testo integrale con note e bibliografia

Il 10 maggio 2023 è stata approvata la Direttiva (UE) 2023/970 del Parlamento e del Consiglio del 10 maggio 2023 volta a rafforzare l’applicazione del principio di parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore attraverso la trasparenza retributiva e i relativi meccanismi di applicazione.
La Direttiva si innesta sulla Direttiva (CE) 2006/54 con l’obiettivo di rendere effettivo il principio di parità retributiva ivi enunciato.
La valutazione effettuata nel 2020 dalla Commissione anche alla luce del processo di consultazione degli SM, e confluita nella comunicazione del 5 marzo 2020 contente la strategia per la parità di genere 2020-2025, ha messo in evidenza un persistente e grave divario retributivo di genere nell’UE, che si attesta al 13%, con variazioni significative tra gli SM e ricadute sui livelli pensionistici.
Tale divario trova la sua causa in diversi fattori: persistere di stereotipi di genere, perdurare di forme di segregazione verticale e orizzontale, ineguale distribuzione fra uomini e donne delle responsabilità di assistenza familiare e parentale. A questi fattori si aggiunge un’altra criticità riferibile al lavoro femminile, niente affatto nuova, ma appalesatasi in tutta la sua gravità con la pandemia di COVID-19, vale a dire la sottovalutazione grave e strutturale dei lavori svolti prevalentemente dalle donne. Si tratta di lavori che riguardano la dimensione della cura delle persone – assistenza sanitaria, pulizie, assistenza all’infanzia, assistenza sociale e assistenza nelle strutture residenziali per anziani e adulti non autosufficienti – il cui valore straordinario per il benessere delle società è accompagnato paradossalmente da scarsa visibilità e scarso riconoscimento economico e sociale.
Alle menzionate ragioni generatrici di diseguaglianza si accompagnano tre criticità che riguardano gli strumenti finora introdotti per realizzare la parità di genere nel lavoro, vale a dire la mancanza di trasparenza nei sistemi retributivi, la mancanza di certezza giuridica sul concetto di lavoro di pari valore, gli ostacoli procedurali incontrati dalle vittime di discriminazione.
La Direttiva appena approvata interviene su questi aspetti, chiedendo agli SM di allestire alcune misure finalizzate ad annullare, o quanto meno a ridurre, il divario retributivo, contrastando le discriminazioni economiche dirette e indirette.
È interessante notare che la base giuridica sulla quale poggia l’atto normativo è rappresentata dall’art. 157, parr. 1 e 3, TFUE. Il par. 1 impone agli SM di assicurare il principio di parità di retribuzione tra lavoratori e lavoratrici per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore, mentre il par. 3 prevede l’adozione di misure che assicurino l’applicazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento tra uomini e donne anche in materia retributiva.
Non è, invece, richiamato il par. 2 che fornisce la definizione di retribuzione utile ai fini dell’attuazione del principio di parità di trattamento, di cui precisa poi il contenuto. La scelta lascia spazio a una ridefinizione della nozione di retribuzione, utile ai fini e per gli effetti della direttiva in esame, che secondo il Considerando n. 21 comprende non solo «i salari, gli stipendi o ogni altro vantaggio, pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore a motivo dell’impiego di quest’ultimo», ma alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia anche le «componenti complementari o variabili» (v. art. 3.1 lett. a) ossia tutte «le eventuali prestazioni che si aggiungono al salario o allo stipendio normale di base o minimo» ivi compresi «bonus, indennità per straordinari, servizi di trasporto, indennità di vitto e alloggio, compensazioni per la partecipazione a corsi di formazione, indennità di licenziamento, indennità di malattia previste dalla legge, indennità obbligatorie e pensioni aziendali o professionali (…) elementi di remunerazione dovuti per legge, in virtù di contratti collettivi e/o di prassi in vigore in ciascuno Stato membro». Si tratta di una scelta importante, dal momento che il divario retributivo fra uomini e donne, almeno in Italia, dipende spesso proprio da come sono distribuite e quantificate le voci accessorie della retribuzione.
La Direttiva trova applicazione nei confronti dei datori di lavoro del settore pubblico e privato e di tutti i lavoratori che hanno un contratto di lavoro o un rapporto di lavoro così come definito dalla legge, dai contratti collettivi o dalle prassi in vigore in ciascuno SM, alla luce del diritto vivente UE. Trova, altresì, applicazione nei confronti dei candidati all’impiego, ai quali si vuole garantire piena consapevolezza delle condizioni economiche di lavoro nella fase di trattativa, prima cioè della stipula del contratto o dell’inizio del rapporto.
Essa mira a contrastare ogni forma di discriminazione (come meglio precisato all’art. 3.2), anche ipotetica, legata al sesso, alla maternità e alla paternità. Per la prima volta si fa riferimento anche alla discriminazione intersezionale, che viene così definita: «discriminazione fondata su una combinazione di discriminazioni fondate sul sesso e su qualunque altro motivo di cui alla direttiva 2000/43/CE o alla direttiva 2000/78/CE» (art. 3.2. lett. e e Considerando n. 25) e che rientra espressamente nell’ambito di applicazione delle tutele previste nel Capo III (artt. 16.3 e 23.3).
