testo integrale con note e bibliografia

1. Il caso Halet
Assurto alle cronache internazionali con lo scandalo luxleaks la vicenda di Raphael Halet riguardava la rivelazione di documenti fiscali compromettenti della PwC, noto network multinazionale di imprese di servizi professionali, operativo in 158 Paesi, che fornisce servizi di consulenza di direzione e strategia revisione di bilancio, consulenza legale e, soprattutto, fiscale.
Il signor Halet, coordinatore di un team di cinque persone presso la PwC, si era occupato, nell’interesse del datore di lavoro, di contrattare pareri preventivi (ruling fiscali) e di concordare con le autorità fiscali Lussemburghesi il miglior trattamento possibile, raggiungendo accordi economici con l’Amministrazione delle imposte dirette (avance tax agreements, meglio noti come ATA) altamente vantaggiosi per le grandi società multinazionali rispetto al trattamento ordinario che si sarebbe dovuto applicare in ragione del trasferimento di reddito tra gruppi, consentendo così l’applicazione di un’aliquota fiscale effettiva ben al di sotto di quella legale dovuta.
Già in precedenza un suo collega, A.D., nel 2010, al momento di lasciare la società, aveva copiato 45.000 pagine di documenti riservati (tra i quali oltre 500 ATA) consegnandoli a un giornalista, E.P., che li aveva utilizzati in un programma televisivo, dal titolo Cash investigation. A seguito delle rivelazioni fatte dal giornalista, il signor Halet lo contattava tra l’ottobre e il dicembre 2012 consegnandogli ulteriori ATA alla cui stesura aveva collaborato e che quest’ultimo utilizzava nel corso della sua successiva trasmissione televisiva nel giugno 2013, a conferma di quanto già rivelato nelle precedenti puntate dello stesso programma sui favori fatti dall’amministrazione finanziaria del Lussemburgo alle multinazionali in materia fiscale.
A seguito della pubblicazione di questi ulteriori documenti il signor Halet, individuato dalle ispezioni interne del datore di lavoro, ha poi stipulato con quest’ultimo, come si legge nella sentenza , «un accordo transattivo, in base al quale quest'ultima ha limitato le sue pretese a un euro simbolico e ha ottenuto l'autorizzazione a iscrivere un'ipoteca (inscription hypothécaire) di dieci milioni di euro sui beni del ricorrente. Esso prevedeva inoltre il licenziamento del ricorrente al termine del suo congedo per malattia. Il 29 dicembre 2014 il ricorrente è stato licenziato dopo un periodo di preavviso» .
2. L’iter processuale in sede nazionale
Nel frattempo, a seguito dei fatti descritti, il giudice istruttore del Tribunale di Lussemburgo iniziava un procedimento penale nei confronti del signor Halet , del primo dipendente che aveva sottratto i documenti alla PwC due anni prima, nonché del giornalista che li aveva utilizzati.
Il Tribunale distrettuale di Lussemburgo, all’esito del processo, ha condannato il primo lavoratore e il signor Halet per furto ai danni del proprio datore di lavoro, accesso fraudolento a un sistema di elaborazione o trasmissione automatica di dati, violazione del segreto commerciale, violazione del segreto professionale, nonché riciclaggio e detenzione, comminando loro ad una pena detentiva di dodici e nove mesi rispettivamente, oltre ad una multa di 1.500,00 e 1000,00 euro. Il giornalista è stato assolto in ragione del suo ruolo professionale, essendosi limitato alla pubblicazione delle notizie.
In particolare, il Tribunale, che ha ritenuto l’insussistenza di alcuni reati contestati , ha ritenuto che i due ex impiegati avessero causato un danno alla PwC, condannandoli al risarcimento nella misura di un euro, come precedentemente concordato tra le parti.
I due lavoratori e la pubblica accusa hanno proposto appello.
Nela sua arringa finale, il procuratore generale con riferimento alla posizione del signor Halet «ha chiesto l'assoluzione del ricorrente dalle accuse di violazione del segreto commerciale e di riciclaggio di frodi informatiche, e ha sostenuto che le accuse contro di lui per quanto riguarda il furto al proprio datore di lavoro, le frodi informatiche, la violazione del segreto professionale e il riciclaggio dei proventi di furti da parte del datore di lavoro » ed ha invece insistito per la conferma della condanna per quanto riguardava i reati già riconosciuti dal Tribunale.
La Corte di appello, dopo avere ripercorso l’intera vicenda , ha esaminato le richieste del signor Halet e del suo collega A.D., i quali si erano appellati «all'articolo 10 della Convenzione, come interpretato dalla Corte, e avevano chiesto, in base a tale disposizione, che venisse loro riconosciuto lo status di "whistle-blower" e che fossero assolti», rilevando che «nessuna delle due norme di legge lussemburghesi che riconoscono lo status di "whistle-blower", vale a dire l'articolo L.271-1 del Codice del lavoro e l'articolo 38-12 della legge sul settore finanziario (legge del 5 maggio 1993), fornisce una definizione di "whistle-blower" o specifica i criteri per l'applicazione di tale status» .
