Testo integrale con note e bibliografia

1. La lettura e citazione delle sentenze della Corte di giustizia. L'esigenza di padronanza delle regole del diritto comunitario.

L'ordinamento moderno è ormai un ordinamento integrato non solo dalla normativa comunitaria (o dalla Cedu), ma anche dalle stesse sentenze della Corte di giustizia che vengono frequentemente richiamate negli atti giudiziari e nelle decisioni, sia di merito che di legittimità.
Spesso le citazioni riguardano singoli punti motivazionali o limitati passaggi logici delle pronunce del giudice comunitario, volti a sostenere l'opzione ermeneutica che si reputa necessaria per la decisione del caso concreto. Senonchè, non è sempre così agevole comprendere la portata di una sentenza della Corte di giustizia e del suo effettivo impatto nel nostro ordinamento, cosicché il richiamo suddetto non sempre poi risulta pertinente o appropriato.
Infatti, il valutare correttamente una decisione della Corte di giustizia presuppone, innanzitutto, una approfondita conoscenza della normazione comunitaria e delle sue regole, nonché dei principi di integrazione del diritto comunitario nel nostro sistema interno.
Ogni volta, infatti, che si venga a decidere una causa tramite l'ausilio di una norma comunitaria o di una decisione della Corte di giustizia, si viene a compiere un'operazione di tipo tecnico per cui occorre seguire delle regole precise che si sono sviluppate negli anni tramite la giurisprudenza della nostra Corte costituzionale (dalla sentenza Granital n. 170/84) e di quella dello stesso giudice comunitario (dalla sentenza Simmenthal, nella causa 106/77).

2. L'immediata applicabilità delle sentenze della Corte di giustizia.

Peraltro, anche i principi espressi dalla nostra Corte costituzionale circa l'efficacia delle sentenze della Corte di giustizia debbono essere attentamente valutati, in una logica necessariamente sistematica e non solo letterale.
In particolare, con riguardo a tale tematica, si deve porre attenzione a come il nostro Giudice delle Leggi con la decisione n. 113/85 abbia affermato una “immediata applicabilità” delle sentenze interpretative del giudice comunitario .
Occorre, qui, verificare cosa si possa intendere con tali parole e prima di giungere alla conclusione per cui la Corte di giustizia potrebbe sempre “dettar legge” all'interno del nostro sistema giuridico con pronunce immediatamente applicabili.
In proposito, si può, innanzitutto, osservare come tale canone sia stato proposto, nel caso di cui alla sentenza n. 113/85, con riguardo a principio derivante per interpretazione della Corte di giustizia di un atto direttamente efficace anche a livello orizzontale, come un Trattato . Poi, è necessario sottolineare come, certamente, non essendo nelle proprie competenze, neppure la Corte di giustizia potrebbe venire a creare diritto oppure, ad esempio, a stabilire una diretta applicabilità a livello orizzontale per un atto come una direttiva che non abbia tale effetto nello stesso ordinamento comunitario o ancora a rendere sufficientemente dettagliata una previsione indeterminata e non autoapplicativa.
Proprio in questo senso, perciò la nostra Suprema Corte è venuta a chiarire che resta sicuramente affidata alla Corte di giustizia l'interpretazione del diritto comunitario, del quale le sentenze della Corte precisano autoritariamente il significato, definendone l'ampiezza e il contenuto delle possibilità applicative, senza per questo che però possa creare ex novo norme comunitarie .
Anche la Corte di giustizia, cioè, si deve attenere al suo ruolo unicamente giurisdizionale e alle regole in materia di interpretazione che partono innanzitutto dal rispetto dell'efficacia differente delle singole norme comunitarie (regolamenti e direttive) e del limite ermeneutico per cui ogni soluzione esegetica deve pur rientrare “entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme” , non potendo eccedere rispetto alle parole della previsione da interpretarsi e al loro possibile significato, senza giungere a una inammissibile creazione di diritto.
Solo nei limiti in cui, dunque, la sentenza del giudice comunitario si sia mantenuta in una funzione interpretativa e non creativa di diritto, può godere del requisito dell'immediata applicabilità nel nostro ordinamento e pur sempre rispettando l'efficacia propria della disposizione interpretata (così, per le direttive, certamente solo a livello verticale).
Proprio in questo senso, d'altronde, da ultimo, la stessa Corte di giustizia, nella sentenza della Grande Sezione Thelen Technopark Berlin GmbH , è venuta ad affermare che “la Corte ha già dichiarato che le sentenze pronunciate a norma degli articoli da 258 a 260 TFUE hanno anzitutto lo scopo di definire i doveri degli Stati membri in caso di inosservanza dei loro obblighi e non di conferire diritti ai soggetti dell’ordinamento, fermo restando che tali diritti non scaturiscono da dette sentenze, ma dalle stesse norme del diritto dell’Unione”.

3. I limiti dell'interpretazione conforme.

Ugualmente, del resto, lo stesso problema si pone per il giudice ordinario, allorchè, al fine di evitare di giungere alla conclusione che lo Stato sia restato inadempiente rispetto a un obbligo di ricezione di una disciplina comunitaria, si proponga di effettuare l'interpretazione conforme.
Come è noto, si tratta di una interpretazione costituzionalmente orientata, per la quale il Giudice nazionale, per non porsi nell’alternativa che lo Stato sia restato inadempiente ai propri obblighi internazionali, deve interpretare la normativa interna, sia precedente che successiva alla direttiva, alla luce della lettera e dello scopo della medesima, indipendentemente dal fatto che questa sia stata o meno attuata e che sia fatta valere nei confronti di un soggetto privato o pubblico.
Tuttavia, come rammentato da autorevole dottrina, anche l’interpretazione conforme appare soggetta a dei “limiti” per i quali “resta escluso che il giudice debba o possa trasformarsi in una sorta di sostituto del legislatore. Questo limite generalissimo, in forza del quale l’obbligo di interpretazione conforme non può spingersi oltre la misura del possibile, si evince già dalla primissima giurisprudenza della Corte di giustizia”.
Anche la Corte di giustizia si è espressa, infatti, in materia chiarendo che “tuttavia l’obbligo per il giudice nazionale di fare riferimento al contenuto di una direttiva nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme pertinenti del suo diritto nazionale trova i suoi limiti nei principi generali del diritto, in particolare in quelli di certezza del diritto e di non retroattività, e non può servire da fondamento ad un’interpretazione contra legem del diritto nazionale (v. sentenze 15 aprile 2008, Causa C. 268/06 Impact, p.nto 100 della motivazione e cfr. sentenza 8 ottobre 1987, causa 80/86, Kolpinghuis Nijmegen, Racc. pag. 3969, punto 13, nonché Adeneler e a., cit., punto 110; v. anche, per analogia, sentenza 16 giugno 2005, causa C-105/03, Pupino, Racc. pag. I-5285, punti 44 e 47 e, da ultimo, Thelen Technopark Berlin GmbH, causa C-261/20 del 18 gennaio 2022, punto 28).
Sono, perciò, stabilite delle regole per l’interpretazione conforme, la prima delle quali è quella per cui, trattandosi di una interpretazione, è vincolata, innanzitutto, dal testo delle norme interne e da quello di quelle sovranazionali.
Nel senso che la “norma interna” non può essere forzata oltre il suo limite ermeneutico , mentre “quella comunitaria” può giovare all’interpretazione conforme solo se lasci intendere i comportamenti di attuazione della stessa per gli Stati (poiché si tratta di ovviare alla possibilità che lo Stato sia stato “inadempiente” e, dunque, occorre individuare rispetto a cosa) e, dalla combinata lettura delle due disposizioni, derivi, così, per via interpretativa, quale sia stata la scelta per una di dette soluzioni operata dal legislatore interno per adempiere agli obblighi posti dall’Unione.
Inoltre, l’interpretazione conforme ha significato solo nell’ambito delle competenze , perché solo in queste si può porre un problema di inadempimento statale .

