testo integrale con note e bibliografia
Premessa.
Il ruolo della Corte di Giustizia dell'Unione Europea (CGUE) quale motore ermeneutico e costruttore del diritto del lavoro continentale si è recentemente intensificato, demarcando i confini materiali e teleologici delle tutele sociali. 
In un'epoca caratterizzata dalla crescente integrazione e dalla necessità di armonizzare gli ordinamenti, le pronunce della Corte non si limitano, ormai da tempo, alla “lettura” dei Trattati, ma rappresentano veri e propri atti di costruzione giurisprudenziale del diritto dell'Unione. 
Gli ultimi e più lampanti esempi di questa funzione propulsiva - che verranno autorevolmente esaminati nel presente numero di E come Europa - si sono manifestati in ambiti nevralgici, che impongono un'urgente rivisitazione dei modelli gestionali e negoziali nazionali. 
Le più recenti pronunzie hanno fornito interpretazioni vincolanti che estendono le garanzie fondamentali, focalizzandosi sul principio di non discriminazione e sul rafforzamento della tutela occupazionale e creando nuovi dubbi e perplessità negli interpreti.
Come noto, sui temi interconnessi del periodo di comporto e della disabilità, la CGUE (con le recenti sentenze C-5/24 e C-38/24, entrambe dell'11 settembre 2025) ha stabilito un'esigenza di protezione estesa. 
In estrema sintesi, la Corte ha chiarito che l'applicazione indiscriminata del termine di comporto legale o contrattuale al lavoratore disabile può configurare una discriminazione indiretta, obbligando il datore di lavoro a ricercare e attuare "accomodamenti ragionevoli" che prolunghino la conservazione del posto. Contestualmente, ha riconosciuto che tale diritto si estende al lavoratore che si prende cura di un familiare disabile (caregiver), introducendo una significativa tutela contro la discriminazione per associazione.
Di ulteriori approfondimenti necessiterà anche la recente pronunzia n materia di licenziamenti collettivi, là dove la Corte sviluppa ulteriormente la propria giurisprudenza sulla portata della nozione europea di licenziamento collettivo in linea con gli obiettivi della Direttiva 98/59/CE ed in un’ottica di riaffermazione del primato del diritto dell’Unione meccanismi di recesso.
Queste decisioni, per la loro portata innovativa e per l'impatto diretto sugli ordinamenti interni, confermano la CGUE come l'organo cruciale, oggi, quanto all'avanzamento dei diritti sociali nel mercato unico.
Nella medesima ottica vanno lette tutte le più recenti decisioni, fra cui si pone anche la pronunzia dell’8 maggio 2025 sul lavoro agricolo (C-212/24, 226/24 e C-227/24), anch’essa oggetto di approfondimento nella presente Sezione, in cui la Corte ha dovuto pronunziarsi sulla tenuta comunitaria del meccanismo di versamento dei contributi previdenziali applicato all’ordinamento italiano per gli operai assunti con contratto a termine nel settore agricolo.
Il ruolo nevralgico dell’art. 2 TUE.
Ogni intervento del Presidente della Corte di Giustizia dell'Unione Europea (CGUE), Koen Lenaerts, si apre con un potente richiamo all'articolo 2 del Trattato sull'Unione Europea (TUE). Non è una mera formalità, ma la solenne affermazione dei pilastri inossidabili che definiscono la nostra Unione: democrazia, stato di diritto e, con una forza crescente, la solidarietà. In questo complesso e dinamico sistema di pesi e contrappesi, il ruolo dell'interprete – e della Corte in particolare – si rivela non solo cruciale, ma sempre più architettonico.
Il diritto dell'Unione, infatti, non è un'entità astratta "esterna" ai 27 Stati membri, bensì un tessuto normativo vivo, profondamente radicato e in costante evoluzione nelle loro realtà. E in questo tessuto, ciò che emerge con forza e sempre maggiore risonanza è l'importanza della solidarietà, che non è più un ideale marginale, ma una vera e propria forza motrice della giurisprudenza europea.
Siamo abituati a ragionare per dicotomie nette, come quella tra economico e sociale. Tuttavia, è tempo di riconoscere che questa prospettiva è spesso limitata, specialmente per noi giuristi del lavoro. Una visione così ristretta rischia di offrire un'immagine parziale e imprecisa della nomofilachia europea che emana dal Lussemburgo. Le mie osservazioni, dunque, non si concentreranno tanto sul "cosa" la Corte decide, quanto sul "come" decide. È il metodo con cui analizziamo l'impatto della sua giurisprudenza che, a mio avviso, necessita di essere ricalibrato.
Il dibattito accademico sul contributo della CGUE allo sviluppo del diritto del lavoro nell'UE non è certo nuovo. È almeno dal celebre caso Defrenne (C-43/75, 8 aprile 1976) sulla parità retributiva che l'azione della Corte è stata scandagliata dalla prospettiva del diritto del lavoro. Il mio contributo vuole affrontare questo filone di studi, ma da un angolo prospettico autonomo, pur muovendosi nel solco di illustri predecessori. L'idea è andare oltre il mero impatto delle sentenze sulla sostanza del diritto del lavoro, per considerare il contesto più ampio di creazione del diritto giudiziario.
