testo integrale con note e bibliografia
Sent- CGUE dell’11 sett 2025 nella causa C-38/24
Premessa
Nel numero 3 del 2024 di questa Rivista sono stati affrontati i temi della tutela dei lavoratori disabili e della tutela del lavoratore caregiver di familiare affetto da grave disabilità .
Nella disamina del primo tema, l’attenzione si è concentrata sull’interrogativo se nella legislazione nazionale regolante la materia siano riscontrabili profili di discriminazione indiretta in danno di lavoratori disabili, alla luce dell’articolo 2, lettera b, della Direttiva 2000/78/CE, recante il “quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro”, ai cui sensi “sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio” le persone portatrici di handicap,1.
Al riguardo è stata richiamata, innanzi tutto, la sentenza della Corte di Cassazione n. 9095, pubblicata il 31 marzo 2023, con la quale era stato affermato che “quel che rileva è l’approdo interpretativo necessitato dalla normativa europea trasposta in quella domestica, secondo il quale il rischio aggiuntivo di essere assente dal lavoro per malattia di un lavoratore disabile deve essere tenuto in conto nell’assetto dei rispettivi diritti e obblighi in materia, con la conseguenza che la sua obliterazione in concreto, mediante applicazione del periodo di comporto breve come per i lavoratori non disabili, costituisce condotta datoriale indirettamente discriminatoria e perciò vietata”.
Con due sentenze pressoché contemporanee la Corte di Cassazione ha poi affermato che, in caso di licenziamento di lavoratore disabile per superamento del periodo di comporto, quale che sia il criterio di computo delle assenze causate dalla disabilità, il licenziamento sarà comunque illegittimo se il datore di lavoro non fornirà la prova di aver adottato tutti gli accomodamenti ragionevoli che avrebbero posto il lavoratore disabile in condizione di continuare a prestare la propria attività e, quindi, di ridurre le assenze dal lavoro causate dal proprio stato di handicap.
Sul secondo tema, quello, cioè, della tutela del lavoratore caregiver di familiare affetto da grave disabilità, i cui sviluppi costituiscono specifico oggetto del presente articolo, la Corte di Cassazione ha adottato l’ordinanza interlocutoria 17 gennaio 2024, n. 1788, con la quale è stato richiesto alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, di pronunciarsi in via pregiudiziale sulle questioni prospettate e la CGUE si è pronunciata con sentenza 11 settembre 2025 resa nella causa C-38/24.
1. I quesiti pregiudiziali posti dalla Corte di Cassazione.
L’ordinanza di rimessione alla CGUE è stata emessa ai fini del decidere su un ricorso proposto da lavoratrice non disabile, ma caregiver del figlio minore gravemente disabile, che affermava di essere stata oggetto di discriminazione indiretta da parte del datore di lavoro, avendo quest’ultimo rifiutato di adottare gli accomodamenti ragionevoli, in termini di modifica dei turni lavorativi, che avrebbero consentito di rendere la propria attività lavorativa compatibile con le esigenze del figlio.
I giudici di legittimità hanno preliminarmente sottolineato che la controversia riguardava, innanzitutto, la legittimazione del caregiver familiare di minore gravemente disabile ad azionare la tutela antidiscriminatoria di cui alla direttiva 2000/78/CE.
Ai fini di un corretto inquadramento della predetta questione preliminare sono state esaminate, innanzi tutto, la normativa e la giurisprudenza sovranazionali ed è stato sottolineato che l’art. 2 della direttiva 2000/78/CE precisa che per “principio della parità di trattamento” si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su religione, convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuali.
È stata, poi, richiamata la sentenza della Grande Sezione della CGUE del 17 luglio 2008, Causa C-303/06, Coleman, con la quale è stato affermato che la direttiva 2000/78/CE e, in particolare, i suoi artt. 1 e 2, nn. 1 e 2, lett. a), devono essere interpretati nel senso che il divieto di discriminazione diretta ivi previsto non è limitato alle sole persone che siano esse stesse disabili.