4. Il problema dei richiami “atecnici” del diritto comunitario e delle sentenze della Corte di giustizia.

Nella prassi, come anticipato, poi, accade che non sempre la proposta di attuazione del diritto comunitario venga formulata correttamente.
In primo luogo, avviene frequentemente, ad esempio, che si proponga un'applicazione diretta, a scapito della normativa interna, di disposizioni europee che non abbiano tale efficacia.
Così, ad esempio, pur ricordando le tesi di diversi difensori circa l'esigenza di disapplicazione della normativa interna fondate sulla clausola 5 della direttiva 99/70/CE e che venivano pur sostenute con citazione di passaggi di sentenze del giudice europeo collegate al principio di effettività e efficacia della normazione comunitaria , la giurisprudenza è arrivata ormai in maniera condivisa alla valutazione corretta della non diretta applicabilità di tale statuizione , che non può ritenersi self executing, a differenza della clausola 4.
Infatti, anche singoli passaggi argomentativi delle sentenze della Corte di giustizia, pur orientati al principio di effettività del diritto comunitario, non potevano valere a sostenere un'interpretazione volta alla disapplicazione della norma interna tramite la clausola 5 della direttiva citata, in difetto di ogni presupposto per considerarla autoapplicativa, considerato come non imponga una condotta univoca agli Stati aderenti, ma proponga tre alternative differenti per disciplinare la successione dei contratti a termine, lasciandole nella scelta alla discrezionalità del legislatore interno .
In altri casi, poi, la citazione delle sentenze della Corte di giustizia viene effettuata per giungere a soluzioni ermeneutiche non condivisibili e non necessariamente derivanti dal contenuto delle pronunce. In questo senso, con riguardo alla stessa direttiva, la Corte di cassazione è venuta a criticare un improprio richiamo delle sentenze Adeneler e Mangold , con le seguenti parole <<“pur essendo stabilito "in particolare" un regime con riferimento alla parità di trattamento e alla prevenzione degli abusi derivanti dall'utilizzo di successivi rapporti a tempo determinato, non può negarsi che, comunque, "in generale", l'accordo quadro, nello stabilire "i principi generali e i requisiti minimi relativi al lavoro a tempo determinato", si riferisce a (tutti) "i contratti e i rapporti di lavoro a tempo determinato" (vedi "considerando" n. 14) e, nel fissare il principio della "forma comune" del contratto a tempo indeterminato, si riferisce a (tutti) i "rapporti di lavoro fra i datori di lavoro e i lavoratori" (vedi Preambolo). In tal senso, quindi, non può condividersi la tesi, sostenuta da una parte della dottrina che, in base ad una lettura incompleta della direttiva e della sentenza da ultimo citata (nonchè della precedente sentenza "Mangold", del 22-11-2005, in causa C-144/04), in sostanza, ritiene che il primo ed unico contratto a tempo determinato, di per sè, sia estraneo all'oggetto della direttiva>>.
Nella stessa ottica, poi, si possono, ad esempio, rammentare le richieste di applicazione di un principio di parità di trattamento di tipo retributivo di livello comunitario (al di fuori dell'ipotesi delle discriminazioni tipizzate e per di più nonostante la materia in questione si ponga al di fuori delle competenze comunitarie), con soluzione esegetica errata, come ha chiarito la Corte di giustizia con la sentenza Del Cerro Alonso per la quale “per quanto riguarda in particolare l’eccezione relativa alle «retribuzioni», di cui all’art. 137, n. 5, CE, essa trova la sua ragion d’essere nel fatto che la determinazione del livello degli stipendi rientra nell’autonomia contrattuale delle parti sociali su scala nazionale, nonché nella competenza degli Stati membri in materia. Ciò posto, è stato giudicato appropriato, allo stato attuale del diritto comunitario, escludere la determinazione del livello delle retribuzioni da un’armonizzazione in base agli artt. 136 CE e seguenti”.
Dunque, già solo con questi esempi, si può ben comprendere come l’attività di applicazione e di interpretazione della normativa comunitaria, oltre quella di eventuale disapplicazione di quella interna, costituiscano un'operazione non semplice e di portata strettamente tecnica.

5. La lettura delle sentenze della Corte di giustizia con riguardo alla particolarità delle categorie utilizzate come criterio di giudizio.