Per cogliere appieno il ruolo della Corte sui diritti sociali, non basta concentrarsi solo sull'orientamento normativo delle sue pronunce. La mia ipotesi specifica, esplorata in questa indagine, è che quando la giurisprudenza della Corte viene analizzata da un punto di vista unico e specialistico, come spesso fanno i giuristi del lavoro, si rischia di perdere pezzi importanti dell'analisi. C'è il pericolo di trascurare che l'attività interpretativa della Corte è inserita in una molteplicità di processi dialettici: la Corte interagisce con i legislatori nazionali, con le istituzioni politiche dell'UE e, soprattutto, con le corti nazionali. Come ha giustamente sostenuto Weatherill, "ogni tentativo di presentare resoconti unidimensionali dell'attività [della Corte] è destinato al fallimento". Anche l'ex Presidente della Corte EDU, Síofra O'Leary, ha notato come le critiche al lavoro della Corte spesso ignorino i fattori procedurali o strutturali che ne definiscono il contesto operativo.
Non è sufficiente, pertanto, approcciare la giurisprudenza della Corte solo attraverso le lenti epistemologiche tipiche della prospettiva disciplinare del diritto del lavoro. Fermandoci a queste, le domande sarebbero limitate: la Corte valorizza la componente economica o sociale del diritto del lavoro? Il suo approccio è coerente con quello promosso dalle istituzioni politiche, oppure è forse più protettivo dei lavoratori o, al contrario, più favorevole alle imprese? Questo percorso, da solo, non solo ripercorrerebbe un terreno già ampiamente battuto dalla ricca letteratura accademica (pensiamo ai celebri casi Viking e Laval, che hanno pervaso il diritto del lavoro europeo), ma porterebbe a una visione parziale. Se studiosi come Weatherill criticano un atteggiamento monodimensionale, è perché si impone la necessità di un secondo livello analitico: approcciare la Corte di Giustizia non semplicemente come giudice del diritto del lavoro, ma come autorità giudiziaria che opera in un quadro multilivello e complesso. La Corte non va osservata solo in relazione agli esiti politici delle sue sentenze. Bisogna adottare una prospettiva più ampia, che consideri le diverse dinamiche di creazione del diritto giudiziario che sostengono la sua giurisprudenza. Ad esempio, Vanhercke e altri hanno dimostrato che la stessa dimensione sociale delle politiche dell'UE dipende in gran parte dai processi e dagli attori coinvolti nella loro definizione. Se gli sviluppi normativi sono influenzati da logiche non puramente politiche, è ancora più vero per l'attività interpretativa della Corte, che, a differenza di altre istituzioni, non ha un mandato politico.
Questo è il punto in cui entra in gioco la lente soggettivamente complessa e integratrice, ben evidenziata da pronunce come Thelen Technopark (C-261/20, 18 gennaio 2022) (una vicenda in tema di tariffe concernenti gli architetti) e KL (C353/22, 28 settembre 2023). Questo metodo di ricerca non è nuovo: autorevoli studiosi hanno già analizzato la giurisprudenza della Corte sulle norme del lavoro considerando il contesto di creazione del diritto giudiziario. Pensiamo al volume collettivo "Labour law in the Courts" (2001) curato da Silvana Sciarra, che ha esplorato il dialogo transgiudiziario tra la CGUE e le corti nazionali. O al lavoro di Síofra O'Leary nel libro "Employment law at the European Court of Justice: judicial structures, policies and process", che ha mostrato l'impatto considerevole del contesto e dei processi decisionali sul ragionamento della Corte.
L'importanza di collocare e interpretare la giurisprudenza della Corte di Giustizia in un contesto più ampio e di non osservarne gli esiti da un singolo angolo prospettico, emerge anche dai contributi di altri importanti studiosi, come Prassl, Davies, Bogg e Costello. Nel loro lavoro collettivo "Research Handbook on EU labour law", essi hanno illustrato come la Corte non sia affatto immune alle sensibilità nazionali nell'approcciare il diritto del lavoro. Alla fine, con un approccio assai vicino al mio odierno, hanno identificato una predominante inclinazione integrazionista nel ragionamento della Corte, coincidente con l'adozione di una lettura espansiva delle competenze dell'Unione, soprattutto quando inerente alle libertà economiche fondamentali. L'intenzione di questa odierna indagine è di fare un passo ulteriore in questo senso ed esplorare l'interazione tra le dinamiche di creazione del diritto giudiziario e il diritto del lavoro dell'UE in modo per quanto possibile, empirico e consapevole di quella ottica integrazionista che, a mio avviso, rappresenta il fulcro dell’attività interpretativa della Corte.
Effettività e uniformità: la bussola dell'integrazione europea
L'attività della Corte – indubbiamente ormai distante dalle pronunce Viking e Laval – deve essere guardata sotto una lente diversa: quella, strutturalmente integrazionista, dell'effettività e uniformità del diritto dell'Unione, quale fulcro e fundamentum del ruolo della Corte. Questo è il suo scopo fondamentale sin dalla sua creazione nel 1952: assicurare il rispetto del diritto nell'interpretazione e nell'applicazione dei Trattati. Tale diversa lente, non è affatto nuova, ma già al cuore di Van Gend en Loos e Costa Enel, tuttavia, non è mai stata valorizzata al giusto in ambito sociale.
La mia indagine mira a dimostrare come la Corte non sia solo in prima linea sulla questione dello stato di diritto, come evidenziano la "saga polacca" e i più recenti arresti sulla legislazione ungherese, fino al caso Energotehnica (C626/22, 25 aprile 2024), in cui la Corte ha escluso, con riguardo alla legislazione della Romania, l’obbligo dei giudici nazionali di applicare una decisione della Corte costituzionale che contrasti con il diritto dell’Unione. La Corte adotta un approccio progressivamente più incisivo e penetrante nel rafforzare il proprio ruolo nomofilattico e, con esso, la forza cogente ed espansiva del diritto dell’Unione, mediante la strada del riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri, a tutto campo e, come si dirà, segnatamente in ambito sociale.