I giudici di legittimità hanno, però, sottolineato che la sopra citata sentenza si riferisce espressamente alla discriminazione diretta, sicché potrebbe ritenersi non consentita l’estensione dell’applicazione della direttiva 2000/78 CE ai caregiver di disabili che lamentino una discriminazione indiretta sul luogo di lavoro, senza, tuttavia, mancare di osservare che validi argomenti a supporto di una interpretazione estensiva possono trarsi dall’articolo 2 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata anche dall’Unione europea con decisione del Consiglio 2010/48/CE del 26 novembre 2009, che non attribuisce rilevanza alla distinzione tra discriminazione diretta e indiretta.
I giudici di legittimità hanno, poi, dato corso a una meticolosa ricognizione della normativa nazionale rilevante in materia (in particolare articoli 2 comma 1 e 3, comma 3bis del D.Lgs. n. 216 del 2003 e articolo 1, comma 255, della legge n.205 del 2017, in esito della quale sono giunti alla conclusione che nell’ordinamento italiano il caregiver familiare di soggetto disabile non godeva in quanto tale, all’epoca dei fatti di causa, di una tutela generale contro le discriminazioni e le molestie subite sul posto di lavoro in ragione dei compiti di cura su di lui gravanti, beneficiando solo di specifici istituti riconosciuti da particolari norme di legge, quali, ad esempio, i permessi di cui alla legge 5 febbraio 1992, n. 104.
È stato, altresì, espresso l’avviso che la lacuna della mancata previsione di una specifica tutela contro le discriminazioni, dirette e indirette, in danno dei caregiver non è stata colmata neppure dal Decreto legislativo 3 maggio 2024, n.62, così titolato: “Definizione della condizione di disabilità, della valutazione di base, di accomodamento ragionevole, della valutazione multidimensionale per l'elaborazione e attuazione del progetto di vita individuale personalizzato e partecipato”.
Tenuto conto della mancanza di una espressa interpretazione della normativa comunitaria estensiva al caregiver anche della tutela contro la discriminazione indiretta nonché della evidenziata lacunosità della normativa nazionale disciplinante la figura del caregiver familiare, la Corte di Cassazione ha preso atto della impossibilità di decidere nel merito la controversia e ha ravvisato la necessità di adottare l’ ordinanza interlocutoria 17 gennaio 2024, n. 1788, con la quale è stato richiesto alla Corte di giustizia dell’Unione Europea, ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, di pronunciarsi, in via pregiudiziale, sulle seguenti questioni:
a) se il diritto dell’Unione europea debba interpretarsi, eventualmente in base anche alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, nel senso che sussista la legittimazione del caregiver familiare di minore gravemente disabile, il quale deduca di avere patito una discriminazione indiretta in ambito lavorativo come conseguenza dell’attività di assistenza da lui prestata, ad azionare la tutela antidiscriminatoria che sarebbe riconosciuta al medesimo disabile, ove quest’ultimo fosse il lavoratore, dalla direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro;
b) se, nell’ipotesi di risposta affermativa alla questione a), il diritto dell’Unione europea vada interpretato, eventualmente in base anche alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, nel senso che gravi sul datore di lavoro del caregiver di cui sopra l’obbligo di adottare soluzioni ragionevoli per garantire, altresì in favore del detto caregiver, il rispetto del principio della parità di trattamento nei confronti degli altri lavoratori, sul modello di quanto previsto per i disabili dall’art. 5 della direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro;
c) se, nell’ipotesi di risposta affermativa alla questione a) e/o alla questione b),il diritto dell’Unione europea vada interpretato, eventualmente in base anche alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, nel senso che per caregiver rilevante ai fini dell’applicazione della direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000 si debba intendere qualunque soggetto, appartenente alla cerchia familiare o convivente di fatto, che si prenda cura in un ambito domestico, pure informalmente, in via gratuita, quantitativamente significativa, esclusiva, continuativa e di lunga durata di una persona che, in ragione della propria grave disabilità, non sia assolutamente autosufficiente nello svolgimento degli atti quotidiani della vita o se il diritto dell’Unione europea vada interpretato nel senso che la definizione di caregiver in questione sia più ampia o ancora più ristretta di quella sopra riportata..
