetta) – clausola secondo cui: «L’applicazione del presente accordo non costituisce un motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell’ambito coperto dall’accordo stesso» .
La maggior parte delle questioni pregiudiziali proposte dai giudici italiani hanno riguardato contratti a termine stipulati nel settore pubblico, con particolare riferimento alle sanzioni per l’abuso di successione di contratti a termine nell’impiego alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni (vedi: CGUE: sentenze 7 settembre 2006, C-180/04, Vassallo, e 7 settembre 2006, C-53/04, Marrosu e Sardino, peraltro coeve alla sentenza 4 luglio 2006, C-212/04, Adeneler, quest’ultima riguardante analoga questione rimessa dai giudici della Grecia con riguardo alla propria legislazione nazionale).
Fin dalle prime sentenze la CGUE, dopo aver premesso che la direttiva 1999/70/CE trova applicazione anche al settore pubblico, ha aggiunto (punti 91-95, 101-102 della sentenza Adeneler, punti 48-53 della sentenza Marrosu e Sardino) che l’accordo quadro non stabilisce un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti a tempo determinato ma lascia agli Stati la facoltà di scegliere le forme ed i mezzi più idonei al fine di garantire l’efficacia pratica della direttiva. Spetta al giudice nazionale la valutazione in merito all’effettiva equivalenza in concreto tra il risarcimento monetario e la misura sufficiente effettiva e dissuasiva per garantire la piena efficacia delle norme adottate in attuazione dell’accordo quadro, alla luce della stessa giurisprudenza UE secondo la quale le misure per prevenire gli abusi e per reprimerli devono comunque essere adeguate all’obiettivo di impedire l’uso ingiustificato dei contratti a termine e cancellare le conseguenze della violazione del diritto UE (principi consolidatisi nella successiva giurisprudenza: sentenza del 26 novembre 2014, Mascolo e a., C-22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/13, punto 80, nonché ordinanza dell’11 dicembre 2014, León Medialdea, C-86/14, punto 47; sentenza 25 ottobre 2018, C.-331/17, Martina Sciotto, punto 59).
In definitiva, nelle sentenze sopra richiamate, la CGUE ha affermato – come principio generale – la possibilità, nel caso di contratti a termine stipulati al di fuori dei limiti UE, di ritenere compatibile con i principi della direttiva una soluzione esclusivamente risarcitoria, purché adeguata al danno patito e dissuasiva.
La Corte europea – pur avendo sottolineato che gli Stati membri devono “prendere tutte le disposizioni necessarie per essere sempre in grado di garantire i risultati prescritti dalla detta direttiva” (sentenza Adeneler, cit., punto 102) – non ha però fatto alcuno accenno all’art. 97, terzo comma, della nostra Costituzione che impedisce la trasformazione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato proprio perché il principio fondamentale in materia di instaurazione del rapporto di impiego alle dipendenze della PA è l’accesso mediante concorso (Corte cost., sentenza n. 89 del 2003 che ha ritenuto costituzionalmente legittimo l’art. 36, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, di cui si è detto).
Questo non deve stupire ove si consideri che, nonostante il rafforzamento del dialogo tra gli Stati UE nella materia del lavoro privato riscontratosi nel corso del tempo – di cui la citata direttiva e l’Accordo quadro ad essa allegato rappresentano una importante risultato positivo – tuttavia il rapporto di “pubblico impiego” − anche quello, da noi, contrattualizzato (a partire dal d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29) – in linea generale, è stato sempre lasciato da parte, nell’ambito di tale dialogo, in conformità con quel che dispongono i Trattati, per i quali si tratta di un settore in cui va riconosciuta ampia discrezionalità agli Stati membri, salvo che vengano in considerazione violazioni di diritti fondamentali dell’Unione, come quello di non discriminazione e oggi anche il diritto alle ferie retribuite del lavoratore pubblico e/o privato.
In particolare, alla nozione di “pubblico impiego” si applica il principio generale affermato dalla giurisprudenza costante della CGUE secondo cui tanto dalla necessità di garantire l’applicazione uniforme del diritto dell’Unione quanto dal principio di uguaglianza discende che i termini di una disposizione di diritto dell’Unione che non contenga alcun espresso richiamo al diritto degli Stati membri per quanto riguarda la determinazione del suo senso e della sua portata devono di norma essere oggetto, nell’intera Unione europea, di un’interpretazione autonoma e uniforme da effettuare tenendo conto del contesto della disposizione da interpretare e della finalità perseguita dalla normativa di cui trattasi (vedi sentenze del 14 febbraio 2012, Flachglas Torgau, C-204/09, punto 37 e giurisprudenza ivi citata, nonché del 7 settembre 2017, Schottelius, C-247/16, punto 32 e giurisprudenza ivi citata nonché sentenza Grande Sezione 20 novembre 2018, C-147/17, Sindicatul Familia Constanţa e a., punto 54).
Una impostazione analoga – mutatis mutandis – viene seguita anche da parte della Corte di Strasburgo, la quale – in assenza nella Convenzione e nei suoi Protocolli, di uno specifico titolo di competenza in materia di lavoro, ad eccezione dell’art. 11 della CEDU sulla libertà sindacale – ha sempre affermato che, in linea di principio, agli Stati è riconosciuta ampia discrezionalità nella regolamentazione del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici (vedi, per tutte: sentenza del 20 settembre 2005 Akat c. Turchia, cit.) e, se si è occupata della materia, lo ha fatto per altre strade, in applicazione del suo consueto “dinamismo” interpretativo.
Questa situazione non è cambiata con il Trattato di Lisbona. Infatti, l’art. 4, paragrafo 1, TUE stabilisce che “qualsiasi competenza non attribuita all’Unione nei trattati appartiene agli Stati membri” e la CGUE, richiamando questa norma, ha sempre riconosciuto il potere degli Stati membri di organizzare e razionalizzare le rispettive pubbliche amministrazioni, anche con riguardo alle modalità di reclutamento del personale.
In questo contesto, il nostro legislatore nel dare attuazione alla suindicata direttiva, con il d.lgs. n. 368 del 2001, al fine di evitare utilizzazioni abusive del contratto a tempo determinato aveva fissato nel periodo massimo di trentasei mesi il tempo di possibile impiego di un lavoratore per effetto di successivi contratti a termine e tale disciplina è stata considerata applicabile anche nei confronti delle pubbliche amministrazioni, escludendo, ovviamente – in quest’ultimo caso – la conversione del contratto e, quindi, prevedendo il diritto al risarcimento del danno (Corte cost., ordinanza n. 207 del 2013).
Tale norma, peraltro, è stata oggetto di plurime modifiche ed è stata poi abrogata (insieme con tutto il d.lgs. n. 368) dal d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, il cui art. 21 ha continuato a fare riferimento al periodo massimo di trentasei mesi.
Da ultimo il d.l. n. 87 del 2018, convertito dalla legge n. 96 del 2018 ha modificato il suddetto art. 21 prevedendo una durata iniziale del contratto non superiore a ventiquattro mesi, ma come si è detto tale decreto non si applica al lavoro pubblico.
Peraltro, pur con le diverse modificazioni nel tempo subite dalla disciplina in materia, quel che conta è che nell’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001 è sempre rimasta la duplice disposizione secondo cui: a) la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte delle Pubbliche Amministrazioni non può certamente comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime Amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione; b) il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative.
In questa ottica, come più volte affermato dalla CGUE, la responsabilità dei dirigenti, prevista dalla normativa nazionale per le violazioni di natura dolosa o derivanti da colpa grave, non riveste, di per sé, carattere sufficientemente effettivo e dissuasivo tale da garantire la piena efficacia delle norme adottate in applicazione dell’accordo quadro e se ciò accade deve essere il giudice a valutarlo, caso per caso (vedi, in tal senso, sentenza del 7 marzo 2018, C-494/16, Santoro, punti 52 e 53; sentenza 25 ottobre 2018, C.-331/17, Martina Sciotto, punto 63). Ma la previsione della suddetta responsabilità concorre a fare sì che, nel nostro ordinamento, siano previste misure conformi al diritto UE per prevenire e sanzionare gli abusi.
La suindicata norma è stata ritenuta conforme gli artt. 3 e 97 Cost. (Corte cost., sentenza n. 89 del 2003), mentre la Corte di Giustizia ne ha escluso il contrasto con la clausola 5 dell’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, purché siano previste «nel settore interessato altre misure effettive per evitare, ed eventualmente sanzionare, il ricorso abusivo a contratti a tempo determinato stipulati in successione» (ordinanza 1° ottobre 2010, Affatato , C-3/10, punto 51).
Quel che invece, in molte situazioni, si è registrato è il mancato rispetto il suddetto limite temporale da parte delle Pubbliche Amministrazioni e questo ha posto – e continua a porre – la questione del regime sanzionatorio degli abusi, tanto più alla luce della clausola 5, punto 1, dell’Accordo quadro suddetto, secondo cui allo scopo di prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri sono tenuti – in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi – ad introdurre una o più misure attuative, tranne che non vi siano ragioni obiettive che giustifichino il rinnovo di tali contratti, ovvero ad introdurre norme che indichino la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi o il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti.
La CGUE – pur avendo reiteratamente affermato che la sfera di applicazione dell’Accordo quadro in oggetto è stata concepita in modo ampio e tale da includere tutti i lavoratori, senza distinzioni basate sulla natura pubblica o privata del loro datore di lavoro – normalmente si rimette alla legislazione e/o alle prassi nazionali per la specifica definizione dell’ambito applicativo dell’Accordo a livello nazionale, anche in considerazione dei diversi settori, precisando solo che tale definizione nazionale non deve portare ad escludere arbitrariamente una categoria di soggetti dal godimento della tutela offerta dall’accordo quadro (sentenze Sibilio, C-157/11, punti 42 e 51; Rosado Santana, C-177/10; Marrosu e Sardino, C-53/04).
Questo comporta, ad esempio, che non venga considerata di per sé incompatibile con la normativa europea la previsione di un regime particolare per i contratti a termine del personale scolastico – docente e non docente – visto che non possono nutrirsi dubbi sul fatto che il servizio svolto dalla scuola pubblica abbia caratteristiche del tutto particolari, come si dirà in seguito.
Inoltre anche se, per la giurisprudenza della CGUE, la clausola 5, punto 1, dell’Accordo quadro deve essere interpretata nel senso che essa vieta l’utilizzazione di contratti di lavoro a tempo determinato successivi che sia giustificata dalla sola circostanza di essere prevista da una disposizione legislativa o regolamentare generale di uno Stato membro, viceversa, in base alla medesima giurisprudenza, l’esigenza temporanea di personale sostitutivo, prevista da una normativa nazionale, può, in linea di principio, costituire una ragione obiettiva che autorizza il ricorso all’assunzione a termine ai sensi di detta clausola (sentenza 26 gennaio 2012, Kücük, C-586/10, punti 30-31).
Anzi, a tale ultimo riguardo, la stessa CGUE ha stabilito che mentre la clausola 4, punto 1, dell’Accordo cit., punto 1, sotto il profilo del suo contenuto, appare incondizionata e sufficientemente precisa per poter essere invocata da un singolo dinanzi ad un giudice nazionale, viceversa la clausola 5, punto 1, dell’Accordo quadro non può considerarsi dotata di efficacia diretta (sentenza 15 aprile 2008, in causa C-268/06, Impact, punti 68, 71, 78 e 79; sentenza 23 aprile 2009, in causa C-378/380/07, Angelidaki, punto 196), ed ha aggiunto che si deve valutare, caso per caso, la sussistenza di eventuali «ragioni obiettive» ai sensi della direttiva, che possano giustificare lo scostamento dell’ordinamento nazionale dai principi da essa stabiliti.
5.- La sentenza della Corte di Giustizia UE 25 ottobre 2018, C.-331/17, Martina Sciotto.
Comunque, dato il progressivo diffondersi in tutti gli Stati UE di forme di lavoro temporaneo che spesso si accompagnano a trattamenti differenziati in danno dei lavoratori coinvolti, la giurisprudenza della CGUE in materia, dopo le anzidette prime sentenze, è divenuta sempre più imponente ed incisiva, proponendosi di salvaguardare in modo efficace il principio fondamentale indicato nel secondo comma del preambolo dell’accordo quadro in base al quale: “le parti firmatarie dell’accordo riconoscono che i contratti a tempo indeterminato sono e continueranno ad essere la forma comune dei rapporti di lavoro fra i datori di lavoro e i lavoratori” (principio oggi contenuto anche nell’art. 1 del d.lgs. n. 81 del 2015). Pur essendovi dei casi in cui i contratti a tempo determinato rispondono, in alcune circostanze, sia alle esigenze dei datori di lavoro sia a quelle dei lavoratori.
Un esempio importante della maggiore incisività della giurisprudenza della Corte UE è rappresentato dalla recente sentenza 25 ottobre 2018, C.-331/17, Martina Sciotto, ove è stato affermato il principio secondo cui: la clausola 5 dell’accordo quadro cit. deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, in forza della quale le norme di diritto comune disciplinanti i rapporti di lavoro, e intese a sanzionare il ricorso abusivo a una successione di contratti a tempo determinato tramite la conversione automatica del contratto a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato se il rapporto di lavoro perdura oltre una data precisa, non sono applicabili al settore di attività delle fondazioni lirico-sinfoniche (nella specie: Fondazione Teatro dell’Opera di Roma), qualora non esista nessun’altra misura effettiva nell’ordinamento giuridico interno che sanzioni gli abusi constatati in tale settore.
La Corte dopo aver ribadito i principi affermati a proposito della clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro ha rilevato che la normativa nazionale applicabile:
1) consente l’assunzione, nel settore delle fondazioni lirico-sinfoniche, di lavoratori tramite contratti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione, senza prevedere nessuno dei limiti di cui alla clausola 5, punto 1;
2) anzi i contratti di lavoro in tale settore sono espressamente esclusi dall’ambito di applicazione della disposizione nazionale, che consente la conversione di contratti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione oltre una certa durata in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato;
3) neppure è stata evidenziata la presenza di una norma equivalente a quelle di cui alla clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro;
4) è da escludere che, nel settore delle fondazioni lirico-sinfoniche, una successione di contratti di lavoro a tempo determinato potesse essere giustificata da una “ragione obiettiva” ai sensi della clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro, ricavabile dalla particolare natura delle funzioni per l’espletamento delle quali sono stati conclusi i contratti in questione, dalle caratteristiche ad esse inerenti o, eventualmente, dal perseguimento di una legittima finalità di politica sociale di uno Stato membro;
5) è da considerare irrilevante l’argomento del Governo italiano relativo all’assimilabilità agli enti pubblici delle fondazioni lirico-sinfoniche, benché esse siano costituite in forma di persone giuridiche di diritto privato, ricordando la propria costante giurisprudenza in base alla quale la direttiva 1999/70 e l’accordo quadro sono applicabili anche ai contratti di lavoro a tempo determinato conclusi con le amministrazioni e gli altri enti del settore pubblico;
6) le esigenze artistiche o tecniche connesse alla rappresentazione di uno spettacolo così come la necessità di provvedere alla sostituzione di un artista o di un tecnico non disponibile, in particolare, a causa di malattia o di maternità possono legittimare un’assunzione temporanea;
7) ma, al contrario, non si può ammettere che contratti di lavoro a tempo determinato possano essere rinnovati per la realizzazione, in modo permanente e duraturo, di compiti nelle istituzioni culturali in oggetto che rientrano nella normale attività del settore delle fondazioni lirico-sinfoniche.
8) nella specie i diversi contratti di lavoro a tempo determinato con i quali la ricorrente è stata assunta hanno dato luogo all’espletamento di compiti analoghi per vari anni, cosicché tale rapporto di lavoro, circostanza che spetta tuttavia al giudice del rinvio verificare, potrebbe aver soddisfatto un’esigenza non già provvisoria bensì, al contrario, duratura.
9) sono ininfluenti gli argomenti ‒ sviluppati dal Governo italiano ‒ relativamente alle considerazioni di bilancio, ricordando la propria costante giurisprudenza secondo cui, sebbene siffatte considerazioni possano costituire il fondamento delle scelte di politica sociale di uno Stato membro e possano influenzare la natura ovvero la portata delle misure che esso intende adottare, esse non costituiscono tuttavia, di per sé, un obiettivo perseguito da tale politica e, pertanto, non possono giustificare l’assenza di qualsiasi misura di prevenzione del ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato ai sensi della clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro (sentenza del 26 novembre 2014, Mascolo e a., C-22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/13, punto 110, nonché ordinanza del 21 settembre 2016, Popescu, C-614/15, punto 63);
10) la CGUE ha soggiunto che una disciplina nazionale che consente il rinnovo di contratti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione per sostituire personale in attesa dell’esito di procedure di concorso, organizzate al fine di assumere lavoratori a tempo indeterminato, non è di per sé contraria all’accordo quadro e può essere giustificata da una ragione obiettiva, sempre che la relativa applicazione sia conforme ai requisiti dell’accordo quadro (v., in tal senso, sentenza Mascolo e a., punti 91 e 99, nonché ordinanza del 21 settembre 2016, Popescu, C-614/15, punto 64);
11) tale situazione però non è emersa nella specie non contenendo il fascicolo a disposizione della Corte alcuna informazione riguardo alla possibilità per la ricorrente nel procedimento principale di aver potuto partecipare a procedure di concorso organizzate dal suo datore di lavoro, né riguardo all’esistenza stessa di tali procedure;
12) pur non essendovi alcun obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione dei contratti di lavoro a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato, tuttavia, affinché una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che vieta, nel settore delle fondazioni lirico-sinfoniche, la trasformazione in contratto di lavoro a tempo indeterminato di una successione di contratti a tempo determinato, possa essere considerata conforme all’accordo quadro, è necessario che l’ordinamento giuridico interno dello Stato membro interessato preveda, in tale settore, un’altra misura effettiva per evitare, ed eventualmente sanzionare, l’utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato (vedi, per analogia, sentenze del 14 settembre 2016, Martínez Andrés e Castrejana López, C-184/15 e C-197/15, punto 41, nonché del 7 marzo 2018, Santoro, C-494/16, punto 34);
13) mentre è pacifico che i lavoratori del settore delle fondazioni lirico-sinfoniche non solo non hanno diritto, persino in caso di abuso, alla conversione dei loro contratti di lavoro a tempo determinato in rapporto di lavoro a tempo indeterminato ma neppure beneficiano di altre forme di tutela, come la fissazione di un limite alla possibilità di ricorrere ai contratti a tempo determinato.
Di qui la conclusione che l’ordinamento giuridico italiano non comprende, nel settore delle fondazioni lirico-sinfoniche, nessuna misura effettiva che sanzioni l’utilizzo abusivo di contratti a tempo determinato, e ciò sebbene il personale di tale settore, contrariamente ai lavoratori di cui trattasi nella causa che ha condotto alla sentenza del 7 marzo 2018, Santoro (C-494/16, punti 35 e 36), non abbia diritto all’attribuzione di un’indennità ai fini del risarcimento del danno subito.
Spetta al giudice del rinvio verificare se la chiamata in causa della responsabilità dei dirigenti, prevista dalla normativa nazionale per le violazioni di natura dolosa o derivanti da colpa grave, rivesta un carattere sufficientemente effettivo e dissuasivo tale da garantire la piena efficacia delle norme adottate in applicazione dell’accordo quadro (vedi, in tal senso, sentenza del 7 marzo 2018, Santoro, punti 52 e 53).
Comunque, se il giudice del rinvio dovesse constatare l’inesistenza, nella normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento principale, di una qualsiasi altra misura effettiva per evitare e sanzionare gli abusi nei confronti del personale del settore delle fondazioni lirico-sinfoniche, una siffatta situazione sarebbe idonea a pregiudicare l’obiettivo e l’effetto utile della clausola 5 dell’accordo quadro.
E viene ricordato che, secondo costante giurisprudenza, l’obbligo degli Stati membri, derivante da una direttiva, di raggiungere il risultato previsto da quest’ultima, nonché il loro dovere, ai sensi dell’articolo 4 TUE, di adottare tutti i provvedimenti generali o particolari atti a garantire l’adempimento di tale obbligo, si impongono a tutte le autorità degli Stati membri, ivi comprese, nell’ambito della loro competenza, quelle giurisdizionali (sentenza del 14 settembre 2016, Martínez Andrés e Castrejana López, C-184/15 e C-197/15, punto 50 nonché giurisprudenza ivi citata).