La Corte di giustizia ha indubbiamente dimostrato sin dall’inizio di essere in grado di svolgere un ruolo nodale nelle fasi più cruciali dell'integrazione europea. Esempi da manuale sono le sentenze Van Gend en Loos e Costa contro Enel, in cui la Corte ha instillato l'idea che la Comunità europea fosse qualcosa di più di un sistema basato sul diritto internazionale. Oppure, un altro esempio è l'interpretazione espansiva di alcuni articoli dei Trattati e, in seguito, della Carta che ha reso la giurisprudenza dell'UE un punto di riferimento sia per l'ampliamento del mercato interno europeo che per le politiche di uguaglianza di genere.
Nuove frontiere nel diritto del lavoro: il ruolo dinamico della Corte
Chiaramente, questa tendenza interpretativa della Corte si è manifestata anche nel campo del diritto del lavoro. La Corte non ha infatti esitato a influenzare i modelli regolatori del diritto del lavoro a livello nazionale e, in alcuni casi, ha fatto pressione per la sua trasformazione. Abbiamo già richiamato le sentenze Viking e Laval, sulle quali è stato scritto molto sull'approccio discutibilmente parziale della Corte verso il bilanciamento degli interessi in gioco.
Esempi più recenti sono le sentenze Alemo-Herron (C-426/11, 18 luglio 2013) e Aget Iraklis (C-172/14, 21 aprile 2016). Lì, la Corte ha stabilito che le norme e le pratiche lavorative (protettive) dovevano essere eliminate in quanto restringevano eccessivamente la libertà degli imprenditori di condurre un'attività commerciale. Nel primo caso, con riguardo alle cosiddette clausole dinamiche nei trasferimenti d’azienda (che si è ritenuto non dovessero vincolare l’acquirente), nel secondo, con riferimento al potere – piuttosto ampio e poco definito dal legislatore greco – riconosciuto al Ministro del lavoro di bloccare i licenziamenti collettivi, laddove la Corte ha ritenuto quella vaghezza atta a frustrare l’effetto utile della Direttiva.
Ponendo l'accento sugli interessi economici del datore di lavoro, queste sentenze hanno avuto l'effetto di marginalizzare la razionalità emancipatrice del diritto del lavoro. È proprio a causa di questo effetto dirompente che molti osservatori e scrittori accademici hanno (di nuovo) rivolto un occhio molto critico alla Corte. La predominanza della libertà economica sui diritti dei lavoratori è stata ampiamente percepita come espressione della tendenza della Corte a intervenire intenzionalmente nel bilanciamento degli interessi che sottendono i sistemi di diritto del lavoro. La ritenuta compressione dei diritti dei lavoratori ha condotto a molte critiche. Ancora Weatherill ha dichiarato pittorescamente che "a volte una decisione della Corte di giustizia dell'Unione europea è così assolutamente strana da meritare di essere rinchiusa in un contenitore sicuro, immersa nelle acque ghiacciate di un lago profondo e dimenticata”.
È quasi superfluo notare che alla base della critica ad Alemo-Herron vi è soprattutto il fatto che la Corte abbia scelto di adottare una lettura della Direttiva che ha enfatizzato la libertà economica dell'acquirente. La tentazione di vedere in queste sentenze un approccio orientato alle politiche da parte della Corte è certamente comprensibile, ma l'assunzione che siano espressione delle preferenze socio-economiche e ideologiche della Corte rischia di distogliere l'attenzione dall'esplorazione di altre possibili logiche che guidano il ragionamento della Corte. Rischia inoltre di attribuire una caratterizzazione troppo semplicistica della Corte. Vorrei al riguardo evidenziare come sia altamente improbabile che nello svolgimento della sua attività interpretativa la Corte sia guidata esclusivamente da un approccio finalistico in relazione a un modello normativo specifico dei diritti del lavoro. Basta sottolineare che Viking e Laval hanno innescato un ricco dibattito accademico anche in discipline diverse dal diritto del lavoro. Conway, ad esempio, ha interpretato tali sentenze come espressione della tendenza al "creep", lo scivolamento della competenza della Corte, che ha portato ad ampliare la portata del diritto dell'UE a detrimento dei sistemi giuridici nazionali. Altri hanno sostenuto che Viking e Laval non solo fossero in contrasto con le aspettative dei giuristi del lavoro, ma anche con le aspettative dei giuristi del mercato interno. È inoltre interessante notare che Maduro, che è stato avvocato generale nel caso Viking, era anche un accademico che, non solo prima della sua nomina alla Corte di Giustizia, ha elaborato un quadro teorico integrazionista insistendo molto sulla centralità della convivenza armoniosa degli ordinamenti costituzionali europeo e nazionale. Possiamo arrivare a dire che il ragionamento della Corte nella sentenza Viking possa essere stato influenzato anche da considerazioni che non sono necessariamente legate alla tensione "diritti del lavoro contro libertà economica"? Sembrerebbe di sì.