Nell’articolato non viene, invece, codificato il riferimento contenuto nei Considerando n. 5 e 6 alle discriminazioni derivanti dal cambiamento di sesso (che, però, si può far ricadere nelle discriminazioni “basate sul sesso” a partire dalla decisione della Corte di Giustizia del 30 aprile 1996 C-13/94, caso P/S) e il riferimento all’appartenenza al “terzo genere”, già riconosciuto da quegli SM che superano lo schema binario e le cui relative norme interne sono, tuttavia, espressamente fatte salve.
Le discriminazioni avversate sono quelle che riguardano non solo lavoratori alle dipendenze dello stesso datore, ma anche lavoratori alle dipendenze di datori di lavoro diversi che svolgono un lavoro di uguale valore (art. 19).
La definizione di “stesso lavoro e lavoro di pari valore” è quella più delicata e, al contempo, importante per consentire alla Direttiva di conseguire l’obiettivo, a giudizio di chi scrive, più urgente e sfidante, rappresentato dalla restituzione di valore ai lavori più femminilizzati (un obiettivo la cui realizzazione al livello interno chiama in causa l’efficacia della contrattazione collettiva e la capacità del sindacato di rappresentare e difendere gli interessi delle lavoratrici).
A questo proposito, gli SM sono invitati ad adottare le misure necessarie per garantire agli organismi incaricati l’impiego di strumenti e metodologie adeguati a valutare e confrontare il valore del lavoro e ad adottare schemi di classificazione del personale neutri sotto il profilo del genere, capaci di sconfiggere stereotipi atavici radicati nel modello male-breadwinner/female-caregiver che assegna alle donne, nella dimensione privata e gratuita, l’assolvimento dei compiti di cura alla persona. In particolare, nei processi di classificazione del personale e di assegnazione del valore alle professioni, gli SM sono chiamati a prendere in considerazione non solo i requisiti e le conoscenze professionali necessarie a svolgere le mansioni assegnate, ma anche le competenze richieste in termini relazionali, l’impegno, le condizioni di lavoro. Per intendersi con un esempio, il valore dei lavori di assistenza alla persona è dato non solo dalle conoscenze professionali necessarie per curare la persona (to cure), ma anche dall’impegno e la competenza necessari a prendersi cura della persona (to care).
I Capi II, III e IV della Direttiva indicano le misure che gli SM devono adottare per assicurare la parità retributiva: misure che assicurino la trasparenza rispetto alle condizioni economiche e misure di tutela efficaci e deterrenti rispetto a ogni forma di discriminazione.
Il cuore dell’intervento è sicuramente rappresentato dalle misure a garanzia della trasparenza delle retribuzioni.
La trasparenza deve essere garantita già nella fase assuntiva, per assicurare ai candidati e alle candidate la possibilità di contrattare attivamente e con piena consapevolezza le condizioni di lavoro, peraltro in linea e a integrazione con quanto già disposto dall’art. 14 Direttiva (CE) 54/2006. Le informazioni riguardano, in particolare, la retribuzione e l’inquadramento iniziale, i relativi criteri di assegnazione e le fonti di regolazione (art. 5).
Nella fase di svolgimento del rapporto, i datori di lavoro devono rendere accessibili ai lavoratori i criteri utilizzati per la determinazione della retribuzione, i livelli retributivi e i criteri di progressione che devono essere, ça va sans dire, oggettivi e neutri sotto il profilo del genere (art. 6) e devono fornire le informazioni richieste dai lavoratori, anche tramite i loro rappresentanti o un organismo di parità, relative non solo al livello retributivo loro spettante, ma anche sui livelli retributivi medi, ripartiti per sesso, delle categorie di lavoratori che svolgono lo stesso lavoro o un lavoro di pari valore (art. 7).
La Direttiva impone poi alle imprese di grandi dimensioni (la soglia fissata è quella di 100 dipendenti) di fornire un rapporto annuale sul divario retributivo di genere, il cui contenuto è specificato nell’art. 8, la cui elaborazione presuppone il coinvolgimento delle parti sociali con una consultazione preventiva.
Il rapporto è indirizzato a un’autorità incaricata del monitoraggio dell’attuazione dei contenuti della direttiva (cd. “organismo di monitoraggio”), che può anche far parte di uno o più organismi o strutture esistenti (per esempio, per noi potrebbe essere la Consigliera Nazionale di Parità e/o il CNEL), cui è demandato anche il compito di sensibilizzazione sul tema della parità retributiva, di analizzare le cause del divario retributivo, rendere accessibili i dati raccolti, aggregare dati sulle controversie aventi a oggetto discriminazioni retributive, informazioni da trasmettere poi alla Commissione con cadenza biennale (art. 29).
