testo integrale con note e bibliografia
Sent. della Corte cost n.15 del 2024
1. Le questioni sottoposte alla Corte.
La sentenza n. 15 del 2024 inserisce un nuovo e importante tassello al mosaico dei rapporti tra giudice comune, Corte di giustizia e Corte costituzionale, al contempo offrendo un significativo contributo alla ricostruzione delle tutele attivabili nel quadro del giudizio antidiscriminatorio ex art. 28 d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150 .
La pronuncia origina da due cause “gemelle”, a loro volta parte di un contenzioso seriale sviluppatosi innanzi ai tribunali friulani e relativo all’erogazione del contributo per l’acquisto dell’alloggio da destinare a prima casa di abitazione, previsto dall’art. 15, comma 1, lettera c), e dall’art. 18 della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 19 febbraio 2016, n. 1 .
Tale contributo è accordato ai soggetti che non siano «proprietari neppure della nuda proprietà di altri alloggi, all’interno del territorio nazionale o all’estero, purché non dichiarati inagibili», con esclusione di alcune specifiche fattispecie (art. 29, comma 1, lettera d).
Le modalità di documentazione del requisito della c.d. impossidenza planetaria erano però differenti per i cittadini italiani e di Stati Ue da un lato, e per i cittadini di Stati terzi dall’altro: il comma 1-bis del citato art. 29, stabiliva infatti, solo per questi ultimi , l’obbligo di presentare, ai sensi degli artt. 3, comma 4, d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 e 2, d.P.R. 31 agosto 1999, n. 394, «la documentazione attestante che tutti i componenti del nucleo familiare non sono proprietari di altri alloggi nel paese di origine e nel paese di provenienza», laddove per i cittadini italiani e Ue era sufficiente l’autocertificazione. La previsione di legge era stata riprodotta dall’art. 12, comma 3-bis, del regolamento regionale n. 0144 del 2016 e poi dall’art. 9, comma 3, del regolamento regionale n. 66 del 2020.
Tale disparità di trattamento era stata contestata con diverse azioni antidiscriminatorie ex artt. 44, comma 1, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 e 28 d.lgs. n. 150 del 2011, nelle quali cittadini extra-Ue e l’ Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI, legittimata ex art. 5 d.lgs.9 luglio 2003, n. 215) avevano chiesto, oltre all’accertamento della discriminatorietà del requisito e alla valutazione della posizione dei ricorrenti per la concessione del contributo – previa disapplicazione dei pertinenti atti normativi e regolamentari per contrarietà al diritto Ue, o promovimento di incidente di costituzionalità dell’art. 29 l.r. n. 1 del 2016 – anche l’emissione di ordini giudiziali di modifica dei regolamenti regionali in questione e la condanna della Regione al pagamento delle astreintes di cui all’art. 614-bis cod. proc. civ.
Due di questi giudizi antidiscriminatori sono approdati alla Corte costituzionale, con modalità e per motivi in parte diversi.
Nel primo giudizio, il Tribunale di Udine aveva accolto le domande dei ricorrenti, disapplicando – per ritenuto contrasto con l’art. 11 della direttiva 2003/109/CE – dell’art. 29, comma 1-bis, l.r. n. 1 del 2016 e dell’art. 12, comma 3-bis, del regolamento regionale di attuazione, ordinando altresì alla Regione di modificare in parte qua il regolamento medesimo, eliminando le modalità aggiuntive di attestazione del requisito dell’impossidenza, previste per i soli cittadini di Stati terzi.
L’ordinanza del Tribunale era stata impugnata innanzi alla Corte costituzionale dalla Regione Friuli Venezia Giulia con ricorso per conflitto di attribuzione tra enti (art. 39 l. 11 marzo 1953, n. 87), nella parte in cui ordinava la modifica del regolamento regionale, disponendo il pagamento di astreintes in caso di mancata esecuzione dell’ordine, per ritenuta invasione della potestà regionale in materia legislativa e regolamentare. La Regione, pur non contestando la sussistenza del potere del giudice di disapplicare, nel singolo caso concreto, le norme legislative e regolamentari regionali, deduceva in via principale l’insussistenza del potere di ordinare la modifica di un atto regolamentare di portata generale; e, in via subordinata, l’impossibilità di ordinare tale modifica senza prima denunciare innanzi alla Corte costituzionale l’art. 29, comma-bis, l.r. n. 1 del 2016, che il regolamento in questione riproduceva.