L'articolo 47 della Carta: la nuova chiave di volta per la tutela effettiva e solidale
Recentemente, nel caso KL (C353/22, 28 settembre 2023), alla Corte di Giustizia era stato posto un quesito pregiudiziale avente ad oggetto la compatibilità di una normativa polacca (che non impone ai datori di lavoro l'obbligo di indicare i motivi di recesso nei contratti a tempo determinato, a differenza di quelli a tempo indeterminato) con la clausola 4 dell'Accordo Quadro sul lavoro a tempo determinato. Come noto a tutti i lavoristi, la clausola 4 è frequentemente al centro di decisioni della Corte, da ultimo, nella sentenza del 19 settembre scorso, KV (su rinvio pregiudiziale del Tribunale di Padova) che ha ritenuto che essa vada interpretata nel senso che osta a che l’anzianità di servizio maturata da un lavoratore in forza di contratti a tempo determinato eseguiti prima della scadenza del termine per il recepimento della Direttiva 1999/70 non venga presa in considerazione ai fini del calcolo della retribuzione al momento dell’assunzione a tempo indeterminato.
Nel caso KL si trattava di una normativa nazionale che non impone ai datori di lavoro l’obbligo di indicare i motivi di recesso nel caso di contratti di lavoro conclusi a tempo determinato e, cioè, si chiede se tale previsione non sia discriminatoria rispetto a quella relativa ai contratti di lavoro a tempo indeterminato, ove, invece, l’obbligo sussiste. La Corte chiarisce subito che sussiste una differenza di trattamento tra queste due categorie di lavoratori, e che resta da stabilire se la discriminazione risulti giustificata da ragioni oggettive. Secondo il governo polacco, la distinzione operata si inseriva nel perseguimento dell’obiettivo legittimo di una "politica sociale nazionale volta alla piena e produttiva occupazione", che richiederebbe una grande flessibilità del mercato del lavoro.
Secondo i giudici di Lussemburgo, tuttavia, gli elementi invocati dal governo polacco al fine di giustificare la normativa in oggetto – ancora una volta, alla luce della loro genericità – non consentivano di assicurarsi che la differenza di trattamento considerata rispondesse a un’esigenza reale, ai sensi della giurisprudenza della Corte. È evidente, secondo la Corte, che ammettere che la mera natura temporanea di un rapporto di lavoro sia sufficiente a giustificare una differenza di trattamento tra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato svuoterebbe di ogni sostanza gli obiettivi dell’accordo quadro ed equivarrebbe a perpetuare una situazione svantaggiosa per i lavoratori a tempo determinato. Orbene, secondo la Corte, la normativa di cui al procedimento principale non risultava necessaria alla luce dell’obiettivo invocato dal governo polacco. E torna allora l'effetto utile, ma, soprattutto, ci troviamo di fronte ad una Corte che entra in maniera incisiva nelle scelte di politica economica dello Stato considerato con una impostazione apparentemente opposta rispetto a decisioni come Alemo Herron e Iraklis.
E veniamo al punctum dolens. La Corte ha ripetutamente affermato che un giudice nazionale, cui venga sottoposta una controversia intercorrente esclusivamente tra privati, deve, applicando le norme del diritto interno adottate ai fini della trasposizione degli obblighi previsti da una Direttiva, prendere in considerazione l’insieme delle norme di tale diritto nazionale ed interpretarle, per quanto possibile, alla luce del testo e della finalità di tale Direttiva per giungere a una soluzione conforme all’obiettivo perseguito da quest’ultima (il richiamo che la stessa Corte fa è proprio alla sentenza del 18 gennaio 2022, Thelen Technopark Berlin, C-261/20, EU:C:2022:33, punto 27 e giurisprudenza ivi citata). Qualora non sia possibile procedere a un’interpretazione di una disposizione nazionale conforme alle prescrizioni del diritto dell’Unione, il principio del primato di quest’ultimo esigerà che il giudice nazionale disapplichi qualsiasi disposizione del diritto nazionale contraria alle disposizioni del diritto dell’Unione aventi effetto diretto.
La Corte ribadisce, a questo punto, che una Direttiva non può di per sé creare obblighi a carico di un singolo e non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei suoi confronti dinanzi a un giudice nazionale. Un giudice nazionale non è dunque tenuto, sulla sola base del diritto dell’Unione, a disapplicare una disposizione del suo diritto interno contraria a una disposizione del diritto dell’Unione, qualora quest’ultima disposizione sia priva di efficacia diretta, ferma restando tuttavia la possibilità, per tale giudice, nonché per qualsiasi autorità amministrativa nazionale competente, di disapplicare, sulla base di tale diritto interno, qualsiasi disposizione di quest’ultimo contraria a una disposizione del diritto dell’Unione priva di tale efficacia.
Ora, due sono gli aspetti nodali di questo approdo. Innanzitutto, ciò che tanto aveva agitato la dottrina all’indomani di Thelen Technopark al punto da indurre un autorevole Autore a chiedersi: "consistency, but at what cost?" e, cioè, consentire la disapplicazione anche fra privati in dispregio dell’effetto solo verticale delle Direttive, diventa in KL acquis, un dato di fatto su cui neanche ci si interroga più. Il secondo aspetto, invece, è che il principio di non discriminazione (previo accertamento da parte del giudice nazionale della comparabilità) supera ogni ostacolo e, soprattutto, orienta necessariamente l’interprete in favore, stavolta, di una visione non economicamente orientata alla flessicurezza ma, piuttosto, alla protezione dei lavoratori, consentendo alla Corte l’ingresso nelle stesse scelte di politica economica in ambito lavoristico del legislatore nazionale.
Sembrerebbe doversi concludere per un radicale mutamento di prospettiva dei giudici di Lussemburgo, dato il vistoso revirement non solo rispetto a Viking e Laval ma anche rispetto a Herron e Iraklis, con un netto spostamento dall’ottica economica ad una ampiamente protezionistica. Questa impostazione troverebbe altresì recente conferma nella decisione Plamaro (C244/22, 11 luglio 2024) che ha imposto l’adozione delle misure previste in tema di licenziamenti collettivi anche al caso del pensionamento del datore di lavoro.