2. La decisione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea
La ricognizione da parte della CGUE del diritto internazionale, pregiudiziale per la soluzione delle questioni poste dall’ordinanza di rimessione, parte dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, conclusa a New York il 13 dicembre 2006, nel cui preambolo, alla lettera x, è affermato che la famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto alla protezione da parte della società e dello Stato, e che le persone con disabilità ed i membri delle loro famiglie debbono ricevere la protezione e l'assistenza necessarie a permettere alle famiglie di contribuire al pieno ed uguale godimento dei diritti delle persone con disabilità.
Viene poi sottolineato che, ai sensi dell’articolo 1, lo scopo della convenzione è promuovere, proteggere e garantire il pieno ed uguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità e promuovere il rispetto per la loro intrinseca dignità e che per persone con disabilità si intendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri.
È, poi, richiamato il disposto degli articoli della Convenzione con i quali è dettata la definizione della “discriminazione fondata sulla disabilità", per tale dovendo intendersi qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l'effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento o l'esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo ed è precisato che costituisce discriminazione anche il rifiuto di un accomodamento ragionevole; sono altres’ specificati gli obblighi che gli Stati Parti devono osservare al fine di garantire l’efficace attuazione degli obiettivi di uguaglianza e non discriminazione declinati dalla Convenzione .
Vengono, infine, richiamati i punti 1 e 2 dell’articolo 7 della Convenzione, intitolato «Minori con disabilità», ai cui sensi gli Stati parti sono tenuti ad adottare ogni misura necessaria a garantire il pieno godimento di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali da parte dei minori con disabilità, su base di uguaglianza con gli altri minori e il superiore interesse del minore costituisce la considerazione preminente in tutte le azioni concernenti i minori con disabilità.
Alla sopra sinteticamente riportata ricognizione del diritto internazionale segue la ricognizione del diritto dell’Unione, che inizia con la direttiva 2000/43/CE del 29 giugno 2000, attuativa del principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica e recante espresso divieto di discriminazione diretta o indiretta a causa della razza o dell'origine etnica, nonché la definizione della discriminazione diretta e di quella indiretta.
Viene, poi, esaminata la direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, con la quale sono declinati, con riferimento al mondo del lavoro, i prencipi di parità di trattamento e di non discriminazione in coerenza con quelli definiti in termini generali con la direttiva 2000/43/CE.
Una specifica attenzione è dedicata ai considerando 20 e 21, che hanno a oggetto i c.d. accomodamenti ragionevoli.
In considerando 20 è così formulato: “È opportuno prevedere misure appropriate, ossia misure efficaci e pratiche destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell'handicap, ad esempio sistemando i locali o adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti o fornendo mezzi di formazione o di inquadramento”.
Con il considerando 21 è precisato che “Per determinare se le misure in questione danno luogo a oneri finanziari sproporzionati, è necessario tener conto in particolare dei costi finanziari o di altro tipo che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell'organizzazione o dell'impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni.”.
Conseguentemente, l’articolo 5 della Direttiva 2000/78, rubricato «Soluzioni ragionevoli per i disabili», è così formulato: «Per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorché l'onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili».
La Corte ha, infine, proceduto alla disamina delle disposizioni del Diritto italiano regolanti la materia, avendo riguardo, in primis, al decreto legislativo n. 216 del 2003 - Attuazione della direttiva 2000/78/CE, con il quale, in coerenza con la Direttiva comunitaria, è stato specificato che per principio di parità di trattamento si intende l'assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell'età o dell'orientamento sessuale. È stato sottolineato che, ai sensi dell'articolo 3, comma 3 bis, di tale decreto legislativo, i datori di lavoro pubblici e privati, al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, sono tenuti ad adottare soluzioni ragionevoli, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori.
È stato inoltre richiamato, sempre con riferimento al principio di parità di trattamento, l'articolo 25, comma 2 bis, del decreto legislativo n. 198 del 2006 - Codice delle pari opportunità tra uomini e donne, a norma dell'articolo 6 della legge del 28 novembre 2005, n. 246, dell'11 aprile 2006, ai cui sensi «Costituisce discriminazione ai sensi del presente titolo, ogni trattamento o modifica dell'organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che, in ragione del sesso, dell'età anagrafica, delle esigenze di cura personale o familiare, dello stato di gravidanza nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell'esercizio dei relativi diritti, pone o può porre il lavoratore in almeno una delle seguenti condizioni: a) posizione di svantaggio rispetto alla generalità degli altri lavoratori; b) limitazione delle opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali; c) limitazione dell'accesso ai meccanismi di avanzamento e di progressione nella carriera».
