testo integrale con note e bibliografia
Sent. Trib. Lav. Milano n.1680 del 6 giugno 2025
1. Introduzione
La recente decisione del Tribunale di Milano n. 1680/2025 rappresenta una prima applicazione sia del d.lgs. 24/2023, che ha recepito la Direttiva europea sul whistleblowing , sia dell’inversione dell’onere della prova, costituendo sotto questo profilo un vero punto di svolta rispetto a una serie di sentenze che, nel corso degli anni, non sono sempre apparse conformi allo spirito del diritto unionale.
 Già con la legge 179/2017, Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato, infatti, il legislatore italiano aveva introdotto specifiche garanzie a favore del whistleblower , prevedendo, in caso di applicazione di misure ritorsive conseguenti alla segnalazione, non solo un potere di intervento e sanzionatorio dell’ANAC che può dichiarare nulle tali misure , ma soprattutto stabilendo l’inversione dell’onere della prova. Non è il segnalante, infatti, a dover dimostrare il nesso causale tra misura ritorsiva e segnalazione, ma è l’amministrazione a dover provare che il provvedimento ritorsivo adottato nei confronti del dipendente segnalante non sia in alcun modo collegato alla segnalazione .
Questa scelta del legislatore nazionale era stata poi convalidata dalla Direttiva (UE) 2019/1937 e dal successivo d.lgs. 24/2023 di recepimento . 
In modo molto esplicito, infatti, il Considerando 93 della Direttiva dispone che: “È possibile che per giustificare la ritorsione siano addotti motivi diversi dalla segnalazione, nel qual caso può essere molto difficile per le persone segnalanti dimostrare il nesso tra la segnalazione e la ritorsione, mentre gli autori delle ritorsioni possono disporre di maggiori poteri e risorse per documentare le loro azioni e le loro ragioni. Pertanto, una volta che la persona segnalante abbia dimostrato, prima facie, di avere effettuato una segnalazione o divulgazione pubblica a norma della presente Direttiva e di aver subito un danno, l’onere della prova dovrebbe spostarsi sulla persona che ha compiuto l’azione pregiudizievole, che dovrebbe quindi essere tenuta a dimostrare che l’azione intrapresa non era in alcun modo connessa alla segnalazione o alla divulgazione pubblica”.
Tale approccio è stato correttamente confermato nel d.lgs. 24/2023. L’art. 17, infatti, disciplinando il divieto di ritorsione, espressamente prevede che: “L’onere di provare che tali condotte o atti sono motivati da ragioni estranee alla segnalazione, alla divulgazione pubblica o alla denuncia è a carico di colui che li ha posti in essere”, cioè l’amministrazione.
Tutto ciò contribuisce, chiaramente, a creare un contesto favorevole alla diffusione della segnalazione: non si deve dimenticare, infatti, che uno dei fattori decisivi nell’incentivare il potenziale segnalante a effettuare la segnalazione, non è tanto un eventuale incentivo monetario o simbolico , quanto invece la sicurezza della segnalazione, in termini di protezione della riservatezza e tutela da ritorsioni . 
Questo dato emerge chiaramente dalla ricerca realizzata dalla Scuola Nazionale dell’Amministrazione, Formare per trasformare. Amministrazione aperta e modelli formativi innovativi per una più efficace attuazione dell’istituto del whistleblowing . Intervistando circa 6000 dipendenti pubblici, la ricerca conferma che il vero incentivo alla segnalazione, per il dipendente pubblico italiano, non risiede in forme di gratificazione materiale, bensì nella combinazione tra sicurezza personale ed efficacia percepita della segnalazione. Diverse domande contenute nel questionario erano volte a indagare, infatti, il tema degli incentivi, monetari o simbolici, e anche più specificamente cosa potrebbe concretamente incoraggiare maggiormente le persone a segnalare. Dall’analisi dei risultati è emerso chiaramente come gli item relativi a premi o compensi economici abbiano raccolto percentuali marginali, rivelando pertanto come la logica della ricompensa monetaria non sia considerata né adeguata né legittimante rispetto a un comportamento che viene vissuto primariamente come atto di responsabilità civica. A risultare decisivi sono piuttosto la certezza che la segnalazione produca effetti concreti (correzione dell’irregolarità e riconoscimento della gravità del problema) e la garanzia di tutela effettiva del segnalante, in termini sia di protezione dalle ritorsioni sia di riservatezza . 
Tali presupposti rappresentano quindi condizioni imprescindibili per attivare comportamenti proattivi in contesti organizzativi complessi. Ne emerge, dunque, una concezione della segnalazione non come strumento di accusa per fini personali, ma come atto di cura del bene collettivo, pratica intrinsecamente legata ai principi di etica pubblica e integrità istituzionale, la cui efficacia dipende però dalla capacità delle amministrazioni di offrire un contesto credibile, sicuro e orientato al valore pubblico . 