A ciò, peraltro, si aggiunga come le decisioni della Corte di giustizia debbano essere attentamente ponderate anche in relazione al fatto che, a volte, utilizza “categorie giuridiche” non strettamente corrispondenti nel nostro ordinamento , come ad esempio quella dell’“effetto dissuasivo” che può esservi in una determinazione della retribuzione per ferie inferiore a quella ordinaria rispetto al godimento delle stesse da parte del dipendente.
Infatti, al di fuori del diritto antidiscriminatorio, non pare comune al nostro sistema giuridico interno il valutare un “effetto” nell'ambito della verifica di una retribuzione adeguata, se non sotto l'aspetto dell'interpretazione teleologica di una norma definita. Anche la Corte di giustizia, d'altronde, svolge la propria tesi esegetica partendo dall'interpretazione dell'articolo 7 della direttiva 2003/88 .
Ugualmente, quale ulteriore esempio, si può rammentare come la direttiva 2011/98/UE, facendo riferimento al Regolamento 883/04 introduca i concetti di “sicurezza sociale” e “assistenza sociale”, che debbono essere interpretati necessariamente solo alla luce del diritto comunitario e non di quello nazionale, non fosse altro perché il diritto nazionale non dispone di una nozione di “sicurezza sociale” e perché, ad ogni modo, il concetto di assistenza nel nostro ordinamento risulta differente.
Infatti, nell'ambito nazionale, le prestazioni di natura assistenziale sono definite come interventi dello “Stato sociale”, volti a tutelare i cittadini in particolari momenti di difficoltà della loro vita lavorativa, economica e/o familiare.
Viceversa, la Corte di giustizia, secondo differente concezione, è venuta a chiarire che, per quanto sia rivolta a sopperire ai bisogni dei cittadini, non è assistenziale, ma costituisce sicurezza sociale ogni prestazione concessa, sulla base di criteri oggettivi, al di fuori di qualsiasi valutazione individuale e discrezionale delle necessità del richiedente .
La distinzione risulta non priva di conseguenze: ad esempio, la nostra giurisprudenza era solita inquadrare gli assegni per il nucleo familiare nell'ambito dell'assistenza , mentre, quando si confronti il concetto con la disciplina comunitaria si deve ormai includerlo nella sicurezza sociale.
Ancora con riguardo alle categorie utilizzate, poiché costituiscono una proposta di valutazione anche per il giudice interno , appare utile verificare i criteri di giudizio scelti dalla Corte di giustizia con particolare riferimento al diritto antidiscriminatorio, nell'applicazione della direttiva 78/00, laddove si viene ad esaminare (I) se l'elemento di differenziazione di trattamento denunciato costituisca o meno requisito essenziale per lo svolgimento dell'attività lavorativa, (II) se la finalità che lo ha determinato sia legittima e (III) se l'elemento stesso di cui si tratta sia proporzionato.
Il dato è interessante anche perché costituisce una tipica modalità operativa della Corte di giustizia che, secondo una metodologia più tipica dei giudici di Common Law, viene a cercare di individuare dei criteri di giudizio ripetibili e verificabili da riproporre anche per i casi successivi, secondo una logica tipica del principio dello stare decisis.
Dunque, già solo con questi pochi esempi si può prendere atto di come le categorie utilizzate nell'ambito del diritto interno e in quello comunitario possono presentarsi come differenti e di come nella lettura delle sentenze della Corte di giustizia si debba tener conto della particolarità dei concetti giuridici utilizzati dalla stessa.
Ma certamente questo non è l'unico problema.
Infatti, a ciò si deve aggiungere una tematica di ancor più ampio spessore, ossia quella per cui anche la concezione dei rispettivi rapporti tra i due sistemi giuridici, quello comunitario e quello interno, non siano univoche nelle letture della Corte di giustizia e della Corte costituzionale, con ricadute importanti, anche sul problema delle possibilità di una corretta disapplicazione delle norme interne a favore di quelle comunitarie.
E’ questo, dunque, l'argomento che si andrà ad affrontare più diffusamente e nello specifico nei prossimi paragrafi, trattandosi in materia di assoluto rilievo nella decisione delle cause.

 CAPITOLO II: la lettura delle sentenze della Corte di giustizia nel problematico rapporto tra gli ordinamenti. La disapplicazione della norma interna tramite la Carta di Nizza e la tesi della doppia pregiudizialità.

 

1. Le diverse vedute nei rapporti tra gli ordinamenti della Corte di giustizia e della Corte costituzionale. Il caso della sentenza Kücükdeveci.

Come anticipato, l'attuale sistema è di tipo integrato, multilevel, composto da una molteplicità di fonti di carattere nazionale e soprannazionale e risulta privo dei caratteri di un sistema gerarchico piramidale di tipo kelseniano .
In tale ambito, perciò, si pone in modo importante il problema dei rapporti corretti tra l'ordinamento comunitario e quello interno dei singoli Stati, ossia la tematica della prevalenza di una fonte sull'altra.
Notoriamente, con riguardo a questa questione non vi è stata mai assoluta chiarezza , essendo note le contrapposte teorie della Corte di giustizia che li considera “un solo sistema” (tesi monista) e della Corte costituzionale che li ritiene “autonomi e distinti, ancorché coordinati” (tesi dualista).
Oggi, poi, la questione appare ancor più seria, dopo l’entrata in vigore nel 2009 del Trattato di Lisbona, in virtù del quale si sono sottoposte a nuova discussione sia le relazioni tra i diversi ordinamenti, sia i poteri conferiti a ciascuna tipologia di giudice.
E’ vero che, pur non esistendo norme espresse di coordinamento tra i diversi sistemi (tra i quali si deve considerare anche quello della CEDU), appare che un ruolo integratore tra gli ordinamenti possa essere svolto dalle diverse Corti Superiori , ma si rilevi anche come la prospettazione di una soluzione organica sia resa difficoltosa per il fatto che ogni giudice opera normalmente con una visione prospettica differente a seconda della propria posizione, dell’ordinamento di naturale appartenenza e della propria minore o maggiore propensione comunitaria .
