TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
Sent. CGUE dell’8.5.2025,nelle cause riunite C‑212/24, C‑226/24 e C‑227/24
1. Premesse. 
Con la sentenza in commento la Corte di Giustizia è stata chiamata a pronunciarsi sulla tenuta eurounitaria del meccanismo di versamento dei contributi previdenziali applicato nell’ordinamento italiano per gli operai assunti con contratto a termine nel settore agricolo. Più precisamente, si è domandato al Collegio se una normativa che stabilisce per i lavoratori assunti a termine un regime diverso – e sfavorevole – rispetto a quello riservato ai lavoratori a tempo indeterminato possa considerarsi conforme al principio di non discriminazione, sancito dalla clausola 4, punto 1, dell’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato del 18 marzo 1999, allegato alla direttiva 1999/70/CE.
Prima addentrarsi nell’analisi della vicenda, occorre chiarire che il rinvio pregiudiziale ha riguardato la disciplina nazionale alla luce dell’interpretazione che ne ha fornito la Corte di cassazione. Analizzando le disposizioni di legge e del contratto collettivo applicabili, infatti, la Suprema Corte ha accertato la sussistenza di un sistema di calcolo della contribuzione previdenziale obbligatoria diversificato: per i lavoratori a termine, i contributi devono essere conteggiati in base alle ore di lavoro effettivamente svolte, cioè, le uniche retribuite; per i lavoratori assunti a tempo indeterminato, invece, si deve prendere in considerazione l’orario di lavoro giornaliero forfetariamente determinato dal contratto collettivo, che costituisce l’unità di calcolo della retribuzione, prescindendo da quello in concreto osservato. La presenza di un doppio binario ha sollevato, quindi, dubbi di compatibilità con il diritto dell’UE.
Tuttavia, come si vedrà, la lettura offerta dal giudice di legittimità, da un lato, non è stata univocamente accolta dalla giurisprudenza nazionale: benché abbia avuto un certo seguito tra i giudici di legittimità , le Corti territoriali che si sono occupate della questione sono giunte a conclusioni difformi, tanto da sollecitare, in sede di giudizio di rinvio, l’intervento del giudice dell’UE. 
Dall’altro lato, varie obiezioni sono state mosse dalla dottrina, che ha evidenziato le fragilità della tesi sostenuta dagli ermellini, frutto di un «fraintendimento interpretativo» della disciplina legale e collettiva sull’orario di lavoro dell’operaio agricolo, nonché carente, tra l’altro, di un solido impianto argomentativo e di una visione di sistema.
2. La fattispecie concreta.
Il rinvio pregiudiziale è scaturito da tre ordinanze, di contenuto sostanzialmente identico, emesse dalla Corte di appello nell’ambito distinti giudizi, poi riuniti dinnanzi alla Corte di Giustizia.
La controversia ha tratto origine da alcune ingiunzioni di pagamento emesse dall’Inps, con le quali era stato contestato a tre imprese agricole l’erroneo versamento della contribuzione obbligatoria in relazione alla posizione previdenziale di alcuni operai impiegati con contratto a tempo determinato . 
In particolare, l’Istituto aveva richiesto il pagamento di contributi aggiuntivi, lamentando che l’importo dei contributi da versare era stato calcolato dalle società non in base all’orario giornaliero fissato dal contratto collettivo (e pari a sei ore e trenta minuti), ma tenendo conto delle ore effettivamente lavorate dai dipendenti, in violazione dell’art. 1, d.l. n. 338/1989 (conv. in l. n. 389/1989). Al contrario, per i dipendenti assunti a tempo indeterminato, i contributi dovuti erano stati conteggiati utilizzando quale parametro l’orario di lavoro giornaliero, a prescindere da quello in nei fatti osservato. 