Nel secondo giudizio, a fronte di domande sostanzialmente identiche, il Tribunale di Udine aveva proceduto diversamente. Esso aveva sì accertato il carattere discriminatorio del comportamento della Regione e disapplicato – sempre per contrasto con l’art. 11 della direttiva 2003/109/CE – gli art. 29, comma 1-bis, l.r. n. 1 del 2016, e 9, commi 3 e 3-bis, del regolamento regionale n. 66 del 2020, ordinando la valutazione in graduatoria della posizione dei ricorrenti al fine dell’assegnazione del contributo. Il giudice aveva però escluso di poter ordinare alla Regione la modifica delle disposizioni regolamentari fonte dell’accertata discriminazione, in quanto sostanzialmente riproduttive della disposizione legislativa, che avrebbe dovuto essere previamente rimossa dall’ordinamento.
Di qui, la decisione di sollevare questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, Cost. – quest’ultimo in relazione all’art. 11 della direttiva 2003/109/CE – del più volte ricordato art. 29, comma 1-bis, l.r. n. 1 del 2016, nella parte in cui prevedeva che i cittadini extra UE, ai fini della dimostrazione del requisito dell’impossidenza di altri alloggi, dovessero presentare la documentazione attestante che tutti i componenti del nucleo familiare non sono proprietari di altri alloggi nel Paese di origine e nel Paese di provenienza con modalità diverse rispetto a quelle utilizzabili dai cittadini italiani e UE.
In disparte il diverso tipo di giudizio costituzionale – giudizio sul conflitto di attribuzione tra enti in un caso, giudizio incidentale di legittimità costituzionale nell’altro – il tema sotteso alle due cause era dunque comune e riguardava la possibilità per il giudice ordinario, nell’ambito del giudizio antidiscriminatorio di cui all’art. 28 d.lgs. n. 150 del 2011, di ordinare la modifica di norme regolamentari di portata generale.
3. La decisione.
Sgombrato il campo dalle eccezioni preliminari delle parti , la Corte ha anzitutto rammentato – in consonanza con la giurisprudenza di legittimità: v. Cass. civ., Sez. U, ordinanza n. 7186 del 30/03/2011 – che l’azione ex artt. 44 d.lgs. n. 286 del 1998 e 28 d.lgs. n. 150 del 2011 (ma il discorso vale anche per le altre azioni antidiscriminatorie soggette al rito dell’art. 28 ) appronta una tutela particolarmente incisiva del diritto a non subire discriminazioni, articolata in un «concorso di rimedi». Questi comprendono non solo la tutela risarcitoria e l’ordine di cessazione delle condotte o atti discriminatori, ma anche l’adozione – nei confronti dei privati o della pubblica amministrazione – di «ogni altro provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti», incluso l’ordine di adottare «un piano di rimozione delle discriminazioni accertate» (art. 28 d.lgs. n. 150 del 2011).
La Corte ha ritenuto che in quest’ultima, ampia dizione rientri anche il potere del giudice di ordinare la rimozione di norme regolamentari di portata generale. Ciò in quanto, a fronte di una discriminazione originata non da un puntuale provvedimento amministrativo, ma da un atto destinato a essere applicato un numero indefinito di volte, l’unico modo per efficacemente impedire la ripetizione della discriminazione è l’ordine di rimozione della norma regolamentare.
La Corte ha tuttavia aggiunto che, quando la norma regolamentare sia riproduttiva di una norma legislativa – e dunque la discriminazione scaturisca dalla legge – il giudice non può tout court ordinare la modifica della prima, poiché così facendo ordinerebbe alla pubblica amministrazione di adottare atti regolamentari confliggenti con la legge non rimossa, in contrasto con i principi di legalità (art. 97 Cost.) e di supremazia della legge regionale sul regolamento regionale (art. 117, sesto comma, Cost.). In questa specifica ipotesi, l’esercizio del potere del giudice è subordinato al promovimento della questione di legittimità costituzionale della norma di legge alla base di quella regolamentare.