E’, infatti, un dato pacifico che il cercare di erodere gli spazi di sovranità degli Stati Membri sia naturalmente proprio degli enti sovranazionali “a vocazione regionale”, quale l’Unione Europea - essendo condannati, nel tempo, all’estinzione o per “insuccesso”, cioè per fallimento del loro scopo, o per “successo”, ossia per il raggiungimento dell’obiettivo di divenire una vera Federazione – e, parimenti, perciò, si assiste al fenomeno che le Corti Costituzionali dei diversi Stati cerchino di salvaguardare gli spazi di sovranità degli stessi, a fronte di proposte interpretative “estensive” della Corte di Giustizia volte a sollecitare il più possibile il processo di integrazione europea e il tentativo di trasformare l’Unione in una vera e propria Federazione.
In una siffatta fisiologica contrapposizione di vedute, appare allora evidente come la questione di quali debbano essere i limiti di rispetto della sovranità degli Stati sia al centro delle tematiche di diritto internazionale.
In tale contesto, si fa riferimento, poi, comunemente ai rapporti di leale cooperazione tra le Corti Superiori e, certamente, perché sia affrontato correttamente il problema, occorre una dialettica tra le stesse fondata su una buona fede, ma anche su un rispetto dei limiti reciproci, senza il quale rischia di porsi in discussione l'intera logica sistematica comunitaria.
Con tale premessa e proprio sotto questo aspetto, è il caso di porre la tematica della definizione dei poteri di disapplicazione da parte del giudice ordinario che si pone ancora oggi come altamente problematica per la differenza di vedute rinvenibile in alcune pronunce della Corte di giustizia rispetto a quella fatta propria tradizionalmente dalla nostra Corte costituzionale.
L'approccio monistico della Corte di giustizia ha, infatti, determinato che in alcune sentenze venga proposto al giudice ordinario un potere di disapplicazione molto ampio, simile al sindacato proprio della Corte costituzionale.
In questo senso, si possono ricordare, innanzitutto, la sentenza Mangold del 2005, poi ancora la sentenza Kücükdeveci del 19.1.10 e la sentenza Petersen del 12 gennaio 2010, C 341/08 .
Vi è, però, una significativa differenza tra la sentenza Mangold e la Kücükdeveci, perché, in quest'ultima, il giudice comunitario ha sviluppato, per la prima volta, una particolare argomentazione per giustificare la propria soluzione ermeneutica nei termini suddetti, interpretando la modifica dell’art. 6 del TUE , - per la quale, dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona , la “Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea del 7 dicembre 2000” ha “lo stesso valore giuridico dei trattati” - nel senso che al singolo giudice nazionale sarebbe concesso, in virtù dell'articolo 21 della Carta di Nizza, il potere di disapplicazione della legge interna di fronte alla violazione del principio di non discriminazione di derivazione comunitaria e, per di più, anche nei rapporti tra privati, quindi, con efficacia diretta “orizzontale” .
E, peraltro, senza alcuna necessità - di fronte a una norma di legge violativa del principio di uguaglianza - di sollevare una questione di legittimità davanti alla Corte costituzionale, né quella pregiudiziale ai sensi dell’art. 234 TUE.
E’ subito evidente che una siffatta pronuncia, che propone una disapplicazione basata sul generale principio di non discriminazione, appare diversificarsi nettamente e contrapporsi all’impostazione tradizionale della Corte costituzionale italiana che, viceversa, ha sempre escluso ogni possibilità di disapplicazione della legge da parte giudice, se non per previsioni comunitarie “specifiche” dotate di efficacia immediata o diretta (quali, ad esempio, quelle dei Regolamenti CE, ed, in tal caso, con effetto “orizzontale” o per le Direttive self executing, con effetto unicamente “verticale”, solo verso lo Stato inadempiente nella recezione delle stesse e solo ove sia identificabile un determinato diritto a favore del singolo).
Il nostro Giudice delle Leggi aveva, peraltro, confermato la propria soluzione ermeneutica con le “sentenze gemelle” n. 348 e 349 del 2007 e, ultimamente, alle soglie dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, con le sentenze n. 311 del 26.11.2009 e n. 317 del 30.11.09.
Si può aggiungere come, d'altronde, la sentenza Kücükdeveci si sia posta in contrasto anche con i principi tradizionalmente proposti dalla stessa Corte di giustizia sull'applicazione diretta del “diritto derivato”: ad esempio, con la sentenza Impact nella quale al punto 57 viene a affermare: “risulta in proposito da una giurisprudenza costante che, in tutti i casi in cui disposizioni di una direttiva appaiano, dal punto di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente precise, tali disposizioni possono essere invocate dai singoli nei confronti dello Stato, anche in qualità di datore di lavoro (v., segnatamente, in tal senso, sentenze 26 febbraio 1986, causa 152/84, Marshall, Racc. pag. 723, punti 46 e 49, nonché 20 marzo 2003, causa C-187/00, Kutz-Bauer, Racc. pag. I-2741, punti 69 e 71” .
Ugualmente, d'altronde, per le disposizioni dei trattati e, in genere, del “diritto primario”, la Corte di Giustizia, fin dalla storica sentenza Van Gend en Loos , ha sancito il principio dell'efficacia diretta, subordinandolo tuttavia alla condizione che gli obblighi siano precisi, chiari e incondizionati e non richiedano misure complementari di carattere nazionale o comunitario e, nelle pronunce successive, in alcuni casi, ha riconosciuto alle relative statuizioni del Trattato UE un’efficacia diretta “orizzontale” (ad esempio, per gli articoli 39, 43, 50, 81 e 141 ), mentre, per altre, solo “verticale” (ad esempio, gli articoli 12 e 95) ..
Anche per il “diritto primario”, dunque, la condizione dell’efficacia diretta è quella finora analizzata, ossia l’esigenza che la previsione sia volta a regolamentare in modo definito e specifico, da sé sola, un determinato assetto di interessi, come nel caso dell’art. 141 del Trattato Istitutivo della CE, mentre, come si analizzerà, tale carattere non appare proprio dell'articolo 21 della Carta di Nizza.