Le imprese hanno eccepito la correttezza del loro operato, invocando l’art. 40 del CCNL applicato ai rapporti di lavoro, che, con riferimento ai soli lavoratori a tempo determinato, introdurrebbe una previsione derogatoria idonea a sottrarli all’ambito di applicazione della regola generale sull’orario normale di lavoro. 
L’opposizione proposta dai datori di lavoro, accolta in primo grado, è stata rigettata dal giudice dell’appello, secondo il quale, anche in forza del principio di non discriminazione, la retribuzione degli operai agricoli a termine doveva essere calcolata in base all’orario forfetariamente fissato dai contratti collettivi e non in funzione dalle ore effettivamente lavorate. 
La Corte di cassazione ha, però, cassato le sentenze e rimesso nuovamente la causa alla Corte di appello di Firenze, formulando il seguente principio di diritto: «I contributi previdenziali dovuti dal datore di lavoro agricolo sui corrispettivi corrisposti agli operai agricoli a tempo determinato vanno calcolati, ai sensi del combinato disposto dell’art. 1, comma 1, d.l. n. 338/1989 (conv. con l. n. 389/1989), e dell’art. 40 CCNL 6.7.2006, esclusivamente sulle ore effettivamente lavorate, salvo che in concreto risulti che, in occasione di interruzioni dovute a causa di forza maggiore, il datore di lavoro abbia disposto che l’operaio rimanga nell’azienda a sua disposizione» .
La Corte territoriale, a sua volta, nell’ambito di ciascuno dei tre giudizi, anziché attenersi (ex art. 384, comma 2, c.p.c.) alle indicazioni provenienti dal giudice di ultima istanza, se ne è discostata, dubitando della compatibilità della lettura fornita dalla Corte di cassazione con il principio di non discriminazione di matrice eurounitaria. 
Pertanto, sulla scorta di un indirizzo della giurisprudenza nazionale e di quella eurounitaria , la Corte di appello fiorentina ha attivato la procedura ex art. 267 TFUE, sottoponendo alla Corte di Giustizia i seguenti quesiti: 1) se la clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro deve essere interpretata nel senso che osta ad una contrattazione collettiva nazionale, come quella contenuta nell’art. 40 del C.C.N.L. per gli operai agricoli e florovivaisti del 6.7.2006, come interpretata dalla Corte di Cassazione in modo vincolante per il giudice di rinvio, che con riguardo all’operaio agricolo a tempo determinato riconosce il diritto al pagamento delle ore di lavoro effettivamente prestate nella giornata, a fronte del precedente art. 30 del C.C.N.L. che per gli operai agricoli a tempo indeterminato riconosce il diritto alla retribuzione, parametrandolo a una giornata lavorativa di ore sei ore e trenta minuti; 2) in caso di risposta positiva alla precedente questione, se la clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro deve essere interpretata nel senso che anche la determinazione della misura della contribuzione previdenziale obbligatoria dovuta in favore dei lavoratori agricoli a tempo determinato nell’ambito di un regime professionale di sicurezza sociale rientra nelle condizioni di impiego, conseguendone che la stessa debba essere determinata sulla base dello stesso criterio previsto per i lavoratori agricoli a tempo indeterminato e quindi commisurata sulla base dell’orario giornaliero di lavoro fissato dalla contrattazione collettiva, e non già sulla base delle ore di lavoro effettivamente svolte.
3. Peculiarità del lavoro agricolo e specialità della disciplina: cenni.
Prima di soffermarsi sull’esame delle questioni giuridiche rimesse all’attenzione del giudice dell’UE (e, ancor prima, della giurisprudenza nazionale), occorre ricostruire sinteticamente la peculiare cornice normativa in cui esse si inseriscono. 
Il lavoro agricolo è infatti destinatario di un regime regolativo speciale, derivante non solo dalla disomogeneità del settore (che si trova espressione nella varietà delle attività svolte nonché nella pluralità delle forme di lavoro utilizzate) ma anche dalla sua forte connotazione stagionale, che influisce direttamente sulla disciplina dei rapporti di lavoro instaurati in tale ambito.