Sulla base della complessiva ricognizione delle disposizioni regolanti, ai diversi livelli, il diritto alla parità di trattamento dei disabili, la tutela dei diritti dei minori e le pari opportunità tra uomini e donne, la Corte ha declinato la corretta interpretazione sistematica delle disposizioni rilevanti ai fini del decidere sulle questioni pregiudiziali poste dalla Corte di Cassazione.
I giudici della CGUE hanno preliminarmente ricordato che la direttiva 2000/78 concretizza, nel settore da essa disciplinato, il principio generale di non discriminazione sancito all'articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, che vieta qualsiasi discriminazione fondata, in particolare, sulla disabilità nonché i principi di tutela dei diritti del minore e delle persone con disabilità, sanciti, rispettivamente, agli articoli 24 e 26 della Carta.
Viene altresì rammentato che l'Unione ha approvato la Convenzione dell'ONU, le cui disposizioni costituiscono pertanto parte integrante, a partire dall'entrata in vigore di tale convenzione, dell'ordinamento giuridico dell'Unione e che, pertanto, tali disposizioni possono essere invocate al fine di interpretare quelle della direttiva 2000/78 in senso conforme, per quanto possibile alla Convenzione ONU.
Non si può, quindi, tralasciare di considerare che il divieto di discriminazione diretta di cui alla direttiva 2000/78 non è limitato alle sole persone che siano esse stesse disabili, ma si applica anche al caso in cui un datore di lavoro tratti un lavoratore, che non sia egli stesso disabile, in modo meno favorevole rispetto agli altri lavoratori e sia provato che il trattamento sfavorevole di cui tale lavoratore è vittima è causato dalla grave disabilità del figlio.
Inoltre, se il divieto di discriminazione diretta, previsto all’ articolo 2, paragrafo 2, lettera a), fosse limitato alle sole persone che sono esse stesse disabili e non si applicasse ad una situazione in cui un lavoratore che non sia egli stesso disabile fosse comunque vittima di una discriminazione diretta a causa della disabilità del figlio, gli obiettivi perseguiti dalla direttiva 2000/78 sarebbero pregiudicati.
Adottare un'interpretazione della direttiva 2000/78 che ne limiti l'applicazione alle sole persone che siano esse stesse disabili potrebbe, infatti, privare la direttiva di una parte importante del suo effetto.
La CGUE chiarisce, altresì, che nel caso di lavoratore non disabile che fornisca l’assistenza necessaria al figlio gravemente disabile è configurabile anche una situazione di discriminazione indiretta, considerato che l'articolo 2, paragrafo 1, della direttiva 2000/78 vieta «qualsiasi discriminazione», diretta o indiretta.
Inoltre, la questione del riconoscimento di una discriminazione fondata sulla disabilità del figlio al quale il lavoratore fornisce assistenza si pone allo stesso modo, indipendentemente dal fatto che tale discriminazione sia diretta o indiretta e sulla qualificazione come atto di discriminazione non incide la circostanza che, nel regime previsto dalla direttiva 2000/78, la nozione di discriminazione indiretta incorpori la possibilità di una giustificazione, a differenza della nozione di discriminazione diretta.
Ai fini di un'interpretazione delle disposizioni della direttiva 2000/78 occorre considerare che l'articolo 21, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, vieta «qualsiasi discriminazione» fondata, in particolare, su una disabilità, garantendo così un'applicazione ampia di tale tutela fondamentale; che l'articolo 24 della Carta relativo ai diritti del minore, prevede che i minori abbiano diritto alla protezione e alle cure necessarie al loro benessere e che l'interesse superiore del minore deve essere considerato preminente; che con l'articolo 26 della Carta, l'Unione riconosce e rispetta il diritto delle persone con disabilità di beneficiare di misure intese a garantirne l'autonomia, l'inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità.
Viene, altresì, sottolineato che la Corte europea dei diritti dell'uomo ha già dichiarato che il trattamento discriminatorio subito da una persona a causa della disabilità del figlio al quale presta cure, costituisce una forma di discriminazione fondata sulla disabilità rientrante nell'ambito di applicazione dell'articolo 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, senza distinguere a seconda che tale discriminazione sia diretta o indiretta.