2. Le regole per la disapplicazione secondo la Corte costituzionale.

Per meglio delineare la sistematica individuata dalla Corte costituzionale negli ultimi quarant'anni, si possono rammentare qui le storiche sentenze n. 170 del 1984 (Granital) e n. 168 del 1991, che, fondandosi su un concetto di “limitazione di sovranità statale” collegato all'articolo 11 Cost. e sulle previsioni del Trattato istitutivo della Comunità europea, ha posto le condizioni per l'applicazione diretta delle norme europee. Con la prima pronuncia per i regolamenti e con la seconda con riguardo alle direttive comunitarie.
In particolare, in quest'ultima, è illustrato che hanno tale possibilità di attuazione diretta unicamente le disposizioni che soddisfino i “requisiti dell'immediata applicabilità”, riconoscendo tale qualità solo a una statuizione sufficientemente precisa e incondizionata , perchè non lascia margine di discrezionalità ai legislatori nazionali, “nel senso che la fattispecie astratta ivi prevista ed il contenuto del precetto ad essa applicabile devono essere determinati con compiutezza, in tutti i loro elementi”.
Il potere di disapplicazione è, cioè, consentito a condizione che il giudice possa fruire, traendole dal diritto comunitario, di “norme regola”, ossia di una di quelle previsioni “autoapplicative” che stabiliscono direttamente la disciplina del caso concreto senza bisogno di integrazione di altre fonti e che si differenziano da quelle “di principio”, che, non possedendo tale caratteristica, si pongono in modo più vago e indeterminato .
Dopo tale precisazione, si può anche però riflettere sul motivo per cui la Corte costituzionale abbia limitato l'applicazione diretta alle sole norme incondizionate e precise, non permettendola, invece, per quelle meramente di principio.
La ragione si rinviene nella circostanza che nelle prime risulta già effettuato dal legislatore (in questo caso, comunitario), nel testo delle stesse, il bilanciamento tra i principi e i valori contrapposti, cosicché al magistrato non è richiesto altro che applicare la disciplina così stabilita nel dettaglio.
Le norme di principio invece, per la loro indeterminatezza e generalità di contenuti, non rappresentano già una normazione autoapplicativa, diretta a regolare i rapporti giuridici quale esito di un bilanciamento già effettuato dal legislatore, cosicché, qualora si consentisse al giudice di disapplicare una norma interna alla luce delle stesse, sostanzialmente, si consentirebbe al medesimo un potere di bilanciamento ancora da realizzarsi, simile a quello del legislatore, ossia di tipo politico, in contrasto con la ripartizione dei poteri costituzionali ed evidentemente con l'articolo 101 della Costituzione.
A ulteriore conferma di tali assunti, si può portare il rilievo che, ormai, la distinzione tra norme regola e norme di principio è codificata addirittura nella Carta dei diritti fondamentali europei, laddove, nell'articolo 52, comma 5, è specificato che “le disposizioni della presente Carta che contengono dei principi possono essere attuate da atti legislativi e esecutivi adottati da istituzioni, organi e organismi dell’Unione e da atti di Stati membri allorché essi danno attuazione al diritto dell’Unione, nell’esercizio delle loro rispettive competenze. Esse possono essere invocate dinanzi a un giudice solo ai fini dell’interpretazione e del controllo di legalità di detti atti”.
Ciò posto, con un'ulteriore approfondimento, poi, si può verificare la ragione per cui, nelle pronunce della Corte costituzionale, la possibilità di applicazione diretta delle direttive sia stata ammessa unicamente nei rapporti verticali, cioè nei confronti del solo “Stato inadempiente” e non nei rapporti orizzontali tra privati.
Le regole in materia di inadempimento, infatti, sono proprio quelle che consentono all'interessato la possibilità di “risarcimento in forma specifica” nei confronti dello Stato che non abbia adempiuto all'obbligo di attuazione della direttiva, con applicazione diretta della norma non recepita.
Solo nei rapporti verticali, pertanto, è ammissibile tale soluzione di tipo risarcitorio specifico, mentre, nei rapporti orizzontali, laddove non vi è responsabilità di chicchessia per l'inadempimento nella assimilazione della normativa comunitaria, non è possibile un'applicazione diretta.
La mancata recezione della direttiva può determinare, tuttavia, una causa risarcitoria nei confronti dello Stato inadempiente da parte del privato che ne subisca il pregiudizio .
Il quadro, poi, risulta ulteriormente completato per la precisazione che, in ogni caso, prima di ogni disapplicazione o di valutazione di mancata acquisizione della direttiva, il giudice deve verificare la possibilità dell’interpretazione conforme .
Sotto quest'ultimo aspetto, peraltro, la sistematica è stata ulteriormente arricchita dall'entrata in vigore dell'articolo 117 della costituzione e con le decisioni n. 348 e 349 del 2007 della Corte costituzionale che, seppur riferite alla CEDU, hanno ancora chiarito i limiti del potere di disapplicazione del giudice ordinario e le modalità con cui tale nuovo parametro costituzionale viene a consentire l'interpretazione conforme delle previsioni della convenzione.
Considerato, poi, come si tratti di una tematica che sarà ulteriormente ripresa nei prossimi paragrafi, è bene qui rilevare che le sentenze gemelle sono venute, inoltre, a sottolineare il diverso ruolo delle Corti Superiori, evidenziando che, qualora sia sollevata una questione di legittimità costituzionale di una norma nazionale rispetto all'art. 117, primo comma, Cost. per contrasto con una norma della CEDU (o, si deve intendere, della Carta di Nizza), spetta innanzitutto alla Corte costituzionale di accertare il contrasto e, in caso affermativo, anche verificare, però, se le stesse norme CEDU, nell'interpretazione data dalla Corte di Strasburgo, garantiscano una tutela dei diritti fondamentali almeno equivalente al livello garantito dalla Costituzione italiana.
Con queste due pronunce di assoluta importanza è stato, cioè, anche affermato in modo importante il “ruolo di garanzia” della nostra Corte sui diritti fondamentali, con una soluzione esegetica che ha poi costituito il riferimento della giurisprudenza dei successivi anni, sia costituzionale che di legittimità.
Completa, infine, questa ricostruzione la chiarificazione che sia l'applicazione del diritto comunitario, sia il potere di disapplicazione, così come l'interpretazione conforme, sono possibili solo nei limiti delle competenze comunitarie, nell'ambito delle quali soltanto ci sono state le cessioni di sovranità, come ormai ben chiarito anche dall'articolo 51 della Carta dei diritti fondamentali europea.
Si può ben comprendere allora come la nostra Corte abbia delineato un quadro sistematico di tipo preciso e tecnico, venendo a stabilire le possibilità di disapplicazione e di interpretazione conforme per il giudice ordinario solo in limitati casi.
D'altronde, la soluzione rinvenuta viene a rispondere a problemi di significativa importanza come quello del rispetto della sovranità e altresì a quello della certezza del diritto, con possibilità dei cittadini di confidare nella legge vigente nell'attuare i propri comportamenti, senza il timore che venga disapplicata in modo imprevisto in un futuro giudizio.
E’, peraltro, stata proprio la Corte di giustizia a sottolineare l'importanza di tali tematiche, evidenziando che “il principio della certezza del diritto, il quale ha come corollario quello della tutela del legittimo affidamento, impone, segnatamente, che le norme giuridiche siano
chiare, precise e prevedibili nei loro effetti, in particolare qualora esse possano avere conseguenze sfavorevoli sugli individui e sulle imprese” .

3. Dopo la sentenza Kücükdeveci: le successive pronunce della Corte di giustizia sulla disapplicazione ex articolo 21 della Carta di Nizza.