In primo luogo, l’endemica discontinuità che caratterizza il processo produttivo in agricoltura induce a ricorrere a rapporti di lavoro di breve (o brevissima durata). Il contratto a termine, dunque, evolve da strumento di flessibilità lavorativa da assoggettare a condizioni di utilizzo stringenti a modalità di impiego fisiologicamente prevalente. Tant’è che il rapporto di lavoro degli operai a tempo determinato in agricoltura è espressamente escluso dal campo di applicazione della normativa generale sul contratto a termine (art. 29, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 81/20215) . 
La peculiarità della disciplina si manifesta, però, soprattutto sul piano della tutela previdenziale apprestata in favore del lavoratore agricolo e, in particolare, dell’operaio agricolo, categoria che si suddivide, a sua volta, in operai agricoli a tempo indeterminato e a tempo determinato . 
Alla stregua delle definizioni contenute nel contratto collettivo per gli operai agricoli e florovivaisti , sono operai agricoli a tempo indeterminato (gli ex “salariati fissi”) quelli che operano alle dipendenze di una impresa agricola singola o associata, senza prefissione di un termine. 
Sono operai agricoli a termine (in passato definiti “braccianti agricoli avventizi”) gli operai quelli assunti con contratto di lavoro tempo determinato che ricadono nelle ipotesi espressamente indicate dall’autonomia collettiva. Le causali tipizzate dal contratto collettivo sono, in particolare connesse: a) alla breve durata, alla stagionalità o alla saltuarietà del lavoro da eseguire, a ragioni sostitutive; b) allo svolgimento di più lavori stagionali e/o per più fasi lavorative nell’anno, ai quali l’azienda è comunque tenuta a garantire un numero di giornate di occupazione superiore a 100 annue; c) al caso di operai assunti originariamente con contratto di lavoro a termine di durata superiore a 180 giornate di effettivo lavoro, da svolgersi nell’ambito di un unico rapporto continuativo.
Sul piano della normativa previdenziale, sensibili differenze si riscontrano in relazione all’indennità di disoccupazione agricola , che rappresenta la «prestazione previdenziale per eccellenza degli operai agricoli» , ispirata più a logiche solidaristico-assistenziali che mutualistiche . 
Non si riscontrano, invece, per ciò che qui rileva, differenze rispetto all’applicazione del sistema di calcolo c.d. contributivo, valido anche per l’operaio agricolo, e basato sulla stretta correlazione tra retribuzione percepita e contributi dovuti . Parimenti trova applicazione nelle ipotesi considerate la regola del c.d. minimale contributivo, al cui rispetto è anche condizionata la concessione di alcune agevolazioni contributive. 
Alla luce dello scenario sopra tratteggiato, risulta che i profili contributivi si intrecciano inevitabilmente con quelli retributivi e, ancora più a monte, con quelli attinenti all’orario di lavoro. Questi ultimi, in particolare, sono regolati dalla contrattazione collettiva e presentano alcuni elementi di specificità che occorre sinteticamente ricostruire, essendo al centro della pronuncia in commento.
3.1. I contrasti giurisprudenziali in materia di orario di lavoro degli operai agricoli a termine.
Il ragionamento della Corte di Giustizia si sviluppa attorno a due disposizioni del CCNL per gli operai agricoli e florovivaisti del 6 luglio 2006 (applicabile ratione temporis alla fattispecie concreta ): l’art. 30, comma 1, che, nel regolare l’orario di lavoro, fissa un orario settimanale (pari a 39 ore) e uno giornaliero (pari a sei ore e trenta minuti); l’art. 40, dedicato alle situazioni di «Interruzioni e recuperi operai agricoli», che stabilisce una disciplina diversificata tra lavoratori a termine e lavoratori a tempo indeterminato.