Così delineati in generale i contorni del potere di ordinare la modifica di regolamenti nel contesto dell’art. 28, la Corte ha analizzato l’interazione di tale meccanismo con i principi del primato e dell’effetto diretto del diritto dell’Unione: assai opportunamente, perché la materia del diritto antidiscriminatorio interseca in larga parte il diritto Ue, come emblematicamente dimostrano i giudizi innanzi al Tribunale di Udine .
Secondo la Corte, tale interazione avviene attraverso un procedimento bifasico, legato alla struttura del giudizio ex art. 28 d.lgs. n. 150 del 2011: il giudice che accerti la discriminatorietà di atti normativi o regolamentari contrari a obblighi unionali di parità di trattamento potrà immediatamente disapplicare tali atti e ordinare la cessazione della discriminazione, così dando piena e immediata attuazione al diritto Ue e attribuendo il bene della vita ai ricorrenti; ove egli intenda altresì ordinare la modifica delle norme regolamentari generali e astratte all’origine della discriminazione (con effetti anche pro futuro e su casi diversi da quello al suo esame), dovrà sollevare questione di legittimità costituzionale della norma di legge che costituisce la fonte di quella regolamentare, onde conseguirne la rimozione con effetti erga omnes.
Sulla base di tali premesse, la Corte ha anzitutto concluso, nel giudizio sul conflitto tra enti, che non spettava al Tribunale di Udine ordinare la rimozione dell’art. 12, comma 3-bis, del regolamento regionale n. 0144 del 2016, senza prima aver sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 29, comma 1-bis, l.r. n. 1 del 2016; né condannare l’amministrazione al pagamento di astreintes ex art. 614-bis cod. proc. civ. in caso di non esecuzione dell’ordine in questione, e ha dunque annullato l’ordinanza del Tribunale di Udine in parte qua, in accoglimento della domanda subordinata formulata dalla Regione ricorrente.
Specularmente, la Corte ha avallato il modus procedendi del Tribunale di Udine nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale dell’art. 29, comma 1-bis, evidenziando la rilevanza (e dunque l’ammissibilità) delle questioni sollevate, ancorché il rimettente avesse già fatto diretta applicazione dell’art. 11 della direttiva 2003/109/CE, condannando la pubblica amministrazione alla cessazione della condotta discriminatoria e ordinando che le domande dei ricorrenti per la concessione del contributo regionale fossero valutate sulla base della stessa documentazione richiesta ai cittadini italiani e Ue. L’incidente di costituzionalità era infatti specificamente funzionale all’accoglimento dell’ulteriore domanda dei ricorrenti, volta a ottenere un ordine giudiziale di modifica del regolamento regionale n. 066 del 2020, e dunque all’esercizio del «potere di rimuovere il fattore genetico della discriminazione».
Nel merito, poi, la Corte ha avuto facile gioco ad accogliere le questioni sollevate nel giudizio incidentale, richiamando un precedente (sentenza n. 9 del 2021) relativo ad analoga normativa di un’altra Regione ed osservando che il censurato art. 29, comma 1-bis era:
- irragionevole, atteso che, rispetto all’obiettivo del legislatore regionale di garantire il diritto all’abitazione come fattore d’inclusione, il possesso da parte di uno dei componenti del nucleo familiare del richiedente di un alloggio adeguato nel Paese di origine o di provenienza appariva del tutto irrilevante, non essendo indicativo né del bisogno di un alloggio in Italia, né della situazione patrimoniale del richiedente, peraltro già presa in considerazione in forza di altro comma dell’art. 29;
- discriminatorio, poiché da un lato le difficoltà di verifica del possesso di alloggi in Paesi extraeuropei possono riguardare anche cittadini italiani o di altri Paesi Ue; dall’altro lato l’obbligo di produzioni documentali si traduceva in un aggravio procedimentale posto a carico dei soli cittadini extra-Ue;
- contrario all’art. 11, par. 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE, letto alla luce dell’art. 34 Cdfue, perché impediva ai cittadini extra-Ue soggiornanti di lungo periodo – come erano i ricorrenti nel giudizio a quo – di «ricevere le prestazioni sociali alle stesse condizioni previste per i cittadini dello Stato membro».