La Corte di appello ha comunque tenuto conto della giurisprudenza della Corte europea (in particolare la sentenza Guja c. Moldavia, n. 14277/04) e ha ritenuto che i reati contestati di violazione del segreto commerciale, di quello professionale e l’interesse pubblico delle informazioni, fossero tali da imporre l’applicazione nel diritto nazionale dei principi stabiliti dalla Corte EDU, sicché le circostanze del caso giustificavano l’assoluzione del lavoratore E.D. per quanto riguardava il reato di consegna dei documenti al giornalista E.P., ma non per quanto concerneva la sottrazione dei documenti alla PwC, con relativa diminuzione della pena a sei mesi di reclusione e la condanna ad una multa di 1.000,00 euro.
Non ha riconosciuto invece al signor Halet alcun beneficio della protezione dovuta ai whistleblowers, in ragione della non ricorrenza della proporzionalità del fatto (circostanza che, come si vedrà, costituisce il fulcro della sentenza in commento) in quanto la documentazione dallo stesso consegnata al giornalista non aggiungeva nulla a quanto già risultava da quella precedentemente consegnatagli un anno prima, mentre, le complessive circostanze, « del movente, che egli riteneva onorevole, della natura disinteressata delle sue azioni e dell'assenza di precedenti penali » giustificassero unicamente un’attenuante a suo favore, escludendo così la detenzione comminata dal Tribunale e riducendo la pena 1.000,00 euro. Di conseguenza ha anche confermato il danno causato dalla società .
Inutile si è rivelato il ricorso in Cassazione, posto che quest’ultima, secondo il diritto nazionale, ha ritenuto che «… La valutazione dei fatti che devono essere alla base della decisione se un imputato possa beneficiare della difesa dello status di whistle-blower rientra nel dominio sovrano dei tribunali competenti per il merito e non è soggetta al controllo della Corte di cassazione, a condizione che tale valutazione non sia basata su una motivazione insufficiente o contraddittoria». Nella specie, con riferimento alla posizione del signor Halet, risultava dalla motivazione che «i giudici d'appello hanno basato la loro valutazione sulla natura dei documenti sottratti dal [ricorrente], sull'uso di tali documenti nel contesto di un programma televisivo sull'evasione fiscale, sulle dichiarazioni rese dal [ricorrente] e da [E.P.] in merito alla rilevanza dei documenti prelevati, e concludeva che le dichiarazioni dei redditi sottratte [dal ricorrente], pur essendo state indubbiamente utili al giornalista [E.P.], non fornivano tuttavia alcuna informazione fondamentale, fino ad allora sconosciuta, in grado di rilanciare o contribuire al dibattito sull'evasione fiscale » e tanto era sufficiente a rendere incensurabile la sentenza di condanna.
2. Brevi cenni sul whistleblowing
La sentenza (punti 54-58) ripercorre la legislazione internazionale e i testi adottati dal Consiglio e dal parlamento europeo sul Whistleblowing.
Qui ne faremo un rapido cenno, rinviando, per ogni approfondimento al lavoro di completa e attenta ricostruzione storica e normativa dell’istituto già fatta su questa rivista (e al quale rimane poco da aggiungere), dove si rammenta che esso trova origini nel diritto statunitense e, in particolare, «ha preso le mosse dal caso di dieci marinai che, nel 1777 (soltanto pochi mesi dopo l’adozione della Dichiarazione di indipendenza), ottennero protezione da pratiche improprie loro riservate (assimilate a tortura e trattamenti inumani e degradanti) da Esek Hopkins, comandante in capo della Continental Navy » da cui nacque la denominazione dell’istituto (“soffiatore di fischietto”) e i primi provvedimenti legislativi, anche in ragione della sua connessione con la cultura statunitense in tema di diritto antitrust americano , nato nel periodo successivo alla guerra civile (1861-1865), al fine di contenere il divieto di accordi limitativi della libera concorrenza.
Agli Stati uniti seguì, parecchio dopo, come è ovvio per la consonanza di vedute, il Regno unito con un provvedimento del 1998.