È veramente ciò, quanto accaduto? A mio parere, no. Credo che Herron e Iraklis da una parte e KL e Plamaro dall'altra, unitamente alla decisione sul Pre-pack olandese (C-53/23 P, 29 febbraio 2024), siano figlie di un medesimo approccio, che non è un approccio schizofrenico, ora neoliberista ora protezionista a seconda dei casi, ma strutturalmente integrazionista. Tutte le decisioni della Corte non possono che essere lette sotto la lente di ingrandimento della garanzia dell’effettività del diritto dell’Unione e della progressiva espansione delle sue competenze.
Sotto questo profilo, KL, Protectus (decisione del 29 luglio scorso su una vicenda slovacca assai complessa in tema di informazioni commerciali confidenziali), Plamaro non si discostano dalla vicenda polacco-ungherese in tema di stato di diritto che parte da AK, passa per AB e arriva alle più recenti pronunce di condanna dell’Ungheria e della Romania per violazione del diritto dell’Unione. La Corte è sempre sulla linea del fronte nella progressiva espansione delle competenze del diritto dell’Unione e, soprattutto, nel costante perseguimento dell’effettività di tale sistema giuridico. Ciò che c’è di nuovo è che quell’effetto utile della Direttiva, rilevante in Iraklis, che essa temeva potesse essere pregiudicato, si colora mediante il ricorso ad una disposizione che, in rapida successione rispetto all’art. 21 della Carta, si candida a diventare il nuovo grimaldello nelle mani della Corte di giustizia: l’articolo 47 sulla tutela giurisdizionale effettiva.
La Corte chiarisce in KL che uno Stato membro, nell’adottare una normativa che precisa e concretizza le condizioni di impiego disciplinate in particolare dalla clausola 4 dell’accordo quadro, attua il diritto dell’Unione, ai sensi dell’articolo 51, paragrafo 1, della Carta, e deve pertanto garantire il rispetto, segnatamente, del diritto a un ricorso effettivo, sancito all’articolo 47 di quest’ultima. È giocoforza allora per la Corte constatare che la differenza di trattamento introdotta dal diritto nazionale applicabile lede il diritto fondamentale a un ricorso effettivo sancito dall’articolo 47 della Carta, in quanto il lavoratore a tempo determinato si trova ad essere discriminato rispetto al lavoratore a tempo indeterminato, di valutare preliminarmente se sia opportuno agire in giudizio contro la decisione di recesso dal suo contratto di lavoro e, se del caso, di proporre un ricorso che contesti in modo preciso i motivi di tale recesso.
A questo punto, la Corte, facendo perno su quanto aveva già detto molto tempo prima in Egenberger (C473/15, 23 marzo 2017), sottolinea che l’articolo 47 della Carta è sufficiente di per sé e non deve essere precisato mediante disposizioni del diritto dell’Unione o del diritto nazionale per conferire ai singoli un diritto invocabile in quanto tale. Ne consegue che il giudice nazionale sarebbe tenuto ad assicurare, nell’ambito delle sue competenze, la tutela giurisdizionale derivante per i singoli dall’articolo 47 della Carta, in combinato disposto con la clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro, per quanto riguarda il diritto a un ricorso effettivo, che comprende l’accesso alla giustizia, e quindi a disapplicare l’articolo 30, paragrafo 4, del codice del lavoro nella misura necessaria a garantire la piena efficacia di tale disposizione della Carta.
L'articolo 47 come "ponte" per l'effetto diretto: integrazione e solidarietà in azione continua.
Ecco la norma in grado di scardinare tutte le competenze e di funzionare persino come "stampella" per assicurare in qualche modo l’effetto diretto tra privati a disposizioni, come quelle delle Direttive, che ne siano strutturalmente prive. Come noto, nel 1992, Frank Emmert si espresse a favore del rovesciamento di Marshall perché il divieto di effetto diretto orizzontale delle Direttive era destinato a rimanere "a fright without an ending". E quindi l'opzione migliore era quella di avere "a frightening ending" della regola Marshall. Mentre la Corte ha confermato il divieto due anni dopo in Faccini Dori, la previsione di Emmert ha resistito alla prova del tempo, poiché la giurisprudenza sugli effetti giuridici delle Direttive è diventata sempre più complessa e, secondo molti commentatori, fondamentalmente incomprensibile.
La Corte ha teso sempre ad aggirarla, come fece con Mangold (C144/04, 22 novembre 2005) (restano memorabili le conclusioni dell’allora Avvocato Generale Antonio Tizzano, poi Vice Presidente della Corte di giustizia), tuttavia, già nelle quasi coeve Pfeiffer (C397/01 a C403/01, 22 novembre 2005) e Berlusconi (C387/02, C391/02 e C403/02, 3 maggio 2006), la Corte ha insistito, rispettivamente, sul divieto dell'effetto diretto orizzontale e verticale inverso delle Direttive. Con KL la diatriba assume una nuova colorazione: KL, come detto, si pone sulla scia di Thelen Technopark – facoltizzando l’interprete, che a ciò sia autorizzato dal diritto nazionale, a disapplicare in una controversia fra privati la norma interna contrastante con quella dell’Unione anche laddove quest’ultima sia priva di efficacia diretta orizzontale – ma aggiunge un tassello in più, richiamando in modo efficace Egenberger, superando qui la sua stessa tendenza ad entrare nella normativa nazionale per assicurare l’effettività del diritto dell’Unione. Non solo richiama l’effetto diretto che già aveva riconosciuto all’art. 47, ma andando oltre rispetto alla giurisprudenza Marshall e allontanandosi dalle conclusioni dell’allora avv. gen. Pitruzzella (che era stato più cauto sul punto), riconosce a quella norma effetto diretto nei rapporti giuridici tra privati, consentendole di diventare un "ponte" o meglio l’"ombrello" sotto il quale, potrebbe dirsi, qualunque norma di natura secondaria, non dotata di effetto diretto, pur in presenza del disposto di cui all’art. 288 TFUE, può assumere efficacia diretta orizzontale.