Di qui, la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 29, comma 1-bis, l.r. n. 1 del 2016, nella parte in cui stabiliva che la documentazione comprovante il requisito della c.d. impossidenza planetaria dovesse essere presentata dai cittadini-extra Ue lungosoggiornanti con modalità diverse rispetto a quelle utilizzabili dai cittadini italiani e dell’Unione europea.
3. La sentenza nel contesto.
La pronuncia in commento si colloca nel contesto della nuova “stagione” della giurisprudenza costituzionale inaugurata dal celeberrimo obiter dictum della sentenza n. 269 del 2017, pur distinguendosene per diversi aspetti, legati alle peculiarità del giudizio ex art. 28 d.lgs. n. 150 del 2011.
3.1. La giurisprudenza costituzionale post sentenza n. 269 del 2017.
Come noto, l’attuale giurisprudenza costituzionale ha superato l’orientamento “Granital” (espresso nella sentenza n. 170 del 1984), secondo cui dovevano considerarsi inammissibili, perché prive di rilevanza, le questioni di legittimità costituzionale che denunciassero il contrasto tra norme interne e norme comunitarie (poi dell’Unione) direttamente applicabili, potendo il giudice applicare direttamente – previa eventuale interlocuzione con la Corte di giustizia – la norma comunitaria/unionale «in luogo» di quella nazionale .
Secondo la “nuova” giurisprudenza – elaborata in relazione ai casi in cui una norma interna sia contraria a un diritto garantito sia dalla Costituzione, sia dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, o comunque a «una norma europea dal contenuto costituzionale» (c.d. doppia pregiudizialità) – l’effetto diretto dei diritti riconosciuti dalla Carta (e dalle norme unionali attuative di tali diritti) non rende inammissibili le questioni di legittimità costituzionale che denuncino il contrasto tra una disposizione di legge nazionale e quei medesimi diritti, i quali intersecano in larga misura i principi e i diritti garantiti dalla stessa Costituzione italiana. Questioni siffatte, una volta sollevate, sono invece scrutinabili nel merito dalla Corte, che, previo eventuale rinvio pregiudiziale ex art. 267 Tfue alla Corte di giustizia, può dichiarare, con effetti erga omnes, l’illegittimità costituzionale delle disposizioni che risultassero contrarie alla Carta, in forza degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. (sentenze n. 20 e n. 63/2019, n. 11, n. 44 e n. 254/2020; n. 54 e n. 149 del 2022) .
Si tratta di una svolta giurisprudenziale comunemente ritenuta espressiva di un intento “riaccentratore” della Corte costituzionale, volto ad «assicurare che i diritti garantiti dalla […] Carta dei diritti siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali» (sentenza n. 269 del 2017), ma finora basata su un approccio più persuasivo che autoritativo.
La Corte ha infatti precisato (sentenza n. 63 del 2019) che, in fattispecie di doppia pregiudizialità, il promovimento dell’incidente di legittimità costituzionale risulta «opportuno» e non obbligatorio; e che il giudice comune resta libero, anche dopo il giudizio di legittimità costituzionale, di proporre rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, in relazione anche ai profili già oggetto del giudizio di costituzionalità, nonché soggetto al dovere di disapplicare – ricorrendone i presupposti – le disposizioni interne che si pongano in contrasto con i diritti garantiti dalla Carta (ibidem) .
L’incidente di costituzionalità è dunque un rimedio «non si sostituisce, ma si aggiunge a quello rappresentato dalla disapplicazione nel singolo caso concreto, da parte del giudice comune, della disposizione contraria a una norma della Carta avente effetto diretto» (sentenza n. 149 del 2022). In quest’ottica, il “vantaggio” della rimessione alla Corte costituzionale è il diverso e più incisivo effetto della declaratoria incostituzionalità di una norma, che, a differenza della disapplicazione nel singolo caso, ha effetti erga omnes e assicura al diritto fondamentale leso «una tutela certa e uniforme nell’intero ordinamento» (sentenza n. 149 del 2022).
3.2. Le precisazioni apportate dalla sentenza n. 15 del 2024.
Rispetto a questo quadro, parzialmente diversi sono i presupposti e le modalità operative dell’incidente di costituzionalità, prefigurati dalla sentenza n. 15 del 2024.