Da allora si sono mossi tutte le altre istituzioni, a partire dal Consiglio d’Europa con la Convenzione di diritto civile sulla corruzione stipulato nel 1999 che fa seguito alla 21ma conferenza di Praga del 1997 nella quale i ministri europei della giustizia avevano adottato una risoluzione sui legami tra corruzione e criminalità organizzata sottolineando che la corruzione rappresenta una grave minaccia allo stato di diritto, alla democrazia e ai diritti umani, all'equità e alla giustizia sociale, ostacola lo sviluppo economico e mette in pericolo la stabilità delle istituzioni democratiche e le basi morali della società, prevedendo che (art. 9, pt. 69) «[l]a "protezione adeguata contro qualsiasi sanzione ingiustificata" implica che, sulla base di questa Convenzione, qualsiasi sanzione nei confronti dei dipendenti basata sul motivo che hanno segnalato un atto di corruzione alle persone o alle autorità responsabili della ricezione di tali segnalazioni, non sarà giustificato». Anche l’ONU, con la Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata il 31 ottobre 2003, con risoluzione 58/4 ed entrata in vigore il 14 dicembre 2005 che invita le parti contraenti a disporre ogni opportuna misura preventiva nella lotta alla corruzione.
Da allora è stato un continuo susseguirsi di normative che hanno disciplinato l’istituto che sono culminati con la “Protection of Whistleblowers. Legal Instrument. Recommendation CM/Rec(2014)7 and explanatory memorandum”, adottata dal Consiglio d’Europa nel 2014 e la Direttiva UE 2019/1937 che costituiscono, allo stato, il quadro europeo completo nella tutela del whistleblower.
In linea di massima ed in sintesi la direttiva individua le linee guida per la protezione dei segnalanti nei seguenti termini:
• la protezione viene garantita non solo ai dipendenti che effettuano la segnalazione, ma anche ai diversi soggetti che entrano direttamente, anche se non in via permanente, in contatto con l’imprenditore o l’amministrazione (clienti, fornitori, candidati, ex dipendenti, giornalisti);
• i segnalatori sono protetti dal licenziamento, dal demansionamento e da altre forme di discriminazione o di ritorsione;
• le misure di protezione si applicano solo alle segnalazioni di illeciti relativi al diritto dell'UE, come frode fiscale, riciclaggio di denaro o reati in materia di appalti pubblici, sicurezza dei prodotti e stradale, protezione dell'ambiente, salute pubblica e tutela dei consumatori e dei dati, discriminazioni in genere;
• il segnalante può scegliere se rivolgersi all'interno dell'azienda o direttamente all'autorità di vigilanza competente. Se non accade nulla in risposta a tale segnalazione, o se il segnalante ha motivo di ritenere che sia nell'interesse pubblico, può rivolgersi direttamente ai media. I segnalanti sono protetti in entrambi i casi.
Ovviamente, le indicazioni da parte degli organismi europei demandano ai singoli stati la regolamentazione dettagliata delle tutele, occorrendo tenere conto delle specifiche situazioni territoriali, spesso caratterizzate da una cultura di opacità che vede con disfavore la denuncia di illeciti da parte di chi «viene spesso assimilato nell’immaginario collettivo a un delatore ».
Nel nostro paese, il primo intervento organico risale alla legge 190/2012 delinea una disciplina che era risultata carente ed incompleta inserendo la norma di cui all’art. 54 bis nel d.lgs. 165/2001, ritenuta del tutto insufficiente, suscitando perplessità anche a livello OCSE , critiche alle quali l’Italia aveva replicato che la vigenza dello Statuto dei lavoratori già garantiva le tutele richieste e che comunque erano in corso studi su ulteriori provvedimenti a tutela dei whistleblowers .
Vi sono poi stati provvedimenti successivi di aggiustamento come l’art. 1.15 alla citata legge 190/2012 che, in adempimento della Convenzione ONU, ha modificato l’art. 54 bis del d.lgs. 165/2001 che inizia così a dettare una disciplina più organica di tutela del denunciante per le irregolarità che si verificano nella pubblica amministrazione e nelle società partecipate, ma non fa cenno alla possibilità sussidiaria di notiziarne i media. A tale provvedimento faceva seguito l’intervento dell’Autorità Nazionale Anticorruzione che aveva adottato (il 13 gennaio 2020) lo schema di «linee guida in materia di tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza in ragione di un rapporto di lavoro, ai sensi dell'art. 54-bis, del d.lgs. 165/2001 (c.d. whistleblowing)» che poi è stato sospeso in attesa dell’approvazione di un nuovo e più organico provvedimento .
A ciò si aggiunge l’approvazione della legge 179/2017 estendo l’ambito di applicazione anche al settore privato .
La Direttiva UE 2019/1937 ha così imposto un drastico intervento, effettuato dal nostro legislatore con il d.lgs. 10 marzo 2023 n. 24, che recepisce le indicazioni della Direttiva, disponendo che le tutele si applicano al settore pubblico, le pubbliche amministrazioni, le autorità amministrative indipendenti di garanzia, vigilanza e regolazione, gli enti pubblici economici, gli organismi di diritto pubblico, i concessionari di pubblico servizio e le società a controllo pubblico e le società in house.