Nella specie, quindi, il giudice adito, nei limiti del possibile e qualora si sia verificato un utilizzo abusivo di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, è chiamato ad interpretare ed applicare le pertinenti disposizioni di diritto interno in modo da sanzionare debitamente tale abuso e da eliminare le conseguenze della violazione del diritto dell’Unione (ordinanza dell’11 dicembre 2014, León Medialdea, C-86/14, punto 56), tenendo conto del fatto che l’assoluta mancata previsione della trasformazione dei contratti di lavoro a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato nel settore qui esaminato, può creare una discriminazione tra lavoratori a tempo determinato di detto settore e lavoratori a tempo determinato degli altri settori, poiché questi ultimi, dopo la conversione del loro contratto di lavoro in caso di violazione delle norme relative alla conclusione di contratti a tempo determinato, possono diventare lavoratori a tempo indeterminato comparabili ai sensi della clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro.
6.- Il pubblico concorso come ordinaria modalità di assunzione dei dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni.
Intanto, nel nostro ordinamento, il contenzioso in materia non si è sopito, specialmente con riguardo alle questioni connesse agli abusi verificatisi nell’utilizzazione delle assunzioni a termine nel lavoro pubblico contrattualizzato e al relativo regime sanzionatorio, differenziato rispetto a quello previsto per il lavoro privato.
Questa differenza di trattamento – con riguardo alla disciplina del contratto a termine – del lavoro pubblico rispetto a quello alle dipendenze di privati deriva principalmente dalla diversità di disciplina, rispettivamente applicabile nei due suddetti macro-settori, in materia di modalità di assunzione del personale, diversità principalmente incentrata sulla estraneità all’impiego privato del principio del pubblico concorso, sancito dall’art. 97, terzo comma, della Costituzione .
Uno dei settori in cui il contenzioso è più nutrito è quello del precariato scolastico che ha delle caratteristiche particolari, come è stato evidenziato nell’ordinanza n. 207 del 2013, nella quale, per la prima volta, la Corte costituzionale ha utilizzato lo strumento del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE in un giudizio di costituzionalità in via incidentale, riguardante appunto la disciplina applicabile nella suindicata materia, come si dirà più avanti.
6.1.- La giurisprudenza della Corte costituzionale.
Con riguardo al pubblico concorso va ricordato che secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza costituzionale, cui si è uniformata la costante giurisprudenza della Corte di cassazione (tra le tante: Cass. 30 dicembre 2014, n. 27481):
a) il concorso pubblico costituisce la modalità generale ed ordinaria di accesso nei ruoli delle pubbliche amministrazioni, anche delle Regioni, pure se a statuto speciale (vedi, per tutte: sentenze nn. 7 del 2015; 211 e 134 del 2014; 227, 137, 106, 72, 7 del 2013; 62 del 2012; 310 e 299 del 2011; 267 del 2010; 189 del 2007);
b) la eccezionale possibilità di derogare per legge al principio del concorso per il reclutamento del personale che è prevista dall’art. 97, terzo comma, Cost. deve rivelarsi, a sua volta, maggiormente funzionale al buon andamento dell’amministrazione e corrispondere a straordinarie esigenze d’interesse pubblico, individuate dal legislatore in base ad una valutazione discrezionale, effettuata nei limiti della non manifesta irragionevolezza (vedi, per tutte, sentenze nn. 134 del 2014; 217 del 2012; 89 del 2003; 320 del 1997; 205 del 1996);
c) in particolare, “la facoltà del legislatore di introdurre deroghe al principio del concorso pubblico deve essere delimitata in modo rigoroso, potendo tali deroghe essere considerate legittime solo quando siano funzionali esse stesse al buon andamento dell’amministrazione e ove ricorrano peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico idonee a giustificarle” (sentenze n. 110 del 2017 e n. 90 de 2012);
d) nessun vincolo al riguardo può ravvisarsi in una pretesa esigenza di uniformità di trattamento rispetto alla disciplina dell’impiego privato, visto che ad esso il principio del concorso è del tutto estraneo (sentenza n. 89 del 2003, cit.);
e) la necessità del concorso pubblico è stata ribadita con specifico riferimento a disposizioni legislative che prevedevano il passaggio automatico all’amministrazione pubblica di personale di società in house, ovvero di società o associazioni private, in particolare il trasferimento da una società partecipata da una Regione alla Regione stessa o ad altro soggetto pubblico regionale si risolve in un privilegio indebito per i soggetti beneficiari di un siffatto meccanismo, in violazione dell’articolo 97 Cost. (sentenze n. 40 del 2018; n. 7 del 2015; n. 134 del 2014; n. 227 del 2013; n. 62 del 2012; n. 310 e n. 299 del 2011; n. 267 del 2010; n. 363 e n. 205 del 2006);
f) invece le disposizioni in tema di «regime giuridico» delle società partecipate dalle pubbliche amministrazioni (statali, regionali o locali) debbono essere ricondotte alla materia dell’ordinamento civile tutte le volte in cui esse non attengano alle forme di svolgimento di attività amministrativa (sentenza n. 326 del 2008), sicché la disciplina delle assunzioni valevole per tali soggetti di diritto privato è estranea ai profili strettamente connessi con lo svolgimento di attività amministrativa e deve essere ricondotta alla normativa in tema di ordinamento di queste società di capitali, oggetto, in generale, di norme di diritto privato (sentenza n. 173 del 2012), senza quindi l’obbligo di adottare il regime del pubblico concorso per il reclutamento dei dipendenti e quindi con sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario sulle relative controversie (di recente: Cass. SU 27 marzo 2017 n. 7759 e giurisprudenza ivi richiamata).
In diverse occasioni la Corte costituzionale ha affermato che le norme statali che hanno previsto limitazioni alle assunzioni di personale – pure per rapporti di collaborazione coordinata e continuativa e, in generale per rapporti precari in organismi e strutture facenti capo alla Regione – da parte delle pubbliche amministrazioni comprese le Regioni, gli enti locali nonché gli enti del Servizio sanitario nazionale, essendo volte alla finalità del contenimento della spesa pubblica, costituiscono principi fondamentali nella materia del coordinamento della finanza pubblica, trattandosi di norme che – senza, peraltro, indicare strumenti e modalità per il perseguimento di tali finalità da parte degli enti destinatari e, in particolare, da parte delle Regioni – incidono sulla spesa per il personale, la quale, «per la sua importanza strategica ai fini dell’attuazione del patto di stabilità interna (data la sua rilevante entità), costituisce non già una minuta voce di dettaglio, ma un importante aggregato della spesa di parte corrente» (sentenze nn. 139 del 2012; 108 e 69 del 2011, che richiamano la sentenza n. 169 del 2007).
Per le stesse ragioni è stata considerata costituzionalmente legittima una norma statale (art. 9, comma 28, del d.l. n. 78 del 2010) – espressamente qualificata come principio generale di coordinamento della finanza pubblica al quale devono adeguarsi le Regioni, le Province autonome, e gli enti del Servizio sanitario nazionale – che, a partire dal 2011, ha imposto ad una serie di pubbliche amministrazioni statali nonché (a decorrere dal 2012) anche alle Camere di commercio e agli enti locali limiti alla possibilità di ricorrere alle assunzioni a tempo determinato e alla stipula di convenzioni e contratti di collaborazione coordinata e continuativa, nonché limiti alla spesa sostenibile dalle stesse amministrazioni per i contratti di formazione-lavoro, gli altri rapporti formativi, la somministrazione di lavoro e il lavoro accessorio.
Nella sentenza n. 173 del 2012 la Corte costituzionale ha sottolineato che la suddetta norma è stata legittimamente emanata dallo Stato nell’esercizio della sua competenza concorrente in materia di coordinamento della finanza pubblica, ponendo un obiettivo generale di contenimento della spesa relativa ad un vasto settore del personale – e, precisamente, a quello costituito da quanti collaborano con le pubbliche amministrazioni in virtù di contratti diversi dal rapporto di impiego a tempo indeterminato – ma al contempo lasciando alle singole amministrazioni la scelta circa le misure da adottare con riferimento ad ognuna delle categorie di rapporti di lavoro da esso previsti.
Nella successiva sentenza n. 130 del 2013 la Corte ha aggiunto che mentre tale norma – nella versione antecedente alla modifica introdotta con l’art. 4, comma 103, della legge n. 183 del 2011 – riguardava qualsiasi spesa di personale, a prescindere dalla forma contrattuale civilistica prescelta dall’ente pubblico, comprendendo anche i contratti di collaborazione a tempo determinato, invece per effetto del suindicato successivo intervento legislativo, con una modifica della portata letterale della norma, è stato precisato in modo esplicito (con norma non interpretativa) che la limitazione del 20 % riguardava, per l’avvenire, i soli contratti di lavoro a tempo indeterminato
Nella stessa sentenza n. 173 del 2012 è stata dichiarata l’infondatezza anche della norma prevedente un vincolo alle facoltà di assunzione degli enti pubblici di nuova istituzione, rilevandosi che le misure in essa previste sono complementari alle limitazioni alle assunzioni da parte di pubbliche amministrazioni contenute nelle generali disposizioni della legislazione statale di principio in materia e sono dirette ad evitare che quelle limitazioni (che riguardano le amministrazioni già esistenti) siano eluse mediante l’istituzione di nuovi enti che possano procedere a indiscriminate nuove assunzioni.
Inoltre nella medesima sentenza n. 173 del 2012 la Corte ha precisato che la norma (art. 9, comma 29, del d.l. n. 78 del 2010) che ha esteso anche a soggetti di diritto privato (quali sono le società partecipate dalle pubbliche amministrazioni) le disposizioni limitative in tema di assunzioni dovendo essere ricondotta alla normativa in tema di ordinamento di queste società di capitali, oggetto, in generale, di norme di diritto privato, era da considerare emanata dallo Stato nell’esercizio della competenza legislativa attribuitagli dall’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione.
In base ai suindicati principi, è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di norme regionali che – con le più varie modalità e con riguardo a differenti fattispecie – si ponevano in contrasto con la finalità di riduzione delle spese per il personale e al contenimento della dinamica retributiva, come delineata dalla disciplina statale (vedi, fra le tante: sentenze nn. 181, 87, 54, 27 e 19 del 2014; 36 e 18 del 2013; 33 del 2012; 108 del 2011).
Per le medesime ragioni è stata, d’altra parte, dichiarata l’infondatezza di questioni di legittimità costituzionale prospettate dalle Regioni con riguardo a tali norme statali in materia (vedi, fra le tante: sentenze nn. 269 e 61 del 2014; 173, 161 e 148 del 2012).
6.2.- La conseguente giurisprudenza della Corte di cassazione.
6.2.1.- Il contenimento della spesa per il personale.
La Corte di cassazione si è, ovviamente, uniformata a tali indirizzi del Giudice delle leggi, anche con riguardo ai suddetti problemi di contenimento della spesa.
Così Cass. 11 luglio 2018, n. 18271 ha affermato che il servizio prestato in pronto soccorso, per lunghi periodi con turni, anche notturni, oltre l’orario ordinario da parte dei dirigenti sanitari di un Ospedale romano, a causa della grave carenza di personale, fosse coperto dalla retribuzione di risultato prevista dall’art. 60 del CCNL dirigenza medica e veterinaria del 3 novembre 2005, non potendo essere configurate come prestazioni libero-professionali richieste, in via eccezionale e temporanea, ad integrazione dell’attività istituzionale, ai sensi dell’art. 55, comma 2, del CCNL 1998-2001, avendo la suddetta carenza carattere strutturale e non contingente, trovando origine nelle limitazioni alle assunzioni da parte delle Pubbliche Amministrazioni basate sul cd. “patto di stabilità interno”, di cui all’art. 28 della legge n. 448 del 1998, principio fondamentale di finanza pubblica finalizzato al contenimento della spesa regionale e locale.
Nella motivazione della sentenza è stato sottolineato che il suddetto “patto di stabilità interno”, concerne il concorso delle Regioni e degli enti locali “alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica che il Paese ha adottato con l’adesione al Patto di stabilità e crescita” (PSC) stipulato nel 1997 tra gli Stati membri dell’Unione europea per garantire il controllo delle rispettive politiche di bilancio pubblico, con l’assunzione dell’impegno degli enti medesimi a ridurre il finanziamento in disavanzo delle proprie spese e il rapporto tra il proprio ammontare di debito e il prodotto interno lordo. Come chiarito dalla Corte costituzionale (vedi, per tutte: sentenze n. 36 e n. 4 del 2004) il suddetto “patto di stabilità interno” è stato introdotto con l’art. 28 della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (ma, già prima, l’art. 48 della legge n. 449 del 1997, stabiliva obiettivi globali di contenimento del fabbisogno finanziario generato dalla spesa regionale e locale, in vista della realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica (vedi: Corte cost., sentenza n. 507 del 2000). Esso si è tradotto all’inizio in un vincolo alla riduzione o alla stabilità del 4 disavanzo annuo degli enti (vedi: art. 28, comma 2, della legge n. 448 del 1998; art. 30, comma 1, della legge n. 488 del 1999), successivamente in un limite massimo alla crescita del disavanzo (art. 53, comma 1, della legge n. 388 del 2000; art. 24, comma 1, della legge n. 448 del 2001) o ancora in un vincolo alla riduzione o alla stabilità di esso (art. 29, commi 4 e 6, della legge n. 289 del 2002). I principi contenuti nelle suddette disposizioni, anche nel nuovo assetto costituzionale, successivo alla riforma costituzionale del 2001, sono configurati dalla Corte costituzionale come principi fondamentali nella materia del coordinamento della finanza pubblica, specificamente per la parte destinata ad incidere sulla spesa per il personale delle Regioni, degli enti locali e del Servizio Sanitario Nazionale, trattandosi di una spesa la quale, «per la sua importanza strategica ai fini dell’attuazione del patto di stabilità interno (data la sua rilevante entità), costituisce non già una minuta voce di dettaglio, ma un importante aggregato della spesa di parte corrente» (Corte cost., sentenze n. 139 del 2012; n. 108 e n. 69 del 2011, che richiamano la sentenza n. 169 del 2007). In questa situazione di carattere generale, la Regione Lazio, nel corso degli anni, ha progressivamente accumulato un ingente disavanzo nella spesa sanitaria, tanto che a decorrere dal 2007 – quindi in un periodo successivo a quello cui si riferisce il presente giudizio – è stato disposto il commissariamento proprio del Settore Sanità regionale e solo da pochi mesi la Regione è riuscita ad uscirne, tornando in condizione anche di poter fare nuove assunzioni.
6.2.2.- Il riparto di giurisdizione.
Le decisioni al riguardo sono molto numerose. I principi fondamentali affermati, per quel che qui interessa, sono i seguenti:
1) è pacifico che spetta alla Amministrazione decidere in ordine alle modalità di assunzione del personale (se tramite liste di collocamento ovvero mobilità ovvero con procedura concorsuale) tuttavia una volta effettuata la scelta e svolta la procedura l’Amministrazione è vincolata all’esito di questa, il che significa tenere conto del fatto che in caso di selezione o concorso dopo l’approvazione della graduatoria sorge un diritto soggettivo all’assunzione da parte dei vincitori, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario (indirizzo consolidato delle Sezioni Unite);
2) nel pubblico impiego privatizzato, la riserva di giurisdizione amministrativa in materia di procedure concorsuali ex art. 63, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001 non estende la sua rilevanza alla fase successiva all’approvazione della graduatoria e, in particolare, alle controversie relative alle pretese di assunzione basate sull’esito del concorso; pertanto, è devoluta alla giurisdizione ordinaria la controversia instaurata nei confronti dell’ente pubblico dal soggetto che, senza contestare la procedura concorsuale e l’utilizzo della relativa graduatoria, ne denunci il criterio di scorrimento, finalizzato alla reiterata stipulazione di contratti a tempo determinato con lo stesso lavoratore fino al raggiungimento del limite legale di utilizzo del lavoro a termine (Cass. SU 28 maggio 2012, n. 8410);
3) in tema di pubblico impiego privatizzato, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia relativa al diritto all’assunzione all’esito di una procedura di mobilità esterna per passaggio diretto tra pubbliche amministrazioni, atteso che nell’ambito di tale procedura non viene in rilievo la costituzione di un nuovo rapporto lavorativo a seguito di procedura concorsuale, ma una mera modificazione soggettiva del rapporto preesistente con il consenso di tutte le parti e, quindi, una cessione del contratto. Appartiene, pertanto, all’AGO la controversia riguardante una dipendente comunale che aveva partecipato a una procedura di mobilità indetta da un Comune diverso da quello di appartenenza e, risultata prima in graduatoria, aveva agito in giudizio per far valere il proprio diritto al trasferimento, che invece era stato riconosciuto in favore della seconda classificata (Cass. SU 21 dicembre 2018, n. 33213);
4) in caso di avviamento alla selezione degli iscritti alle liste di collocamento ed a quelle di mobilità, ex art. 16 della l. n. 56 del 1987 e successive modificazioni, la relativa controversia - con correlata domanda risarcitoria - è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, atteso che non è prevista una procedura concorsuale ma una semplice chiamata su base numerica, secondo l’ordine delle graduatorie risultante dalle liste medesime, sicché coloro che sono utilmente collocati nella graduatoria hanno un vero e proprio diritto soggettivo all’avviamento a selezione e quindi all’assunzione (Cass. SU 9 giugno 2017, n. 14432);
5) con riguardo ai lavori socialmente utili - e fattispecie assimilate - per tutto ciò che attiene alle eventuali assunzioni oppure alle stabilizzazioni, in applicazione delle graduatorie delle liste di collocamento, la giurisdizione appartiene al giudice ordinario, in quanto la P.A. svolge, in questi ambiti, un’attività vincolata ai criteri predeterminati dalla legge nella scelta dei singoli lavoratori, a differenza di quanto accade per l’individuazione del progetto e delle professionalità occorrenti, in cui la stessa agisce nell’esercizio della propria discrezionalità e con poteri autoritativi (Cass. SU n. 17 febbraio 2017, n. 4229);
6) l’art. 63, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001, si interpreta, alla stregua dei principi enucleati, ex art. 97 Cost., dal giudice delle leggi, nel senso che per “procedure concorsuali di assunzione”, ascritte al diritto pubblico ed all’attività autoritativa dell’Amministrazione, si intendono non soltanto quelle preordinate alla costituzione “ex novo” dei rapporti di lavoro (come le procedure aperte a candidati esterni, ancorché vi partecipino soggetti già dipendenti pubblici), ma anche i procedimenti concorsuali interni, destinati, cioè, a consentire l’inquadramento dei dipendenti in aree funzionali o categorie più elevate, con novazione oggettiva dei rapporti di lavoro. Le progressioni, invece, all’interno di ciascuna area professionale o categoria, sia con acquisizione di posizioni più elevate meramente retributive, sia con il conferimento di qualifiche (livello funzionale connotato da un complesso di mansioni e di responsabilità) superiori (art. 52, comma 1 del d.lgs. n. 165 del 2001), sono affidate a procedure poste in essere dall’amministrazione con la capacità ed i poteri del datore di lavoro privato (art. 5, comma 2 dello stesso d.lgs.) – (vedi per tutte: Cass. SU 20 dicembre 2016, n. 26270);
7) è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario la domanda con la quale il lavoratore, assunto da un ente locale con contratto a tempo determinato, lamenti di essere stato escluso dalla procedura di stabilizzazione del personale temporaneo, imposta da una norma di legge (nella specie, l’art. 1, comma 519, della legge 27 dicembre 2006 n. 296), atteso che con tale domanda, il lavoratore non lamenta il vizio di una procedura concorsuale, ma l’erronea applicazione di una legge, a nulla rilevando che il vizio fatto valere pertenga ad atti di organizzazione dell’ufficio (Cass. SU 15 settembre 2010, n. 19552).
6.2.3.- Tipi di concorso.
Anche per questo argomento ci si limita ad un ricordo di alcuni tra i più importanti principi affermati.