Si può ben comprendere allora come tale sistema sia stato fortemente perturbato dalla pronuncia Kücükdeveci del 19.1.10 della Corte di giustizia, che, per quanto accolta favorevolmente da parte della dottrina, non poteva inserirsi armonicamente nel quadro ordinamentale così delineato, venendo ad attribuire al giudice sostanzialmente un potere di disapplicazione ben più ampio, ossia un sindacato diffuso sulla norma interna, ove ravvisi una violazione del principio di non discriminazione di cui all'articolo 21 della Carta di Nizza e anche nei rapporti di tipo orizzontale e senza necessità di ricorrere alla Corte costituzionale.
Tale pronuncia è, ovviamente, espressione della diversa visione della Corte di giustizia dei rapporti tra gli ordinamenti e della propria concezione di tipo monistico, già menzionata nell'introduzione del presente contributo.
Occorre, peraltro, qui sottolineare come risulti oggi ancor più problematica, non essendo restata isolata negli anni a seguire, avendo il giudice comunitario riproposto la stessa versione esegetica in altre decisioni .
Si possono, in questo senso, ricordare, tra le pronunce della Corte di giustizia, la sentenza Petya Milkova del 9 marzo 2017 , la sentenza Vera Egenberger della Grande Sezione del 17 aprile 2018 , la sentenza JQ – IR della Grande Sezione del 11 settembre 2018 , la sentenza Minister for Justice and Equality della Grande Sezione 4 dicembre 2018 e la sentenza Cresco Investigation della Grande Sezione del 22 gennaio 2019 .
Anche in tutte queste decisioni , infatti, è richiamato l'articolo 21 della Carta di Nizza per giustificare un potere di disapplicazione della statuizione interna da parte del giudice ordinario di fronte a un trattamento differenziato collegato ai fattori di rischio menzionati nella stessa norma .
Considerata tale insistenza della Corte di giustizia nel riproporre tale opzione ermeneutica, occorre allora approfondire il giudizio e per comprendere bene la portata di tali decisioni e per studiarle alla luce del quadro sistematico finora delineato, è utile, innanzitutto, riportare il testo dell'articolo 21 cit. per cui “1. è vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale. 2. Nell’ambito d’applicazione dei trattati e fatte salve disposizioni specifiche in essi contenute, è vietata qualsiasi discriminazione in base alla nazionalità”.
È agevole, per la sola lettura di tale disposizione, appurarne la stretta somiglianza con l'articolo 3 della nostra Costituzione , ossia a quel parametro che la nostra Corte costituzionale utilizza abitualmente per la verifica di manifesta irragionevolezza di una previsione di legge alla luce del principio di uguaglianza, verificando il bilanciamento operato dal legislatore nell'ambito della stessa, tramite un tertium comparationis e il canone della proporzionatezza.
Si può, allora, però, anche subito ricordare come l'articolo 3 della nostra Costituzione, pacificamente, non costituisca una norma regola e come non gli sia mai stata riconosciuta un'applicabilità diretta in un giudizio ordinario , ma una disposizione di principio che viene utilizzata dapprima da parte del legislatore per stabilire, nell'ambito del bilanciamento tra gli opposti valori, la corretta disciplina per una determinata materia e, poi, dalla Corte costituzionale per verificare la non manifesta irragionevolezza del risultato ottenuto.
Ugualmente, l'articolo 21 della Carta di Nizza - di analogo contenuto non prevedendo una disciplina dettagliata, ma ancora l'esigenza di un bilanciamento da realizzarsi nell'ambito dei diversi settori di materia, per stabilire in che termini si debba porre la non discriminazione - costituisce certamente una previsione di principio, non autoapplicativa, e non una norma regola .
Con tali semplici osservazioni si può qui, dunque, notare come l'invito della Corte di giustizia nelle pronunce richiamate a che il giudice ordinario proceda a una disapplicazione della statuizione interna tramite il richiamo dell'articolo 21 equivalga a conferirgli un potere di sindacato diffuso di verifica del corretto bilanciamento tra gli opposti valori da parte del legislatore nell'ambito della previsione nazionale .
Evidentemente, si tratta di un potere che nella nostra Costituzione non è consentito al magistrato comune, ma solo alla Corte costituzionale ex art. 134 Cost., cosicché l'impostazione del giudice comunitario, di fatto, viene a proporre una diversa ripartizione della divisione dei poteri interni.
Risulta, allora, opportuno anche considerare come non rientri certo tra le competenze comunitarie che l’Italia abbia mai ceduto all'Unione Europea, limitando la propria sovranità ai sensi dell’art. 11 Cost., la facoltà di modifica del proprio ordinamento costituzionale, con particolare riferimento alla ripartizione interna dei poteri statali.
Né si potrebbe reputare che tale riduzione di sovranità sia avvenuta tramite il Trattato di Lisbona, essendo il contrario espressamente stabilito nello stesso art. 6 TUE e nel par. 2 dell’art. 51 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ove si chiarisce esplicitamente che la stessa “non introduce competenze nuove o compiti nuovi per la Comunità e per l'Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti dai trattati” .
Dunque, la soluzione proposta dalla Corte di giustizia nella sentenza Kücükdeveci e nelle altre successive che ne hanno proseguito la linea esegetica risulta difficilmente concepibile per il nostro ordinamento, ponendosi al di là delle facoltà concesse all'Unione Europea.

4. Il problema di logicità sistemica delle sentenze sull’art. 21 della Carta di Nizza.

Peraltro, alcune di queste sentenze appaiono anche del tutto problematiche dal lato sistematico per la motivazione contenuta nelle stesse, se esaminata nei suoi singoli passaggi logici.
Si può citare, come esempio, la decisione Cresco Investigation del 22 gennaio 2019.
La pronuncia riguarda il fatto che, per il diritto austriaco, il venerdì Santo è un giorno festivo retribuito, con un periodo di riposo di 24 ore, per i membri delle Chiese evangeliche di confessione augustana e di confessione elvetica, della Chiesa vetero cattolica e della Chiesa evangelica metodista. Se, tuttavia, un membro di una di tali chiese lavora in tale data, ha diritto a una retribuzione supplementare.
Per tal motivo, il ricorrente della causa trasmessa dal giudice remittente, che, si noti, riguardava “rapporti tra privati cittadini”, aveva domandato un paritetico diritto, pur non appartenendo ad alcuna di tali Chiese, sostenendo la discriminazione su base religiosa e delle convinzioni personali.
Ora, dapprima, la Corte di giustizia è venuta correttamente a rilevare, con riguardo alla direttiva 2000/78, che contempla la disciplina derivata con riguardo a tali possibilità di discriminazione, che, secondo una giurisprudenza costante della stessa, “una direttiva non può di per sé creare obblighi a carico di un privato e non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei suoi confronti” .
Tuttavia, dopo tale ineccepibile assunto, la stessa sentenza, nei paragrafi successivi della sua motivazione, è venuta a porre ugualmente l'obbligo tra i privati, facendo richiamo però non più della direttiva, ma dell'articolo 21 della Carta di Nizza, evidenziando come, qualora non sia possibile un'interpretazione conforme, il giudice nazionale è tenuto alla disapplicazione della norma interna sulla base di tale previsione e ciò anche quando il proprio ordinamento non gli attribuisca questo potere, per raggiungere il risultato della non discriminazione.
Appare evidente qui il salto logico, perché, da un lato, la direttiva 78/00 conferma che il legislatore comunitario, nella materia della discriminazione, non ha ricevuto cessioni di sovranità che eccedano quelle insite nella stessa che non può creare obblighi tra i privati e, dall’altro, dopo aver effettuato correttamente tale constatazione, viene, immediatamente, a superarla, facendo richiamo all'articolo 21 della Carta di Nizza, per riconoscere esistente un obbligo tra privati.
Il risultato, alla fine, è comunque poi quello di consentire al giudice interno un sindacato diffuso sulla previsione nazionale, con alterazione per riparto dei poteri all'interno della Costituzione del singolo Stato.
Analoghe considerazioni si possono trarre rispetto alla sentenza Milkova , laddove, parimenti, per un caso di licenziamento nel settore pubblico di un soggetto disabile, effettuato senza l’autorizzazione preventiva dell’Ispettorato del lavoro (invece prevista nell'ambito privatistico) prima esclude una discriminazione ai sensi della direttiva poiché la stessa non viene a tutelare le distinzioni tra impiego pubblico e privato, ma poi viene a qualificare la scelta dello Stato bulgaro come un'“azione positiva” pure prevista dalla stessa normazione all’art. 7 e viene a rendere possibile una tutela estensiva della tutela privata all’ambito pubblico facendo ancora una volta riferimento all'articolo 21 della Carta di Nizza e un principio di parità di trattamento derivante dallo stesso.
Dunque, già solo per tale esposizione delle argomentazioni della Corte di Giustizia, si può prendere atto di come la proposta sul potere di disapplicazione formulata dal giudice comunitario sia difficilmente compatibile non solo con la sistematica comunitaria ricostruita dalle sentenze della Corte costituzionale dalla n. 170 del 1984 in avanti e di come, anche al suo interno, sembri presentare dei vizi logici.