Occorre quindi che negli enti ci sia un clima di generale promozione della segnalazione , che non consenta l’applicazione di misure discriminatorie o ritorsive, sia organizzative, quali trasferimento, demansionamento, licenziamento, sia meramente “sociali”, quali isolamento, ostracismo, vuoto relazionale. Non va, infatti, sottovalutato l’impatto emotivo delle ritorsioni non organizzative, che alla fine costringono il segnalante, in un modo o nell’altro, ad abbandonare il contesto lavorativo, dato che risulta impossibile il proseguimento dell’attività in un ambiente dichiaratamente ostile .
Per questo motivo, a fronte di un quadro regolatorio ormai consolidato dal recepimento della Direttiva, nonostante qualche criticità , è altrettanto importante che anche a livello operazionale la normativa sia applicata correttamente dai tribunali, e a che in generale si riesca a normalizzare la segnalazione togliendo ogni stigma sociale al segnalante.
2. Il passaggio dalla legge 179/2017 al decreto legislativo 24/2023 e la costante disapplicazione dell’inversione dell’onere probatorio.
Purtroppo, però, la prassi giurisprudenziale ha evidenziato un fraintendimento dello spirito della norma, e di fatto “neutralizzato la portata protettiva della disciplina, escludendo l’operatività di qualsiasi meccanismo presuntivo e richiedendo invece al lavoratore di dimostrare, in via diretta e stringente, il ‘nesso di derivazione tra segnalazione e misura pregiudizievole’, in aperto contrasto con il dato normativo ”. Si pensi a tutta una serie di sentenze che, nonostante la norma, imponevano comunque al segnalante di dimostrare il nesso causale tra segnalazione e misura ritorsiva . 
La gravità di questo approccio, che inspiegabilmente disattende esplicitamente il dato normativo e rivela resistenze culturali degli interpreti che si traducono in un’interpretazione eccessivamente restrittiva, rischiava quindi di svuotare di efficacia le previsioni di legge e disincentivare l’utilizzo del whistleblowing quale strumento fondamentale di prevenzione della corruzione.
Si pensi ad esempio alla sentenza della Corte di Cassazione, 6 dicembre 2024, n. 31343, che ritenendo che “la pretesa del lavoratore di rivedere tutta la sua carriera e i suoi incarichi alla luce della normativa sui whistleblowers risulta del tutto estranea alla questione oggetto di giudizio, e pertanto eccentrica e non ammissibile” determina l’assenza di nesso tra il procedimento disciplinare per cui è causa e le segnalazioni effettuate dal ricorrente, escludendo l’obbligo del datore di lavoro di ulteriori dimostrazioni .
Nel caso di specie, un dipendente pubblico aveva denunciato una presunta truffa legata alla clonazione di biglietti del trasporto pubblico, tagliandi della sosta e abbonamenti. Dopo la segnalazione, la sua amministrazione aveva però avviato un procedimento disciplinare nei suoi confronti, che si era concluso con la destituzione dal servizio. Il lavoratore, ritenendo il provvedimento ritorsivo, lo impugnava e il Tribunale di primo grado, in parziale accoglimento del ricorso, dichiarava l’illegittimità del provvedimento di destituzione. 
Tuttavia, la Corte d’appello riteneva che l’onere della prova in merito al “nesso di derivazione tra segnalazione e misura pregiudizievole grava interamente sulla parte che lo allega, alla stregua della regola generale di riparto dell’onere probatorio ex art. 2697 c.c., non derogata dalla disposizione speciale in esame”. Non ravvisando quindi elementi concreti per collegare direttamente la misura disciplinare alla precedente segnalazione, la Corte d’appello escludeva il carattere ritorsivo del licenziamento. Il lavoratore ricorreva, quindi, in Cassazione invocando la tutela specifica prevista per i whistleblower dall’art. 54-bis del d.lgs. 165/2001. 
La Suprema Corte, però, confermava le conclusioni della Corte d’appello ritenendo la mancanza di prove sufficienti a dimostrare che la destituzione fosse stata determinata dalla segnalazione, escludendo quindi la natura ritorsiva del licenziamento. 
Dello stesso tenore anche la decisione del TAR Lazio contro una delibera ANAC che prevedeva l’annullamento di una misura ritorsiva e l’irrogazione di sanzione pecuniaria. 
Nel caso di specie si trattava dell’adozione di una misura discriminatoria nei confronti di un dirigente medico che, dopo aver segnalato tramite canale esterno (direttamente all’ANAC) alcune irregolarità della sua Azienda Sanitaria Locale, veniva trasferito per incompatibilità ambientale. A fronte di questo trasferimento percepito come ritorsivo, il segnalante ricorreva all’ANAC che, a seguito di istruttoria, dichiarava la natura ritorsiva e la conseguente nullità del trasferimento. L’ANAC irrogava, inoltre, una sanzione di 5.000 euro al direttore della ASL, in quanto firmatario del provvedimento di trasferimento .