Più precisamente, questa previsione stabilisce che, in caso di interruzione dell’attività lavorativa dovuta a causa di forza maggiore, i lavoratori a termine hanno diritto al pagamento per le ore effettivamente prestate nella giornata (comma 1), mentre deve essere corrisposta la remunerazione anche per le ore non lavorate esclusivamente ove il lavoratore sia rimasto, su indicazione del datore di lavoro, a disposizione di quest’ultimo (comma 2). 
In situazioni analoghe, per i lavoratori assunti a tempo indeterminato opera invece il regime dei recuperi delle ore non lavorate, rimesso alla regolamentazione dei contratti collettivi provinciali (comma 3); in alternativa, si avrà diritto al trattamento sostitutivo di cui all’art. 8, l. n. 457/1972 (comma 4). 
Ebbene, attendendosi allo scenario normativo appena illustrato, ad eccezione dei casi di interruzione dell’attività di cui all’art. 40 del CCNL , non sussisterebbe un trattamento diversificato tra lavoratori a termine e lavoratori a tempo indeterminato in materia di orario di lavoro e retribuzione e, conseguentemente, sotto il profilo contributivo. Pertanto, il rinvio pregiudiziale al giudice dell’UE perderebbe la sua ragion d’essere.
A ben vedere, l’equivoco nasce dal fatto che la cornice regolativa sopra descritta - o, meglio, la sua interpretazione – non coincide con quella delineata dalla Corte di cassazione e rimessa al vaglio della Corte di Giustizia da parte della Corte di appello. 
In altre parole, a quadro normativo inviato, il giudice di legittimità ha offerto una diversa (e parziale) lettura, che si concentra sulle singole disposizioni, smarrendo la visione di insieme . 
Rimandando al successivo paragrafo un cenno alle scarne considerazioni svolte sul rispetto del principio di non discriminazione, le argomentazioni della Suprema Corte si concentrano essenzialmente sull’inapplicabilità dell’art. 30, comma 1, del CCNL nei confronti dei lavoratori a termine e sulla conseguente inesistenza, in relazione a questi ultimi, di un orario di lavoro minimo giornaliero. 
Infatti, secondo questa impostazione esegetica, l’art. 30, comma 1 – benché, prima facie, sembrerebbe avere portata generale – riguarderebbe soltanto gli operai assunti a tempo indeterminato. Ciò in quanto i lavoratori a termine sono espressamente destinatari della disciplina contenuta nell’art. 40, comma 1, del CCNL che, riconoscendo all’operaio a tempo determinato il diritto alla retribuzione per le ore effettivamente lavorate, detta una norma «logicamente incompatibile con il concetto di orario di lavoro settimanale e di orario giornaliero, atteso che svincola la retribuzione dovuta dal riferimento ad un tempo di lavoro precostituito ed individuabile in termini generali e astratti». 
Pertanto, stante l’inconfigurabilità di un orario di lavoro minimo giornaliero, i contributi per i lavoratori a termine devono essere calcolati sulla base delle ore realmente lavorate, ossia le uniche che devono essere remunerate.
Siffatta tesi però, come sopra accennato detto, presta il fianco a varie obiezioni, essendo frutto di un travisamento del dato normativo. 
Basti rilevare che la Suprema Corte ignora completamente il fatto che l’art. 40 del CCNL, lungi dal regolare l’orario di lavoro del lavoratore a termine, si limita a stabilire la retribuzione spettante all’operaio agricolo nei casi di interruzione dell’attività per cause di forza maggiore . Una simile lettura è, del resto, suggerita anche dalla rubrica del menzionato art. 40, riferita all’ipotesi di «Interruzioni e recuperi operai agricoli» .