La Corte costituzionale sembra infatti anzitutto delineare non una mera facoltà (come nelle sentenze poc’anzi ricordate), ma un vero e proprio obbligo di promuovere l’incidente di costituzionalità per il giudice che, nel giudizio ex art. 28 d.lgs. n. 150 del 2011 voglia ordinare alla pubblica amministrazione la modifica di una norma regolamentare riproduttiva di una norma di legge.
La Corte non si limita infatti a riproporre l’argomento, già speso nelle precedenti pronunce, del «surplus di garanzia al primato del diritto dell’Unione europea, sotto il profilo della certezza e della sua uniforme applicazione», che offre, rispetto alla disapplicazione, la dichiarazione d’illegittimità costituzionale della norma discriminatoria, che ne comporta la rimozione definitiva dall’ordinamento, ed evita che altri giudici e la stessa pubblica amministrazione possano, in base a una diversa valutazione di compatibilità con il diritto dell’Unione, continuare ad applicarla (punto 8.2. della sentenza) . Essa significativamente afferma che sono «tanto l’ordinato funzionamento del sistema delle fonti interne – e, nello specifico, i rapporti tra legge e regolamento regionali, anche in relazione al diritto dell’Unione europea – quanto l’esigenza che i piani di rimozione della discriminazione siano efficaci a richiedere [corsivo aggiunto] che il giudice ordinario, se correttamente intenda ordinare la rimozione di una norma regolamentare al fine di evitare il riprodursi della discriminazione de futuro, sollevi questione di legittimità costituzionale sulla norma legislativa sostanzialmente riprodotta dall’atto regolamentare, anche dopo che si sia accertata l’incompatibilità di dette norme interne con norme di diritto dell’Unione europea aventi efficacia diretta» (punto 7.3.3. della sentenza). Il giudice ordinario quindi sembra, in questa particolare ipotesi, tenuto a esperire l’incidente di costituzionalità.
In secondo luogo, nello schema delle sentenze precedenti, incentrate sul binomio disapplicazione-incidente di costituzionalità, era evidente che il giudice comune in tanto avrebbe potuto adire la Corte costituzionale, in quanto avesse previamente disapplicato la norma censurata solo in via cautelare e interinale (restando infatti irrilevante la questione di legittimità costituzionale, ove il potere di disapplicazione fosse stato esercitato, in via definitiva e non solo cautelare, prima del promovimento della questione stessa ). Nell’iter procedimentale delineato dalla sentenza n. 15 del 2024, invece, il giudice può già disapplicare definitivamente la norma di legge discriminatoria, con «attribuzione immediata del bene della vita negato sulla base dell’accertata discriminazione» (punto 7.3.3.), per poi promuovere l’incidente di costituzionalità per rimuovere la norma dall’ordinamento .
Tali significative differenze rispetto alla giurisprudenza precedente post sentenza n. 269 non paiono frutto di un revirement, ma sembrano dover essere lette in relazione alle peculiari caratteristiche – su cui la sentenza n. 15 insiste – del giudizio antidiscriminatorio ex art. 28 d.lgs. n. 150 del 2011. In particolare, l’inedita ricostruzione del procedimento ex art. 28 come giudizio a struttura “bifasica” – articolato in una prima fase rimediale a beneficio del soggetto concretamente discriminato, e in una seconda fase “preventiva”, volta a evitare la reiterazione della condotta discriminatoria rispetto ad altre potenziali vittime – consente di far coesistere, nel contesto dell’art. 28, diretta applicazione del diritto dell’Unione (nella prima fase) e promovimento dell’incidente di costituzionalità (nella seconda fase) .
La considerazione chiave che sembra avere mosso la Corte è quella per cui gli strumenti offerti al giudice dall’art. 28 non sono solo quelli “classici” di interpretazione delle norme e disapplicazione delle stesse in caso di contrasto con previsioni del diritto Ue direttamente applicabili, ma includono un quid pluris, costituito dall’ordine di adozione del piano di rimozione delle discriminazioni. Quest’ultimo, in effetti, è un rimedio che, a differenza della disapplicazione, trascende il caso sub iudice («[a]l fine di impedire la ripetizione della discriminazione») e, ove si concreti in un ordine di modifica di norme regolamentari generali e astratte, ha effetti erga omnes, per un certo verso simili al potere del giudice amministrativo di annullare l’atto regolamentare illegittimo.