Il TAR Lazio, escludendo il carattere ritorsivo del trasferimento, ha invece ritenuto che l’istruttoria dell’ANAC non fosse completa, e che il provvedimento non fosse sufficientemente motivato e di conseguenza ne ha dichiarato l’annullamento.
Sempre su questa lunghezza d’onda si colloca anche la sentenza del Tribunale di Milano, sezione lavoro, 13 dicembre 2023, n. 3854, che ha posto interamente a carico del segnalante l’onere di provare il nesso di causalità tra segnalazione e ritorsione . Nel caso di specie, il dipendente aveva adito il Tribunale per chiedere, ai sensi dell’art. 54-bis del d.lgs. 165/2001, l’annullamento delle sanzioni disciplinari ricevute dopo aver presentato diverse segnalazioni, sostenendo che la mera consequenzialità temporale fosse sufficiente a dimostrare la natura ritorsiva dei provvedimenti. Il tribunale, tuttavia, escludeva tale presunzione di ritorsività, ritenendo che la distanza temporale tra le segnalazioni e le sanzioni non consentisse di configurare un automatismo probatorio. Di conseguenza negava anche l’inversione dell’onere della prova, richiedendo al lavoratore di dimostrare concretamente l’esistenza del nesso causale. Tuttavia, poiché il ricorrente si era limitato a invocare la successione temporale degli eventi, senza fornire ulteriori elementi di prova, la domanda veniva rigettata in applicazione della regola generale sull’onere probatorio di cui all’art. 2697 c.c. 
Tale impostazione appare però discutibile, poiché - come è noto -, la disciplina speciale del whistleblowing costituisce lex specialis rispetto al regime ordinario, e impone un approccio probatorio ispirato a una tutela rafforzata del segnalante, anche alla luce della Direttiva europea e dei principi di effettività della protezione .
3. La sentenza del Tribunale di Milano 1680/2025. Un punto di svolta?
Alla luce di tutte le sentenze citate, che di fatto hanno tradito la ratio della norma negando tutele al whistleblower (e contribuendo quindi a creare un clima di sfiducia e scarsa accettazione dell’istituto del whistleblowing in generale), appare quindi come un importante spartiacque la recente decisione del Tribunale di Milano. La sentenza n. 1680/2025 ha, infatti, chiarito la portata della tutela rafforzata contro le ritorsioni, sancendo che, una volta provata la sequenza temporale tra segnalazione e licenziamento, si attiva una presunzione legale di ritorsività. È dunque il datore di lavoro a dover dimostrare l’esistenza di motivi oggettivi, autonomi e non collegati alla segnalazione per giustificare il recesso.
Questa impostazione attua finalmente quanto previsto dalla normativa spostando l’onere probatorio e rafforzando di conseguenza la posizione del lavoratore-segnalante, garantendo che le tutele previste dalla normativa non restino sulla carta ma abbiano un’effettiva efficacia deterrente. 
La sentenza inoltre è particolarmente importante perché rappresenta la prima applicazione del d.lgs. 24/2023, in particolare dell’art. 17, comma 2, mentre tutte le altre sentenze, citate precedentemente, applicavano ancora la legge 179/2017.
Il caso di specie trae origine dalla partecipazione di un dipendente a un’indagine aziendale globale, promossa dal dipartimento risorse umane della sua organizzazione, nella quale egli aveva formulato dei rilievi critici nei confronti del proprio superiore, lamentando in generale una mancanza di autonomia e di fiducia. A seguito di queste critiche, i rapporti tra le parti si erano ulteriormente deteriorati, inducendo il lavoratore a formalizzare una segnalazione tramite il canale interno approntato dall’organizzazione, allo scopo di denunciare una serie di condotte da egli ritenute illecite. 
A distanza di circa due settimane, il dipendente riceveva però una contestazione disciplinare: gli venivano addebitati una serie di presunti comportamenti inappropriati e di conseguenza la società procedeva al ritiro degli strumenti aziendali e alla disattivazione dei canali informatici, rendendo di fatto impossibile, al lavoratore, l’esercizio delle sue funzioni. Successivamente, il procedimento disciplinare si concludeva con un licenziamento per giusta causa, con effetto immediato.
Il provvedimento veniva impugnato dal lavoratore dinanzi al Tribunale di Milano, che con sentenza 6 giugno 2025, n. 1680, ne accertava la natura ritorsiva. 
In particolare, il Tribunale ha ritenuto che la stretta contiguità temporale tra segnalazione e licenziamento confermasse l’intento ritorsivo del datore di lavoro, che aveva utilizzato il licenziamento a fini esclusivamente punitivi. La successione temporale è stata considerata quindi come elemento determinante ai fini della presunzione di ritorsività che consente alla normativa speciale - rappresentata dall’art. 17 del d.lgs. 24/2023, che introduce un concetto di “ritorsione qualificata” perché relativa allo specifico caso del whistleblowing -, di derogare alla disciplina generale relativa all’onere della prova. 