5. L'evoluzione parallela della giurisprudenza della nostra Corte costituzionale: la sentenza n. 269 del 2017.

Probabilmente anche in esito a tale evoluzione della giurisprudenza della Corte di giustizia, in modo quasi parallelo, negli ultimi anni, si è avuta quella ulteriore della nostra Corte costituzionale, nell'ambito della quale si può citare, innanzitutto, la sentenza n. 269 del 2017, sulla questione della doppia pregiudizialità.
Tale pronuncia, dopo aver richiamato - in termini analoghi a quelli riportati nel presente contributo - l'evoluzione del diritto comunitario nell'ambito della giurisprudenza della Corte, partendo dalla sentenza della Corte di giustizia Simmenthal e dalla n. 170 del 1984 (Granital) della stessa, viene ad affrontare la novità del Trattato di Lisbona e dell'avvento della Carta di Nizza, “dotata di caratteri peculiari in ragione del suo contenuto di impronta tipicamente costituzionale”.
In modo assimilabile al confronto effettuato nel presente scritto con riguardo alla somiglianza di contenuti esistente tra l'articolo 3 Cost. e l'articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali, la Corte osserva, poi, che “i principi e i diritti enunciati nella Carta intersecano in larga misura i principi e i diritti garantiti dalla Costituzione italiana (e dalle altre Costituzioni nazionali degli Stati membri). Sicché può darsi il caso che la violazione di un diritto della persona infranga, ad un tempo, sia le garanzie presidiate dalla Costituzione italiana, sia quelle codificate dalla Carta dei diritti dell'Unione” .
Viene così ad affermare che, in caso di conflitto della norma interna sia con i valori costituzionali che con quelli europei, è necessario “un intervento erga omnes” della stessa, che “giudicherà alla luce dei parametri interni ed eventualmente di quelli europei (ex artt. 11 e 117 Cost.), secondo l'ordine di volta in volta appropriato, anche al fine di assicurare che i diritti garantiti dalla citata Carta dei diritti siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali, pure richiamate dall'art. 6 del Trattato sull'Unione europea e dall'art. 52, comma 4, della CDFUE come fonti rilevanti in tale ambito” .
In tal modo, il nostro Giudice delle Leggi torna a proporsi quale ultimo garante del corretto equilibrio e della difesa dei diritti fondamentali.
Per sostenere la propria opzione esegetica nei casi di doppia pregiudizialità, inoltre, la nostra Corte rammenta come la stessa Corte di giustizia abbia chiarito che il diritto dell'Unione “non osta al carattere prioritario del giudizio di costituzionalità di competenza delle Corti costituzionali nazionali”, purché i giudici ordinari restino liberi di sottoporre alla Corte di giustizia, «in qualunque fase del procedimento ritengano appropriata e finanche al termine del procedimento incidentale di controllo generale delle leggi, qualsiasi questione pregiudiziale a loro giudizio necessaria» ; di «adottare qualsiasi misura necessaria per garantire la tutela giurisdizionale provvisoria dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico dell'Unione; di disapplicare, al termine del giudizio incidentale di legittimità costituzionale, la disposizione legislativa nazionale in questione che abbia superato il vaglio di costituzionalità, ove, per altri profili, la ritengano contraria al diritto dell'Unione>>.
Sicché, con tale nuovo orientamento, la Corte costituzionale ha affermato la propria precedenza nel giudizio sui valori fondamentali, nel senso che, laddove una legge sia oggetto di dubbi di legittimità tanto in riferimento ai diritti protetti dalla Costituzione italiana, quanto in relazione a quelli garantiti dalla Carta di Nizza in ambito di rilevanza comunitaria, debba essere sollevata la questione di legittimità costituzionale.
Dopo aver preso atto di tale novità interpretativa del nostro Giudice delle Leggi, si potrebbe provare, allora, a rapportarla, a tal punto, all'orientamento innovativo elaborato dalla Corte di giustizia dalla sentenza Kücükdeveci in avanti nei termini di concessione di un sindacato diffuso al giudice ordinario per la disapplicazione della norma interna alla luce del principio di non discriminazione.
In tal senso, si può ritenere che la nostra Corte possa così aver anche reagito alla possibilità che il giudice ordinario interno, quale organo giurisdizionale comunitario, venga ad effettuare il bilanciamento tra gli opposti valori fondamentali nei termini proposti della Corte di giustizia finora descritti, ossia con un sindacato diffuso.
Cosicché, ha ritenuto necessario - nei casi in cui entrino in gioco nella valutazione, unitamente ai valori costituzionali, le norme della Carta di Nizza, come ad esempio l'articolo 21 della stessa - che il magistrato non proceda direttamente alla disapplicazione della norma, ma sollevi la questione di costituzionalità, lasciando alla stessa, in un sindacato accentrato, le valutazioni di competenza in ragione di tali previsioni, oltre che delle altre norme della Costituzione, non ritenendo ammissibile, evidentemente, che la valutazione sul rispetto dei diritti fondamentali e sul loro bilanciamento sia effettuata dal semplice magistrato e senza efficacia erga omnes.