Si applicano altresì nel settore privato costituito da quelle aziende che hanno impiegato, nell’ultimo anno, la media di almeno 50 lavoratori subordinati con contratti di lavoro a tempo indeterminato o determinato, nonché da quelli che, pur non avendo impiegato la media di 50 lavoratori, operano in materia di servizi, prodotti e mercati finanziari e prevenzione del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo, tutela dell’ambiente e sicurezza dei trasporti (come indicato dalla Direttiva) ovvero rientrano nell’ambito di applicazione del d.lgs. n. 231/2001 e adottano modelli di organizzazione e gestione ivi previsti.
I segnalatori vengono individuati in tutti i lavoratori, qualunque sia la modalità della prestazione, tra essi anche i somministrati, i tirocinanti e i volontari. Si aggiungono i lavoratori autonomi, dai consulenti ai fornitori, dagli azionisti ai membri degli organi direttivi. A questi si uniscono anche i facilitatori, ovvero coloro che assistono i segnalanti (colleghi, sindacalisti, familiari o, comunque, soggetti in rapporti giudici connessi con il whistleblower e la su attività di denuncia).
La nuova normativa, che entrerà in vigore il 15 luglio 2023, amplia poi l’ambito di applicabilità della disciplina, estendendola anche alle violazioni del diritto nazionale oltre che a quello europeo, tutelato dalla Direttiva.
Le amministrazioni e le aziende interessate sono tenute a disporre «propri canali di segnalazione, che garantiscano, anche tramite il ricorso a strumenti di crittografia, la riservatezza dell'identità della persona segnalante, della persona coinvolta e della persona comunque menzionata nella segnalazione, nonché del contenuto della segnalazione e della relativa documentazione» (art. 4, d.lgs. 24/2023).
È prevista la possibilità di rivolgersi direttamente all’ Anac, così bypassando i canali di segnalazione aziendali o dell’amministrazione, ma solo se sia stato utilizzato preventivamente il canale interno, in questi casi:
1. Laddove non sia prevista l’attivazione obbligatoria del canale di segnalazione interna oppure se il canale non sia stato attivato o se si presenti inattendibile sul piano delle garanzie della riservatezza ;
2. quando la segnalazione non abbia avuto seguito o ci sia l’effettivo timore che possa determinare il rischio di ritorsione;
3. qualora la violazione possa costituire un pericolo imminente o palese per il pubblico interesse.
Le segnalazioni potranno essere effettuate tramite piattaforma informatica messa a disposizione da Anac o in forma scritta o orale (attraverso linee telefoniche e altri sistemi di messaggistica vocale), oppure se la persona lo richiede anche attraverso un incontro in presenza fissato in un tempo ragionevole.
L’Anac deve dare riscontro alla persona segnalante entro tre mesi o, se ricorrono giustificate e motivate ragioni, sei mesi dalla data di avviso di ricevimento della segnalazione esterna o, in mancanza di detto avviso, dalla scadenza dei sette giorni dal ricevimento.
L’Anac potrà applicare sanzioni amministrative pecuniarie da 10.000 a 50.000 euro nei casi in cui vengano commesse ritorsioni o quando viene accertato che una segnalazione è stata ostacolata o che si è tentato di ostacolarla o che è stato violato l’obbligo di riservatezza, oppure da 10.000 a 50.000 euro nel caso in cui Anac accerti che non sono stati istituiti canali di segnalazione, che non sono state adottate procedure per l’effettuazione e la gestione delle segnalazioni. Sono inoltre previste sanzioni da 500 a 2.500 euro, nel caso in cui venga accertata la responsabilità penale della persona segnalante per i reati di diffamazione o di calunnia.
Non è previsto il ricorso diretto alle vie dei media ma, si ritiene, questa via potrà essere giustificata nel caso di inerzia di tutti gli strumenti che si sono descritti: in tal senso si è già pronunciata la magistratura (così applicando direttamente la Direttiva) che, anche prima della nuova normativa, aveva ritenuto applicabili le tutele anche in caso di segnalazioni atipiche, fuori dal canali previsti, quando era già stata attivata la segnalazione agli organi preposti senza che questi si siano attivati, qualora vi è un fondato rischio di pericolo per il pubblico interesse, ovvero ancora laddove vi sia un giustificato rischio che la segnalazione non divulgata pubblicamente sia affrontata in modo efficace .
5. La sentenza della Corte, Camera singola.
Avverso la sentenza della Corte di appello di Lussemburgo , il solo signor Halet ricorreva alla Corte EDU, sostenendo che la sua condanna penale costituiva un’interferenza sproporzionata al suo diritto alla libertà di espressione e, dunque, la violazione dell’art. 10 della Convenzione.