Si ribadisce, infine, che l’interpretazione della direttiva 2000/78 deve essere coerente con le disposizioni della Convenzione dell'ONU che, tra l’altro, vietano qualsivoglia discriminazione fondata sulla disabilità senza alcuna distinzione tra discriminazione diretta e discriminazione indiretta.
Per tali ragioni la CGUE ha risposto alla prima questione prospettata dalla Corte di Cassazione dichiarando che la direttiva 2000/78 e, in particolare, il suo articolo 1 e il suo articolo 2, paragrafo 1 e paragrafo 2, lettera b), letti alla luce degli articoli 21, 24 e 26 della Carta nonché degli articoli 2, 5 e 7 della Convenzione dell'ONU, devono essere interpretati nel senso che il divieto di discriminazione indiretta fondata sulla disabilità si applica a un lavoratore che non sia egli stesso disabile, ma che sia oggetto di una siffatta discriminazione a causa dell'assistenza che fornisce al figlio affetto da una disabilità che consente a quest'ultimo di ricevere la parte essenziale delle cure che le sue condizioni richiedono.
Con la seconda questione è stato chiesto se la direttiva 2000/78 e, in particolare, l’ articolo 5, letta alla luce degli articoli 24 e 26 della Carta nonché dell'articolo 2 e dell'articolo 7 della Convenzione dell'ONU, debba essere interpretata nel senso che un datore di lavoro è tenuto, per garantire il rispetto del principio di uguaglianza dei lavoratori e del divieto di discriminazione indiretta, ad adottare soluzioni ragionevoli, ai sensi del predetto articolo 5, nei confronti di un lavoratore che, senza essere egli stesso disabile, fornisca assistenza al figlio disabile.
Al riguardo, la CGUE sottolinea preliminarmente che, ai sensi dell'articolo 5, l’adozione di dette soluzioni ragionevoli costituisce un obbligo per il datore di lavoro, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato e che detto onere non è sproporzionato se è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro interessato a favore dei disabili.
Ai fini di una corretta interpretazione dell'articolo 5 della direttiva 2000/78, conforme alla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, viene ricordato, innanzi tutto, che gli articoli 24 e 26 della Carta prevedono in particolare, rispettivamente, che i minori abbiano diritto alla protezione e alle cure necessarie al loro benessere e che l'Unione riconosce e rispetta il diritto delle persone con disabilità di beneficiare di misure volte a garantirne l'autonomia, l'inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità.
È stato altresì sottolineato che, ai fini di cui sopra, rileva anche l’articolo 2 della Convenzione ONU, che al terzo comma prevede che la nozione di discriminazione fondata sulla disabilità comprende anche il rifiuto di un accomodamento ragionevole, per tale dovendo intendersi, secondo il quarto comma di detto articolo, le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l'esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali.
L'articolo 7, paragrafo 1, della Convenzione ONU, inoltre, precisa che gli Stati parti devono adottare tutte le misure necessarie per garantire ai minori con disabilità «il pieno godimento» di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali, su base di uguaglianza con gli altri minori e che il punto x) del preambolo della Convenzione si riferisce esplicitamente alla necessità di aiutare le famiglie delle persone con disabilità affinché possano contribuire al pieno ed uguale godimento dei diritti delle persone con disabilità.
Ne consegue che il lavoratore deve essere posto in grado di fornire al figlio disabile l'assistenza di cui ha bisogno, il che implica l'obbligo, per il datore di lavoro, di adeguare le condizioni di lavoro di tale lavoratore anche per mezzo della riduzione dell’orario di lavoro o della assegnazione, se necessario, ad un altro posto di lavoro.
Poiché, l'articolo 5 della direttiva 2000/78, peraltro, non obbliga il datore di lavoro ad adottare misure che gli impongano un onere finanziario che, tenuto conto dei costi finanziari che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell'organizzazione o dell'impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni, risulti sproporzionato, spetta al giudice nazionale chiamato a decidere sul caso concreto valutare se il soddisfacimento della richiesta di beneficiare, in modo permanente, di orari fissi, su un determinato posto, rappresenti un onere sproporzionato per il suo datore di lavoro, ai sensi dell'articolo 5 della direttiva 2000/78.