Sulla base di queste considerazioni, qualificando il provvedimento espulsivo come ritorsivo in quanto causalmente connesso a una segnalazione interna previamente effettuata dal dipendente, il Tribunale del lavoro di Milano ha quindi dichiarato il licenziamento nullo ai sensi dell’art. 1345 c.c. per motivo illecito determinante, e di conseguenza ha disposto la reintegrazione del dipendente . 
Questa sentenza, nel valorizzare la stretta successione temporale tra segnalazione e misura datoriale quale elemento idoneo a integrare il nesso causale, rappresenta finalmente una corretta applicazione della disciplina in materia di whistleblowing. Se ne auspica il consolidamento giurisprudenziale, con il definitivo superamento degli orientamenti che, impropriamente, hanno fatto leva sull’art. 2697 c.c.: tale regola generale sul riparto probatorio è infatti superata dalla normativa speciale, in ossequio al principio lex specialis derogat generali e a tutela dell’effettività delle garanzie del segnalante.
Tuttavia, pur riconoscendo il rilievo della corretta applicazione dell’inversione dell’onere probatorio, non si può ignorare una questione preliminare connessa alla effettiva riconducibilità del caso in esame nell’ambito di applicazione del d.lgs. 24/2023. 
La segnalazione, infatti, come previsto all’ art. 1, comma 2, lett. a) del d.lgs. n. 24/2023, ma anche dalla Direttiva (UE) 2019/1937 (al Considerando 22) deve riguardare violazioni che ledono l’interesse pubblico oppure l’integrità dell’ente, mentre sono categoricamente escluse le rivendicazioni esclusivamente di carattere personale o attinenti a rapporti individuali di lavoro . 
In questa prospettiva, appare effettivamente discutibile l’affermazione contenuta nella sentenza secondo cui “non è rilevante il contenuto della segnalazione, contrariamente a quanto sostenuto dal procuratore di parte convenuta in sede di discussione, ma il solo fatto che la denuncia sia stata inoltrata”. 
Una simile impostazione rischia, infatti, di ampliare in modo improprio il perimetro applicativo dell’istituto, esponendolo a potenziali rischi di usi distorti o strumentali che potrebbero comprometterne la funzione originaria di tutela dell’interesse pubblico. Ne deriva la necessità di preservare un corretto equilibrio tra la tutela del segnalante e la coerenza dell’istituto con la propria finalità pubblicistica. Un’interpretazione troppo estensiva, che prescinda dal contenuto sostanziale della segnalazione, rischia infatti di snaturare il senso della protezione accordata dal legislatore, trasformando il whistleblowing in uno strumento improprio di contenzioso individuale, mentre è fondamentale assicurare che rimanga un meccanismo di integrità e accountability al servizio dell’interesse generale .
Un elemento di equilibrio fondamentale in questo ambito è rappresentato dal mutamento interpretativo, quasi una valvola di sfogo per estendere l’applicazione della norma, che ha condotto a ritenere irrilevanti le motivazioni soggettive del segnalante, purché la segnalazione presenti comunque una valenza collettiva. In altri termini, il whistleblower che, nel denunciare un’irregolarità, persegua anche un interesse personale o egoistico non perde la tutela, a condizione che la segnalazione sia idonea a tutelare, anche solo in parte, un interesse pubblico o collettivo .
D’altronde anche l’ANAC ha espresso un chiaro parere sul tema dell’egoistic blower, sia con la delibera n. 782/2019 che con le Linee guida 2023, chiarendo che la mera esistenza di un interesse personale non esclude di per sé la riconducibilità della segnalazione alla disciplina del whistleblowing, laddove essa sia funzionale – anche solo indirettamente – alla salvaguardia di un interesse generale .
Di conseguenza, pur dovendo escludere le segnalazioni di natura meramente personale, è però altrettanto importante evitare “un approccio eccessivamente formalistico che finisca per espungere dal sistema segnalazioni effettivamente rilevanti sotto il profilo della legalità organizzativa ”. La delimitazione dell’ambito oggettivo di applicazione della normativa richiede, quindi, un esame sostanziale del contenuto della segnalazione, finalizzato ad accertare la presenza di un interesse pubblico o collettivo, anche qualora questo si accompagni a un interesse personale del segnalante.
Nel caso di specie, pertanto, potrebbe essere plausibile ritenere che il clima organizzativo segnalato dal dipendente potesse avere delle ricadute di carattere generale sull’ambiente di lavoro, soprattutto qualora risultasse eccessivamente stressogeno o conflittuale . Allo stesso modo, la denuncia di condotte vessatorie da parte della dirigenza potrebbe coinvolgere una pluralità di soggetti e, in ogni caso, configurarsi comunque come comportamento in contrasto con il codice etico dell’organizzazione.
In questa prospettiva, la segnalazione, pur originata da un vissuto individuale, mantiene pertanto una valenza collettiva, in quanto diretta a tutelare la correttezza e la salubrità dell’ambiente di lavoro, e dunque a salvaguardare l’integrità complessiva dell’organizzazione.