Né appare convincente l’argomentazione del giudice di legittimità ove, per supportare la propria decisione, richiama l’art. 16, comma 1, lett. g), d.lgs. n. 66/2003, che sottrae gli operai agricoli a termine all’ambito di applicazione della disciplina della durata settimanale dell’orario normale di lavoro. Nella vicenda in esame – è stato osservato – non si discute dell’orario settimanale, ma di quello giornaliero che, pur in assenza di specifiche previsioni legali, può essere fissato dalle parti sociali, come avviene nel caso dell’operaio agricolo. 
Peraltro, mentre l’assenza di un di un orario normale settimanale si giustifica in base alle peculiarità del settore , la mancata garanzia di un limite minimo giornaliero sembrerebbe inconciliabile con la funzione assegnata dalla contrattazione collettiva alla «giornata di lavoro» nella definizione delle tipizzazioni del lavoro agricolo a termine . 
Neppure il passaggio – tutt’altro che lineare – in cui si fa riferimento alla regola del c.d. minimale retributivo , accompagnato dal richiamo alla giurisprudenza che esalta l’autonomia del rapporto contributivo rispetto al rapporto di lavoro, è idoneo a rendere persuasiva la posizione assunta dalla Corte di cassazione. 
Invero, secondo la ricostruzione operata nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale, si intenderebbe in tal modo rafforzare la tesi dell’infondatezza delle pretese dell’INPS: proiettando la regola del minimale contributivo nel contesto regolativo sopra descritto, i datori di lavoro risulterebbero pienamente adempienti, avendo versato i contributi per un ammontare calcolato sulla base delle ore di lavoro effettivamente svolte, ossia, le uniche che, secondo le norme di stampo collettivo, devono essere remunerate . 
È appena il caso di ribadire che, anche sotto questo profilo, la fallacia dell’argomentazione della Corte risiede nel suo presupposto logico-giuridico, ossia, come già detto, la convinzione che i lavoratori assunti a tempo determinato debbano essere retribuiti soltanto in relazione alle ore realmente lavorate e che non siano vincolati ad un orario di lavoro giornaliero.
Da ultimo, non si può ignorare che escludere gli operai agricoli assunti a termine dalla disciplina sull’orario minimo giornaliero significa attribuire al datore il potere di definire (e ridurre) in via unilaterale, la quantità di prestazione lavorativa da rendere quotidianamente. Ciò comporta inevitabili ripercussioni non solo sulla posizione previdenziale del lavoratore, ma anche sulle sue condizioni esistenziali, incidendo sulla stabilità del suo reddito e sulla facoltà di gestire e pianificare il proprio tempo libero , compromettendo, in ultima analisi, la dignità dell’individuo . Si tratta delle stesse argomentazioni poste, in passato, a fondamento della normativa sul contratto a tempo parziale , e più, di recente, rinverdite dal d.lgs. n. 104/2022 (attuativo della direttiva 2019/1152/UE) che mira, fra l’altro, a garantire la «prevedibilità del lavoro» .
4. I dubbi di conformità al principio di non discriminazione della normativa interna sul calcolo dei contributi previdenziali: l’intervento chiarificatore della Corte di Giustizia.
Nell’ambito della ricostruzione ermeneutica operata dalla Corte di cassazione, marginali sono state le riflessioni sull’ipotetica violazione del principio di non discriminazione. A tale proposito, il Collegio aveva escluso il contrasto tra diritto interno e direttiva europea, limitandosi ad osservare che il divieto di discriminazione riguarda il rapporto di lavoro inter partes e, pertanto, può legittimare, «a tutto concedere», eventuali rivendicazioni di tipo retributivo da parte del lavoratore, ma non autorizza l’ente previdenziale ad una diversa e maggiore pretesa in termini di contributi previdenziali, «esulando la materia del rapporto contributivo dalle previsioni del diritto dell'Unione». 
La Corte di Giustizia, invece, supera i rilievi preliminari sulla ricevibilità delle questioni pregiudiziali e considera applicabile il principio di non discriminazione alla fattispecie concreta , alla stregua della clausola 2, punto 1, dell’Accordo quadro . 