1) in base ad un consolidato orientamento della giurisprudenza della Corte di cassazione, le norme generali discendenti dal principio dell’accesso tramite pubblico concorso (di cui all’art. 97, terzo comma Cost.), che governano le assunzioni nel lavoro pubblico ‒ da cui deriva anche l’esclusione della instaurazione di un rapporto a tempo indeterminato per effetto della abusiva utilizzazione di contratti a termine da parte della PA ‒ comportano il necessario superamento di una procedura di selezione che sia tale da essere compresa nell’ambito concettuale e giuridico del “concorso”, cioè si deve trattare di una procedura concorsuale caratterizzata daii seguenti: il bando iniziale, la fissazione dei criteri valutativi, la presenza di una Commissione incaricata della valutazione dei candidati, la formazione di una graduatoria finale (vedi, per tutte: Cass. SU 13 settembre 2017, n. 21198; Cass. 15 ottobre 2018, n. 25728; Cons. Stato, sez. VI, sentenze n. 7773 del 2012; n. 5795 del 2014; n. 953 del 2016);
2) non è rilevante la presenza o meno di margini di discrezionalità nella valutazione dei titoli dei candidati, in quanto i concreti criteri di selezione possono non irrazionalmente essere correlati alle specificità sia delle qualità richieste per la posizione lavorativa, sia della obiettiva natura e idoneità distintiva dei titoli (così, ad esempio, Cass. S.U. 6 marzo 2009, n. 5453 ha ritenuto che l’adozione del criterio selettivo del mero sorteggio, per quanto singolare, non snaturava la natura concorsuale della procedura);
3) è, inoltre, irrilevante che come requisito di partecipazione al concorso sia richiesta l’iscrizione alle liste di collocamento o anche che vi sia l’attribuzione di punti in relazione alla durata di tale iscrizione trattandosi di elementi che, da soli, non sono tali da incidere sulla natura concorsuale della selezione (Cass. 15 ottobre 2018, n. 25728);
4) l’art. 36, comma 8, del d.lgs. n. 29 del 1993 (ora trasfuso nell’art. 36, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001), secondo il quale la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte delle pubbliche amministrazioni non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, si riferisce a tutte le assunzioni avvenute al di fuori di una procedura concorsuale, operando anche nei confronti dei soggetti che siano risultati solamente idonei in una procedura selettiva ed abbiano, successivamente, stipulato con la P.A. un contratto di lavoro a tempo determinato fuori dei casi consentiti dalla contrattazione collettiva, dovendosi ritenere che l’osservanza del principio sancito dall’art. 97 Cost. sia garantito solo dalla circostanza che l’aspirante abbia vinto il concorso (Cass. 7 maggio 2008, n. 11161; Cass. 30 marzo 2018, n. 7982);
5) come affermato dalla sentenza n. 89 del 2003 della Corte costituzionale la suddetta disciplina non viola alcun precetto costituzionale in quanto il principio dell’accesso mediante concorso rende palese la non omogeneità del rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni rispetto al rapporto di lavoro alle dipendenze di datori privati e giustifica la scelta del legislatore di ricollegare, alla violazione delle norma imperative, conseguenze solo risarcitorie e patrimoniali (in luogo della conversione del rapporto a tempo indeterminato prevista per i lavoratori privati); né contrasta, infine, con il canone di ragionevolezza, avendo la stessa norma costituzionale individuato nel concorso, quale strumento di selezione del personale, lo strumento più idoneo a garantire, in linea di principio, l’imparzialità e l’efficienza della pubblica amministrazione (Cass. 7 maggio 2008, n. 11161; Cass. 30 marzo 2018, n. 7982);
6) in tema di accesso al pubblico impiego, sono consentite deroghe al principio generale del pubblico concorso solo con forme di reclutamento alternative – quali l’avviamento degli iscritti nelle liste di collocamento, le assunzioni obbligatorie delle persone disabili o la cd. stabilizzazione – previste da leggi la cui “ratio” sia volta a contemperare il meccanismo di selezione dei migliori con l’esigenza di ricoprire posizioni di non rilevante contenuto professionale o con il principio della tutela delle categorie protette o – nel caso di conversione a tempo indeterminato di rapporti a tempo determinato – per l’opportunità di valorizzare l’esperienza lavorativa già maturata. Pertanto, è stata considerata illegittima un’assunzione a tempo indeterminato presso il Comune di Napoli in quanto effettuata non in virtù di una legge ma a seguito di un’ordinanza del subcommissario delegato per l’emergenza rifiuti in Campania (Cass. 15 luglio 2016, n. 14592);
7) sussiste un inscindibile legame fra la procedura concorsuale ed il rapporto di lavoro con l’amministrazione pubblica, poiché la prima costituisce l’atto presupposto del contratto individuale, del quale condiziona la validità, posto che sia la assenza sia la illegittimità delle operazioni concorsuali si risolvono nella violazione della norma inderogabile dettata dall’art. 35 del d.lgs. n. 165 del 2001, attuativo del principio costituzionale affermato dall’art. 97, comma 4, della Carta fondamentale (Cass. n.13884 del 2016; Cass. 19 marzo 2018, n. 6818);
8) non rileva che nella fattispecie gli aspiranti all’assunzione con contratto a termine siano stati selezionati per mezzo di una procedura concorsuale, perché la regola del pubblico concorso può dirsi rispettata solo qualora la procedura abbia riguardato un posto avente le medesime caratteristiche di quello che si pretende di andare a ricoprire e, quindi, il bando per la selezione di lavoratori da assumere a tempo determinato non può essere assimilato a quello finalizzato alla instaurazione di un rapporto di impiego stabile (vedi, per tutte: Cass. 27 novembre 2017, n. 28255);
9) in tema pubblico impiego privatizzato, il principio generale di assunzione tramite concorso, di cui all’art. 97, comma 3, Cost., cui è correlato il divieto di conversione ex art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001, comporta il necessario superamento di una procedura di selezione che sia tale da essere compresa nell’ambito concettuale e giuridico del “concorso”, caratterizzato dall’emanazione di un bando iniziale, dalla fissazione dei criteri valutativi, dalla presenza di una commissione incaricata della valutazione dei candidati e dalla formazione di una graduatoria finale, mentre non rilevano la presenza di margini di discrezionalità nella valutazione dei titoli dei candidati ovvero la previsione, quale requisito di partecipazione al concorso, dell’iscrizione alle liste di collocamento o dell’attribuzione di punti in relazione alla durata di tale iscrizione. Pertanto, è stata cassata la sentenza impugnata che, in un caso di numerose assunzioni a termine protratte nell’arco di un decennio, aveva escluso la conversione del rapporto senza valutare se le procedure selettive superate dalla lavoratrice, con riferimento ad alcuni contratti della serie, potessero rientrare nella sostanza essere configurate come procedure concorsuali pubbliche del tipo richiesto per le mansioni in concreto svolte dalla lavoratrice e quindi nascondere una predeterminazione utilitaristica del comportamento datoriale, così potendo assumere rilievo quanto meno ai fini di un risarcimento ulteriore a quello di cui all’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010 (se adeguatamente provato dall’interessata) ovvero per una eventuale assunzione, subordinatamente sia alla correlata dimostrazione dei relativi estremi a partire dalla suddetta predeterminazione sia alla disponibilità del posto in organico (Cass. 15 ottobre 2018, n. 25728). Del resto, da recenti interventi del legislatore, si desume che il superamento di un concorso per l’assunzione con contratti a termine – benché non possa di per sé rilevare ai fini dell’instaurazione di un rapporto di lavoro stabile con la PA – è tuttavia un elemento che deve essere valorizzato, tanto più se la procedura concorsuale vittoriosamente superata – al di là della sua formale qualificazione – sia stata, nella sostanza, parametrata a valutare l’idoneità dei candidati allo svolgimento di mansioni di contenuto professionale non elevato, rispondenti al fabbisogno ordinario della PA e non ad esigenze temporanee ed eccezionali ed aventi le medesime caratteristiche di quelle proprie di un corrispondente posto eventualmente da ricoprire a tempo indeterminato nell’organico della PA (quali nella specie quelle di autista di scuola bus, effettuate nell’ambito di un servizio ordinariamente svolto dal Comune di appartenenza). Quindi, nessuna “trasformazione” del rapporto da tempo determinato a tempo indeterminato, ma solo obbligo di verificare in sede giudiziaria se la PA si sia attenuta ai canoni di buona amministrazione (che rilevano ex artt. 1175 e 1375 cod. civ.) ed abbia agito con trasparenza ponendo in essere una situazione lavorativa, nella sostanza, corrispondente alla forma temporanea prescelta (preceduta da concorsi, di cui accertare le caratteristiche, al di là del nomen juris) e abusata;
10) l’ente locale può procedere alla stabilizzazione, ex art. 1, comma 558, della l. n. 296 del 2006, del personale già alle sue dipendenze, solo nel rispetto del patto di stabilità e nei limiti dei posti in organico; poiché tale stabilizzazione consente, in deroga alla regola dell’accesso mediante concorso pubblico, l’assunzione a tempo indeterminato nella qualifica da ultimo rivestita, la pretesa di un inquadramento diverso può correlarsi alla violazione del principio di non discriminazione esclusivamente nel caso in cui la qualifica attribuita sia inferiore a quella che sarebbe spettata al lavoratore se l’ente, secondo le allegazioni e prove offerte dal lavoratore deducente, non avesse fraudolentemente operato il frazionamento in più segmenti di un rapporto connotato da intrinseca unitarietà (Cass. 24 novembre 2016, n. 24025);
11) in applicazione del principio di non discriminazione, un lavoratore stabilizzato alle condizioni fissate dal legislatore proprio a consentire l’assunzione dei soli lavoratori a tempo determinato la cui situazione poteva essere assimilata a quella dei dipendenti di ruolo non può essere trattato in modo diverso a causa del mancato superamento del concorso pubblico per l’accesso ai ruoli della P.A. (Cass. 23 novembre 2017, n. 27950).
6.2.4. Gestione dei concorsi da parte delle Pubbliche Amministrazioni. Graduatorie.
1) In materia di riparto di giurisdizione nelle controversie relative a procedure concorsuali nell’ambito del pubblico impiego privatizzato, la cognizione della domanda, avanzata dal candidato utilmente collocato nella graduatoria finale, riguardante la pretesa al riconoscimento del diritto allo “scorrimento” della graduatoria del concorso espletato, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, facendosi valere, al di fuori dell’ambito della procedura concorsuale, il “diritto all’assunzione”. Ove, invece, la pretesa al riconoscimento del suddetto diritto sia consequenziale alla negazione degli effetti del provvedimento di indizione di diverse procedure (nella specie di conferimento di incarichi esterni e di mobilità esterna) per la copertura dei posti resisi vacanti, la contestazione investe l’esercizio del potere dell’Amministrazione, cui corrisponde una situazione di interesse legittimo e la cui tutela spetta al giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 63, comma quarto, del d.P.R. n. 165 del 2001 (Cass. SU 6 maggio 2013, n. 10404);
2) in materia di procedure concorsuali preordinate all’assunzione dei dipendenti nel pubblico impiego contrattualizzato, in presenza di più graduatorie per il medesimo profilo, la P.A., ove si avvalga del cd. scorrimento della graduatoria, ha l’obbligo di motivare le ragioni per cui non attinge da quella di data anteriore, la cui l’omissione costituisce inadempimento contrattuale, suscettibile di risarcimento, per violazione dei criteri di correttezza e buona fede, applicabili alla stregua dei principi costituzionali di cui all’art. 97 Cost. (Cass. 12 gennaio 2016, n. 280).
3) la pretesa azionata dai lavoratori pubblici al fine di ottenere il completamento di una procedura selettiva - dalla quale sono stati illegittimamente esclusi dopa esservi stati regolarmente ammessi - investe provvedimenti non discrezionali della P.A., ma atti negoziali, consistenti nel dare la possibilità ai dipendenti di completare la selezione alle cui prime fasi avevano legittimamente partecipato, in base al relativo banda. A tali atti si correlano diritti soggettivi, sicché una simile situazione rientra a pieno titolo nell’ambito applicativo dell’art. 63, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001 e ciò comporta che il giudice ordinario ha anche il potere di adottare nei confronti della P.A. qualsiasi tipo di sentenza, ivi compresa la sentenza di condanna ad un “facere”, data la sussistenza del diritto soggettivo dei lavoratori interessati al rispetto da parte della P.A. medesima, oltreché del generale obbligo di correttezza e buona fede, dei criteri predeterminati nel bando per l’ammissione alla selezione, lo svolgimento delle prove, la selezione dei promovendi e così via, diritto che non riguarda quindi soltanto la formazione della graduatoria ma anche il tempo e l’ordine della promozione (Cass. 23 febbraio 2018, n. 4436);
4) in tema di impiego pubblico privatizzato, nell’ambito del quale anche gli atti di conferimento di incarichi dirigenziali rivestono la natura di determinazioni negoziali assunte dall’amministrazione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro, le norme contenute nell’art. 19, primo comma, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, obbligano l’amministrazione datrice di lavoro al rispetto dei criteri generali di correttezza e buona fede (art. 1175 e 1375 cod. civ.), applicabili alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento di cui all’art. 97 Cost. Poiché, dunque, il superamento di un concorso pubblico, indipendentemente dalla nomina, consolida nel patrimonio dell’interessato una situazione giuridica individuale di diritto soggettivo, il mancato conferimento dell’incarico dirigenziale, per un errore nell’attribuzione dei punteggi in sede di approvazione della graduatoria concorsuale, è configurabile come inadempimento contrattuale, suscettibile di produrre un danno risarcibile Cass. SU 23 settembre 2013, n. 21671);
5) nell’impiego pubblico contrattualizzato, per gli atti di conferimento di incarichi dirigenziali, che rivestono la natura di determinazioni negoziali assunte dall’Amministrazione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro - in base agli artt. 1175 e 1375 c.c., applicabili alla stregua dei principi di cui all’art. 97 Cost. - la P.A. è tenuta ad adottare adeguate forme di partecipazione ai processi decisionali e ad esternare le ragioni giustificatrici delle proprie scelte, sicché, laddove tale regola non venga rispettata, è configurabile un inadempimento contrattuale suscettibile di produrre danno risarcibile dinanzi al giudice ordinario. Ne consegue che se, illegittimamente, una P.A. dà esecuzione al contratto individuale di lavoro di un dirigente prima della registrazione del decreto di conferimento dell’incarico stesso da parte della Corte dei conti, si assume ogni responsabilità inerente e conseguente alla eventuale mancata registrazione e, qualora decida di procedere alla brusca revoca dell’incarico, anziché controdedurre ai rilievi formulati dalla Corte dei conti, in sede di controllo preventivo, deve farlo mettendo l’interessato in condizione di intervenire nel relativo procedimento decisionale e di conoscere adeguatamente le ragioni poste a base della scelta operata, in quanto essa, avendo effetti durevoli, è violativa del legittimo affidamento del destinatario dell’atto revocato alla prosecuzione del rapporto, ingenerato dalla stessa P.A., gravando esclusivamente su questa l’onere di non mettere in esecuzione i provvedimenti soggetti a controllo preventivo contabile fino alla conclusione del relativo procedimento (Cass. 2 febbraio 2018, n. 2603).
7.- Una prima applicazione dei principi affermati dalla CGUE da parte della giurisprudenza della Corte di cassazione.
Per il contenzioso nazionale le sentenze della CGUE sono state molto rilevanti.
Ma si deve sottolineare che, più che le molteplici decisioni della CGUE che hanno esaminato la disciplina sostanziale nazionale, il rilievo pratico maggiore lo ha avuto – come si dirà più avanti ‒ l’ordinanza 12 dicembre 2013, C-50/13, Papalia, che, nella sostanza, ha ritenuto incompatibile con la normativa UE il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, in base al quale, in caso di ricorso abusivo ai contratti a termine da parte della PA, il diritto al risarcimento del danno era subordinato all’obbligo, gravante sul lavoratore, “di fornire la prova di aver dovuto rinunciare a migliori opportunità di impiego”, avendo la CGUE sottolineato che detto obbligo può avere “come effetto di rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio, da parte del citato lavoratore, dei diritti conferiti dall’ordinamento dell’Unione”.
Infatti, proprio dall’adeguamento alla suddetta ordinanza Papalia ha avuto origine nella Corte di cassazione il dibattito relativo alla determinazione del c.d. “danno comunitario” nel nostro ordinamento, dibattito che ha portato alla sentenza delle Sezioni Unite 15 marzo 2016, n. 5072 e quindi all’attuale assetto della giurisprudenza di legittimità.
Tutto ha avuto inizio da una diversità di soluzioni riscontratasi in alcune decisioni dell’epoca in materia di abuso delle assunzioni a termine nell’ambito del lavoro pubblico non scolastico, adottate rispettivamente prima e dopo la suddetta ordinanza Papalia della CGUE.
In particolare:
1) nella sentenza 21 agosto 2013, n. 19371, riguardante una fattispecie relativa al comparto sanitario, la Corte aveva affermato che, pertanto, in caso di violazione di norme poste a tutela dei diritti del lavoratore, residua in favore del lavoratore soltanto la possibilità di ottenere il risarcimento dei danni subiti, per la cui determinazione trova applicazione, d’ufficio ed anche nel giudizio di legittimità, l’art. 32 commi 5-7, della legge 4 ottobre 2010, n. 183, a prescindere dall’intervenuta costituzione in mora del datore di lavoro e dalla prova concreta di un danno, trattandosi di indennità forfetizzata e onnicomprensiva per i danni causati dalla nullità del termine (come, del resto, precisato dal Giudice delle leggi nella sentenza n. 303 del 2011);
2) nelle successive sentenze 30 dicembre 2014, n. 27481; 22 gennaio 2015, n. 1181; 23 gennaio 2015, n. 1260 e 1261; 26 gennaio 2015, n. 1334; 4 febbraio 2015 n. 2024, n. 2025 e n. 2026; 11 febbraio 2015, n. 2685, in materia di impiego regionale, la Corte è invece pervenuta ad una diversa conclusione principalmente per adeguarsi alla sopravvenuta ordinanza della CGUE 12 dicembre 2013, C-50/13, Papalia cit. Ed aveva quindi affermato che, in materia di pubblico impiego privatizzato, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte della Pubblica Amministrazione, non determina la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, ma fonda il diritto del lavoratore al risarcimento del danno, ai sensi dell’art. 36, comma 5, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 interpretato – con riferimento a fattispecie diverse da quelle del precariato scolastico – nel senso di “danno comunitario”, il cui risarcimento, in conformità ai canoni di adeguatezza, effettività, proporzionalità e dissuasività rispetto al ricorso abusivo alla stipulazione di contratti a termine, è configurabile quale sanzione ex lege a carico del datore di lavoro, per la cui liquidazione è utilizzabile, in via tendenziale, il criterio indicato dall’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 e non il sistema indennitario onnicomprensivo previsto dall’art. 32 della legge 4 novembre 2010, n. 183, né il criterio previsto dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, che non hanno alcuna attinenza con l’indicata fattispecie;
3) a tale più recente indirizzo aveva dato continuità Cass. 3 luglio 2015, n. 13655, con la liquidazione stabilita dalla Corte d’appello, riferibile al c.d. “danno comunitario”, ossia alla componente del risarcimento configurabile come sanzione ex lege a carico del datore di lavoro, la sentenza impugnata si “era mantenuta entro l’arco di variabilità di cui al cit. art. 8”, sicché essa non meritava le censure che le erano state mosse.
Nelle sentenze richiamate sub b) per la prima volta era stata disposta la cassazione con rinvio facendosi riferimento, alla nozione di “danno comunitario” e, in particolare, affermandosi che, sulla base del generale canone ermeneutico dell’obbligo degli Stati UE alla interpretazione del diritto nazionale conforme al diritto UE, come interpretato dalla CGUE, il doveroso adeguamento all’ordinanza della Papalia della CGUE cit. non poteva non comportare l’inapplicabilità dell’orientamento giurisprudenziale che la CGUE ha ritenuto incompatibile con la normativa UE.
8.- Le provvide incertezze giurisprudenziali sul danno “danno comunitario” tra art. 97 Cost. e CGUE.