La prima decisione della camera semplice (terza sezione) ha ritenuto sostanzialmente di condividere il ragionamento della Corte di appello di Lussemburgo. Riconosciuta in linea di principio la natura di whistleblower del ricorrente, ha poi esaminato i criteri sviluppati dalla Corte nella causa Guja, ovvero «la disponibilità di canali alternativi per la divulgazione, l'interesse pubblico delle informazioni divulgate, la buona fede del richiedente, l'autenticità delle informazioni divulgate, il danno causato al datore di lavoro e la severità della sanzione » e ha dato atto della ricorrenza dei primi quattro criteri e ha concluso che solo gli ultimi due - bilanciamento tra l’interesse pubblico delle informazioni divulgate e il danno creato al datore di lavoro e la severità del sanzione - rimanevano in discussione.
Circa il primo, condivideva le considerazioni della Corte di appello non ritenendo che i documenti divulgati dal ricorrente avessero « fornito informazioni essenziali, nuove e precedentemente sconosciute » e dunque non risultavano tali da giustificare il danno subito dalla società. Per quanto attiene la pena irrogata, la stessa appariva mite e non tale da rappresentare un dissuadente sul diritto alla libertà di espressione.
In conclusione, la Corte, con il dissenso di un giudice, riteneva che «che i Tribunali nazionali avessero trovato un giusto equilibrio tra, da un lato, la necessità di proteggere i diritti del datore di lavoro del ricorrente e, dall'altro, la necessità di proteggere la libertà di espressione del ricorrente, la Camera ha concluso, con cinque voti contro due, che non vi era stata alcuna violazione dell'articolo 10 della Convenzione ».
6. La sentenza della Corte, Grande Camera
Il ricorrente si è appellato alla Grande Camera, per ottenere una riforma della sentenza resa dalla Terza Sezione che aveva escluso la sussistenza della violazione dell’art. 10 della Convenzione.
A sostegno sviluppa diverse considerazioni. In primo luogo, «[b]asandosi a questo proposito sull'opinione dissenziente allegata alla sentenza della Camera, ha sostenuto che la ponderazione degli interessi concorrenti nell'ambito del "quinto criterio della giurisprudenza Guja" non doveva essere condotta isolatamente, ma alla luce di un'analisi globale, basata sull'articolo 10, che tenesse conto di tutti i criteri pertinenti » e che «… ciò aveva portato a un bilanciamento tra l'interesse pubblico a conoscere la divulgazione contestata e l'interesse specifico di una determinata società, il che, a parere del ricorrente, equivaleva a una deriva potenzialmente pericolosa ».
In sintesi, osservava come «[d]ato che il suo contributo al dibattito "Luxleaks" non è stato considerato decisivo nella valutazione del criterio di interesse pubblico, non gli era chiaro come il suo coinvolgimento nel causare un danno alla reputazione del suo datore di lavoro potesse essere considerato tale » e sottolineando come la camera «… avendo accettato che la condanna penale del ricorrente (oltre al suo licenziamento) potesse essere giustificata perché il suo datore di lavoro aveva subito un danno alla sua reputazione, la sentenza della Camera era riuscita a vanificare la protezione degli informatori ».
Un terzo intervenuto MLA (Maison des Lanceurs d'alerte) ha, a sua volta, sottolineato, come si legge nella sentenza, che «consentire ai tribunali nazionali di esaminare in che misura una divulgazione includa "informazioni essenziali, nuove e precedentemente sconosciute" nel contesto del controllo della proporzionalità delle violazioni dell'articolo 10 della Convenzione avrebbe gravi implicazioni per l'efficacia della protezione degli informatori», sottolineando come i criteri seguiti dalla Camera porterebbero «a una situazione in cui gli Stati non si assumono più la responsabilità dei loro obblighi di indagare sulle violazioni dei diritti umani, in quanto spesso è necessario che l'allarme venga lanciato più volte sullo stesso argomento prima che le denunce vengano effettivamente trattate dalle autorità pubbliche. A questo proposito, MLA ha sostenuto che il ricorso alla copertura mediatica è di solito il presupposto necessario affinché il whistleblowing sia efficace, dal momento che i cambiamenti istituzionali a lungo termine e di vasta portata possono essere raggiunti solo lanciando l'allarme nei mass media ».
Anche un altro intervenuto, WBN (Whistleblower Netzwerk), ha rilevato «che la certezza del diritto è una dimensione essenziale per l'efficacia della protezione degli informatori, che si espongono a forme di ritorsione molto gravi, impedendo loro di guadagnarsi da vivere correttamente o di sostenere le proprie famiglie per anni ».
La Grande Camera premette che la condanna del ricorrente costituisce un’interferenza nel godimento del diritto di cui all’art. 10 Cedu, che ricomprende la tutela dei whistleblowers, specificando – questione non sollevata dalle parti - che l’ingerenza costituisce una misura prevista dalla legge, che persegue almeno uno degli scopi legittimi enunciati dal par. 2 della disposizione in commento, vale a dire la protezione della reputazione o di altri diritti di terzi (in questo caso, la società di revisione ), ma precisa che la «… questione che rimane da affrontare è se l'ingerenza fosse "necessaria in una società democratica” », esaminandola alla luce del caso specifico ovvero il cd. «test di necessità ».