Alla luce di quanto sopra, la CGUE ha risposto alla seconda questione dichiarando che la direttiva 2000/78 e, in particolare, il suo articolo 5, letti alla luce degli articoli 24 e 26 della Carta nonché dell'articolo 2 e dell'articolo 7 della Convenzione dell'ONU, debbano essere interpretati nel senso che un datore di lavoro è tenuto, per garantire il rispetto del principio di uguaglianza dei lavoratori e del divieto di discriminazione indiretta di cui all'articolo 2, paragrafo 2, lettera b), di tale direttiva, ad adottare soluzioni ragionevoli, ai sensi dell'articolo 5 di detta direttiva, nei confronti di un lavoratore che, senza essere egli stesso disabile, fornisca al figlio affetto da una disabilità l'assistenza che consente a quest'ultimo di ricevere la parte essenziale delle cure che le sue condizioni richiedono, purché tali soluzioni non impongano a detto datore di lavoro un onere sproporzionato.
Sulla terza questione, avente ad oggetto l'interpretazione della nozione di «caregiver» ai fini dell'applicazione della direttiva 2000/78, la Corte di Giustizia ha puntualizzato che, ai sensi dell'articolo 94, lettera c), del regolamento di procedura, è indispensabile che la decisione di rinvio stessa contenga l'illustrazione dei motivi che hanno indotto il giudice del rinvio a interrogarsi sull'interpretazione o sulla validità di determinate disposizioni del diritto dell'Unione, nonché il collegamento che esso stabilisce tra dette disposizioni e la normativa nazionale applicabile alla causa principale.
Poiché, nel caso di specie, il giudice del rinvio ha interrogato la Corte sull'interpretazione della nozione di «caregiver» che non è prevista dalla direttiva 2000/78 ma che, come chiarito dal giudice del rinvio nella sua domanda, sembra emergere dal diritto nazionale, senza, peraltro, che sia fornita alcuna spiegazione quanto al nesso che essa stabilisce tra le precisazioni riguardo a tale nozione di «caregiver» e la controversia di cui al procedimento principale, la CGUE ha dichiarato irricevibile la terza questione.
3. Brevi considerazioni conclusive
Con la sentenza in commento, la CGUE, sulla base di una pregevole ed esauriente motivazione, ha fornito risposte certe e inequivocabili ai primi due quesiti pregiudiziali posti dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza di rimessione, affermando, con riferimento alla concreta fattispecie esaminata, che il divieto di discriminazione indiretta fondata sulla disabilità si applica a un lavoratore che non sia egli stesso disabile, ma che fornisca assistenza al figlio affetto da disabilità e che il datore di lavoro è tenuto ad adottare i necessari accomodamenti ragionevoli nei confronti di detto lavoratore, sempre che non comportino oneri sproporzionati.
Residua, però, un margine di incertezza sulla possibilità che i principi affermati con riguardo alla fattispecie di lavoratore che assista un figlio disabile siano applicati in via analogica al caso in cui l’assistenza si fornita ad altro familiare, quale un ascendente, un collaterale, il coniuge ecc..
Si esprime l’auspicio che dette incertezze possano essere risolte con un intervento del legislatore.
Stesso auspicio si formula con riguardo alla questione posta al punto 3 dell’ordinanza di rimessione. Non si può escludere che la Corte di Cassazione abbia prospettato la questione nella consapevolezza della probabile dichiarazione di irricevibilità, ma non escludendo la possibilità che la sentenza della CGUE fornisse elementi per colmare almeno in parte la lacunosità della normativa nazionale disciplinante la figura del caregiver familiare, già stigmatizzata dal Comitato delle Nazioni Unite per i diritti delle persone con disabilità, che, con pronuncia del 3 ottobre 2022, ha rimarcato, con riferimento all’ordinamento italiano, “le gravi conseguenze sulle persone con disabilità assistite che derivano dal mancato riconoscimento della figura del caregiver e di misure di protezione sociale effettive a suo favore” ed ha affermato che il riconoscimento e la tutela del caregiver è precondizione essenziale alla realizzazione dei diritti della persona con disabilità.