Successivamente, su iniziativa congiunta della Sezione lavoro della Corte di cassazione e dei difensori di alcune lavoratrici, le Sezioni Unite sono state investite della questione relativa alla determinazione dei criteri di liquidazione del danno in oggetto, essendo evidente che le soluzioni giurisprudenziali differenti, rispettivamente adottate da Cass. n. 19371 del 2013 e da Cass. n. 27481 del 2014 (la seconda delle quali “necessitata”, dal doveroso rispetto della sopravvenuta ordinanza della CGUE 12 dicembre 2013, C-50/13, Papalia), per la loro stessa natura giurisdizionale, non potevano certamente considerarsi esaurienti al fine di ottenere, in tutto il territorio nazionale, una reale parità di trattamento risarcitorio in completa aderenza con i criteri dettati dalla CGUE per le situazioni di ricorso abusivo ai contratti a termine da parte delle pubbliche amministrazioni.
Un simile effetto si è ottenuto con la famosa sentenza delle SU 15 marzo 2016, n. 5072, che ha reso inutile un ennesimo intervento legislativo in materia.
9.- La sentenza delle Sezioni Unite 15 marzo 2016, n. 5072.
Con tale importante sentenza le Sezioni Unite hanno risolto la suddetta difficile questione affermando il seguente principio di diritto:
“nel lavoro pubblico contrattualizzato in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione il dipendente, che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato posto dall’art. 36, comma 5, d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione con esonero dall’onere probatorio nella misura e nei limiti di cui all’art. 32, comma 5, legge 4 novembre 2010, n. 183, e quindi nella misura pari ad un’indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 legge 15 luglio 1966, n. 604, salva la possibilità di provare un danno maggiore”.
Alla suddetta conclusione le Sezioni Unite sono pervenute attraverso un percorso argomentativo molto denso e complesso, i cui principali passaggi, in estrema sintesi, sono i seguenti:
1) la normativa del lavoro a tempo determinato alle dipendenze di enti pubblici non economici nel contesto del lavoro pubblico contrattualizzato, pur articolata in varie disposizioni mutate nel tempo, si è mossa costantemente lungo tre direttrici di fondo: a) l’accesso all’impiego mediante concorso (ex art. 97 Cost.); b) il conseguente divieto per i contratti a tempo determinato nel lavoro pubblico, anche se protrattisi in modo abusivo della possibilità di convertire il rapporto a tempo indeterminato se l’assunzione non è avvenuta con una procedura concorsuale, diversamente da quel che accade nel lavoro privato; c) il diritto al risarcimento del danno in favore del lavoratore derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative (vedi art. 36 TUPI sul punto invariato nel tempo);
2) la costante giurisprudenza della CGUE non richiede che venga prevista negli ordinamenti nazionali la ricostituzione del rapporto alle dipendenze delle P.A. che abbia avuto origine da un utilizzo illegittimo o abusivo di un contratto di lavoro flessibile non originato da una procedura concorsuale (vedi: sentenze del 4 luglio 2006, Adeneler e a., C-212/04; del 7 settembre 2006, M. e S., C-53/04; Vassallo, C-180/04, e del 23 aprile 2009, Angelidaki e a., C-378/07; nonchè ordinanze del 12 giugno 2008, Vassilakis e a., C-364/07; del 24 aprile 2009, Koukou, C-519/08; del 23 novembre 2009, Lagoudakis e a., da C-162/08, e del 1 ottobre 2010, Affatato, C-3/10);
3) la stessa Corte rinviene nel citato art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001 una disciplina adeguata a prevenire e poi sanzionare le situazioni illegittime e il suddetto divieto di trasformazione ha superato il vaglio anche della Corte costituzionale, salvo restando che il ricorso da parte di P.A. a forme di lavoro flessibile, quale quelle del contratto a tempo determinato è da sempre considerato legittimo se determinato dalla necessità di rispondere ad esigenze temporanee ed eccezionali e anzi, al fine di evitare abusi nell’utilizzo del lavoro flessibile, si precisa che l’utilizzo del medesimo lavoratore con più tipologie contrattuali flessibili debba avvenire per periodi di servizio limitati ed entro un arco di tempo definito; (vedi, per tutte: sentenze n. 89 del 2003 e n. 267 del 2013);
4) peraltro, il rispetto della normativa sul contratto di lavoro a tempo determinato è anche presidiato ‒ in aggiunta all’obbligo della P.A. del risarcimento del danno in favore del dipendente ‒ anche da disposizioni di contorno che fanno perno soprattutto sulla responsabilità, anche patrimoniale, del dirigente cui sia ascrivibile l’illegittimo ricorso al contratto a termine;
5) ne deriva che l’ordinamento giuridico prevede, nel complesso, “misure energiche” (come richiesto dalla Corte di giustizia, sentenza 26 novembre 2014, C-22/13 ss., Mascolo), fortemente dissuasive, per contrastare l’illegittimo ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato e questo assicura la piena compatibilità della disciplina nazionale a quella UE, sotto tale profilo;
6) sulle conseguenze dell’eventuale abuso la clausola 5 tace e la compatibilità del tale differente regime tra pubblico e privato è stata positivamente vagliata, nei campi di rispettiva competenza, sia dalla giurisprudenza della Corte costituzionale sia da quella della Corte di giustizia;
7) quanto alla normativa risarcitoria di cui all’art. 32, comma 5, cit., la Corte costituzionale ha, in primo luogo, ricordato il proprio consolidato indirizzo secondo cui “la regola generale di integralità della riparazione e di equivalenza della stessa al pregiudizio cagionato al danneggiato non ha copertura costituzionale” (Corte cost. sentenza n. 148 del 1999), purché sia garantita l’adeguatezza del risarcimento (Corte cost. sentenze n. 199 del 2005 e n. 420 del 1991);
8) nella specie l’indennità omnicomprensiva prevista dal comma 5 cit. “assume una chiara valenza sanzionatoria” essendo dovuta in ogni caso, “anche in mancanza di danno e di offerta della prestazione” e inoltre attraverso il prescritto ricorso ai criteri indicati dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966 è possibile calibrare l’importo dell’indennità da liquidare in relazione alle peculiarità delle singole vicende, come la durata del contratto a tempo determinato (evocata dal criterio dell’anzianità lavorativa), la gravità della violazione e la tempestività della reazione del lavoratore (sussumibili sotto l’indicatore del comportamento delle parti), lo sfruttamento di occasioni di lavoro (e di guadagno) altrimenti inattingibili in caso di prosecuzione del rapporto (riconducibile al parametro delle condizioni delle parti), nonché le stesse dimensioni dell’impresa (immediatamente misurabili attraverso il numero dei dipendenti);
9) per misurare il grado di effettività della tutela risarcitoria del lavoratore in caso di illegittimo o abusivo ricorso al contratto a termine deve, in primo luogo, escludersi che ai fini del risarcimento ‒ il quale, in base alla regola generale della responsabilità contrattuale posta dall’art. 1223 cod. civ. deve comprendere sia la perdita subita, nella specie dal lavoratore, come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta ‒ il danno sia rappresentato dalla perdita del posto di lavoro a tempo indeterminato, in quanto in nessun caso il rapporto di lavoro a termine si potrebbe convertire in rapporto a tempo indeterminato visto che l’accesso al pubblico impiego non può avvenire ‒ invece che tramite di concorso pubblico ‒ per effetto, sia pur in chiave sanzionatoria, di una situazione di illegalità;
10) detto questo, gli effetti pregiudizievoli che, come danno patrimoniale, il lavoratore può subire in ipotesi di proroga, rinnovo o ripetuta reiterazione contra legem dei contratti a termine possono essere i più vari l’evenienza ordinaria è la perdita di chance risarcibile come danno patrimoniale nella misura in cui l’illegittimo (soprattutto se prolungato) impiego a termine abbia fatto perdere al lavoratore altre occasioni di lavoro ma non può escludersi che una prolungata precarizzazione per anni possa aver inflitto al lavoratore un pregiudizio che va anche al di là della mera perdita di chance di un’occupazione migliore;
11) secondo la disciplina generale l’onere probatorio di tale danno grava interamente sul lavoratore e, pur potendo operare il regime delle presunzioni semplici (art. 2729 cod. civ.), indubbiamente la prova del danno ‒ una volta escluso tale danno che possa consistere nella perdita del posto di lavoro occupato a termine ‒ può essere in concreto molto difficile da fornire;
12) questo è l’aspetto evidenziato dalla CGUE nell’ordinanza Papalia cit. e il monito ivi contenuto al riguardo impone un’operazione di integrazione in via interpretativa, orientata dalla conformità UE, che valga a dare maggiore consistenza ed effettività al danno risarcibile, come ha fatto la giurisprudenza della Corte di cassazione, pervenendo però a conclusioni non univoche;
13) nella suddetta ordinanza la CGUE ha ritenuto non conforme alla clausola 5 cit. la nostra normativa interna che, in base ad un consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità, prevedeva che il diritto a detto risarcimento fosse subordinato all’obbligo, gravante sul lavoratore, di fornire la prova di aver dovuto rinunciare a migliori opportunità di impiego, obbligo avente come effetto di rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio, da parte del lavoratore stesso, dei diritti conferiti dall’ordinamento dell’Unione;
14) anche se la circostanza che effettivamente il lavoratore possa avere difficoltà a provare il danno subito essenzialmente nella perdita di chance di un’occupazione migliore per il diritto interno costituisce un inconveniente di mero fatto che non mina la legittimità, in questo ambito, della disciplina applicata a questa fattispecie, tuttavia a livello UE la situazione è differente ed è tale in ragione proprio del ricordato monito della giurisprudenza della Corte di giustizia: la difficoltà della prova non può dirsi che costituisca un inconveniente di mero fatto;
15) in ambito UE, infatti, in caso di abusivo ricorso al contratto a termine che va prevenuto con misure equivalenti, di efficacia non inferiore a quelle previste dalla clausola 5 del citato accordo quadro tale difficoltà probatoria ridonda in deficit di adeguamento della normativa interna a quella UE e quindi in violazione di quest’ultima; la quale, per essere (pacificamente) non autoapplicativa, opererebbe non di meno come parametro interposto ex art. 117, primo comma, Cost. e potrebbe inficiare la legittimità costituzionale della norma interna (art. 36, comma 5, d.lgs. n. 165 del 2001) che tale pretesa risarcitoria disciplina in termini euro unitariamente inadeguati nel caso di abuso nella successione di contratti a termine;
16) anziché sollevare l’incidente di costituzionalità, le Sezioni Unite risolvono la questione attraverso l’interpretazione adeguatrice orientata alla conformità costituzionale ed UE del citato art. 32 della legge n. 183 del 2010, inserito in un ambito normativo omogeneo sistematicamente coerente e strettamente contiguo a quello in oggetto, che è quello del risarcimento del danno nel rapporto a tempo determinato nel lavoro privato, a differenza dell’art. 18 St.lav., dell’art. 8 della legge n. 604 del 1966, dell’art. 1 della legge n. 92 del 2012 (e successivamente, per i contratti di lavoro a tutele crescenti, dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015) riguardanti tutti, con differenti discipline e per diverse fattispecie, il risarcimento del danno in caso di licenziamento illegittimo il quale evoca la perdita del posto di lavoro, nella specie esclusa in radice;
17) il citato art. 32, comma 5; prevede, per l’ipotesi di illegittima apposizione del termine al contratto a tempo determinato nel settore privato, che “il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella legge 15 luglio 1966, n. 604, art. 8” (in tal senso già Cass. 21 agosto 2013, n. 19371);
18) la misura dissuasiva ed il rafforzamento della tutela del lavoratore pubblico, quale richiesta dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, sono rappresentati proprio da questa agevolazione della prova da ritenere in via di interpretazione sistematica orientata dalla necessità di conformità alla clausola 5 del più volte citato accordo quadro: il lavoratore è esonerato dalla prova del danno nella misura in cui questo è presunto e determinato tra un minimo ed un massimo;
19) la trasposizione di questo canone di “danno presunto” esprime pure una portata sanzionatoria della violazione della normativa comunitaria sì che il danno così determinato può qualificarsi come “danno comunitario” (così già Cass. 30 dicembre 2014, n. 27481 e 3 luglio 2015, n. 13655), nel senso che vale a colmare quel deficit di tutela, ritenuto sussistente dalla giurisprudenza della Corte di giustizia con riguardo alla disciplina dell’onere della prova a carico del lavoratore, la cui mancanza esporrebbe la norma interna (art. 36, comma 5, cit.), ove applicabile nella sua sola portata testuale, ad essere “in violazione della clausola 5 della direttiva e quindi ad innescare un dubbio di sua illegittimità costituzionale: essa quindi esaurisce l’esigenza di interpretazione adeguatrice”, che non si estende anche alla regola della conversione, pure prevista dall’art. 32, comma 5, cit., perché, come già detto, la mancata conversione è conseguenza di una norma legittima, che anzi rispecchia un’esigenza costituzionale e che non consente di predicare un (inesistente) danno da mancata conversione;
20) d’altra parte, per effetto dell’indicata soluzione il lavoratore privato (che può giovarsi della conversione) non riceve un trattamento migliore rispetto al lavoratore pubblico perché l’indennità risarcitoria ex art. 32, comma 5, cit. ha una diversa valenza secondo che sia collegata, o meno, alla conversione del rapporto;
21) infatti: a) il lavoratore pubblico ‒ e non già il lavoratore privato ‒ ha diritto a tutto il risarcimento del danno (come sopra identificato) e ‒ per essere agevolato nell’onere probatorio, in base all’interpretazione eurounitariamente orientata, richiesta dalla CGUE nell’ordinanza 12 dicembre 2013, Papalia, C-50/13 ‒ ha, in primo luogo, diritto senza necessità di prova alcuna all’indennità risarcitoria ex art. 32, comma 5, cit., essendo, in questa misura, sollevato dall’onere probatorio del danno; b) peraltro, al lavoratore pubblico non è precluso di provare che le chances di lavoro che ha perso perché impiegato in reiterati contratti a termine in violazione di legge si sono tradotti in un danno patrimoniale più elevato, salvo restando che, se l’assunzione non è avvenuta a seguito del superamento di una procedura concorsuale, in nessun caso il lavoratore pubblico può vantare un danno da mancata conversione del rapporto e quindi da “perdita del posto” di lavoro alle dipendenze dell’Amministrazione pubblica; c) il lavoratore privato, invece, non ha suddetta possibilità e questa restrizione è stata ritenuta costituzionalmente non illegittima (Corte cost. n. 303 del 2011, cit.), visto che egli ha comunque diritto alla conversione del rapporto di lavoro.
10.- La successiva giurisprudenza di legittimità in materia di contratti di lavoro a termine delle Pubbliche Amministrazioni.
Ai principi affermati nella suddetta sentenza delle Sezioni Unite si è uniformata la successiva giurisprudenza di legittimità (vedi, fra le tante: Cass. nn. 4911, 4912, 4913, 16095, 23691 del 2016; Cass. nn. 8927 e 8885 del 2017; Cass. nn. 6901, 6902, 7059, 7982, 19454, 31174 del 2018; Cass. n. 992 del 2019, in materia di somministrazione di lavoro a termine) e anche la giurisprudenza di merito.
In alcune delle richiamate decisioni, sulla base dei principi affermati sia dalle SU nella sentenza n. 5072 del 2016 sia nelle sentenze sul precariato scolastico dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 187 del 2016, la Corte di cassazione ha risolto ulteriori questioni in materia, via via prospettate, ad esempio, con riguardo agli effetti della stabilizzazione e al trattamento economico da attribuire ai lavoratori a termine, anche con riguardo al periodo pre-ruolo.
Di queste ulteriori decisioni si dirà più avanti.
Qui ci si limita a ricordare Cass. 3 dicembre 2018, n. 31174, che ha ribadito il principio affermato dalle Sezioni Unite, tenendo conto anche della sentenza della CGUE nella causa C-494/2016, Santoro, nella quale è stato affermato il seguente principio: la clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, “dev’essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale che, da un lato, non sanziona il ricorso abusivo, da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico, a una successione di contratti a tempo determinato mediante il versamento, al lavoratore interessato, di un’indennità volta a compensare la mancata trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato bensì, dall’altro, prevede la concessione di un’indennità compresa tra 2,5 e 12 mensilità dell’ultima retribuzione di detto lavoratore, accompagnata dalla possibilità, per quest’ultimo, di ottenere il risarcimento integrale del danno dimostrando, mediante presunzioni, la perdita di opportunità di trovare un impiego o il fatto che, qualora un concorso fosse stato organizzato in modo regolare, egli lo avrebbe superato, purché una siffatta normativa sia accompagnata da un meccanismo sanzionatorio effettivo e dissuasivo, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare”.
11.- Co.co.co. e co.co.pro.
Sul percorso tracciato dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 5072 del 2016 la Corte di cassazione è giunta a dare una conforme soluzione anche ad altre ipotesi di abuso in forme contrattuali di lavoro flessibile.
Questo è, ad esempio, quanto è accaduto per l’ipotesi in cui la P.A. faccia ricorso a successivi contratti formalmente qualificati di collaborazione coordinata e continuativa e il lavoratore ne alleghi l’illegittimità anche sotto il profilo del carattere abusivo della reiterazione del termine, con Cass. 9 maggio 2018, n. 10951, seguita da Cass. 19 novembre 2018, n. 29779.
Nell’articolata sentenza n. 10951 del 2018 cit. la Corte di cassazione ha, fra l’altro, precisato che:
1) l’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001 è da considerare espressione di un principio generale, fondato sull’art. 97 Cost., che caratterizza tutta la disciplina dell’impiego pubblico contrattualizzato ed esclude che dalla violazione delle norme riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte di pubbliche amministrazioni possa derivare la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato;
2) in applicazione di tale norma qualora la P.A. faccia ricorso a successivi contratti formalmente qualificati di collaborazione coordinata e continuativa e il lavoratore ne alleghi l’illegittimità anche sotto il profilo del carattere abusivo della reiterazione del termine, il giudice è tenuto ad accertare se di fatto si sia instaurato un rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato e a riconoscere al lavoratore, in assenza dei presupposti richiesti dalla legge per la reiterazione, il risarcimento del danno, alle condizioni e nei limiti necessari a conformare l’ordinamento interno al diritto dell’Unione europea;
3) infatti, nell’indicata ipotesi la tutela del lavoratore non è limitata a quanto assicurato dall’art. 2126 cod. civ. perché a questo si aggiunge “risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizione imperative”, salvo restando che la stipulazione di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa con una P.A., al di fuori dei presupposti di legge, non può mai determinare la conversione del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato (Cass. n. 9591 del 2018; Cass. n. 3384 del 2017; Cass. n. 29779 del 2018 cit.);
4) per l’individuazione dei criteri di liquidazione del suddetto danno nonché per il relativo regime probatorio anche alla suddetta ipotesi vanno applicati i principi affermati dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 5072 del 15 marzo 2016;
5) tali principi operano anche in relazione ai rapporti di lavoro instaurati dalle Pubbliche Amministrazioni nelle Regioni a statuto speciale perché, da un lato, la potestà legislativa regionale deve essere esercitata nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario; dall’altro la legge statale, in tutti i casi in cui interviene a conformare gli istituti del rapporto di impiego attraverso norme che si impongono all’autonomia privata con il carattere dell’inderogabilità, costituisce un limite alla competenza regionale e va, quindi, applicata anche ai rapporti di impiego dei dipendenti delle regioni e degli enti locali, come si desume dalla consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale, secondo cui detto limite è “fondato sull’esigenza, connessa al principio costituzionale di eguaglianza, di garantire l’uniformità nel territorio nazionale delle regole fondamentali di diritto che disciplinano i rapporti fra privati” e, come tale, si impone anche alle Regioni a statuto speciale (Corte cost. sentenze n. 215 del 2012; n. 95 del 2007; n. 234 e n. 106 del 2005; n. 282 del 2004).
12.- La somministrazione di lavoro a termine.
Sempre lungo la strada indicata dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 5072 del 2016 la Corte di cassazione è giunta a dare una conforme soluzione anche alle ipotesi di illegittimo utilizzo del contratto di somministrazione di lavoro a termine, prima nel lavoro privato Cass. 6 ottobre 2016, n. 20060; Cass. 29 maggio 2013, n. 13404; Cass. 17 gennaio 2013, n. 1148; Cass. 8 settembre 2014, n. 18861; Cass. 7 luglio 2015, n. 14033) e di recente anche nel lavoro pubblico con Cass. 16 gennaio 2019, n. 992.