Passa, poi, ad esaminare (congiuntamente) i quesiti posti dal giudice del rinvio, focalizzandosi sui seguenti aspetti: l’estensione della nozione di «condizioni di impiego», che deve essere indagata al fine di verificare se la previsione di una disciplina differenziata in relazione agli aspetti retributivi e pensionistici possa considerarsi rilevante alla stregua della disciplina europea; la comparabilità della situazione in cui versano i lavoratori agricoli a termine rispetto a quella dei lavoratori agricoli a tempo indeterminato; la presenza o meno di «ragioni oggettive» legittimanti un trattamento differenziato.
4.1. La riconducibilità dei trattamenti retributivi e pensionistici alla nozione di «condizioni di impiego».
Quanto al primo punto, il giudice dell’UE afferma innanzitutto che le «condizioni di impiego» includono anche le retribuzioni, questione che, a ben vedere, non era stata messa neppure in discussione dalle ricorrenti del procedimento principale . 
Infatti, come già osservato in passato , il principio di non discriminazione regolato all’interno dell’Accordo quadro è finalizzato al miglioramento della qualità delle condizioni di lavoro dei lavoratori interessati, scopo che rientra anche tra gli obiettivi fondamentali dell’UE. Esso esprime, dunque, un principio di diritto sociale comunitario, non suscettibile di essere interpretato in modo restrittivo. 
Sicché, pur rientrando la materia retributiva nella sfera di competenza del legislatore nazionale , i singoli Stati membri sono tenuti a rispettare il principio di non discriminazione nella determinazione sia degli elementi costitutivi della retribuzione sia del livello di tali elementi. 
Più articolato risulta invece il ragionamento quando l’attenzione si sposta sulle pensioni.
In proposito, attingendo all’orientamento elaborato per la delimitazione del concetto di “retribuzione” valida ai fini dell’applicazione del principio di parità salariale tra uomo e donna (ex art. 119 TCEE e 141, par. 2, secondo comma, TCE ), si è optato per una lettura ampia, che comprende anche le pensioni. 
Deve trattarsi, però, di pensioni che dipendono da un rapporto di lavoro tra lavoratore e datore di lavoro, ascrivibili, quindi, ad un regime professionale di sicurezza sociale . Al contrario, rimangono escluse le pensioni legali di previdenza sociale meno dipendenti da un rapporto siffatto che da considerazioni di ordine sociale .
Tuttavia, secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, il criterio dell’impiego – ossia quello che valorizza il nesso causale tra l’erogazione del trattamento pensionistico e il rapporto di lavoro tra lavoratore ed ex datore di lavoro – può avere carattere determinante, ma non esclusivo, atteso che anche le pensioni corrisposte dai regimi previdenziali legali possono, in tutto o in parte, tener conto della retribuzione dell’attività lavorativa. 
Di conseguenza, sono stati individuati alcuni parametri che devono guidare il giudice nazionale nell’operazione di inquadramento dei contributi all’interno dell’una o dell’altra tipologia di sistema di sicurezza sociale . Nella decisione in esame, la Corte di Giustizia ha tenuto conto di tali parametri e li ha declinati in base alle caratteristiche della fattispecie concreta oggetto dei procedimenti principali. In particolare, è stato precisato che i contributi rientreranno nella nozione di «condizioni di impiego» (perché destinati a confluire in un regime professionale di sicurezza sociale) ove ricorrano le seguenti condizioni: le prestazioni previdenziali finanziate con detti contributi interessano soltanto gli operai agricoli o una categoria di lavoratori cui essi appartengono; dette prestazioni dipendono direttamente dai contributi versati; infine, questi ultimi sono calcolati in funzione delle retribuzione corrisposte agli operai agricoli per il lavoro svolto presso il datore di lavoro.