Proprio tale effetto erga omnes sembra giustificare la soluzione della Corte, secondo cui il giudice ordinario può esercitare autonomamente il potere di ordinare modifiche della fonte regolamentare se questa disponga praeter legem, ma deve richiedere il previo intervento della Corte costituzionale ove la fonte secondaria disponga secundum legem. Detto coinvolgimento – nella prospettiva della Corte – si rende necessario perché altrimenti, nella seconda ipotesi, l’autorità giudiziaria costringerebbe (nel caso di specie, a pena del pagamento di astreintes) l’amministrazione a emanare un atto contra legem (cioè contrario alla legge discriminatoria, ma vigente finché non rimossa, ancorché disapplicata nel singolo caso concreto), in contrasto con i criteri di gerarchia tra legge e regolamento (punto 7.3.3. della sentenza). Si potrebbe altresì aggiungere che, nel caso di specie, la discriminazione da rimuovere con effetti erga omnes trova la propria fonte nella legge, su cui il giudice non potrebbe incidere con effetti generali (cioè non limitati al caso concreto), spettando tale potere alla Corte costituzionale.
Siccome poi l’intervento della Corte costituzionale è funzionale a consentire al giudice (non di disapplicare le norme legislative e regolamentari contrastanti con il diritto Ue, ciò che può già fare, ma) di accordare una tutela ulteriore e con effetti erga omnes, si comprende perché la Corte, in questo caso, ammetta la proposizione dell’incidente di costituzionalità anche dopo la disapplicazione, in via definitiva, delle norme contrastanti con il diritto dell’Unione. Le questioni così sollevate non sembrano difettare del requisito della rilevanza , richiesto dall’art. 27 l. n. 87 del 1953, per essere già stato accordato agli interessati il bene della vita. Esse restano infatti pregiudiziali all’accoglimento dell’ulteriore domanda di emissione dell’ordine di modifica della fonte regolamentare discriminatoria (che concreta quel «piano di rimozione delle discriminazioni accertate» contemplato dall’art. 28 d.lgs. n. 150 del 2011).
In definitiva, pare che le soluzioni cui è pervenuta la sentenza n. 15 del 2024 non preludano a un superamento della giurisprudenza “post 269”, ma si giustifichino alla luce delle peculiarità della fattispecie, ove veniva in considerazione lo speciale potere di adozione del rimedio erga omnes previsto in materia antidiscriminatoria dall’art. 28.
Tale peculiarità sembrano atte a distinguere il caso di specie non solo da quelli oggetto delle precedenti pronunce poc’anzi ricordate , ma – probabilmente – anche da fattispecie “parallele” che possano presentarsi al giudice amministrativo (il quale, come nota la stessa Corte al punto 6.2. della sentenza n. 15, pure potrebbe conoscere di atti amministrativi discriminatori e «procedere all’annullamento degli stessi, con l’efficacia erga omnes che gli è propria») .
Ci si può infatti chiedere se il giudice amministrativo, richiesto di annullare un regolamento che dispone in conformità con una legge regionale, a sua volta però contraria a previsioni di diritto dell’Unione direttamente applicabili, debba previamente denunciare la legge alla Corte costituzionale. Se si valorizza il passaggio della sentenza n. 15, secondo cui l’incidente di costituzionalità sarebbe funzionale a preservare «l’ordinato funzionamento del sistema delle fonti interne – e, nello specifico, i rapporti tra legge e regolamento regionali, anche in relazione al diritto dell’Unione europea», si potrebbe immaginare che anche il giudice amministrativo debba sollevare incidente di costituzionalità della legge contraria al diritto dell’Unione, su cui si fondi un regolamento da annullare. La risposta al quesito potrebbe però in realtà essere negativa, in considerazione della differente articolazione dei poteri del giudice ordinario nel giudizio ex art. 28, rispetto a quelli del giudice amministrativo. Il primo è un potere eccezionalmente attribuito dal legislatore, di ordinare un facere ben preciso alla pubblica amministrazione; il secondo è un potere generale di annullamento di atti, che lascia intatta la prerogativa della pubblica amministrazione di riesercitare il proprio potere regolamentare. Potrebbe dunque concludersi che solo rispetto alla prima situazione – in cui la pubblica amministrazione viene condannata a provvedere in difformità della legge – si giustifichi un obbligo di adire previamente la Corte costituzionale .