In questa sentenza la Corte ha enunciato il seguente principio di diritto:
«nel lavoro pubblico contrattualizzato, in conformità con il canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di Giustizia UE (ordinanza 12 dicembre 2013, in C-50/13) e con i principi enunciati dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 5072 del 2016, ai fini del risarcimento del danno spettante al lavoratore nell’ipotesi di illegittima o abusiva reiterazione di contratti di somministrazione di lavoro a termine, deve farsi riferimento alla fattispecie di portata generale di cui all’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010, da configurare come corrispondente ad un danno presunto, con valenza sanzionatoria qualificabile come “danno comunitario”, determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, che non può comunque farsi derivare dalla “perdita del posto” (in assenza di una assunzione tramite concorso ex art. 97, u.c. Cost.). Ciò non dà luogo ad posizione di favore del dipendente pubblico rispetto al lavoratore privato, atteso che per il primo l’indennità forfetizzata agevola l’onere probatorio del danno subito pur rimanendo salva la possibilità di provare un danno maggiore mentre per il lavoratore privato essa funge da limite al danno risarcibile, ma questa restrizione è bilanciata dal diritto alla conversione del rapporto di lavoro, insussistente nel lavoro pubblico».
Alla suddetta conclusione la Corte è pervenuta attraverso un articolato percorso argomentativo, i cui principali passaggi sono i seguenti:
1) per consolidato e condiviso indirizzo della giurisprudenza di legittimità, anche nella somministrazione a termine è necessario che le ragioni del ricorso alla somministrazione siano specificate nel contratto, visto che la normativa (d.lgs. n. 276 del 2003, artt. 20-28, qui applicabili ratione temporis) prevede come “condizione di liceità” che il contratto sia stipulato soltanto in presenza di ragioni “di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo di cui al comma 3 dell’articolo 20” e impone di indicarle per iscritto nel contratto stesso, a pena di nullità (art. 21, u.c.);
2) d’altra parte, il successivo art. 27, comma 3, sancisce che in sede giudiziale si deve effettuare l’accertamento della esistenza delle ragioni che consentono e giustificano la somministrazione di lavoro, anche se il controllo giudiziale non può essere esteso fino al punto di sindacare nel merito valutazioni e scelte tecniche, organizzative o produttive che spettano all’utilizzatore;
3) quindi, non può essere posto in dubbio che le suindicate ragioni devono essere precisate per iscritto nel contratto e devono essere indicate, in quella sede, con un grado di specificazione tale da consentire di verificare sia se rientrino nella tipologia di ragioni cui è legata la legittimità del contratto sia la loro effettività e quindi la relativa correlazione con la situazione lavorativa del dipendente;
4) pertanto, l’indicazione, delle ragioni non può essere tautologica, né può essere generica, né può risolversi in una parafrasi della norma, ma deve esplicitare il collegamento tra la previsione astratta e la situazione concreta (vedi, fra le tante: Cass. 17 ottobre 2018, n. 26018; Cass. 29 maggio 2018, n. 13417; Cass. 9 ottobre 2017, n. 23513; Cass. 26 ottobre 2015, n. 21768; Cass. 26 ottobre 2015, n. 21769; Cass. 27 ottobre 2015, n. 21916: Cass. 29 ottobre 2015, n. 22178; Cass. 8 maggio 2012, n. 6933; Cass. 15 luglio 2011, n. 15610);
5) la mera astratta legittimità della causale indicata nel contratto di somministrazione non è sufficiente per rendere legittima l’apposizione di un termine al rapporto, dovendo anche sussistere, in concreto, la rispondenza tra la causale enunciata e la concreta assegnazione del lavoratore a mansioni ad essa confacenti (Cass. 9 settembre 2013, n. 20598; Cass. 1 agosto 2014, n. 17540);
6) quanto alle conseguenze dell’anzidetta nullità, nel lavoro privato si è affermato un fermo ‒ qui condiviso, per quanto interessa ‒ orientamento di questa Corte secondo cui in caso di violazione delle norme di legge sulla apposizione del termine al contratto di somministrazione è applicabile l’indennità prevista dall’art. 32 della legge 4 novembre 2010, n. 183 (nel significato chiarito dal comma 13 dell’art. 1 della legge 28 giugno 2012 n. 92), la quale trova applicazione a qualsiasi ipotesi di rapporto di lavoro flessibile originato da un termine illegittimo (vedi, fra le altre: Cass. 6 ottobre 2016, n. 20060; Cass. 29 maggio 2013, n. 13404; Cass. 17 gennaio 2013, n. 1148; Cass. 8 settembre 2014, n. 18861; Cass. 7 luglio 2015, n. 14033);
7) tale orientamento è basato sul testo del citato art. 32 che richiama in senso ampio l’istituto del contratto di lavoro a tempo determinato, con formulazione unitaria, indistinta e generale, non associata all’indicazione di una normativa specifica di riferimento, né al riferimento ad ulteriori elementi selettivi e che stabilisce che, per il lavoro privato, l’indennità ivi prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, “comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro”;
8) peraltro, il suddetto indirizzo non si pone in contrasto con la sentenza della Corte di Giustizia UE 11 aprile 2013, C-290/12, Della Rocca, ove è stato escluso che la direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato e l’accordo quadro medesimo allegato a tale direttiva, si applichino al rapporto di lavoro a tempo determinato tra un lavoratore interinale e un’agenzia di lavoro interinale e al rapporto di lavoro a tempo determinato tra tale lavoratore e un’impresa utilizzatrice ‒ cioè alla somministrazione di lavoro a termine – che sono specificamente disciplinati dalla direttiva 2008/104/CE del 19 novembre 2008 relativa al lavoro tramite agenzia interinale (recepita in Italia con il d.lgs. 2 marzo 2012, n. 24);
9) infatti, la Corte di giustizia è pervenuta alla suddetta conclusione ‒ ribadita dalla CGUE nella sentenza 3 luglio 2014, nelle cause riunite C-362/13, C-363/13 e C-407/13 (punto 33) ‒ sul principale argomento secondo cui nel diritto UE e le due suddette fattispecie giuridiche sono regolate da fonti diverse, come si evince dalla citata direttiva 2008/104/CE, la quale prevede solo i “requisiti minimi” di protezione dei “lavoratori tramite agenzia interinale” (vedi art. 9, par. 2);
10) ne deriva che la suddetta affermazione della sentenza Della Rocca non esclude, con i dovuti adattamenti, l’applicabilità anche alla somministrazione:
a) del principio più volte affermato dalla stessa Corte di giustizia in materia di contratti a termine, secondo cui, “i contratti di lavoro a tempo indeterminato rappresentano la forma comune dei rapporti di lavoro” (vedi Considerando 15 della direttiva 2008/104/CE) sicché “il beneficio della stabilità del rapporto di lavoro è considerato un elemento assolutamente rilevante per la tutela dei lavoratori, laddove è solo in determinate circostanze che contratti di lavoro a tempo determinato possono soddisfare le esigenze sia dei datori di lavoro sia dei lavoratori” (sentenze Grande Sezione, 22 novembre 2005, Mangold, punto 64; Grande Sezione, 4 luglio 2006, Adeneler e a., C- 212/04, punto 62; nonché 8 marzo 2012, Huet, C-251/11, punto 35);
b) dell’impegno UE per l’adozione di una politica comune, volta a coniugare occupazione e crescita e quindi, a “favorire, al tempo stesso, flessibilità e sicurezza occupazionale e a ridurre la segmentazione del mercato del lavoro, tenendo debito conto del ruolo delle parti sociali”(vedi: Considerando 8);
c) del conseguente ulteriore indirizzo secondo cui l’effettiva attuazione della normativa UE in ambito nazionale deve contenere misure adeguate per prevenire e punire l’uso abusivo dei contratti di lavoro di breve durata, come specificamente prescrive l’art. 10, par. 2, della direttiva 2008/140/CE, ove si stabilisce che: “gli Stati membri determinano il regime delle sanzioni applicabili a violazioni delle disposizioni nazionali di attuazione della presente direttiva e adottano ogni misura necessaria a garantirne l’attuazione”, aggiungendo che”le sanzioni previste devono essere effettive, proporzionate e dissuasive” (vedi: Cass. 6 ottobre 2014, n. 21000; Cass. 8 ottobre 2014, n. 21235 e n. 21236);
11) la direttiva 2008/104/CE non è autoapplicativa ‒ al pari di quella sui contratti a termine 1999/70/CE ‒ e vincola gli Stati membri soltanto al raggiungimento dell’obiettivo di uno standard uniforme di tutele del lavoratore lasciando agli Stati stessi la scelta della forma e dei mezzi e, peraltro, non è applicabile nella specie ratione temporis, visto che è stata trasposta nell’ordinamento nazionale con il d.lgs. 2 marzo 2012, n. 24, quindi molto dopo la conclusione dei contratti di somministrazione a termine de quibus;
12) comunque ‒ anche a volerne tenere conto nel presente giudizio, in via interpretativa in applicazione del generale canone ermeneutico sistematicamente applicato dalla Corte di cassazione (vedi, tra le tante: Cass. SU 14 aprile 2011, n. 8486; Cass. SU 16 marzo 2009, n. 6316; Cass. 18 aprile 2014, n. 9082), secondo cui i giudici degli Stati UE sono obbligati ad interpretare il diritto nazionale, in conformità con il diritto UE, come interpretato dalla CGUE (in tal senso vedi, tra le molte, le sentenze della CGUE 5 ottobre 2004, C- 397/01- 403/01; 22 maggio 2003, C-462/99; 15 maggio 2003, C-160/01; 13 novembre 1990, C-106/89) ‒ essa non impedisce l’applicabilità dell’art. 32, comma 5, cit. alla somministrazione a termine irregolare o abusiva, anche nell’ambito del lavoro pubblico contrattualizzato, come meglio si dirà più avanti;
13) peraltro, nella stessa sentenza C-290/12, Della Rocca, è stato precisato che l’inapplicabilità alla somministrazione a termine della direttiva 1999/70/CE dell’accordo quadro CES, UNICE e CEEP (ad essa allegato) non deve pregiudicare la tutela di cui un lavoratore interinale potrebbe, all’occorrenza, beneficiare “contro l’abusivo ricorso ad una successione di contratti di lavoro a tempo determinato” (punto 43);
14) quanto si è detto porta ad escludere che la CGUE abbia fatto derivare tale inapplicabilità da una ritenuta “incompatibilità ontologica”, a tutti gli effetti, della disciplina della somministrazione a termine con quella di un ordinario contratto a tempo determinato, visto che per gli abusi si è fatto esplicito riferimento alla necessità di garantire la tutela del lavoratore e tale richiamo risulta confermato anche dalla successiva direttiva 2008/140/CE;
15) in definitiva, può dirsi che il suddetto orientamento della Corte di cassazione segue la stessa impostazione della Corte di Giustizia UE, in quanto pur muovendo dalla non assimilazione fra le discipline del contratto a tempo determinato e della somministrazione a termine, nella rispettiva applicazione corretta, tuttavia al fine di garantire la tutela del lavoratore nell’ipotesi di illegittima e/o abusiva utilizzazione del contratto di somministrazione a termine ritiene applicabile l’art. 32, comma 5, cit. sulla base dell’interpretazione letterale della norma e in conformità con il generale principio del riconoscimento al lavoratore interessato del diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro ‒ a termine ‒ in violazione di disposizioni imperative;
16) così come, in conformità con la impostazione della legislazione e della giurisprudenza UE, si è ritenuta applicabile la medesima disciplina nel lavoro privato e in quello pubblico – salva la regola di cui all’art. 97 Cost. – per l’ipotesi di illegittimo o abusivo ricorso al contratto a termine, sulla base del d.lgs. n. 368 del 2001 (considerato di applicazione generale, pur nel rispetto delle descritte specificità del lavoro pubblico) nonché, per le relative conseguenze, nel lavoro pubblico, in base al citato art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001, al medesimo risultato deve pervenirsi per la somministrazione di lavoro a termine illegittima o abusiva;
17) infatti, l’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001, fin dalla sua prima versione, ha fatto espresso riferimento all’utilizzo illegittimo e/o abusivo da parte delle Pubbliche Amministrazioni di contratti di “lavoro flessibile”, che è un’espressione omnicomprensiva;
18) d’altra parte, anche nella normativa nazionale in materia di somministrazione a tempo determinato si afferma che il rapporto di lavoro tra somministratore e prestatore di lavoro è soggetto alla disciplina del rapporto di lavoro a termine (d.lgs. n. 368 del 2001) “per quanto compatibile” (art. 22, comma 2, d.lgs. n. 276 del 2003, applicabile nella specie, ratione temporis);
19) così come è pacificamente considerata “compatibile” con la peculiarità della normativa propria della somministrazione di lavoro (pubblico) a termine l’applicazione del regime sulla specificità delle ragioni poste a fondamento del contratto, regime proprio degli ordinari contratti di lavoro a termine, alla medesima conclusione può pervenirsi per le misure sanzionatorie previste per l’illegittimo o abusivo utilizzo dei contratti a termine nel lavoro pubblico, essendovi anche in tal caso la suindicata “compatibilità”, ricavabile, in primo luogo, dalla consolidata giurisprudenza della CGUE che invoca per sanzionare gli abusi dei contratti a termine nel lavoro pubblico regime “misure energiche”, fortemente dissuasive (come richiesto dalla Corte di giustizia, a partire dalla sentenza 26 novembre 2014, C-22/13 ss., Mascolo), specialmente in un sistema come il nostro che, in assenza di una procedura concorsuale, esclude la trasformazione del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato (Cass. SU n. 5072 del 2016 cit.);
20) nella citata sentenza n. 5072 del 2016, le Sezioni Unite hanno altresì sottolineato che la CGUE ha affermato la compatibilità con gli indicati principi UE dell’insieme delle misure sanzionatorie previste dall’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, che hanno il loro fulcro nel diritto al risarcimento del danno da riconoscere al lavoratore per la prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative, cui si aggiungono altre misure di contorno che fanno perno soprattutto sulla responsabilità, anche patrimoniale, del dirigente cui sia ascrivibile l’illegittimo ricorso a contratti di “lavoro flessibile”;
21) tale danno, nel lavoro pubblico, non è configurabile come danno da mancata conversione del rapporto e quindi da perdita del posto di lavoro alle dipendenze dell’Amministrazione pubblica per la quale si è lavorato, perché al “posto stabile” non si può avere diritto senza aver superato il vaglio di un concorso pubblico;
22) escluso tale tipo di danno, le Sezioni Unite hanno sottolineato come l’abuso del ricorso a fattispecie contrattuali di “lavoro flessibile” – in genere ‒ essenzialmente in ipotesi di proroga, rinnovo o ripetuta reiterazione contra legem, può produrre per il lavoratore numerosi gli effetti pregiudizievoli che, come danno patrimoniale, possono variamente configurarsi e che, nell’ipotesi ordinaria, consistono nella perdita di chance risarcibile come danno patrimoniale nella misura in cui l’illegittimo (soprattutto se prolungato) impiego a termine abbia fatto perdere al lavoratore altre occasioni di lavoro stabile, anche se non può escludersi che una prolungata precarizzazione per anni possa aver inflitto al lavoratore un pregiudizio che va anche al di là della mera perdita di chance di un’occupazione migliore;
23) in ogni caso, l’onere probatorio di tale danno grava interamente sul lavoratore e pur potendo operare il regime delle presunzioni semplici (art. 2729 cod. civ.) indubbiamente il danno ‒ una volta escluso che possa consistere nella perdita del posto di lavoro occupato a termine ‒ può essere in concreto di difficile prova;
24) a tale ultimo riguardo, la CGUE, con ordinanza 12 dicembre 2013, Papalia, C-50/13, ha ritenuto non conforme al “principio di effettività” l’unica forma di tutela esistente nel nostro ordinamento per i lavoratori del settore pubblico assunti con contratto a durata determinata, rappresentata dal risarcimento del danno sofferto, in considerazione della impossibilità in concreto per un lavoratore del settore pubblico di fornire le prove richieste dal diritto nazionale, come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità dell’epoca, al fine di ottenere un siffatto risarcimento del danno, essendogli imposto di dimostrare, in particolare, la perdita di opportunità di lavoro e quella del conseguente lucro cessante;
25) nella suindicata ordinanza la CGUE ha espresso il monito di dare maggiore consistenza ed effettività al danno risarcibile nell’ipotesi dell’abuso del ricorso al contratto a termine nel lavoro pubblico, attraverso un’agevolazione del relativo regime probatorio;
26) le Sezioni Unite, nella citata sentenza, per tenere conto di tale monito, con un’operazione di integrazione in via interpretativa orientata dalla conformità eurounitaria, sono giunte alla conclusione di considerare la fattispecie di cui all’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010, come omogenea, sistematicamente coerente e strettamente contigua all’ipotesi di illegittima apposizione del termine al contratto a tempo determinato nel settore pubblico perché riguardante analoga situazione per il settore privato e prevedente la condanna del datore di lavoro al risarcimento del lavoratore costituito in “un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella legge 15 luglio 1966, n. 604, art. 8” (in tal senso già Cass. 21 agosto 2013, n. 19371);
27) comportando l’applicazione della suddetta disposizione l’esonero per il lavoratore pubblico dalla prova del danno nella misura presuntiva ivi indicata (determinata tra un minimo ed un massimo), le Sezioni Unite hanno sottolineato come questa agevolazione probatoria, derivante dall’interpretazione sistematica orientata alla conformità con la normativa UE, rappresenta la misura dissuasiva ed il rafforzamento della tutela del lavoratore pubblico, quale richiesta dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, nella quale è stata evidenziata la necessità di rafforzare la tutela del lavoratore pubblico precario rendendo meno difficile la prova del danno subito a causa dell’utilizzo illegittimo o abusivo da parte delle P.A. del contratto a termine;
28) tale questione sia nell’ordinanza 12 dicembre 2013, Papalia, C-50/13 sia nella sentenza SU n. 5072 del 2016 è stata affrontata con specifico riguardo ai contratti a termine (e quindi alla direttiva 1999/70/CE e all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP) perché quella era la fattispecie sub judice, ma è evidente che l’esigenza di fornire un’adeguata tutela (sostanziale e processuale) ai lavoratori dipendenti delle P.A. rispetto ad una “precarizzazione” protrattasi nel tempo al di fuori di ogni regola è un’esigenza di carattere generale che, sia per la nostra Costituzione sia per la normativa UE, non può che riguardare anche l’utilizzo illegittimo e/o abusivo da parte delle Pubbliche Amministrazioni della somministrazione di lavoro a termine così come di ogni altra forma di “lavoro flessibile” a termine;
29) del resto, in più punti nella citata sentenza delle Sezioni Unite si richiama proprio questa “categoria generale”, cui fa riferimento pure l’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001;
30) peraltro, la suindicata esigenza è contemplata specificamente pure dalla direttiva 2008/104/CE che ‒ dopo aver richiamato nel Considerato n. 1 la Carta dei diritti fondamentali della UE e, in particolare, i diritti ivi previsti nell’art. 31 (Condizioni di lavoro giuste ed eque) in favore del lavoratore ‒ stabilisce (vedi il combinato disposto degli artt. 4, comma 1, 5, comma 5, 6, comma 2, 9, comma 1, 10 della direttiva) che gli Stati membri, conformemente alla legislazione e/o le pratiche nazionali, “adottano” le misure necessarie per evitare gli abusi e, in particolare, per prevenire la stipulazione reiterata nel tempo di contratti di lavoro tramite agenzia interinale (i.e. di somministrazione di lavoro), finalizzata ad eludere le disposizioni della direttiva (art. 5, comma 5) e/o ad impedire la stipulazione di un contratto di lavoro o l’avvio di un rapporto di lavoro stabile tra l’impresa utilizzatrice e il lavoratore tramite agenzia interinale al termine della sua (prima) missione (art. 6, comma 2);
31) nella medesima direttiva si aggiunge che gli Stati stessi per le violazioni delle disposizioni nazionali di attuazione della direttiva stessa devono prevedere sanzioni “effettive, proporzionate e dissuasive”;
32) inoltre, nel Considerando n. 12 della direttiva 2008/104/CE, si dice che essa “stabilisce un quadro normativo che tuteli i lavoratori tramite agenzia interinale che sia non discriminatorio, trasparente e proporzionato nel rispetto della diversità dei mercati del lavoro e delle relazioni industriali”;
33) d’altra parte, essendo i principi affermati dalla CGUE nella ordinanza 12 dicembre 2013, Papalia, C-50/13 relativi al regime dell’onere probatorio e quindi di per sé non collegati ‒ ontologicamente ‒ ad un tipo particolare di contratto di lavoro flessibile concluso in modo illegittimo o abusivo da una P.A., la mancata applicazione ad ogni tipo di rapporto di “lavoro flessibile” pubblico, caratterizzato da una illegittima o abusiva apposizione di un termine di durata, della soluzione adottata dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 5072 del 2016 al problema posto dall’indicata ordinanza C-50/13, verrebbe a collidere con il principio di razionalità-equità di cui all’art. 3 Cost., con la stessa direttiva 2008/104/CE e con i principi di equivalenza e di effettività elaborati dalla CGUE, dando luogo ad una ingiustificata discriminazione in danno di tutti i lavoratori pubblici illegittimamente “precarizzati” attraverso l’utilizzo di forme contrattuali diverse dal contratto a termine ordinario;
34) come si è detto, la costante giurisprudenza della Corte di cassazione ha da tempo attribuito, nel lavoro privato, all’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010 portata applicativa di carattere generale per tutti i contratti aventi origine in un termine illegittimo;
35) per effetto della suindicata sentenza n. 5072 del 2016 – basata sul fondamentale canone dell’interpretazione della disciplina nazionale eurounitariamente orientata ‒ (e della successiva conforme giurisprudenza), analoga portata è da attribuire alla norma nell’ambito del lavoro pubblico;
36) in questa ottica, al suddetto art. 32, comma 5, cit. si è fatto riferimento anche per l’ipotesi in cui la P.A. abbia stipulato, in assenza dei presupposti richiesti dalla legge per la reiterazione, successivi contratti formalmente qualificati di collaborazione coordinata e continuativa (ma che di fatto abbiano comportato l’instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato) e il lavoratore ne abbia allegato l’illegittimità anche sotto il profilo del carattere abusivo della reiterazione del termine (vedi: Cass. 9 maggio 2018, n. 10951; Cass. 19 novembre 2018, n. 29779);
37) per quanto si è detto, i principi affermati dalla citata sentenza delle Sezioni Unite n. 5072 del 2016 a maggior ragione devono trovare applicazione per il regime del risarcimento del danno da riconoscere al lavoratore pubblico in caso di illegittima e/o abusiva reiterazione nel tempo di contratti di somministrazione di lavoro a termine, visto che così come i principi affermati dalle Sezioni Unite sono il frutto di una interpretazione eurounitariamente conforme della normativa nazionale la stessa operazione è anche alla base della qui affermata applicazione della soluzione ermeneutica adottata dalle Sezioni Unite ad ogni tipo di rapporto di “lavoro flessibile” pubblico, caratterizzato da una illegittima o abusiva apposizione di un termine di durata e quindi alla somministrazione di lavoro a termine di cui si tratta nel presente giudizio;
38) nella specie, la Corte d’appello ‒ facendo corretta applicazione della normativa in materia di somministrazione di lavoro a termine nel lavoro pubblico come interpretata dalla Corte di cassazione ‒ ha rilevato la carenza di specificità delle ragioni poste a fondamento dei primi tre contratti di somministrazione a termine in oggetto e la loro conseguente nullità, senza per questo estendere il proprio sindacato alle scelte tecniche, organizzative e produttive dell’utilizzatore;
39) tuttavia, pur muovendo da tale esatta premessa, la Corte d’appello è pervenuta alla non condivisibile conclusione di escludere la condanna dell’Azienda Sanitaria datrice di lavoro al risarcimento del danno, per mancanza di allegazione e prova della sussistenza, in concreto, del danno patito dalla lavoratrice ed ha quindi escluso anche l’applicabilità dell’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010, come richiesto dalla lavoratrice stessa.