4. La disciplina tedesca in materia di whistleblowing
La Germania ha recepito la Direttiva (UE) 2019/1937 con la Hinweisgeberschutzgesetz (HinSchG) entrata in vigore il 2 luglio 2023, con un grande ritardo (ancora maggiore rispetto al caso italiano) rispetto al termine previsto al dicembre 2021. Tale dilazione ha comportato l’apertura di una procedura di infrazione nei confronti della Germania. Tuttavia, nel caso tedesco forse ciò potrebbe risultare in parte comprensibile, poiché a differenza dell’Italia, il paese era privo di una disciplina in materia di whistleblowing e di conseguenza chi segnalava si trovava completamente privo di ogni tutela sotto il profilo giuridico . 
È stato quindi necessario un intervento normativo di più ampio respiro, volto a costruire un sistema di tutela ex novo, per inserire nel contesto tedesco un istituto nei confronti del quale però permaneva una tradizionale resistenza culturale . Resistenza che si evince anche dal fattore linguistico, ulteriore aspetto che il caso tedesco condivide con l’esperienza italiana: anche in Germania, infatti, non è stato agevole individuare un equivalente semantico del termine inglese whistleblower, poiché le parole disponibili nella lingua comune presentavano tutte connotazioni fortemente negative . Tra queste: Denunziant (delatore), Nestbeschmutzer, espressione che letteralmente significa “colui che sporca il proprio nido”, ma che potremmo tradurre più liberamente come “chi sputa nel piatto in cui mangia”, e in alternativa, la più negativa in assoluto, cioè Verräter (traditore).
Questa difficoltà terminologica riflette un più ampio problema culturale e simbolico, legato alla percezione sociale di chi denuncia illeciti: una figura spesso vista non come garante dell’interesse pubblico, ma come persona sleale o infedele nei confronti della propria comunità o organizzazione. La legge tedesca ha infine optato per un termine neutro Hinweisgeber, cioè colui che fornisce un’informazione, sostanzialmente equivalente al nostro segnalante. La scelta lessicale contribuisce sicuramente a depurare il ruolo da stigmi, pur non arrivando a enfatizzarne la valenza civica come fa invece il termine whistleblower che porta con sé una connotazione intrinsecamente positiva.
Per quanto riguarda il contenuto della legge, ovviamente ricalca l’impostazione della Direttiva: la Hinweisgeberschutzgesetz si applica a un’ampia categoria di soggetti, comprendente non soltanto i dipendenti pubblici e privati, ma anche collaboratori autonomi, tirocinanti, consulenti e componenti degli organi di gestione o di controllo. Le tutele si estendono altresì a coloro che assistono o sono in qualche modo connessi al segnalante, in un’ottica di protezione indiretta e preventiva. 
Per quanto riguarda l’ambito oggettivo, la legge si applica alla segnalazione o divulgazione di informazioni riguardanti violazioni che costituiscono un reato, o illeciti amministrativi gravi (che incidono su vita, l’integrità fisica o la salute, oppure la tutela dei diritti dei lavoratori o dei loro organi rappresentativi) e violazioni del diritto dell’Unione Europea. Diversamente dal testo italiano, nella normativa tedesca manca quindi un espresso riferimento all’interesse pubblico e all’integrità dell’amministrazione; di conseguenza ne deriva, in linea di principio, un perimetro applicativo più ristretto.
Particolare attenzione è riservata alla regolazione dei canali di segnalazione. Ogni ente pubblico e ogni impresa con almeno cinquanta dipendenti sono tenuti a istituire un canale interno indipendente, sicuro e riservato, in grado di garantire la tracciabilità e la protezione dell’identità del segnalante (§ 12-18). La segnalazione può essere fatta in forma orale (telefonicamente o altri mezzi) o scritta, o anche, su richiesta del segnalante, mediante incontro personale. Viene inoltre specificato che l’ufficio interno dovrebbe trattare anche le segnalazioni anonime, ma non sussiste l’obbligo di progettare i canali in modo tale da consentire la presentazione anonima delle stesse.
Per quanto riguarda la procedura, valgono gli stessi termini previsti dalla normativa italiana: il §17 specifica, infatti, come termine sette giorni per la conferma di ricezione della segnalazione da parte dell’ufficio ricevente e 3 mesi (oppure 3 mesi e 7 giorni qualora non fosse stata fornita la conferma di ricezione) per il riscontro finale.
In merito al canale esterno, invece, vanno considerate due differenze significative rispetto all’esperienza italiana. 
Il primo elemento di rilievo è rappresentato dalla libertà di scelta del canale di segnalazione, sancita espressamente dal § 7 del Hinweisgeberschutzgesetz: le persone che intendono segnalare una violazione possono, infatti, scegliere se rivolgersi a un canale interno (§ 12) o a un canale esterno (§ 19-24). 