La Direttiva assegna un ruolo attivo alle parti sociali e le responsabilizza rispetto al conseguimento degli obiettivi fissati. In particolare, gli SM sono chiamati a promuovere una contrattazione collettiva efficace dal punto di vista del contrasto alle forme di discriminazione e alla fissazione del valore dei lavori più femminilizzati (art. 13). Un monito di particolare importanza anche per il nostro paese, dove l’autorità salariale è la contrattazione collettiva. Le parti sociali, inoltre, devono essere coinvolte nei processi datoriali di valutazione delle retribuzioni, nell’ottica di individuare, correggere e prevenire le differenze retributive non giustificate da motivi oggettivi e neutri (art. 10).
Il Capo III della Direttiva è dedicato alle misure a garanzia della effettività del diritto alla parità retributiva.
Si invitano gli SM a consentire e agevolare l’azionabilità in giudizio del diritto alla parità di retribuzione, direttamente da parte dei lavoratori interessati o per il tramite di soggetti che a vario titolo ne rappresentano gli interessi anche in forma collettiva. Il ricorso deve comunque riguardare una posizione individuale e riferirsi a una presunta violazione del diritto alla parità retributiva.
Al fine di agevolare la parte ricorrente, e in analogia con quanto già previsto dall’art. 19 della Direttiva (CE) 54/2006, l’art. 18 dispone un alleggerimento dell’onere della prova, chiedendo al lavoratore di fondare la propria azione giudiziale su presunzioni e assegnando al datore l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione diretta o indiretta.
Nel caso in cui, però, sia dimostrato che il datore di lavoro non ha ottemperato agli obblighi in materia di trasparenza retributiva, l’onere della prova viene invertito del tutto e posto interamente a carico del datore di lavoro.
Particolarmente rilevante ai fini della prova della discriminazione è la previsione relativa all’elemento di comparazione. Al di là delle ribadite e ormai ben note tecniche di ricorso alla comparazione con una situazione ipotetica e all’impiego di dati statistici (art. 19.3), l’art. 19 prevede, infatti, che la comparazione possa essere compiuta avendo a riferimento «la fonte unica che stabilisce le condizioni retributive» ossia «quella che stabilisce gli elementi di retribuzione pertinenti per il confronto con i lavoratori», nel nostro caso il contratto collettivo (art. 19.1). La comparazione, inoltre, può avvenire avendo a riferimento lavoratori che sono stati impiegati anche in passato presso il datore di lavoro per lo svolgimento di un certo lavoro (art. 19.2).
Per facilitare l’azionabilità del diritto si prevede, infine, da un lato che il datore di lavoro sia tenuto a divulgare ogni informazione utile a istruire la causa (ferma restando la tutela dei dati sensibili; art. 20), dall’altro che gli SM possano prevedere l’esclusione dell’accollo delle spese di causa al lavoratore soccombente che abbia ragionevoli motivi per presentare il ricorso (art. 22), così da evitare che il rischio di dover sostenere costi anche ingenti possa scoraggiare l’affermazione delle proprie ragioni.
Gli effetti della Direttiva si estendono fino a toccare gli appalti pubblici e le concessioni, nell’ambito dei quali devono essere previste misure capaci di assicurare la parità di trattamento retributiva, anche attraverso l’esclusione dalle gare di coloro che non garantiscono la trasparenza dei trattamenti economici o che presentano un divario retributivo superiore al 5% non motivato da ragioni oggettive e neutre sotto il profilo del genere (art. 24). Si tratta di una previsione molto significativa perché tocca un settore nel quale è in generale alto il rischio dell’abbassamento delle tutele, e dunque a maggior ragione è alto il rischio che lì si annidino forme resistenti di discriminazioni di genere.
A garanzia dell’effettività delle misure fin qui menzionate, la Direttiva impone agli SM l’adozione di un adeguato apparato sanzionatorio, proporzionato e dissuasivo, che colpisca i datori di lavoro che perpetrano trattamenti discriminatori o che pongano in essere comportamenti ritorsivi nei confronti di lavoratori e lavoratrici che rivendichino la parità di trattamento retributiva (art. 25). Impone, inoltre, agli SM di prevedere misure restitutorie e riparatorie da applicare nei confronti dei lavoratori e delle lavoratrici che abbiano subito un trattamento discriminatorio, capaci di risarcire il danno patrimoniale e non patrimoniale subito, compreso quello da perdita di chance, senza che possa essere fissato un massimale (art. 16).
Chiudono la Direttiva la clausola di non regresso (art. 27), l’indicazione del termine di recepimento fissato al 7 giugno 2026 (art. 34) e la previsione a carico degli SM di un obbligo di comunicazione alla Commissione della valutazione d’impatto del recepimento della Direttiva, nell’ottica di raccogliere le informazioni necessarie a presentare al Parlamento europeo e alla Consiglio una relazione sull’attuazione della direttiva stessa entro il termine del 7 giugno 2033 (art. 35).

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