A questo proposito, la Corte ripercorre i criteri individuati e applicati a partire dalla sentenza Guja c. Moldavia per stabilire se un dipendente che divulga informazioni riservate ottenute sul posto di lavoro possa invocare la tutela offerta dall’articolo 10 della Convenzione, anche con l’intento dichiarato di “aggiornare” tali criteri, in ragione della mutata rilevanza del fenomeno e della conseguente evoluzione della cornice normativa europea e internazionale a protezione dei whistleblowers.
In base alla richiamata giurisprudenza, la Grande Camera ribadisce ancora i sei criteri che vanno esaminati nel caso :
˗ la disponibilità o meno di canali alternativi per la divulgazione;
˗ l'interesse pubblico delle informazioni divulgate;
˗ l'autenticità delle informazioni divulgate;
˗ il pregiudizio arrecato al datore di lavoro;
˗ se l'informatore ha agito in buona fede e
˗ la gravità della sanzione.
La Corte procede, quindi, a verificare l’applicazione fatta dai giudici lussemburghesi al caso specifico, secondo i criteri sopra indicati e sulla base della giurisprudenza della Corte.
Il giudizio è positivo per quanto riguarda cinque dei criteri elencati, ma insoddisfacente per quanto concerne l’interpretazione eccessivamente restrittiva data a quello della nozione di interesse pubblico in relazione a quello del danno causato al datore di lavoro, soprattutto alla luce del contesto che caratterizzava la vicenda.
La Corte ritiene che il giudice nazionale abbia errato nel ritenere che le dichiarazioni dei redditi diffuse dal ricorrente non rappresentavano «informazioni essenziali, nuove e precedentemente sconosciute», in quanto si cumulavano, senza nulla aggiungere alle informazioni già in possesso dell’opinione pubblica a seguito della precedente pubblicazione dei documenti pubblicizzati da A.D., con la conseguenza che il danno subito al datore di lavoro doveva ritenersi più rilevante dell’interesse generale.
E qui la Grande Camera fa il suo salto in avanti, affermando che «[a]lla luce delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene che l'esercizio di bilanciamento effettuato dai giudici nazionali non abbia soddisfatto i requisiti da essa individuati nel caso di specie (cfr. paragrafi 131-148 supra). Da un lato, la Corte d'appello ha dato un'interpretazione eccessivamente restrittiva dell'interesse pubblico delle informazioni divulgate (cfr. paragrafi 32 e 35). Allo stesso tempo, non ha incluso l'insieme degli effetti dannosi derivanti dalla divulgazione in questione sull'altro piatto della bilancia, ma si è concentrata unicamente sul danno subito dalla PwC. Nel ritenere che questo solo danno, la cui entità non è stata valutata in termini di attività o di reputazione di tale società, superasse l'interesse pubblico alle informazioni divulgate, senza considerare il danno causato anche agli interessi privati dei clienti della PwC e all'interesse pubblico alla prevenzione e alla repressione dei furti e al rispetto del segreto professionale, la Corte d'Appello non ha quindi tenuto sufficientemente conto, come era tenuta a fare, delle caratteristiche specifiche del caso di specie ».
Ne consegue che la circostanza che, al momento della pubblicazione da parte del signor Halet dei documenti di cui è causa, in Lussemburgo fosse notorio e ampiamente conosciuto sui media lo scandalo sulle pratiche di elusione e ottimizzazione fiscale delle società multinazionali, non costituisce elemento sufficiente a ridurre la rilevanza pubblica della loro divulgazione; il tutto senza contare la rilevanza, a livello nazionale ed europeo del dibattito pubblico concernente la gestione delle questioni fiscali delle multinazionali .
La Corte rileva infine come sia la stessa previsione e applicazione della sanzione penale, tenuto conto anche della sua gravità, che si aggiunge al licenziamento irrogato dalla società, stante l’effetto dissuasivo che ne deriva sulla libertà di espressione del ricorrente o di eventuali possibili futuri informatori, che porta ad escludere che la limitazione in discorso sia proporzionale rispetto allo scopo legittimo perseguito .
Considerati, in conclusione, il complessivo assetto degli interessi in gioco, , la Grande Camera conclude (dodici giudici contro cinque) che l’interferenza con il suo diritto alla libertà di espressione, in particolare con la libertà di diffondere informazioni, non può essere considerata «necessaria in una società democratica ». Condanna, inoltre, lo stato del Lussemburgo al risarcimento del danno e alla rifusione delle spese.
7. Le opinioni dissenzienti
Come si è cennato, cinque giudici hanno dissentito dalla decisione.