4.2. Valutazione di comparabilità e inapplicabilità del principio del pro rata temporis. 
Procedendo ulteriormente nell’analisi, la Corte rileva che, alla luce delle previsioni dell’Accordo quadro (integrate dall’interpretazione offerta negli anni dalla giurisprudenza ), sussistono gli estremi per operare una valutazione di comparabilità tra le condizioni di impiego dei lavoratori agricoli a termine e quelle riconosciute ai dipendenti a tempo indeterminato. I primi, infatti, svolgono un lavoro identico o simile a quello eseguito dai secondi . 
Questo assunto è confermato anche dalla fungibilità di tali figure, considerato che, come sopra ricordato, una delle causali di ricorso al contratto a termine individuate dalla contrattazione collettiva consiste proprio nella sostituzione di operai assenti per i quali sussista il diritto alla conservazione del posto . 
Ebbene, dal raffronto emerge una inequivocabile disparità di trattamento, atteso che, alla stregua della disciplina italiana, così come interpretata dal giudice supremo nazionale, i lavoratori agricoli a termine sono pagati in base alle ore effettivamente svolte (su cui saranno quindi parametrati i relativi contributi previdenziali), mentre quelli assunti a tempo indeterminato ricevono la remunerazione sulla base di un orario di lavoro giornaliero stabilito forfettariamente (sei ore e mezza), indipendentemente da quello nei fatti osservato. Poiché la retribuzione costituisce il parametro di calcolo dei contributi previdenziali, gli operai agricoli a termine finiscono per ricevere, sul piano della tutela previdenziale, un trattamento sfavorevole.
Né si ritiene possano essere accolte le considerazioni su cui insistono le ricorrenti nella propria memoria circa la presunta rilevanza principio del pro rata temporis. La possibilità di applicare, «se del caso», detto principio, ai sensi della clausola 4, punto 2, «si limita a sottolineare una delle conseguenze che possono se del caso essere ricollegate, sotto il controllo eventuale del giudice, all’applicazione del principio di non discriminazione a favore dei lavoratori a tempo determinato, senza per nulla incidere sul tenore stesso di tale principio» .
Nella fattispecie concreta, però, non si ritiene che le differenti modalità di calcolo della retribuzione e dei contributi siano giustificabili in forza del menzionato criterio del riproporzionamento. Infatti, i diversi riferimenti temporali (collegati, in un caso, al numero di ore effettivamente lavorate e, nell’altro, ad un orario stabilito forfetariamente) non sono la conseguenza dell’applicazione del principio di non discriminazione e sfavoriscono gli operai agricoli a tempo determinato.
4.3. L’inesistenza di ragioni oggettive legittimanti la disparità di trattamento. 
L’ultimo controllo della Corte attiene alla eventuale configurabilità di «ragioni oggettive» che, alla stregua del punto 1 della clausola 4 dell’Accordo quadro, permettano una legittima deviazione dal principio di non discriminazione. 
In proposito, le ricorrenti nei procedimenti principali hanno rilevato che lo scostamento dalla regola di parità sarebbe motivato dalla specificità delle ipotesi di assunzione a termine indicate dalla contrattazione collettiva, che attestano la natura intrinsecamente occasionale di questa tipologia di rapporto di lavoro. Alla luce di questa endemica temporaneità, il lavoro a termine nel settore agricolo sarebbe incompatibile con l’obbligo di stare a disposizione del datore di lavoro per trentanove ore di lavoro settimanali, vincolo imposto invece ai dipendenti a tempo indeterminato, con la conseguenza che gli operai agricoli a tempo determinato devono essere remunerati esclusivamente per le ore effettivamente lavorate.
Peraltro, si legge nella memoria, la peculiarità della disciplina italiana sarebbe del tutto coerente con quanto disposto nel terzo preambolo dell’Accordo quadro, secondo cui, nel dare applicazione alle previsioni ivi contenute, si deve tenere conto delle realtà specifiche delle situazioni nazionali, settoriali e stagionali. Ancora, si deve considerare che, in Italia, il contratto a tempo determinato rappresenta la modalità di reclutamento della manodopera più diffusa in ambito agricolo (raggiungendo una copertura del 90%), proprio in quanto pienamente compatibile con il carattere discontinuo dell’attività resa in detto settore.