L’articolo prosegue specificando che sarebbe preferibile utilizzare il canale interno, ma solo nei casi in cui il problema possa essere risolto efficacemente all’interno dell’organizzazione e non ci sia il timore di ritorsioni. Altrimenti, se la segnalazione interna non ha avuto seguito, il segnalante può liberamente rivolgersi a un canale esterno. Inoltre i datori di lavoro che sono tenuti a istituire canali interni devono promuovere l’uso del canale interno (ad esempio attraverso incentivi) e fornire informazioni chiare e accessibili sul suo utilizzo.
Se queste ultime precisazioni sembrano limitare la scelta del segnalante, rivelando una preferenza per il canale interno, il comma 3 del § 7 dispone, invece, espressamente che la promozione del canale interno non può in alcun modo limitare o rendere più difficile la possibilità di rivolgersi a un canale esterno. 
La norma, pertanto, non attribuisce priorità al canale interno, ma riconosce al segnalante la piena libertà di scelta, coerentemente con lo spirito della Direttiva (UE) 2019/1937 e diversamente dalla normativa italiana, che su questo punto ha optato per un’interpretazione più restrittiva subordinando la segnalazione alla presenza di specifici presupposti .
La seconda differenza concerne l’assenza di un’Autorità centrale unica, ruolo che nel nostro ordinamento è svolto dall’ANAC, ma prevede invece una pluralità di enti destinatari delle segnalazioni esterne . 
La legge tedesca, infatti, ha istituito un canale esterno (§ 19-31) centralizzato presso il Bundesamt für Justiz, l’Ufficio federale di giustizia, a cui è possibile rivolgersi sia direttamente, qualora non sia appropriato o sicuro utilizzare la via interna, sia in seconda istanza, dopo aver effettuato una segnalazione interna (§ 23). 
Tuttavia, ogni Land può istituire un proprio ufficio per le segnalazioni esterne (externe Meldestelle), competente per le segnalazioni riguardanti l’amministrazione statale del Land e le amministrazioni comunali ricadenti nella sua giurisdizione (§ 20). 
Inoltre, la già citata Bundesanstalt für Finanzdienstleistungsaufsicht (BaFin), ossia l’Autorità federale di vigilanza finanziaria , continua a fungere da ufficio esterno di segnalazione per le violazioni che rientrano nell’ambito della Legge sulla vigilanza dei servizi finanziari (Finanzdienstleistungsaufsichtsgesetz). È inoltre competente per le segnalazioni in materia di antiriciclaggio, nei casi in cui operi come autorità responsabile ai sensi della Legge antiriciclaggio (Geldwäschegesetz), nonché per altri ambiti specificati dalla normativa .
Infine, come previsto dal § 22, svolge un ruolo di destinatario esterno delle segnalazioni anche il Bundeskartellamt, cioè l’Autorità federale tedesca garante della concorrenza, competente per le violazioni indicate al § 2, paragrafo 1, numeri 8 e 9 della legge , ai fini di garantire la tutela della concorrenza leale e la regolamentazione delle grandi piattaforme digitali, a garanzia di mercati aperti e trasparenti.
Ciò significa che i segnalanti possono rivolgersi direttamente al Bundeskartellamt, come destinatario di segnalazioni esterne, in qualsiasi momento e indipendentemente dall’esito di eventuali segnalazioni interne, per comunicare informazioni su possibili infrazioni.
Infine, opportuno ricordare che anche la normativa tedesca riconosce la possibilità di ricorrere alla divulgazione pubblica delle informazioni (§ 32), qualora sussista un pericolo imminente o non vi sia stato riscontro adeguato alle segnalazioni precedenti.
5. L’inversione dell’onere della prova nella giurisprudenza tedesca
Uno degli aspetti più innovativi introdotti dalla Hinweisgeberschutzgesetz rispetto alla disciplina generale, riguarda la tutela contro le ritorsioni che viene rafforzata mediante l’introduzione dell’inversione dell’onere della prova. 
La normativa tedesca, infatti, recependo correttamente le indicazioni della Direttiva, al § 36 (2) rubricato esplicitamente Verbot von Repressalien; Beweislastumkehr (divieto di ritorsioni: inversione onere della prova) dispone che nel caso in cui il segnalante subisca un trattamento pregiudizievole (Benachteiligung) a seguito della segnalazione, si presume che tale misura rappresenti una ritorsione connessa alla segnalazione stessa. In tal caso, spetta al responsabile della misura ritorsiva dimostrare che questa trovava fondamento in ragioni oggettivamente giustificate o che non era in alcun modo riconducibile alla segnalazione.
Questa disposizione dovrebbe trovare applicazione, ad esempio, quando un lavoratore invoca una misura discriminatoria ai sensi del § 612 (a) del BGB, il codice civile tedesco. 