4. Considerazioni conclusive.
La sentenza n. 15 del 2024 costituisce un’altra tappa nel percorso di costruzione del sistema di integrato di tutela dei diritti fondamentali (tra cui quello alla parità di trattamento), che vede impegnati, nell’ambito delle rispettive competenze, giudici comuni, Corte costituzionale e Corte di giustizia.
Si tratta di un percorso che sottrae ai giudici comuni la propria funzione di garantire – anche quali giudici del diritto dell’Unione – tutela giurisdizionale diretta e immediata ai diritti dei singoli, specie nella delicata materia della garanzia della parità di trattamento e dei divieti di discriminazione?
Sembra di poter rispondere in senso negativo, per tre ordini di ragioni.
Come già detto, il promovimento della questione di legittimità costituzionale è uno strumento parallelo a quello della disapplicazione delle norme interne contrastanti con quelle unionali direttamente applicabili. Nulla preclude, dunque, al giudice che sollevi questione di legittimità costituzionale di disapplicare in via cautelare (o anche in via definitiva, nello speciale caso oggetto della sentenza n. 15) la norma interna contrastante con quella europea, garantendo così una tutela interinale immediata delle posizioni giuridiche dei singoli.
In secondo luogo, il pendant del “nuovo corso” della giurisprudenza “riaccentratore” della Corte costituzionale è una crescente disponibilità di quest’ultima a “farsi carico” dell’attenta considerazione della portata e degli effetti del diritto dell’Unione, anche chiarendone il significato attraverso il rinvio pregiudiziale ex art. 267 Tfue. Rinvio che è stato esperito proprio in riferimento a fattispecie relative all’accesso a prestazioni previdenziali e assistenziali, quali il c.d. bonus bebè (ordinanza n. 182 del 2021) e l’assegno sociale (ordinanza n. 29 del 2024).
Questa disponibilità, unita alla ormai contenuta durata del processo costituzionale , comporta la possibilità di ottenere in tempi piuttosto brevi la rimozione definitiva dall’ordinamento di norme discriminatorie, evitando che, a dispetto di orientamenti giurisprudenziali anche maggioritari, le amministrazioni pubbliche perseverino nel dare applicazione a norme già più volte disapplicate in sede giudiziaria.
In terzo luogo, l’“arsenale” di tutele a disposizione della Corte costituzionale è più ampio di quello del giudice comune, non solo per la prerogativa di adottare decisioni con effetti erga omnes, ma anche per la possibilità, di vagliare la normativa interna al metro sia degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., e delle norme unionali interposte, sia dei parametri costituzionali “interni” . Nella materia dei divieti di discriminazione, in particolare, l’art. 3 Cost., suscettibile di applicarsi sia congiuntamente alle norme di diritto Ue, sia da solo, in situazioni non regolate dal diritto dell’Unione, costituisce un potente strumento di scrutinio della ragionevolezza e proporzionalità di misure limitative dell’accesso a diritti sociali, come dimostra la ormai corposa giurisprudenza della Corte in tema di prestazioni di natura sociale, a partire dalle pronunce dei primi anni duemila, fino ad arrivare alle recentissime sentenze n. 77 del 2023 e n. 42 del 2024.
Insomma, promuovere l’incidente di costituzionalità è una scelta che non solo non va a detrimento dell’effettività della tutela dei diritti, ma in un’ottica di sistema contribuisce ad accrescerla. Senza contare poi che, come è stato recentemente ricordato, «[s]ollevare una questione di legittimità non è di certo una funzione minore. Anzi […] appartiene alle più belle pagine della giurisprudenza costituzionale, la spinta proveniente, fin dai primi anni, da quelle ordinanze di rimessione [dei] celeberrimi “Pretori” […] che hanno portato alle tante conquiste di civiltà giuridica del nostro Paese» .