Tutto questo conduce ad una Corte che non è un attore politico imperscrutabilmente orientato ora a favore delle libertà economiche ora dei lavoratori. L’approccio analitico che abbiamo tentato di intraprendere, in un’ottica il più possibile scevra da pregiudizi ideologici ci conduce allora ad un solo ed unico risultato: la Corte, nella sua interrelazione con i giudici nazionali, è l'attore centrale della scena europea. Il suo scopo fondamentale è assicurare l’effettività del diritto dell’Unione e, al suo interno, l’effettività della tutela giurisdizionale (già nodale in Factortame (C213/89, 19 giugno 1990)) quale strumento cruciale del funzionamento del sistema. La Corte è e sarà sempre il Giudice della nomofilachia europea, e le sue sentenze, per usare le parole del Presidente Koen Lenaerts, rappresentano il "glossario delle norme interpretate".
L'ottica integrazionista e solidaristica nel diritto del lavoro: ulteriori recenti conferme.
La tendenza della Corte verso un'integrazione sempre più profonda e una tutela solidale dei diritti nel campo del lavoro è evidente in diverse recenti pronunce, che dimostrano un impegno costante e proattivo. Vediamo quali.
Riconoscimento della "persona lesa" per gli Stati membri datori di lavoro (C-536/23, Bundesrepublik Deutschland / Mutua Madrileña Automovilista, 30 aprile 2025): Questa recentissima sentenza, pur non essendo un caso di diritto del lavoro puro, è emblematica dell'approccio solidale e di effettività della Corte. La CGUE ha stabilito che uno Stato membro che, in quanto datore di lavoro, ha mantenuto la retribuzione di un funzionario infortunato in un incidente stradale e che è subrogato nei diritti di quest'ultimo contro l'assicuratore, può essere considerato una "persona lesa" ai fini delle norme speciali sulla competenza in materia di assicurazioni. Ciò significa che l'azione può essere intentata presso la giurisdizione del luogo in cui ha sede l'entità amministrativa che impiega il funzionario. Questa decisione rafforza la capacità degli Stati membri di recuperare i costi in situazioni di infortunio dei propri dipendenti, garantendo un'applicazione più fluida ed effettiva delle norme sulla responsabilità transfrontaliera e implicitamente sostenendo la solidarietà tra gli ordinamenti nazionali nella gestione di eventi complessi. È un esempio lampante di come la Corte interpreti le norme in modo da garantire la prevedibilità e la buona amministrazione della giustizia, estendendo la protezione a soggetti che, sebbene non "deboli" nel senso tradizionale, agiscono per tutelare diritti che derivano da un rapporto di lavoro.
Parità di Trattamento e Contributi Previdenziali per Lavoratori Agricoli a Termine (C-212/24, C-226/24, C-227/24, L.T. s.s. e altri / INPS, 8 maggio 2025): Questa sentenza è di fondamentale importanza per il diritto del lavoro. La Corte ha stabilito che la clausola 4, punto 1, dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato si oppone a una normativa nazionale che calcola i contributi di sicurezza sociale per i lavoratori agricoli a tempo determinato in base alle ore effettivamente lavorate, mentre per i lavoratori a tempo indeterminato li calcola su una base forfettaria (ad esempio, 6,5 ore al giorno). La Corte sottolinea che tali differenze non sono giustificate da "ragioni oggettive" legate alla natura del lavoro agricolo stagionale. Questa pronuncia è un chiaro esempio di come la Corte intervenga per eliminare discriminazioni strutturali, garantendo che il principio di non discriminazione prevalga sulle specificità nazionali, rafforzando così la parità e la solidarietà tra diverse categorie di lavoratori e assicurando l'effettività della Direttiva anche in settori complessi.
Il rinvio pregiudiziale italiano sul lavoro agricolo (Corte di Cassazione, Ordinanza n. 12572/2025 del 12 maggio 2025, Cons. Rel. Amendola): Questa recente ordinanza della Suprema Corte di Cassazione italiana è un esempio calzante del dialogo tra le Corti e della rilevanza delle questioni di diritto dell'Unione. Il caso riguarda lavoratori agricoli a tempo determinato che contestano l'inefficacia dei termini apposti ai loro contratti, chiedendo la trasformazione in rapporti a tempo indeterminato. La Cassazione ha rimesso alla Corte di Giustizia due quesiti pregiudiziali: 1) Se la clausola 5 dell'accordo quadro (Direttiva 1999/70/CE) osti a una normativa nazionale che esclude i rapporti di lavoro agricolo a tempo determinato dalla disciplina comune. 2) Se una misura prevista dalla contrattazione collettiva, che riconosce il diritto alla trasformazione del contratto a termine in indeterminato dopo 180 giornate lavorative in 12 mesi (con un termine di decadenza di 6 mesi), possa rientrare tra le "norme equivalenti per la prevenzione degli abusi". Questa ordinanza, pubblicata pochissimi giorni fa, è la dimostrazione concreta di come i giudici nazionali, anche di ultima istanza, si rivolgano alla CGUE per chiarire la compatibilità del diritto interno con i principi europei, evidenziando la tensione tra le peculiarità di un settore (come l'agricoltura, con il suo andamento stagionale) e la necessità di prevenire gli abusi nella successione dei contratti a termine. Questo sottolinea la centralità del rinvio pregiudiziale come strumento di uniformità e di garanzia dell'effettività del diritto dell'Unione, anche nel nostro ordinamento.