In sintesi può dirsi che nella difficile materia degli abusi dei contratti di lavoro flessibile da parte delle Pubbliche Amministrazioni (oltre che da parte dei datori di lavoro privato) e del relativo trattamento sanzionatorio la giurisprudenza della CGUE ‒ e, in particolare l’ordinanza Papalia cit. ‒ e il più volte richiamato intervento delle Sezioni Unite, hanno posto la Corte di cassazione in condizione di svolgere in modo efficace la funzione di nomofilachia che le assegna l’ordinamento e che è finalizzata a garantire la certezza del diritto, onde tutelare anche il principio costituzionale di eguaglianza (art. 3 Cost.), in forza del quale casi analoghi devono essere giudicati, per quanto possibile, in modo analogo.
L’unico rammarico è che il contenzioso continua ad esserci e spesso i ricorrenti ribadiscono tesi ampiamente superate dalla giurisprudenza di legittimità.
13.- Contratti di lavoro a termine del personale della scuola.
13.1.- L’ordinanza n. 207 del 2013 della Corte costituzionale.
Va però sottolineato che per quel che concerne il precariato scolastico ancora permangono incertezze e problemi interpretativi.
Le suindicate sentenze hanno – sia pure indirettamente – ancor più evidenziato la particolare criticità del precariato scolastico, di cui non si sono occupate non rientrando tale questione nel thema decidendum.
In particolare anche nella sentenza n. 5072 del 2016 le Sezioni Unite hanno sottolineato che per il personale della scuola trova applicazione una disciplina ulteriormente speciale rispetto a quella esaminata.
E dalla giurisprudenza della CGUE risulta che non è di per sé incompatibile con la normativa europea la previsione di una disciplina particolare per i contratti a termine del personale scolastico (docente e non docente), essendo indubitato che il servizio svolto dalla scuola pubblica ha caratteristiche del tutto particolari, come più volte ribadito anche dalla giurisprudenza costituzionale (vedi, per tutte: sentenze n. 178 del 2015 e n. 187 del 2016).
Questa è la premessa su cui poggia anche l’ordinanza n. 207 del 2013, con la quale la Corte costituzionale, per la prima volta nella propria storia, si è avvalsa dello strumento del rinvio pregiudiziale di cui all’art. 267 del TFUE, nel corso di un giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, sottoponendo alla CGUE due questioni di interpretazione della clausola 5, punto 1, dell’Accordo quadro in argomento, con riguardo alla compatibilità con tale normativa UE della disciplina nazionale sui rapporti di lavoro a tempo determinato del personale scolastico docente e ATA.
La Corte costituzionale, dopo avere ritenuto non censurabile il comma 1 dell’art. 4 della legge n. 124 del 1999 nella sua parte principale, che regola la tipologia di supplenze – previsione necessaria per assicurare la copertura dei posti vacanti di anno in anno – ha ipotizzato il conflitto con la citata clausola 5, punto 1, della direttiva n. 1999/70/CE della proposizione finale di tale disposizione, per due profili:
a) la possibile configurazione di un rinnovo dei contratti a tempo determinato senza che alcuna previsione di tempi certi per lo svolgimento dei concorsi;
b) l’assenza di disposizioni prevedenti, per i lavoratori della scuola, il diritto al risarcimento del danno in favore di chi è stato assoggettato ad un’indebita ripetizione di contratti di lavoro a tempo determinato.
13.2.- La sentenza della CGUE 26 novembre 2014, Mascolo e altri.
Tale ordinanza è stata esaminata dalla CGUE nella nota sentenza 26 novembre 2014, Mascolo e altri, relativa alle cause riunite C-22/13; C-61/13; C-62/13; C-63/13; C-418/13.
Nella sentenza, con ampia motivazione, è stato affermato il seguente principio: la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato cit. “deve essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale, quale quella di cui trattasi nei procedimenti principali, che autorizzi, in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali per l’assunzione di personale di ruolo delle scuole statali, il rinnovo di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili di docenti nonché di personale amministrativo, tecnico e ausiliario, senza indicare tempi certi per l’espletamento di dette procedure concorsuali ed escludendo qualsiasi possibilità, per tali docenti e detto personale, di ottenere il risarcimento del danno eventualmente subito a causa di un siffatto rinnovo. Risulta, infatti, che tale normativa, fatte salve le necessarie verifiche da parte dei giudici del rinvio, da un lato, non consente di definire criteri obiettivi e trasparenti al fine di verificare se il rinnovo di tali contratti risponda effettivamente ad un’esigenza reale, sia idoneo a conseguire l’obiettivo perseguito e sia necessario a tal fine, e, dall’altro, non prevede nessun’altra misura diretta a prevenire e a sanzionare il ricorso abusivo ad una successione di contratti di lavoro a tempo determinato”.
All’esito del giudizio dinanzi alla CGUE dopo un rinvio a nuovo ruolo ‒ effettuato in prossimità dell’emanazione della legge 13 luglio 2015, n. 107 (Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti, in vigore dal 16 luglio 2015), conosciuta come la legge sulla “Buona Scuola” ‒ l’esame delle questioni di costituzionalità si è avuto con la sentenza n. 187 del 2016, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, nei sensi e nei limiti di cui in motivazione, dell’art. 4, commi 1 e 11, della legge 3 n. 124 del 1999, “nella parte in cui autorizza, in mancanza di limiti effettivi alla durata massima totale dei rapporti di lavoro successivi, il rinnovo potenzialmente illimitato di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili di docenti nonché di personale amministrativo, tecnico e ausiliario, senza che ragioni obiettive lo giustifichino”.
Va anche precisato che con la citata legge n. 107 del 2015, al fine di dare esecuzione ai precetti della sentenza Mascolo della CGUE, è stato autorizzato per l’anno scolastico 2015/16 un piano straordinario di assunzioni a tempo indeterminato di personale docente per la copertura di tutti i posti dell’organico di diritto, rimasti vacanti e disponibili all’esito delle operazioni di immissione in ruolo ai sensi dell’art. 399 d.lgs. n. 297 del 1994, anche se il varo di questo piano straordinario di assunzione di personale docente a tempo indeterminato non ha sopito tutte le incertezze interpretative relative al trattamento dei docenti e del personale ATA, alcune manifestatesi nell’immediato e altre tuttora presenti.
Questo risulta confermato dalle differenti soluzioni offerte dai giudici del merito al riguardo e anche dall’attuale situazione, che per esempio vede pendente presso la CGUE la causa C-494/17 nella quale alla Corte è stato chiesto di stabilire ‒ con riguardo ad un procedimento instaurato da un docente di un conservatorio di musica ‒ se l’interpretazione della legge n. 107 del 2015, fornita dalla Corte costituzionale (nella suindicata sentenza) e dalla Corte di cassazione (nelle sentenze successive a quella della Corte costituzionale) sia conforme alla clausola 5, cit., come si dirà più avanti.
13.3.- La sentenza della Corte costituzionale n. 187 del 2016 e le successive sentenze della Corte di cassazione.
Poco dopo la pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale n. 187 del 2016, la Corte di cassazione ha “sbloccato” le cause che era rimaste sospese in attesa delle decisioni della CGUE e del Giudice delle leggi, le ha trattate tutte nell’udienza del 18 ottobre 2016 ed ha quindi emesso 56 sentenze tutte del medesimo tenore, a seguito di una lunga camera di consiglio (sentenze comprese da Cass. n. 22552 e n. 27566 del 2016).
In tali sentenze la Corte ha, in primo luogo, ribadito, condividendolo, l’orientamento espresso con la sentenza 20 giugno 2012, n. 10127, secondo cui la disciplina del reclutamento del personale scolastico, docente ed ATA, costituisce un “corpus” normativo completo e speciale, sicché, per il principio immanente all’ordinamento secondo il quale “lex posterior generalis non derogat priori speciali”, non è possibile far discendere dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 368 del 2001 l’abrogazione della normativa speciale che qui viene in rilievo, nelle parti incompatibili con la disciplina di carattere generale dettata per il contratto a tempo determinato.
Ha soggiunto che, d’altra parte, la specialità del sistema sussiste anche rispetto alle forme di reclutamento del personale delle Amministrazioni Pubbliche ed è stata espressamente riconosciuta dall’art. 70 del d.lgs. n. 165 del 2001.
Quindi, alla luce di un approfondito esame della normativa speciale in oggetto, con riguardo alle modalità di reclutamento dei docenti e del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (c.d. ATA), la Corte è pervenuta al primo evidente approdo dell’incompatibilità della disciplina speciale del settore della Scuola Pubblica con la normativa di carattere generale dettata per il contratto a termine dal d.lgs. n. 368 del 2001, quanto ai requisiti di forma ed al regime delle proroghe e dei rinnovi, sul rilievo secondo cui con la legge n. 124 del 1999 sono state tipizzate “ex ante” le ragioni sottese alle diverse tipologie di supplenze e, nella disciplina delle proroghe e dei rinnovi, sono state prese in considerazione oltre che le peculiarità del sistema del doppio canale, anche le esigenze di continuità didattica.
Anche il reclutamento del personale ATA è stato ispirato ai medesimi principi, applicandosi anche a tale personale le medesime disposizioni disciplinanti il conferimento delle supplenze su cattedre e posti di insegnamento e fondate sul sistema del cosiddetto “doppio canale”, che è sempre stato congegnato – per entrambe le categorie di personale di cui si tratta – in modo tale da favorire e non scoraggiare la reiterazione dei contratti a tempo determinato, poiché l’utilizzazione delle graduatorie permanenti avrebbe dovuto consentire, nella logica del sistema così come delineato a livello normativo, il definitivo accesso ai ruoli.
Proprio su queste premesse la Corte costituzionale, con ordinanza n. 207 del 2013, ha sottoposto alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, in via pregiudiziale ai sensi e per gli effetti dell’art. 267 del TFUE le questioni di interpretazione della clausola 5, punto 1, dell’Accordo in oggetto.
E sul medesimo presupposto dell’inapplicabilità delle disposizioni di cui al d.lgs. n. 368 del 2001 al settore scolastico e della conseguente inapplicabilità al settore pubblico della Scuola delle norme limitative dettate al fine di dare attuazione alla direttiva europea, i Tribunali ordinari di Roma e di Lamezia Terme hanno sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, commi 1 e 11, della legge 3 maggio 1999 n. 124 in relazione all’art. 117, primo comma, Cost. ed alla clausola 5, punto 1, dell’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato allegato alla direttiva 1999/70/CE.
Su tale questione ‒ all’esito del suindicato rinvio pregiudiziale ‒ la Corte costituzionale si è pronunciata con la sentenza n. 187 del 2016, nella quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, nei sensi e nei limiti di cui in motivazione, dell’art. 4, commi 1 e 11, censurato.
Il Giudice delle leggi è pervenuto al predetto dispositivo riconoscendo il proprio obbligo di attenersi all’inequivocabile verdetto della Corte di Giustizia UE sulla non conformità alla clausola 5, comma 1, della direttiva del 1999 delle disposizioni menzionate (punto 47), in tal modo dando seguito al fondamentale principio del primato del diritto comunitario, posto alla base della richiamata ordinanza n. 207 del 2013 della stessa Corte costituzionale e sempre riconosciuto anche dalle pronunzie della Corte di cassazione.
Proprio con riguardo agli spazi di autonomia riconosciuti al diritto nazionale, la Corte costituzionale ha ritenuto di dovere integrare il “dictum” del Giudice comunitario ed ha esaminato la questione oggetto dei riuniti giudizi di legittimità costituzionale alla luce dello “jus superveniens”, costituito dalla legge n. 107 del 2015, adottata dal legislatore al fine di garantire la corretta applicazione dell’Accordo quadro, precisando di ritenere tale verifica inclusa nella propria potestà decisoria, diversamente dalle ipotesi dei giudizi di costituzionalità “interni” nelle quali viene rimessa al giudice a quo la delibazione della portata delle sopravvenienze.
Il Giudice delle leggi ha quindi rilevato che, nell’esercizio del proprio inedito ruolo di giudice del rinvio pregiudiziale, era obbligato a dare ingresso allo “jus superveniens” medio tempore intervenuto.
Dalla combinazione dei vari interventi, sia a regime che transitori, effettuati con la suddetta legge n. 107 del 2015, il Giudice delle leggi ha desunto l’esistenza, “in tutti i casi che vengono in rilievo”, di una delle misure rispondenti ai requisiti richiesti dalla Corte di giustizia, individuandole, quanto ai docenti, nelle procedure privilegiate di assunzione che attribuivano a tutto il personale interessato serie ed indiscutibili chances di immissione in ruolo.
Di contro ha ritenuto che, non essendo stato previsto per il personale ATA alcun piano straordinario di assunzione, dovesse trovare applicazione la misura ordinaria del risarcimento del danno, misura del resto prevista dal comma 132 dell’art. 1 della legge n. 107 del 2015.
La Corte ha precisato, da ultimo, che grazie alla legge n. 107 del 2015 l’illecito di cui si è reso responsabile lo Stato italiano, a causa della violazione del diritto dell’UE, è stato “cancellato” dal legislatore italiano con la previsione di adeguati ristori al personale interessato, sottolineando che tale conclusione trovava indiretta quanto autorevole conferma nell’archiviazione, senza sanzioni, da parte della Commissione UE della procedura di infrazione aperta nei confronti del nostro Paese per la violazione della normativa europea in oggetto, archiviazione disposta proprio in conseguenza della indicata normativa nazionale sopravvenuta.
Sulla base di tali presupposti, la Corte di cassazione, nelle ampie e articolate sentenze su richiamate, ha affermato fra l’altro che:
1) la sentenza della Corte Costituzionale n. 187 del 2016 cancella la norma incostituzionale dall’ordinamento giuridico, con riferimento a tutti i rapporti “non ancora esauriti”, ma, per altro verso, non può risolvere i problemi concreti propri delle singole fattispecie sub judice: la stessa ordinanza di rinvio pregiudiziale n. 207 del 2013 riguardava non tanto la legge oggetto delle sollevate questioni di incostituzionalità, quanto piuttosto il sistema complessivo relativo all’assegnazione delle supplenze cd. annuali, sistema connotato dal fatto che per molto tempo (negli anni dal 2000 al 2007) non era stata organizzata alcuna procedura concorsuale, pur prevista dalla legislazione del 1999, come successivamente integrata e modificata;
2) nel quadro normativo originato dalla questione della “doppia pregiudizialità”, ed all’esito del complesso itinerario svoltosi tra giudici del merito e Corte costituzionale e tra questa e la Corte di Giustizia, le fattispecie concrete devono essere risolte dalla Corte di cassazione – nell’espletamento del suo ruolo di giudice della nomofilachia – con individuazione preliminare e generale, al fine di dare soluzione alle numerose controversie chiamate alla decisione, di canoni interpretativi ed applicativi delle norme interne non travolte dalla pronunzia di incostituzionalità, canoni idonei ad assicurare il “continuum” di compatibilità tra diritto nazionale (ordinario e costituzionale) e diritto dell’Unione Europea;
3) va precisato che il livello dell’interpretazione-ricostruzione del “continuum” diritto interno-diritto dell’Unione, demandato al Giudice nazionale e quindi alla Corte di legittimità, si pone su un piano distinto e diverso da quello percorso dalla Corte costituzionale, riconducibile, invece, a quello dell’interpretazione del diritto nazionale rispetto al diritto dell’UE alla luce delle coordinate di ordine costituzionale;
4) la Corte di Giustizia ha, infatti, più volte affermato che sarebbe incompatibile con gli obblighi che derivano dalla natura stessa del diritto dell’Unione qualsiasi disposizione di un ordinamento giuridico nazionale o qualsiasi prassi, legislativa, amministrativa o giudiziaria, la quale porti ad una riduzione della concreta efficacia del diritto dell’Unione, per il fatto di negare al giudice competente ad applicare questo diritto il potere di compiere, all’atto stesso di tale applicazione, tutto quanto è necessario per disapplicare le disposizioni legislative nazionali che eventualmente ostino alla piena efficacia delle norme dell’Unione (vedi: sentenze Simmenthal, EU:C:1978:49, punto 22; Factortame e altri, C-213/89, EU:C:1990:257, punto 20, nonché Åkerberg Fransson, EU:C:2013:105, punto 46 e giurisprudenza ivi citata; A. contro B ed altri C-112/2013 dell’11 settembre 2014);
5) come sopra rilevato la dichiarazione di illegittimità costituzionale, “in parte qua” e con effetto “ex tunc”, dell’art. 4, commi 1 e 11, della legge n. 124 del 1999 comporta che la reiterazione dei contratti a termine stipulati ai sensi della richiamata disposizione configura un illecito, rilevante sul piano del diritto comunitario e quindi del diritto interno.