6. Le sentenze successive sulla doppia pregiudizialità della nostra Corte costituzionale.

E’ pur vero che, in dottrina, si è rilevato che, poi, tale orientamento è stato mitigato con le successive pronunce della Corte costituzionale.
Tuttavia, la sentenza n. 20/2019 sembra richiamare in analoghi termini la precedente n. 269/2017, seppur con l'esigenza di sollevare la questione di costituzionalità, nei casi suddetti, solo in termini di “opportunità” e non di obbligo, per favorire un intervento erga omnes.
Senonchè, al di là di tale mutamento terminologico posto nella parte motiva della pronuncia, quello che appare importante è comprendere che l'impostazione esegetica espressa della Corte costituzionale appare fondamentalmente volta ad evitare che al giudice ordinario sia lasciato un giudizio simile a quello di costituzionalità di una norma interna, tramite un parametro come quello dei valori della Carta di Nizza, che possa essere coincidente con le previsioni costituzionali.
La sentenza n. 63/2019 della stessa Corte, poi, conferma che alla medesima non può ritenersi precluso l'esame nel merito delle questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento anche alle norme corrispondenti della Carta di Nizza, che tutelano, nella sostanza, i medesimi diritti.
Tuttavia, fa salvo il potere del giudice comune di procedere questi stesso al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia (anche dopo il giudizio incidentale di legittimità costituzionale) e, “ricorrendone i presupposti”, di non applicare la disposizione nazionale.
E’ interessante, in particolare, in quest'ultima affermazione, l'inciso per la disapplicazione unicamente nell’ipotesi in cui ne ricorrano “i presupposti”, sul quale occorre soffermarsi, ponendosi ritenere, pure in assenza di ulteriori delucidazioni esplicite, che tale riferimento sia posto non a favore di una disapplicazione ad ampio raggio, ma solo per quella realizzata nei limiti e secondo le regole tecniche ricostruite nelle diverse pronunce della Corte costituzionale, negli anni, dalla sentenza n. 170/1984 in avanti.
Per convincersene, basta rammentare la delineata evoluzione degli ultimi quarant'anni della giurisprudenza del nostro Giudice delle Leggi in materia di disapplicazione (dovendosi ritenere che il medesimo con le succinte parole “ricorrendo nei presupposti” ne faccia richiamo) e, per di più, anche osservare come risulti difficile ragionare diversamente, perché, altrimenti, non avrebbe molto senso la tesi - proposta con la decisione n. 269/17 e con le seguenti - dell'esigenza di una dichiarazione accentrata di illegittimità costituzionale della norma con effetto erga omnes, qualora si ritenesse da concedersi già al giudice ordinario un analogo potere a livello diffuso .
Sulla stessa linea, poi, si pongono la sentenza n. 112/2019, nonché la n. 117/2019 che viene anche a chiarire che pure la Corte costituzionale si pone come «organo giurisdizionale» nazionale ai sensi dell'art. 267 TFUE, precisando, ancora, che i giudici comuni possano trasmettere ogni questione pregiudiziale e come abbiano il dovere - ricorrendone i presupposti - di non applicare la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta.
Nello stesso orientamento, poi, si possono citare le sentenze numero n. 11 e 182 del 2020, fino ad arrivare alla n. 182 del 2021 che, nell'ambito del vaglio di ammissibilità della questione sottoposta, esprime ancora il concetto che la verifica costituzionale è ammissibile “ove non ricorrano i presupposti della non applicabilità della normativa interna contrastante con quella europea” .
Anche in questo caso, tale inciso non pare legittimare certamente un sindacato diffuso del tipo di quello proposto dalla Corte di giustizia, per i motivi già esposti.
Viene, piuttosto, ulteriormente, a chiarire, in maniera proficua, il concetto della doppia pregiudizialità. Nel senso che, laddove la norma interna sia “già disapplicabile” non in virtù di un sindacato diffuso, ma secondo i concetti impostati dalla sentenza 170/84 e in quelle successive del Giudice delle Leggi (ossia grazie a una norma europea che sia direttamente applicabile e self executing, cioè una norma regola e non di principio), la questione di costituzionalità, ancorché coinvolga, oltre alle norme della Costituzione, anche quelle della Carta di Nizza, può essere reputata non ammissibile per difetto di rilevanza.
Neppure con tale pronuncia, cioè, viene concesso al giudice ordinario un sindacato diffuso tramite le norme sui diritti fondamentali come quelle della Costituzione o della Carta di Nizza (tra cui l'articolo 21 della stessa), quanto piuttosto unicamente la possibilità di verificare il contrasto tra la norma interna e una norma direttamente applicabile e autoapplicativa di un atto europeo, secondo i concetti tradizionali.
Il quadro, poi, si chiude con la sentenza 54 del 2022 e, con un'ulteriore conferma di quanto esposto, con la n. 67 del 2022, nella quale, in luogo di dichiarare l'illegittimità costituzionale della norma interna , la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione, ritenendo sufficientemente specifici e autoapplicativi, pur in contrasto con la valutazione della Corte di cassazione remittente, gli artt. 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE e 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE, nella parte in cui prescrivono l'obbligo di parità di trattamento tra le categorie di cittadini di paesi terzi individuate dalle medesime direttive e i cittadini dello Stato membro in cui costoro soggiornano, con potere di disapplicazione, in questo caso, da parte del giudice ordinario della norma interna confliggente.
Nel caso, la Corte, a conferma del ragionamento fin qui esposto, ha, cioè, chiarito come dalle “previsioni dettagliate” di tali direttive derivi un obbligo specifico a cui corrisponde, nei soli rapporti verticali, il diritto del cittadino del paese terzo di ricevere le prestazioni sociali alle stesse condizioni previste per quelli dello Stato membro .

7. Le conclusioni: un potere disapplicazione non mutato per il giudice ordinario.

Dopo tale percorso, si può, dunque, giungere a delle conclusioni.
Certamente la tendenza espansiva della Corte di giustizia ha portato quest'ultima a sviluppare un'interpretazione che conferirebbe al giudice ordinario un sindacato diffuso molto ampio sulla norma interna, utilizzando i parametri, simili a quelli costituzionali, contenuti nella Carta di Nizza e tra questi l'articolo 21 .
Al contempo, la Corte costituzionale, probabilmente anche avvedendosi della possibilità che il giudizio secondo i parametri costituzionali rischiasse di essere effettuato dal giudice ordinario con un sindacato diffuso tramite tali norme della Carta dei diritti fondamentali, ha affermato, iniziando con la sentenza n. 269/17, l'impostazione per cui, laddove insieme ai parametri costituzionali (pacificamente di competenza della stessa), entrassero nella valutazione anche i diritti della Carta di Nizza, sarebbe stato necessario il sindacato accentrato della medesima.
In tal modo, la Corte ha sostenuto la propria precedenza di competenza circa il giudizio sui diritti fondamentali e costituzionali, secondo un orientamento in passato già avviato con le sentenze n. 311 e 317 del 2009 e con la n. 303 del 2011 , che avevano sostenuto tale ruolo, motivandolo con l'argomentazione che la tutela dei diritti fondamentali deve essere sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro e come spettasse, quindi, al nostro Giudice delle Leggi la verifica ultima del corretto equilibrio tra i diritti stessi anche se introdotti con fonti internazionali.
Poi, nelle successive pronunce successive alla n. 269/17 sopra esaminate , ha, comunque, confermato la possibilità del giudice ordinario di disapplicare la norma interna, ma solo “ricorrendone i presupposti”, ossia, si deve intendere, secondo le regole tradizionali, allorchè il magistrato si trovi di fronte a una norma di un regolamento, di una direttiva o di un trattato che possa definirsi autoapplicativa in quanto sufficientemente specifica, senza necessità di ulteriori integrazioni e direttamente applicabile alle parti in causa.
Tale percorso, infine, ha mostrato la sua coerenza con la sentenza n. 67/22 , nella quale la Corte ha sostenuto il potere di disapplicazione da parte del giudice ordinario a fronte di norme self executing di due direttive .
Ne emerge, dunque, un quadro di continuità tra le decisioni della Corte costituzionale volto ad evitare che al giudice ordinario sia consentito ogni tipo di bilanciamento, in violazione dell'articolo 101 Cost., per disapplicare una norma di legge, anche ove tale operazione coinvolga i diritti fondamentali della Carta di Nizza e la conferma della valutazione di una assoluta problematicità sistematica e non persuasività delle citate sentenze della Corte di giustizia per la non applicazione della norma interna tramite l'articolo 21 della stessa.
Resta la curiosità di verificare come si svilupperà ulteriormente questo cammino parallelo delle due Corti Superiori e se sapranno giungere nuovamente alla ricostruzione di un quadro sistematico coerente e compatibile nei suoi principi .

 

 

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