Tutela dei diritti dei lavoratori e clausole abusive nei contratti di lavoro (C-497/23, R.A. contro Komerční banka a.s., 25 gennaio 2024): Sebbene il caso riguardi un contratto di credito, l'approccio sottostante – la tutela del contraente debole (in questo caso, il consumatore, ma con implicazioni chiare per il lavoratore) contro clausole abusive che possono ledere i suoi diritti fondamentali – è pienamente estensibile e si riflette sull'interpretazione dei contratti di lavoro. La Corte rafforza il potere del giudice nazionale di disapplicare tali clausole d'ufficio, consolidando un principio di tutela effettiva.
Periodo di riposo e orario di lavoro (implicazioni del lavoro da remoto) (C-353/22, D.P., 22 febbraio 2024): Questa sentenza, pur in un contesto di responsabilità civile, ribadisce l'importanza di un'interpretazione ampia delle norme sulla sicurezza e salute sul lavoro. Questo approccio è particolarmente rilevante per il lavoro da remoto e ibrido, dove la linea tra vita professionale e privata è sempre più sfumata. La Corte indirettamente spinge per l'integrazione e l'armonizzazione delle prassi nazionali per garantire che la tutela del lavoratore non sia compromessa dalle nuove modalità organizzative, riflettendo un principio di solidarietà nella protezione della dignità del lavoro.
Diritto alla disconnessione e monitoraggio dei lavoratori (Meta v. Bundeskartellamt, C-252/21, 28 gennaio 2024; C-55/18, CCOO, 14 maggio 2019): Sebbene una sentenza diretta sul "diritto alla disconnessione" sia ancora attesa in un caso specifico, il costante rafforzamento dei diritti legati alla protezione dei dati (vedi GDPR e l'applicazione in casi come Meta v. Bundeskartellamt) e la giurisprudenza sull'orario di lavoro (es. CCOO sull'obbligo di registrare l'orario di lavoro) implicano una chiara direzione. La Corte promuove un'ottica integrazionista che limita le possibilità di monitoraggio invasivo e garantisce un equilibrio tra le esigenze aziendali e il diritto alla privacy e al riposo del lavoratore, contribuendo a un quadro normativo più coeso e solidale a livello europeo.
Qualificazione del rapporto di lavoro nell'economia delle piattaforme (Direttiva (UE) 2024/2831 del 23 ottobre 2024; Uber Spain, C-434/15, 20 dicembre 2017): Pur non essendoci una nuova sentenza "landmark" sulla qualificazione generale dei lavoratori delle piattaforme successiva alla già menzionata Direttiva, è fondamentale riconoscere che l'attività della Corte (es. Uber Spain) ha catalizzato l'azione legislativa dell'UE. La Direttiva riflette l'approccio dell'Unione nel garantire protezione a categorie di lavoratori tradizionalmente ai margini, un'integrazione normativa che è stata a lungo stimolata dai quesiti pregiudiziali e dalle sollecitazioni giurisprudenziali. Questa interazione dinamica tra giurisprudenza e legislazione è la chiara dimostrazione di un approccio integrazionista e solidaristico volto a non lasciare "zone grigie" di tutela.
Parità di trattamento e non discriminazione (autonomi) (C-152/21, X contro Y, 6 febbraio 2023; Fenix International, C-74/22, 22 febbraio 2024): La sentenza C-152/21 è un esempio eccellente di come la Corte interpreti estensivamente i principi fondamentali dell'UE, estendendo la protezione dalle discriminazioni basata sull'orientamento sessuale anche ai lavoratori autonomi in condizioni di dipendenza economica. Questo approccio integrazionista non si limita al lavoratore subordinato tradizionale, ma include nuove forme di lavoro, garantendo una maggiore uniformità nella tutela dei diritti e rafforzando il principio di solidarietà tra tutte le persone che contribuiscono al mercato del lavoro. Anche il caso Fenix International, pur sulla TVA, riflette una visione che guarda alla sostanza economica, influenzando indirettamente la platform economy verso un quadro più integrato.
Questi esempi, insieme alla già citata Plamaro (C244/22, 11 luglio 2024) che ha imposto l'adozione delle misure sui licenziamenti collettivi anche in caso di pensionamento del datore di lavoro, e al caso Pre-pack olandese (C-53/23 P, 29 febbraio 2024), confermano che la Corte non è un attore politico imperscrutabilmente orientato ora a favore delle libertà economiche, ora dei lavoratori. 
L'approccio analitico che ho tentato, scevro da pregiudizi ideologici, ci conduce a un unico risultato: la Corte, nella sua interrelazione con i giudici nazionali, è l'attore centrale della scena europea. Il suo scopo fondamentale è assicurare l'effettività del diritto dell'Unione e, al suo interno, l'effettività della tutela giurisdizionale (già cruciale in Factortame (C213/89, 19 giugno 1990)) quale strumento essenziale per il funzionamento del sistema. 
Un ultimo esempio può ulteriormente chiarire questo approccio.