In conclusione, la Corte di cassazione ha affermato i principi di seguito riprodotti.
A. “La disciplina del reclutamento del personale a termine del settore scolastico, contenuta nel d.lgs. n. 297 del 1994, non è stata abrogata dal d.lgs. n. 368 del 2001, essendone stata disposta la salvezza dall’art. 70, comma 8, del d.lgs. n. 165 del 2001, che ad essa attribuisce un connotato di specialità”.
B. “Per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 4, commi 1 e 11, della legge 3 maggio 1999, n. 124 e in applicazione della direttiva 1999/70/CE, è illegittima, a far tempo dal 10 luglio 2001, la reiterazione dei contratti a termine stipulati ai sensi dell’art. 4, commi 1 e 11, della citata legge n. 124 del 1990, prima dell’entrata in vigore della legge 13 luglio 2015, n. 107, rispettivamente con il personale docente e con quello amministrativo, tecnico ed ausiliario (ATA), per la copertura di cattedre e posti vacanti e disponibili entro la data del 31 dicembre e che rimangano prevedibilmente tali per l’intero anno scolastico, sempre che abbiano avuto durata complessiva, anche non continuativa, superiore a trentasei mesi”.
C. “Ai sensi dell’art. 36 (originario comma 2, ora comma 5) del D.lgs. n. 165 del 2001, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle Pubbliche Amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime Pubbliche Amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione”.
D. “Nelle ipotesi di reiterazione dei contratti a termine stipulati ai sensi dell’art. 4, comma 1, della legge n. 124 del 1999, realizzatesi prima dell’entrata in vigore della legge 13 luglio 2015 n. 107, con il personale docente, per la copertura di cattedre a posti vacanti e disponibili entro la data del 31 dicembre e che rimangano prevedibilmente tali per l’intero anno scolastico, deve essere qualificata misura proporzionata, effettiva, sufficientemente energica ed idonea a sanzionare debitamente l’abuso e a ‘cancellare le conseguenze della violazione del diritto dell’Unione’ la misura della stabilizzazione prevista nella citata legge n. 107 del 2015, attraverso il piano straordinario destinato alla copertura di tutti i posti comuni e di sostegno dell’organico di diritto, relativamente al personale docente, sia nel caso di concreta assegnazione del posto di ruolo sia in quello in cui vi sia certezza di fruire, in tempi certi e ravvicinati, di un accesso privilegiato al pubblico impiego, nel tempo compreso fino al totale scorrimento delle graduatorie ad esaurimento, secondo quanto previsto dal comma 109 dell’art. 1 della stessa legge n. 107 del 2015”.
E. “Nelle predette ipotesi di reiterazione, realizzatesi dal 10 luglio 2001 e prima dell’entrata in vigore della legge 13 luglio 2015 n. 107, rispettivamente con il personale docente e con quello amministrativo, tecnico e ausiliario, per la copertura di cattedre e posti vacanti e disponibili entro la data del 31 dicembre e che rimangano prevedibilmente tali per l’intero anno scolastico, deve essere qualificata misura proporzionata, effettiva, sufficientemente energica ed idonea a sanzionare debitamente l’abuso ed a ‘cancellare le conseguenze della violazione del diritto dell’Unione’ la stabilizzazione acquisita dai docenti e dal personale ausiliario, tecnico ed amministrativo, attraverso l’operare dei pregressi strumenti selettivi- concorsuali”.
F. “Nelle predette ipotesi di reiterazione, realizzatesi prima dell’entrata in vigore della legge 13 luglio 2015 n. 107, rispettivamente con il personale docente e con quello ATA, per la copertura di cattedre e posti vacanti e disponibili entro la data del 31 dicembre e che rimangano prevedibilmente tali per l’intero anno scolastico, deve affermarsi, in continuità con i principi stabiliti dalle SS.UU della Corte nella sentenza n. 5072 del 2016, che l’avvenuta immissione in ruolo non esclude la proponibilità di domanda per risarcimento dei danni ulteriori e diversi rispetto a quelli eliminati per effetto dell’immissione in ruolo stessa, con la precisazione che l’onere di allegazione e di prova grava sul lavoratore, in tal caso non beneficiato dalla agevolazione probatoria di cui alla menzionata sentenza”.
G. “Nelle predette ipotesi di reiterazione di contratti a termine stipulati ai sensi dell’art. 4, comma 1, della legge n. 124 del 1999, avveratesi a far data dal 10 luglio 2001, ai docenti ed al personale amministrativo, tecnico ed ausiliario che non sia stato stabilizzato e che non abbia (come dianzi precisato) alcuna certezza di stabilizzazione, va riconosciuto il diritto al risarcimento del danno nella misura e secondo i principi affermati nella già richiamata sentenza delle SSUU della Corte n. 5072 del 2016”.
H. “Nelle predette ipotesi di reiterazione di contratti a termine in relazione ai posti individuati per le supplenze su ‘organico di fatto’ e per le supplenze temporanee non è in sé configurabile alcun abuso ai sensi dell’Accordo quadro allegato alla direttiva in argomento, fermo restando il diritto del lavoratore di allegare e provare il ricorso improprio o distorto a siffatta tipologia di supplenze, prospettando non già la sola reiterazione ma le sintomatiche condizioni concrete della medesima”.
La Corte ha anche dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale prospettata, nella requisitoria orale, da parte del Procuratore Generale, con riferimento alla diversità di trattamento riservata dalla legge n. 107 del 2015 al personale tecnico ed amministrativo (ATA), al quale non è stato esteso il piano straordinario di assunzioni, riservato (art.1, comma 95) al solo personale docente. Al riguardo è stato posto l’accento sulla non comparabilità della situazione lavorativa dei docenti con quella del personale ATA, in quanto pur essendo innegabile che anche il personale ATA, al pari del personale docente, svolge una funzione essenziale al funzionamento della Scuola pubblica, ma è altrettanto vero che si tratta di funzione diversa per ordinamento e per contenuto (vedi, tra le tante: CGUE sentenza 12 giugno 2014, SCA Group Holding BV, C-39/13, C-40/13 e C-41/13 – riunite; sentenza 18 luglio 2013, FIFA, C-205/11 P).
D’altra parte, la scelta in questione non ha lasciato il personale ATA senza tutele, posto che non è esclusa la possibilità di immissione in ruolo prevista secondo il sistema previgente e che anche per detto personale opera il Fondo previsto dall’art. 1, comma 132, per i pagamenti in esecuzione di provvedimenti giurisdizionali aventi ad oggetto il risarcimento dei danni conseguenti alla reiterazione di contratti a termine per una durata complessiva superiore a trentasei mesi, anche non continuativi, su posti vacanti e disponibili.
La sentenza della CGUE 14 settembre 2016, Martínez Andrés e Castrejana López, cause riunite C-184/15 e C-197/15, non ha certamente mutato la consolidata giurisprudenza di quella Corte: la CGUE, dopo averla richiamata (vedi, in particolare, punto 40), ne ha fatto applicazione in un caso particolare nel quale al divieto di conversione si accompagnava l’assenza di altra misura effettiva per evitare e sanzionare gli abusi (vedi punto 53 e 54). Si trattava, quindi, di una fattispecie non paragonabile a quella di cui si discute nel presente giudizio, visto che nel nostro ordinamento, non è in discussione l’esistenza di una misura effettiva per evitare e sanzionare gli abusi, segnatamente dopo la legge n. 107 del 2015, la cui applicazione va determinata tenendo conto della sentenza di accoglimento della Corte costituzionale, di cui si è detto.
La Corte di cassazione ha altresì disatteso la richiesta di avvio, ai sensi dell’art. 267 del TFUE, della procedura di rinvio pregiudiziale dinanzi alla CGUE, formulata sulla dedotta contrarietà con la clausola 5, punti 1 e 2, dell’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato allegato alla direttiva 1999/70/CE e con la clausola 4 dello stesso Accordo quadro, nonché sull’ipotizzato contrasto con il principio di uguaglianza e non discriminazione del diritto UE, del differente trattamento previsto nel nostro ordinamento rispettivamente per i contratti di lavoro a tempo determinato stipulati con la Pubblica Amministrazione, in particolare nel Comparto Scuola, e per i contratti a termine stipulati con gli Enti pubblici economici e con i datori di lavoro privati, laddove il legislatore nazionale avrebbe escluso i primi dalla tutela rappresentata dalla costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato in caso di applicazione delle regole interne di recepimento della suindicata direttiva 1999/70/CE, emanate in attuazione dell’art. 117, primo comma, Cost., senza prevedere alcuna sanzione effettiva, proporzionale, preventiva, dissuasiva neanche sotto il profilo del risarcimento del danno.
Alla suddetta conclusione la Corte è pervenuta sul principale argomento secondo cui lavoro pubblico e lavoro privato non sono confrontabili e comunque la stessa CGUE, con giurisprudenza costante, ha precisato che la clausola 5, punto 1, dell’Accordo quadro medesimo non sancisce un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato, così come non stabilisce le condizioni precise alle quali si può fare uso di questi ultimi, lasciando agli Stati membri un certo margine di discrezionalità in materia (“ex plurimis” CGUE sentenze 7 settembre 2006, Marrosu e Sardino, C 53/04; 7 settembre 2006, Vassallo, C 180/04; 4 luglio 2006, Adeneler e altri, C 212/04; ordinanza 1 ottobre 2010, Affatato, C-3/10; sentenza 3 luglio 2014, Fiamingo, C-362/13, C-363/13 e C-407/13 – riunite; sentenza 26 gennaio 2012, Kücük, C-586/10).
13.4.- Molte questioni restano aperte.
Tutti gli indicati interventi giurisprudenziali non hanno però consentito di risolvere i molteplici problemi del personale (docente e ATA) della scuola.
13.4.1.- Il caso del personale ATA trasferito dagli enti locali al Comparto Scuola.
Così, ad esempio, ancora non si è chiuso l’ampio contenzioso ‒ riguardante secondo le stime dei sindacati di categoria circa 80.000-90.000 dipendenti e sviluppatosi parallelamente a quello sul precariato scolastico ‒ relativo ai criteri di computo dell’anzianità maturata nel Comparto enti locali da parte del personale ATA degli istituti e scuole statali di ogni ordine e grado trasferito dall’art. 8 della legge 3 maggio 1999, n. 124 nei ruoli del personale dello Stato-Comparto Scuola, criteri determinati dal MIUR nel decreto 5 aprile 2001, che “recepì” l’Accordo stipulato tra l’ARAN e i rappresentanti delle organizzazioni sindacali in data 20 luglio 2000.
E va detto che si tratta di un contenzioso molto noto non solo ai lavoristi, ma anche agli studiosi di diritto costituzionale ed europeo perché è emblematico degli effetti perversi che possono prodursi nei rapporti tra la giurisprudenza delle Corti supreme nazionali – Corte costituzionale e Corte di cassazione – e quella della Corte di giustizia UE e della Corte di Strasburgo, nonché, sia pure indirettamente, nei rapporti reciproci tra queste due Corti europee.
Infatti, in modo sintetico, può dirsi che dopo tanti anni e tanti giudizi gli interessati andranno ad ottenere, più o meno, lo stesso trattamento previsto nel suddetto accordo nel quale l’ARAN e le associazioni sindacali avevano dato applicazione all’art. 8 cit., stabilendo, quanto al regime contrattuale, che, pur nella prosecuzione ininterrotta del relativo rapporto di lavoro, cessava di applicarsi a decorrere dal 1° gennaio 2000 il CCNL 1° aprile 1999 del Comparto Regioni-Autonomie locali e dalla stessa data si applicava il CCNL. 26 maggio 1999 del Comparto Scuola.
Per dirla con William Shakespeare: “tanto rumore per nulla” per gli interessati, ma sul sistema giustizia questa vicenda ha avuto costi, umani e materiali, elevatissimi, senza produrre alcun “effetto utile” per le parti.
13.4.2.- Il riconoscimento dell’anzianità di servizio maturata nel corso dei rapporti a termine.
Peraltro, sul fronte del precariato scolastico sia per il personale ATA sia per i docenti assunti dal MIUR dopo una serie di contratti a termine reiterati nel tempo, resta il problema del riconoscimento, al momento dell’immissione in ruolo, dell’anzianità e degli scatti maturati nel corso delle assunzioni a termine e della ricostruzione della carriera.
La CGUE, nella sentenza 20 settembre 2018, C-466/17, Motter, ha esaminato le questioni pregiudiziali proposte dalla Corte d’appello di Trento con le quali, in sostanza, le è stato chiesto di stabilire se la clausola 4 dell’accordo quadro debba essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale, quale quella dettata dall’art. 485, comma 1, del d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297, la quale, ai fini dell’inquadramento di un lavoratore in una categoria retributiva al momento della sua assunzione in base ai titoli come dipendente pubblico di ruolo, tenga conto dei periodi di servizio prestati nell’ambito di contratti di lavoro a tempo determinato in misura integrale fino al quarto anno e poi, oltre tale limite, parzialmente, a concorrenza dei due terzi, diversamente da quanto disposto per i docenti a tempo indeterminato assunti mediante concorso.
La Corte ha ritenuto la suddetta normativa italiana compatibile con la citata clausola 4.
A tale conclusione la CGUE è pervenuta con un interessante iter argomentativo nel quale ha affermato che:
1) le due categorie di docenti assunti rispettivamente per concorso oppure in base ai titoli posseduti sono comparabili ai fini dell’applicazione del principio di parità di trattamento;
2) tuttavia, contrariamente alla disciplina in discussione nella causa decisa dalla sentenza del 18 ottobre 2012, da C-302/11 a C-305/11, Valenza e a., quella in oggetto riconosce interamente la carriera pregressa dei lavoratori a tempo determinato al momento della loro assunzione come dipendenti pubblici di ruolo;
3) gli Stati membri, in considerazione del margine di discrezionalità di cui dispongono per quanto riguarda l’organizzazione delle loro amministrazioni pubbliche, possono, in linea di principio, senza violare la direttiva 1999/70 o l’accordo quadro, stabilire le condizioni per l’accesso alla qualifica di dipendente pubblico di ruolo nonché le condizioni di impiego di siffatti dipendenti di ruolo, in particolare qualora costoro fossero in precedenza impiegati da dette amministrazioni nell’ambito di contratti di lavoro a tempo determinato (sentenza del 18 ottobre 2012, Valenza e a. cit., punto 57);
4) peraltro, nonostante tale margine di discrezionalità, l’applicazione dei criteri che gli Stati membri stabiliscono deve essere effettuata in modo trasparente e deve poter essere controllata al fine di impedire qualsiasi trattamento sfavorevole dei lavoratori a tempo determinato sulla sola base della durata dei contratti o dei rapporti di lavoro che giustificano la loro anzianità e la loro esperienza professionale (sentenza del 18 ottobre 2012, Valenza e a. cit., punto 59);
5) se un simile trattamento differenziato deriva dalla necessità di tener conto di esigenze oggettive attinenti all’impiego che deve essere ricoperto mediante la procedura di assunzione e che sono estranee alla durata determinata del rapporto di lavoro che intercorre tra il lavoratore e il suo datore di lavoro, detto trattamento può essere giustificato ai sensi della clausola 4, punti 1 e/o 4, dell’accordo quadro (vedi, in tal senso, sentenza dell’8 settembre 2011, C-177/10, Rosado Santana, punto 79).
6) infatti, la Corte ha già riconosciuto che talune differenze di trattamento tra i dipendenti pubblici di ruolo assunti al termine di un concorso generale e quelli assunti dopo aver acquisito un’esperienza professionale sulla base di contratti di lavoro a tempo determinato possono, in linea di principio, essere giustificate dalle diverse qualifiche richieste e dalla natura delle mansioni di cui i predetti devono assumere la responsabilità (sentenza del 18 ottobre 2012, Valenza e a. cit., punto 60).
7) nella specie, gli obiettivi invocati dal governo italiano consistenti, da un lato, nel rispecchiare le differenze nell’attività lavorativa tra le due categorie di lavoratori in questione e, dall’altro, nell’evitare il prodursi di discriminazioni alla rovescia nei confronti dei dipendenti pubblici di ruolo assunti a seguito del superamento di un concorso generale, possono essere considerati come configuranti una «ragione oggettiva», ai sensi della clausola 4, punti 1 e/o 4, dell’accordo quadro, nei limiti in cui essi rispondano a una reale necessità, siano idonei a conseguire l’obiettivo perseguito e siano necessari a tale fine, elementi che il giudice del rinvio è tenuto a verificare nell’esercizio della propria competenza esclusiva al riguardo (vedi, in tal senso, sentenza del 18 ottobre 2012, da C-302/11 a C-305/11, Valenza e a., punto 62).
La giurisprudenza di merito successiva a tale sentenza fin qui conosciuta, in assenza di allegazioni fattuali volte ad accertare in concreto la discriminazione, ha respinto le domande dei docenti immessi in ruolo senza aver superato un concorso volte ad ottenere ‒ previa disapplicazione dell’art. 485, comma primo, del d.lgs. n. 297 del 1994 (perché non conforme alle prescrizioni del diritto dell’U.E.) ‒ la dichiarazione del diritto all’integrale riconoscimento, ai fini giuridici ed economici, di tutti gli anni di servizio pre-ruolo svolti per effetto di contratti a termine, mentre ha accolto analoga domanda del personale ATA non ritenendo applicabili i principi della sentenza Motter della CGUE (Corte d’appello di Torino, 8 gennaio 2019; Tribunale Roma, 19 gennaio 2019; Tribunale di Genova, sentenza 14 novembre 2018, n. 961 del 2018; Tribunale di Ravenna, sentenza 29 gennaio 2019: con motivazioni non coincidenti).
13.4.3.- Contestazione dell’interpretazione fornita dalla Corte costituzionale e dalla Corte di cassazione della legge n. 107 del 2015.
Intanto, come si è accennato, pende presso la CGUE un’altra causa introdotta dalla Corte d’appello di Trento ‒ causa C-494/17, Rossato, di cui, al momento si possono leggere solo le conclusioni dell’Avvocato generale Maciej Szpunar, presentate l’8 dicembre 2018 ‒ nell’ambito di un giudizio instaurato da un docente di un conservatorio di musica assunto dal MIUR in forza di 17 contratti a tempo determinato consecutivi conclusi ininterrottamente per 11 anni e 2 mesi e poi immesso in ruolo con stabilizzazione avvenuta sulla base dei «pregressi strumenti selettivi – concorsuali», così come operanti prima dell’entrata in vigore di tale legge n. 107 del 2015.
Il giudice del rinvio ha ipotizzato il contrasto con la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro della statuizione (derivante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 187 del 2016 e contenuta nelle successive sentenze della Corte di cassazione, di cui si è detto sopra) in base alla quale anche per il personale della scuola che abbia ottenuto l’immissione in ruolo avvalendosi del sistema di avanzamento reso possibile dalle previgenti regole sul reclutamento l’immissione in ruolo rispetta i principi di equivalenza ed effettività, poiché il soggetto leso dall’abusivo ricorso ai contratti a termine ha, comunque, ottenuto, per il (tardivo, imprevedibile né atteso) funzionamento del sistema di reiterate assunzioni, il medesimo “bene della vita” per il riconoscimento del quale ha agito in giudizio e in tal guisa l’abuso perpetrato e l’illecito commessi sono stati, rispettivamente, l’uno “oggettivamente represso” e l’altro “tendenzialmente riparato”. Ciò in quanto si è stabilito che la stabilizzazione, “medio tempore” assicurata ai docenti attraverso precedenti strumenti concorsuali o selettivi diversi da quelli contenuti nella legge n. 107 del 2015 ‒ stabilizzazione nei fatti ampiamente realizzatasi per effetto delle immissioni avvenute negli anni passati e delle quali vi è ampio riscontro nella storia normativa degli ultimi dieci anni ‒ deve anch’essa essere considerata proporzionata, effettiva, sufficientemente energica e idonea a sanzionare debitamente l’abuso e a “cancellare le conseguenze della violazione del diritto dell’Unione.