Tralasciamo qui la posizione del giudice Kjølbro, che si è limitato a prendere le distanze da due punti della sentenza e, precisamente dall’estensione della protezione concessa agli informatori nell’interesse pubblico « non solo (i.) alla "condotta illegale" (termine utilizzato nella sentenza Guja) o agli "atti illeciti" (termine utilizzato nella presente sentenza) e (ii. ) "illeciti" (termine usato nella sentenza Guja) o "atti riprovevoli" (termine usato nella presente sentenza), ma anche (iii.) "una questione che suscita un dibattito che dà luogo a controversie sull'esistenza o meno di un danno all'interesse pubblico"», astenendosi però dallo sviluppare le sue argomentazioni e limitandosi ad una «dichiarazione di voto».
Degne di attenzione si presentano invece le opinioni dissenzienti dei giudici Ravarani, Mourou-VIkström, Chanturia e Sabato, come vedremo ampiamente motivate.
Innanzi tutto, i giudici, che prendono atto della decisione della Grande camera di «affinare» e ampliare i criteri recepiti nella sentenza Guja, lamentano però l’estensione dei comportamenti datoriali che giustificano la concessione dell’immunità all’informatore da quelli già noti di «"atti, pratiche o comportamenti illeciti sul luogo di lavoro" e, dall'altro, "atti, pratiche o comportamenti che, pur essendo legali, sono riprovevoli" (si veda il paragrafo 137 della sentenza) a quelli, nuovi e consistenti in «talune informazioni che riguardano il funzionamento dei pubblici poteri in una società democratica e che suscitano un dibattito pubblico, dando luogo a controversie tali da creare un interesse legittimo da parte del pubblico a conoscere le informazioni al fine di pervenire a un'opinione informata sul fatto che esse rivelino o meno un pregiudizio per l'interesse pubblico" (cfr. punto 138 della sentenza), specificando al contempo che le informazioni possono riguardare anche la condotta di soggetti privati (cfr. punto 142 della sentenza)».
Vediamo sinteticamente le ragioni esposte nella articolata dichiarazione di dissenso.
Il nuovo criterio appare «assolutamente vago». Già tenendo conto che mentre è facile specificare comportamenti illegali, più difficile risulta precisare ciò che è legale ma riprovevole. Ancor più complesso sembra poi individuare «le informazioni che suscitano un dibattito pubblico». In tal modo, a detta dei giudici, viene meno la certezza del diritto.
In proposito, giudici sottolineano che la protezione offerta al whistleblower è molto forte poiché lo esenta dalla applicazione del diritto penale e, in ragione di questo risulta essenziale che la concessione di tale status sia soggetta a molta cautela e a criteri rigorosamente definiti.
Il dissenso, comunque, non riguarda la decisione finale - condivisa dai giudici, risultando evidente che il comportamento della società nel caso specifico è certamente ascrivibile a quello definibile come illegale o, comunque, certamente riprovevole - ma unicamente il punto evidenziato, posto che la sentenza Halet, sembra quindi avventurarsi in «terreno sconosciuto», con tutti i rischi che ne conseguono.
A ciò si aggiunge che, affinare i criteri significa, di fatto, modificarli e allora i nuovi criteri vanno applicati ai fatti e non, come invece ha fatto la Grande Camera, al ragionamento della Corte di appello, la quale ha applicato i precedenti criteri stabiliti nella sentenza Guja, «[d]a questo punto di vista, sarebbe stato più logico che la Grande Camera iniziasse immediatamente a condurre il proprio esercizio di bilanciamento per poi stabilire se, alla luce di tale esercizio, il risultato raggiunto dai giudici nazionali nell'applicazione dei vecchi criteri fosse ancora giustificato».
La sentenza, invece, sostituisce i nuovi criteri a quelli (correttamente) applicati dai giudici nazionali al momento della decisione, laddove, invece, sarebbe stato corretto un adeguamento temporale degli effetti delle sentenze della Corte, con la conseguenza che si è stabilita la violazione della convenzione nonostante la fedele applicazione da parte della Corte di appello della giurisprudenza della Corte (all’epoca vigente) , senza prevedere un periodo di applicazione successiva delle sentenze, come fatto dalla Corte di giustizia .
La sentenza viene poi criticata anche sul punto della valutazione dei fatti. Ad esempio, si sottolinea come il signor Halet sia stato indotto nel suo agire non tanto per amore di verità e legalità, bensì «[n]on sembra esagerato affermare, e questa è stata certamente l'opinione dei giudici nazionali, che il ricorrente desiderasse molto partecipare alle rivelazioni di Luxleaks, ma che non aveva molto da offrire; ha dovuto accontentarsi di consegnare al giornalista, che aveva bisogno di essere persuaso, delle dichiarazioni dei redditi che, secondo i giudici nazionali, non avevano "né contribuito al dibattito pubblico sulla pratica lussemburghese [degli ATA], [né] innescato un dibattito sull'evasione fiscale [né] fornito informazioni essenziali, nuove e precedentemente sconosciute"».