In linea generale, nel diritto tedesco l’onere della prova dell’esistenza del pregiudizio e, soprattutto, del nesso causale tra l’esercizio di un diritto e la misura punitiva grava sul lavoratore. Tuttavia, se trova applicazione il § 36 (2), la presunzione opera a favore del dipendente: si presume, quindi, che la ritorsione costituisca un pregiudizio, e che esista un nesso causale tra la segnalazione (l’esercizio del diritto) e la misura subita. Spetta dunque al datore di lavoro dimostrare che la misura invece si basava su altri motivi sufficientemente giustificati e che non era connessa alla segnalazione.
A oggi non sono numerose le sentenze che vertono su questa problematica, ma d’altronde sono poche in generale le sentenze che applicano la Hinweisgeberschutzgesetz visto che si tratta di una normativa molto recente. Per questo motivo risulta decisamente interessante una sentenza del Tribunale regionale del lavoro di Norimberga , che si è espressa in merito alla questione dell’inversione dell’onere della prova prevista dalla Direttiva europea, quando però ancora non era entrata in vigore la legge tedesca, dal momento che i fatti risalivano al 2019. 
La sentenza si colloca in un momento di transizione: la Direttiva (UE) 2019/1937 sul whistleblowing era già entrata in vigore (dicembre 2019), ma non era stata ancora recepita in Germania, dato che come si è visto la Hinweisgeberschutzgesetz sarebbe stata approvata solo nel 2023.
In tale vuoto normativo, un lavoratore licenziato dopo aver segnalato presunte violazioni aveva tentato di far valere direttamente le garanzie previste dalla Direttiva, in particolare l’art. 21(5), sostenendo che fosse il datore di lavoro a dover dimostrare la natura non ritorsiva del licenziamento e non il segnalante a provare il nesso causale tra segnalazione e ritorsione..
Il punto centrale della causa era quindi accertare se, prima del recepimento della Direttiva, fosse già possibile applicare, in via di interpretazione conforme al diritto dell’Unione, la cosiddetta Vermutungsregel, la regola dell’inversione dell’onere della prova che prevede di fatto una presunzione di ritorsività della misura comminata dopo la segnalazione. 
Il tribunale ha risposto negativamente, escludendo, correttamente, sia l’applicazione della Direttiva prima del suo recepimento, sia un’interpretazione conforme anticipata: secondo il ragionamento del tribunale, anche se il diritto nazionale deve essere interpretato alla luce della Direttiva, ciò non consente di introdurre una regola nuova (come l’inversione dell’onere della prova) che modifichi radicalmente l’assetto interno dei rapporti di lavoro. Questo perché la Vermutungsregel, si pone come deroga ed eccezione alla normativa nazionale in materia di licenziamento, che deve essere considerata, insieme alle norme del codice civile che disciplinano l’onere della prova, come lex generalis. Pertanto, le tutele specifiche previste per il whistleblower, che vanno considerate quindi come lex specialis, possono essere applicabili solo dopo il recepimento della Direttiva e non prima. 
Tuttavia, va sottolineato come anche dopo l’entrata in vigore della Hinweisgeberschutzgesetz i giudici hanno continuato a mostrare un atteggiamento restrittivo nell’applicare l’inversione dell’onere della prova.
Si veda ad esempio la decisione del Tribunale del lavoro di Hamm del febbraio 2024, la prima sentenza ad applicare la Hinweisgeberschutzgesetz. Nel caso in esame un infermiere, impiegato a tempo determinato presso una clinica privata, aveva segnalato nel corso di un colloquio di lavoro, gravi irregolarità nel trattamento dei pazienti, configurabili come potenziali violazioni delle norme sulla sicurezza e sull’assistenza sanitaria.
Al momento della segnalazione (fine luglio del 2023), la clinica non aveva ancora istituito un canale interno di segnalazione, nonostante fosse tenuta a farlo in base alle previsioni del § 12 della Hinweisgeberschutzgesetz, che impone tale obbligo alle organizzazioni con un minimo di cinquanta dipendenti.
Circa due mesi dopo, il datore di lavoro comunicava al dipendente la mancata proroga del contratto di lavoro. L’infermiere riteneva che tale decisione costituisse una misura ritorsiva conseguente alla segnalazione effettuata e adiva quindi le vie legali, per chiedere un risarcimento pari a 44.572,34 euro per il mancato rinnovo del rapporto.
Il tribunale respingeva però l’istanza, negando tra l’altro la natura di “hinweisgebende Person” cioè di whistleblower al ricorrente, rilevando come la tutela si applichi solo a chi effettua una segnalazione interna o esterna, o una divulgazione pubblica come previsto dalla legge. Il fatto che il ricorrente avesse segnalato durante un colloquio di lavoro lo escludeva quindi dalla tutela, indipendentemente dal fatto che il canale di segnalazione interna non fosse attivo, dal momento che aveva comunque la possibilità di segnalare esternamente. Di conseguenza, pur richiamando espressamente il § 36 della norma, in merito all’inversione dell’onere della prova, in questo caso il tribunale ne ha esclusa l’applicazione, in base alla mancata qualifica di segnalante del ricorrente. Questo perché per applicare il § 36 (2), occorre verificare preliminarmente la riconducibilità della fattispecie al perimetro della Hinweisgeberschutzgesetz, e successivamente accertare che il lavoratore abbia effettuato correttamente la segnalazione, secondo le procedure previste dalla normativa, e che abbia subito un pregiudizio in conseguenza di essa.