Nella nota vicenda che ha visto protagonista l’ILVA, la Corte di giustizia si pone perfettamente in linea con il rafforzamento della tutela dei diritti fondamentali (fra i quali spicca, ovviamente, il diritto alla salute), nell’affermare che la Direttiva 2010/75 deve essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale ai sensi della quale il termine concesso al gestore di un’installazione per conformarsi alle misure di protezione dell’ambiente e della salute umana previste dall’autorizzazione all’esercizio di tale installazione è stato oggetto di ripetute proroghe, sebbene siano stati individuati pericoli gravi e rilevanti per l’integrità dell’ambiente e della salute umana e nell’affermare che in presenza di tali pericoli, l’esercizio dell’installazione deve essere sospeso.
Nondimeno la pronunzia opera su un piano nettamente e strutturalmente distinto rispetto a quello in cui operò con riguardo all’ILVA in due occasioni la nostra Corte costituzionale e su cui la stessa si è mossa, anche di recente, nel caso Priolo. 
In questo ultimo caso, con la sentenza n. 105 del 13 maggio -7 giugno 2024, la Corte ha affermato che è sulla sostenibilità costituzionale della disciplina generale e astratta dettata dal legislatore alla luce dei parametri evocati dall’ordinanza di rimessione – e non già sulla correttezza del bilanciamento effettuato dal Governo, attraverso le misure prescritte dal d.interm. 12 settembre 2023, nello specifico caso oggetto del procedimento a quo – che la Corte è, oggi, chiamata a pronunciarsi”. Tuttavia, proprio con riferimento alle suddette misure di bilanciamento, aggiunge significativamente che si tratta di misure individuate da un provvedimento che resta di natura amministrativa, e come tale soggetto agli ordinari controlli giurisdizionali sotto il profilo della sua legittimità
Con riguardo all’IlVA, in estrema sintesi, con la sentenza n. 85 del 2013 la Corte costituzionale aveva risolto il conflitto parlando di “un ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, in particolare alla salute (art. 32 Cost.), da cui deriva il diritto all’ambiente salubre, e al lavoro (art. 4 Cost.), da cui deriva l’interesse costituzionalmente rilevante al mantenimento dei livelli occupazionali ed il dovere delle istituzioni pubbliche di spiegare ogni sforzo in tal senso”, precisando che “la qualificazione come “primari” dei valori dell’ambiente e della salute significa pertanto che gli stessi non possono essere sacrificati ad altri interessi, ancorché costituzionalmente tutelati, non già che gli stessi siano posti alla sommità di un ordine gerarchico assoluto”. 
Ebbene, libertà di iniziativa economica da un lato e salute e diritto al lavoro, unitariamente considerati, dall’altro, sono sicuramente al centro del discusso bilanciamento operato dalla Corte. 
Non è questo lo scenario in cui si muove la recente decisione sull’ILVA della Corte di giustizia, la n. 626/22 del 25 giugno 2024 che opera, infatti, su un piano del tutto diverso. In quella pronunzia troviamo, invero, un solo passaggio riservato alla posizione dei lavoratori e si tratta, significativamente, di quello nel quale la Corte richiama le deduzioni del governo italiano in base alle quali un adeguamento ai requisiti previsti dall’autorizzazione integrata ambientale del 2011 avrebbe comportato un’interruzione dell’attività dello stabilimento, che rappresentava, secondo il Governo, un’importante fonte di occupazione, per diversi anni. A tale riguardo la Corte si limita a sottolineare che, ai sensi del considerando 43 della Direttiva 2010/75, il legislatore dell’Unione ha previsto che talune nuove prescrizioni derivanti da detta Direttiva si applichino alle installazioni esistenti, come lo stabilimento Ilva, dopo un periodo di tempo determinato a partire dalla data d’applicazione di detta Direttiva, e ciò «per concedere (...) un tempo sufficiente» a dette installazioni esistenti per adeguarsi, sul piano tecnico, a tali nuove prescrizioni.
A questo punto torna il rilievo, determinante, del giudice nazionale, cui solo spetta stabilire, secondo la Corte, se le norme speciali adottate nei confronti dello stabilimento ILVA abbiano differito eccessivamente l’adozione delle misure necessarie alla luce dei danni all’ambiente e alla salute umana.
Ambiente e salute da un lato libera impresa dall’altro; il lavoro resta fuori da questa diatriba né la sentenza della CGUE può essere agitata come un vessillo rispetto alle decisioni della Corte costituzionale e inglobata, secondo l’impostazione classica giuslavoristica, fra le pronunzie di Lussemburgo che, nell’effettuare il noto bilanciamento, attribuirebbero un peso specifico superiore alla tutela del lavoro rispetto a quella della libertà di iniziativa economica - e ciò in apparente contrapposizione con il percorso seguito dalla nostra Corte costituzionale -.
Al centro della decisione della Corte, senza dubbio, il diritto fondamentale alla salute, questo si, stavolta, posto in contrapposizione alla libertà di iniziativa economica, per un motivo molto semplice: perché la Corte decide sui quesiti che le vengono posti in sede di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE. 
E’ allora ancora il giudice nazionale, nel proprio fondamentale ruolo di organo di base dello spazio giudiziario europeo a tracciare il perimetro della vicenda all’esame della Corte. Certo, abbiamo trovato spesso importanti e decisive affermazioni di principio nelle decisioni della Corte di giustizia, al di là degli stretti quesiti posti in sede di rinvio, ma tutto ciò trova una sola ratio, quella in base alla quale la Corte è e sarà sempre il Giudice della nomofilachia europea e le sue sentenze, per usare le parole del Presidente Koen Lenaerts rappresentano il glossario delle norme interpretate.