Il suindicato contrasto dalla Corte d’appello di Trento è stato prospettato sotto due profili: a) il computo parziale dell’anzianità del docente al momento della sua immissione in ruolo in forza della normativa anteriore alla legge n. 107 del 2015; b) il divieto di qualsiasi risarcimento del danno causato dal ricorso abusivo ad una successione di contratti a tempo determinato per i docenti il cui rapporto di lavoro a tempo determinato è stato stabilizzato in virtù della normativa anteriore a tale legge, come conseguenza dell’interpretazione offerta da parte della Corte costituzionale e della Corte di cassazione.
L’Avvocato generale, in primo luogo, ricorda che la CGUE, nella sentenza Motter, ha dichiarato che la clausola 4 dell’accordo quadro dev’essere interpretata nel senso che essa non osta, in linea di principio, a una simile disposizione, la quale, ai fini dell’inquadramento di un lavoratore in una categoria retributiva al momento della sua assunzione in base ai titoli come dipendente pubblico di ruolo, tiene conto dei periodi di servizio prestati nell’ambito di contratti di lavoro a tempo determinato in misura integrale fino al quarto anno e poi, oltre tale limite, parzialmente, a concorrenza dei due terzi.
Di conseguenza, ritiene che la questione pregiudiziale debba essere intesa nel senso che essa ha ad oggetto unicamente la circostanza, menzionata dal giudice del rinvio, dell’assenza totale di risarcimento del danno causato dal ricorso abusivo ad una successione di contratti a tempo determinato per i docenti che sono stati immessi in ruolo in forza della normativa anteriore alla legge n. 107 del 2015 e che, pertanto, sono stati privati dei loro diritti risarcitori esistenti, in quanto misura sanzionatoria ai sensi dell’accordo quadro e della giurisprudenza della Corte.
L’avvocato generale sottolinea poi che, secondo quanto riferito dal giudice del rinvio, la Corte di cassazione, in applicazione dei principi enunciati dalla Corte costituzionale, ha dichiarato, in relazione al personale docente, che la stabilizzazione costituiva una misura riparatoria «proporzionata, effettiva, sufficientemente energica» e idonea a sanzionare l’abuso di contratti di lavoro a tempo determinato, nonché «a cancellare le conseguenze della violazione del diritto dell’Unione», cosicché il lavoratore interessato non poteva far valere alcun danno causato da tale abuso.
Di qui la conclusione che:
a) la legge n. 107 del 2015, prevista dal legislatore italiano per conformarsi al diritto dell’Unione, ha avuto come conseguenza un miglioramento della situazione dei docenti che sono stati o saranno stabilizzati dopo la sua entrata in vigore. Per contro, l’interpretazione giurisprudenziale di tale legge ha peggiorato la situazione dei docenti che, come il ricorrente nel procedimento principale, sono stati stabilizzati sulla base delle graduatorie prima dell’entrata in vigore di tale legge, e ciò malgrado i precetti indicati nella sentenza Mascolo e a. Di conseguenza, una siffatta misura non è idonea a sanzionare in modo adeguato l’utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato né a rimuovere le conseguenze della violazione del diritto dell’Unione, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare;
b) quindi, ad avviso dell’Avvocato generale, la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, il quale figura in allegato alla direttiva 1999/70/CE, deve essere interpretata nel senso che essa osta ad un’interpretazione giurisprudenziale di disposizioni del diritto nazionale, come quelle di cui al procedimento principale, che disciplinano misure intese a prevenire l’utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato, secondo la quale sarebbe vietato qualsiasi risarcimento del danno causato dall’utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato durante il periodo anteriore all’entrata in vigore di dette disposizioni, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare.
13.4.4. Progressione economica e ricostruzione della carriera in caso di abusiva reiterazione di contratti a termine.
In estrema sintesi sono state fin qui esaminate dalla Corte di cassazione:
● le questioni attinenti i presupposti dell’abusiva reiterazione del contratti a termine nel settore della Scuola (vedi le 56 sentenze pronunciate all’udienza del 18 ottobre 2016, di cui si è detto e numerose altre conformi, tra cui da ultimo Cass. 7 aprile 2017, n. 9042);
● quelle riguardanti il diritto al riconoscimento alla progressione economica collegata all’anzianità di servizio maturata nello svolgimento dei rapporti di lavoro a termine, esaminate in particolare da:
1) Cass. 7 novembre 2016, n. 22558 secondo cui: a) per la retribuzione del personale scolastico, l’art. 53 della legge n. 312 del 1980, che prevedeva scatti biennali di anzianità per il personale non di ruolo, non è applicabile ai contratti a tempo determinato del personale del Comparto Scuola ed è stato richiamato, ex artt. 69, comma 1, e 71 del d.lgs. n. 165 del 2001, dal CCNL 4 agosto 1995 e dai contratti collettivi successivi, per affermarne la perdurante vigenza limitatamente ai soli insegnanti di religione; b) nel settore scolastico, la clausola 4 dell’Accordo quadro sul rapporto a tempo determinato recepito dalla direttiva n. 1999/70/CE, di diretta applicazione, impone di riconoscere la anzianità di servizio maturata al personale del Comparto Scuola assunto con contratti a termine, ai fini della attribuzione della medesima progressione stipendiale prevista per i dipendenti a tempo indeterminato dai CCNL succedutisi nel tempo, sicché vanno disapplicate le disposizioni dei richiamati CCNL che, prescindendo dalla anzianità maturata, commisurano in ogni caso la retribuzione degli assunti a tempo determinato al trattamento economico iniziale previsto per i dipendenti a tempo indeterminato.
2) Cass. 23 novembre 2016, n. 23868 ove è stato affermato il principio secondo cui al personale scolastico non di ruolo assunto a tempo determinato spetta, in applicazione del divieto di discriminazione di cui alla clausola 4 dell’Accordo quadro allegato alla direttiva n. 99/70/CE, di diretta applicazione, il trattamento retributivo secondo il sistema di progressione professionale per fasce di anzianità previsto per gli assunti a tempo indeterminato, con conseguente disapplicazione di ogni normativa contrattuale contraria;
3) Cass. 2 novembre 2017, n. 26108 secondo cui in tema di retribuzione del personale scolastico assunto con reiterati contratti a termine, ove la domanda sia limitata al riconoscimento degli scatti biennali di anzianità previsti dall’art. 53 della legge n. 312 del 1980, non applicabili al personale del comparto Scuola diverso dagli insegnanti di religione, non può essere riconosciuta, in mancanza di autonoma domanda, anche proposta in via subordinata, la progressione stipendiale derivante dall’anzianità di servizio nella stessa misura prevista per i dipendenti a tempo indeterminato, in applicazione del principio di non discriminazione sancito dalla clausola 4 dell’accordo quadro, allegato alla direttiva 99/70/CE del 28 giugno 1999;
● finora, invece, non è stata ancora esaminata la questione riguardante la ricostruzione integrale della carriera in termini giuridici sin dalla prima assunzione a termine, ulteriore rispetto a quanto riconosciuto ai sensi dell’art. 485 del d.lgs. 16/04/1994, n. 297, in favore del dipendente reiteratamente assunto a tempo determinato e poi immesso in ruolo che assuma la violazione del principio di non discriminazione di cui alla clausola 4 dell’Accordo quadro.
In considerazione della novità di tale ultima questione, con ordinanza interlocutoria 20 febbraio 2018, n. 4121, la Sesta Sezione – Sottosezione Lavoro, ha ritenuto necessaria la rimessione della causa alla pubblica udienza della Sezione semplice. La relativa trattazione è prevista per l’udienza del 17 aprile 2019.
Senza entrare nel merito della questione, va rilevato che gli effetti economici ben possono essere disciplinati in modo diverso da quelli giuridici. E sul riconoscimento di questi ultimi anche per in cui il rapporto era a termine influisce pure il divieto di trasformazione del rapporto da precario a rapporto a tempo indeterminato.
Mentre, per quanto riguarda gli aspetti economici va sottolineato che, in base ad un principio generale di diritto UE e nazionale, il lavoratore precario non deve essere discriminato, quindi per il rapporto a tempo determinato va corrisposta la giusta retribuzione, uguale a quella che il dipendente riceverebbe se fosse stato assunto a tempo indeterminato.
A tale ultimo riguardo, a titolo di esempio, si può ricordare Cass. 11 gennaio 2016, n. 196 che ha precisato che il compenso incentivante di cui all’art. 32 del CCNL enti pubblici non economici 1999-2001, legato al raggiungimento di determinati e specifici obbiettivi, non è incompatibile con la natura determinata del rapporto di lavoro, sicché la mancata corresponsione anche ai dipendenti a tempo determinato (nella specie, della Croce Rossa Italiana) si pone in contrasto con la disciplina contrattuale di settore e, data l’assenza di ragioni oggettive che giustifichino il trattamento differenziato, con il divieto di discriminazione tra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato sancito dall’art. 6 del d.lgs. n. 368 del 2001, in attuazione della clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato oggetto della direttiva n. 99/70/CEE.
14.- Effetti della stabilizzazione, in genere.
In continuità con i principi enunciati nelle sentenze del 18 ottobre 2016 cit. la Corte di cassazione, con riguardo agli effetti della stabilizzazione del personale precario non solo della Scuola, ha affermato i seguenti principi:
● in tema di compensi spettanti al personale del Servizio Sanitario Nazionale, il comma 3 dell’art. 12 del CCNL 1998-2001 per la Dirigenza medico-veterinaria, nella parte in cui stabilisce che ai fini dell’indennità di esclusività di cui al precedente art. 5 la maturazione dell’anzianità complessiva di servizio può avvenire anche per effetto di “un rapporto di lavoro a tempo determinato”, svolto “senza soluzione di continuità” anche in aziende ed enti diversi del Comparto, deve essere inteso – in conformità con l’art. 3 Cost. e con la Direttiva 1999/70/CE del 28 giugno 1999 e allegato Accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato – nel senso che, laddove il servizio del dirigente sia stato prestato, in base a contratti a termine, sempre e soltanto alle dipendenze del SSN, non costituisce “soluzione di continuità” la presenza di intervalli temporali tra i diversi contratti a termine che siano conformi a quelli richiesti dalla disciplina tempo per tempo vigente, né tale “soluzione di continuità” è ravvisabile laddove gli intervalli siano insussistenti o minimi e la parte interessata rinunci a far valere la prevista nullità (Cass. 26 marzo 2018, n. 7440);
● al lavoratore pubblico collocato in ruolo a seguito della procedura di stabilizzazione prevista ex l. n. 296 del 2006, deve essere riconosciuta l’anzianità di servizio maturata precedentemente all’acquisizione dello status di lavoratore a tempo indeterminato, allorché le funzioni svolte siano identiche a quelle precedentemente esercitate nell’ambito del contratto a termine, non potendo ritenersi, in applicazione del principio di non discriminazione, che lo stesso si trovasse in una situazione differente a causa del mancato superamento del concorso pubblico per l’accesso ai ruoli della P.A., mirando le condizioni di stabilizzazione fissate dal legislatore proprio a consentire l’assunzione dei soli lavoratori a tempo determinato la cui situazione poteva essere assimilata a quella dei dipendenti di ruolo. Di qui la conferma del provvedimento impugnato, che aveva riconosciuto un quinquennio di anzianità pre-ruolo ad una lavoratrice assunta dal CNR a seguito di procedura di stabilizzazione, avendo accertato che le mansioni svolte, sia prima che dopo il collocamento in ruolo, erano state sempre quelle di ricercatore, ancorché le prime svolte in una fase formativa (Cass. 23 novembre 2017, n. 27950);
● nelle ipotesi di reiterazione illegittima dei contratti a termine, deve essere qualificata come misura equivalente, idonea a sanzionare debitamente l’abuso, ai fini della compatibilità dell’ordinamento interno al diritto dell’UE, la stabilizzazione prevista ai sensi dell’art. 1, comma 519, della l. n. 296 del 2006, che consente all’interessato di ottenere il medesimo “bene della vita” per il quale ha agito giudizialmente, senza preclusioni per la risarcibilità di eventuali danni ulteriori e diversi, con oneri di allegazione e prova a carico del lavoratore che, in tal caso, non beneficia di alcuna agevolazione da danno presunto (Cass. 3 luglio 2017, n. 16336);
● la stabilizzazione, all’esito di una reiterazione abusiva di contratti a termine, ad opera di un ente diverso da quello che ha realizzato l’abuso, ancorché si tratti di società controllate o vigilate dallo stesso, non costituisce misura sanzionatoria equivalente, dovendo trovare comunque applicazione il principio di agevolazione probatoria del danno, quantificato tra un minimo di 2,5 ed un massimo di dodici mensilità, ai sensi dell’art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto. Pertanto, è stata cassata la sentenza di appello che aveva negato il risarcimento del danno ad un lavoratore assunto da una società di servizi della Regione Valle d’Aosta, dopo avere stipulato una serie di contratti a tempo determinato con la stessa Regione (Cass. 30 marzo 2018, n. 7982);
● il ricorso alla disciplina di cui all’art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010, al fine di agevolare l’onere probatorio del danno conseguente all’illegittima reiterazione di rapporti a termine, si giustifica con la necessità di garantire efficacia dissuasiva alla clausola 5 dell’Accordo quadro, allegato alla direttiva 1999/70/CE, che concerne la prevenzione degli abusi derivanti dalla successione di contratti a termine e, pertanto, non può trovare applicazione nelle ipotesi in cui l’illegittimità concerna l’apposizione del termine ad un unico contratto di lavoro (Cass.20 luglio 2018, n. 19454);
● nel settore scolastico, in materia di reclutamento a termine del personale docente, nonché ATA, che non sia stato stabilizzato e che non abbia alcuna certezza di stabilizzazione, per il quale rilevi la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 4, commi 1 e 11, della legge n. 124 del 1999 (Corte cost. n. 187 del 20 luglio 2016), va riconosciuto il diritto al risarcimento del danno nella misura e secondo i criteri previsti dall’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010, fermo restando che l’immissione in ruolo non esclude la proponibilità di domanda per risarcimento dei danni ulteriori e diversi rispetto a quelli esclusi dall’immissione in ruolo stessa, gravando sul lavoratore il relativo onere di allegazione e prova (Cass. 18 maggio 2017, n. 12558).
15.- Conclusioni.
Non è irragionevole che moderne Pubbliche Amministrazioni possano avvalersi anche di forme contrattuali flessibili per l’assunzione di personale, ma ciò che lascia senza parole è che proprio dalle P.A. non vengano rispettate le relative normative.
Sappiamo che da sempre l’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001 stabilisce che:
1) le Pubbliche Amministrazioni per le esigenze connesse con il proprio fabbisogno ordinario possono assumere esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato seguendo le procedure di reclutamento previste dalla legge;
2) solo per rispondere ad esigenze temporanee ed eccezionali le Amministrazioni Pubbliche possono avvalersi delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, nel rispetto delle procedure di reclutamento vigenti.
Da tempo anche la Corte costituzionale ci insegna che la possibilità di svolgere il rapporto di lavoro a tempo parziale nel regime attualmente vigente è strettamente connessa agli assetti organizzativi della Pubblica Amministrazione di appartenenza, come risulta confermato anche dall’art. 12 del d.lgs. n. 81 del 2015 che stabilisce che, salvo alcune eccezioni, ai sensi dell’art. 2, comma 2, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, le disposizioni ivi contenute in materia di contratto a tempo parziale “si applicano, ove non diversamente disposto, anche ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”(Corte cost. sentenza n. 141 del 2012).
In tutti questi anni gli abusi da parte delle Pubbliche Amministrazioni nell’utilizzazione delle forme contrattuali flessibili – a partire dai contratti a termine ‒ e le altre situazioni critiche come quella dello scorrimento delle graduatorie aperte, hanno creato moltissimi problemi giuridici con plurimi interventi sia del legislatore, sia della giurisprudenza ‒ delle Corti europee centrali, della Corte costituzionale e dei Giudici ordinari e amministrativi ‒ sia della dottrina.
Ma non tutte le criticità sono ancora risolte mentre migliaia di persone tuttora stanno pagando le conseguenze di questa situazione, che ha avuto ed ha costi umani e economici elevatissimi per l’intero sistema!
Né va dimenticato che l’uso e l’abuso dei contratti a termine e flessibili in genere con il conseguente precariato si sono riscontrati e tuttora si riscontrano soprattutto in settori-chiave del lavoro pubblico come la scuola, la sanità, la ricerca, dove hanno raggiunto punte stratosferiche, basti pensare che, ad esempio, nella Sanità, solo per i medici, si parla di più di 20.000 precari!
Senza contare i costi della corruzione e della cattiva amministrazione in senso ampio, fenomeni che incidono anche sull’immagine e sull’attrattività del nostro Paese per gli investitori anche stranieri.
Per queste e per molte altre ragioni come è stato detto nella presentazione della Riforma Madia si deve assolutamente cambiare rotta e puntare su Pubbliche Amministrazioni di qualità e “sane” da tutti i punti di vista, nella consapevolezza che le Pubbliche Amministrazioni sono chiamate a produrre “valori” non profitti, ma dai valori possono nascere profitti.
E soprattutto, dare la priorità ai valori vuol dire far tornare in primo piano il “modello sociale costituzionale” di cui i nostri Padri ci hanno dotato e che, non senza difficoltà, ha potuto affermarsi soprattutto grazie al ruolo propulsivo della Corte costituzionale e della giurisdizione, principalmente sulla base dell’art. 3, secondo comma, Cost., che ha sancito il principio di uguaglianza sostanziale.
Negli ultimi anni abbiamo supinamente accettato la disgregazione tra valori e interessi che ha portato in primo piano gli egoismi mettendo da parte la solidarietà su cui è fondata la nostra democrazia per come risulta dalla nostra bella Costituzione .
I giudici e gli avvocati possono avere un ruolo di particolare importanza per il raggiungimento dei suddetti obiettivi.
Da tempo, del resto, l’Avvocatura italiana dimostra di avere piena consapevolezza della necessità di impegnarsi in prima linea per la salvaguardia dei diritti umani e fondamentali attraverso una svolta “culturale” ma anche “etica” che riguarda il nostro Paese ma anche tutta l’Europa in attuazione non solo di quanto prescrive l’art. 4, comma secondo, della Costituzione italiana − secondo cui: “ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” – ma anche in attuazione del Codice deontologico degli Avvocati europei e del Nuovo Codice deontologico degli Avvocati italiani, che ha fra i suoi obiettivi la valorizzazione della “funzione sociale della difesa”.
A questo va aggiunto il fondamentale ruolo degli avvocati, in sede giurisdizionale, consistente nel porre all’attenzione dei giudici le questioni controverse, in una dimensione individuale ma eventualmente anche collettiva.
Il pungolo degli avvocati è essenziale perché i giudici possano svolgere il “ruolo sociale”, di loro istituzionale competenza ‒ secondo il pensiero di Piero Calamandrei, ma anche di Gustavo Zagrebelsky e di molti altri ‒ che si traduce nel contribuire, attraverso l’interpretazione delle norme, a promuovere e consolidare quella “mentalità costituzionale” di cui parlato Paolo Grossi di recente e che è alla base della migliore qualità della nostra democrazia.
Del resto, non va dimenticato che secondo Calamandrei: «Per far vivere una democrazia non basta la ragione codificata nelle norme di una Costituzione democratica, ma occorre dietro di esse la vigile e operosa presenza del costume democratico, che voglia e sappia tradurla, giorno per giorno, in concreta, ragionata e ragionevole realtà» .
Ebbene, se come diceva Albert Einstein, dedicare le proprie energie e la propria vita ad un obiettivo dà la felicità, può valere la pena di dedicare le nostre energie all’obiettivo di ottenere nuove Pubbliche Amministrazioni che conformino il loro operato ad un “costume democratico”, con tutto ciò che ne consegue e che quindi rappresentino un esempio virtuoso da imitare per tutti i consociati.
Tutto questo puntando alla prevenzione degli abusi, prima che alla loro sanzione, come del resto ci insegnano la UE, il Consiglio d’Europa e l’OIL.

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