Dello stesso tenore anche la sentenza del Tribunale regionale del lavoro della Bassa Sassonia , che ha adottato un’interpretazione restrittiva della tutela del segnalante, esigendo una prova rigorosa sia della liceità sia della causalità della segnalazione, senza riconoscere alcuna presunzione favorevole in capo al segnalante.
La controversia verteva sulla legittimità di un licenziamento disposto durante il periodo di prova. Il ricorrente, che ricopriva l’incarico di Responsabile dell’ufficio legale, sosteneva che il proprio licenziamento costituisse una misura ritorsiva conseguente alla segnalazione di presunte irregolarità aziendali, e che pertanto dovesse essere considerato nullo ai sensi del § 36 della Hinweisgeberschutzgesetz.
L’azienda, per contro, giustificava il recesso adducendo ragioni di natura organizzativa e personale, escludendo qualsiasi nesso tra la segnalazione e il licenziamento. 
Il Tribunale regionale però confermava la decisione di primo grado , rigettando l’appello del lavoratore. Nella motivazione, il Tribunale ha precisato che, affinché una misura datoriale possa essere qualificata come ritorsione vietata ai sensi del § 36 della Hinweisgeberschutzgesetz, è necessario che il dipendente (1) dimostri l’esistenza di una segnalazione o divulgazione lecita, conforme ai criteri di legge, ossia effettuata in buona fede e sulla base di fondati motivi; (2) provi l’esistenza di un nesso temporale e causale tra tale segnalazione e la successiva misura pregiudizievole.
Nel caso di specie, il ricorrente non era riuscito a fornire una prova sufficiente della sussistenza di tali presupposti. Il Tribunale ha dunque ritenuto che il licenziamento fosse efficace e legittimo, anche in assenza di un preavviso formalmente corretto, trattandosi di rapporto ancora in fase di prova. Tale approccio appare però in tensione con lo spirito della Direttiva (UE) 2019/1937, che mira a garantire una protezione effettiva contro ogni forma di ritorsione, anche mediante l’inversione dell’onere probatorio.
6. Considerazioni conclusive
Alla luce di quanto si è descritto finora, emerge chiaramente come la giurisprudenza tedesca, così come quella italiana tenda a privilegiare la tutela del datore di lavoro rispetto a quella del segnalante, mantenendo una concezione difensiva e formalistica del whistleblowing. Tale approccio, che segna una frattura tanto con la Direttiva, quanto con la Hinweisgeberschutzgesetz e con il d.lgs. 24/2023, continua a imporre interamente a carico del lavoratore l’onere della prova, riducendo di fatto l’efficacia del sistema di protezione dei segnalanti. 
Mentre la Direttiva (UE) 2019/1937 punta a riequilibrare i rapporti di forza tra lavoratore e datore di lavoro attraverso una presunzione di ritorsione e una conseguente Beweislastumkehr (inversione dell’onere della prova), la giurisprudenza tedesca, come del resto anche le prime sentenze italiane citate, continuano a muoversi entro i confini tradizionali del diritto del lavoro interno, incentrato sulla libertà datoriale di recesso e sulla prova interamente a carico del dipendente.
Ne risulta pertanto una protezione ancora parziale dei whistleblower, soprattutto nei rapporti in prova o di breve durata, in cui il lavoratore è strutturalmente più vulnerabile.
Solo un’applicazione corretta della Hinweisgeberschutzgesetz e del d. lgs. 24/2023, coerente con il dettato e la finalità della Direttiva, potrà assicurare un livello di tutela uniforme ed effettivo nel sistema europeo, evitando che il principio di protezione dei segnalanti resti confinato a una dichiarazione di intenti priva di reale applicazione.
D’altronde l’inversione dell’onere della prova costituisce probabilmente il vero perno dell’effettività della tutela del segnalante, e per questo motivo la sua ricorrente disapplicazione, tanto in Italia quanto in Germania rappresenta un segnale preoccupante, che rischia di svuotare di significato le garanzie introdotte dal legislatore europeo. 
Alla luce di queste considerazioni, pertanto, si auspica che, almeno per quanto riguarda il contesto italiano, la sentenza del Tribunale di Milano non resti un precedente isolato, ma rappresenti l’inizio di un orientamento ermeneutico più coerente e sistemico, capace di restituire piena sostanza alla lex specialis. Perché solo attraverso un’interpretazione coerente con i principi del diritto unionale e realmente orientata alla tutela effettiva del segnalante sarà possibile colmare la distanza ancora esistente tra la proclamata protezione normativa e la sua concreta applicazione.