Quanto poi al fatto che le informazioni passate dal signor Halet si inserissero in un dibattito pubblico in corso, circostanza che viene valorizzata nella sentenza, i giudici dissenzienti osservano che la Corte di appello aveva fondato la sua valutazione di non concessione della tutela del whistleblowing anche su altri motivi, ovvero la divulgazione è avvenuta attraverso il furto di dati e la violazione del segreto professionale, non esaminati nella sentenza della Grande Camera.
Per quanto poi riguarda la severità della sanzione, i giudici osservano l’improprietà dell’effetto, definito «raggelante», sulla libertà di espressione del ricorrente e di altri possibili informatori, sottolineando che la condanna appariva invero più che ponderata rispetto alle pene edittali (da tre mesi a cinque anni) previste dall’ordinamento nazionale per qual reato e che, comunque, le circostanze del caso erano state considerate come ampie attenuanti nella determinazione della condanna. Né si può parlare di sanzione aggiuntiva al licenziamento comminato, posto che questo era più che giustificato dal danno arrecato all’azienda, come risulta del resto dal fatto che lo stesso Halet aveva concesso una ipoteca giudiziale di non poco conto in favore della società a garanzia dei danni arrecati.
8. Conclusioni.
La sentenza in commento non può che essere condivisibile sotto ogni punto di vista.
La Corte EDU pare avere tenuto conto e pienamente valorizzato lo strumento dell’informazione da parte dei soggetti che vengono a conoscenza di fatti illeciti o socialmente riprovevoli dei quali vengono a conoscenza in ragione del ruolo dagli stessi ricoperto nel sistema economico ove operano.
Non vi è dubbio che il bisogno di legalità che emerge nelle democrazie moderne necessiti assolutamente dell’implementazione di tutti gli strumenti, anche di controllo diffuso, che la articolata struttura sociale oggi consente.
La tutela degli informatori è essenziale, soprattutto in questo periodo storico nel quale la diffusione delle condotte illecite, frutto del riciclo di denaro delle organizzazioni criminali o dell’ingerenza di stati esteri (il caso Quatar all’europarlamento docet), senza contare la perdurante corruzione che affligge gran parte degli stati europei (il nostro in prima linea, come è noto).
Il revirement della Grande camera in merito alla proporzionalità appare pienamente giustificato dalla considerazione che l’apporto dei whistleblowers si aggiunge agli altri strumenti di controllo delle devianze gestiti dai singoli stati e dalle istituzioni europee e può fornire un importante contributo nella lotta contro le deviazioni e le illegalità, soprattutto in questo periodo storico caratterizzato dalla presenza di operatori multinazionali e, segnatamente di alcuni, nel mondo dei media, che possono importare determinanti influenze sull’opinione pubblica.
La possibilità di controllo fattivo da parte dei cittadini pare dunque, sotto tal profilo, di non poco importanza, consentendo al singolo che opera all’interno di detti soggetti di far venire alla luce comportamenti lesivi della collettività, ferma restando, ovviamente, la semplice attività di segnalazione agli organi competenti (alla quale deve ritenersi strettamente riferibile ogni altra azione diretta a supportarla con elementi probanti). O, occorrendo, anche ai media, nel malaugurato caso in cui questi ultimi si attardino ad intervenire o si verifichino connivenze o episodi di corruzione.
In proposito, non appare dunque fuori luogo la rilevanza che la Grande Camera ha dato al fatto che, al momento della divulgazione degli ulteriori documenti da parte di signor Halet fosse già in corso un dibattito sulla questione delle elusioni fiscali potesse essere sufficiente, essendo invece essenziale tenere sempre alto il livello di allarme rispetto ai comportamenti illegali e devianti dalla legge da parte di soggetti forti, pena la sfiducia che si crea nel vedere finire nel nulla la denuncia di un malaffare .
Certo, le preoccupazioni dei giudici dissenzienti non sono da sottovalutare, ma, anche volendo sorvolare su rilievi del tutto inappropriati , non si può non replicare che l’attività di segnalazione è comunque efficientemente monitorata dal controllo dei giudici, come dimostrano, proprio nel nostro paese, due recenti sentenze della Corte di cassazione che negano la protezione di whistleblowers a comportamenti rivelatisi caratterizzati da tutt’altre finalità .
Insomma, non sembra che lo strumento, aggiungendosi al sistema dei controlli incrociati con le integrazioni decise dalla Grande Camera della Corte EDU, possa costituire una situazione di criticità, risultano invece un utile strumento che completa e accompagna l’ordinato svolgersi dei rapporti sociali ed economici in una società democratica.

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