In definitiva, alla luce del quadro sopra delineato, le ricorrenti sostengono che, attesa la specificità del lavoro agricolo, il differente trattamento riservato agli operai agricoli a tempo determinato debba ritenersi obiettivamente giustificato e, quindi, coerente con la normativa eurounitaria. 
Tuttavia, tali argomentazioni non sono state giudicate fondate dalla Corte di Giustizia, che non ha riscontrato nelle presunte «ragioni obiettive» invocate dalle società le caratteristiche enucleate negli anni dalla giurisprudenza eurounitaria. 
Invero, secondo un orientamento ormai consolidato, l’eventuale disparità deve essere giustificata «dalla sussistenza di elementi precisi e concreti, che contraddistinguono il rapporto di impiego di cui trattasi, nel particolare contesto in cui esso si colloca e in base a criteri oggettivi e trasparenti, al fine di verificare se tale disparità risponda ad una reale necessità, sia idonea a conseguire l’obiettivo perseguito e risulti a tal fine necessaria. Detti elementi possono risultare, segnatamente, dalla particolare natura delle funzioni per l’espletamento delle quali sono stati conclusi contratti a tempo determinato e dalle caratteristiche inerenti a queste ultime o, eventualmente, dal perseguimento di una legittima finalità di politica sociale di uno Stato membro» .
Del pari, non può essere qualificato come ragione obiettiva il mero fatto che il trattamento diversificato sia stabilito da una norma generale o astratta, quale una legge o un contratto collettivo . 
Deve essere, inoltre, totalmente escluso che la differenza di trattamento possa ritenersi giustificabile in base a un criterio che, in modo generale e astratto, si limiti a fare riferimento alla durata temporanea del rapporto di lavoro. Ammettere la legittimità di un simile principio comporterebbe, infatti, un effetto diametralmente opposto rispetto a quello perseguito dalla direttiva europea e dall’Accordo quadro, poiché, anziché migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato e promuovere la parità di trattamento, si finirebbe per rendere permanente, per questi lavoratori, una condizione di svantaggio . 
In assenza di altre, legittime ragioni obiettive, la Corte di Lussemburgo ritiene che la disparità di trattamento riscontrabile nel caso sottoposto alla sua attenzione sia da ricondurre meramente alla durata dell’impiego. Pertanto, si conclude, deve essere considerata violativa del principio di non discriminazione una normativa che «in forza della quale i contributi previdenziali dovuti da datori di lavoro, che impiegano operai agricoli a tempo determinato, al fine di finanziare prestazioni di un regime professionale di sicurezza sociale, sono calcolati in funzione delle retribuzioni versate a tali operai per le ore di lavoro giornaliere che essi hanno effettivamente svolto, mentre i contributi previdenziali dovuti dai datori di lavoro che impiegano operai agricoli a tempo indeterminato sono calcolati sulla base di una retribuzione stabilita per un orario di lavoro giornaliero forfettario, come fissato dal diritto nazionale, a prescindere dalle ore effettivamente prestate».
Sicché, ai giudici del rinvio non resterà che dare attuazione alla disciplina nazionale in modo conforme alla lettura fornita dalla Corte di Giustizia , potendo, in sostanza, riproporre l’orientamento già sostenuto quali giudici del secondo grado, e neutralizzato nella fase dinnanzi alla Corte di cassazione.
Un simile cambio di rotta, proiettato al di fuori del particolarismo dei procedimenti principali, è destinato a produrre significative conseguenze in termini di un innalzamento dei livelli di protezione, sul piano retributivo e previdenziale, dei lavoratori a tempo determinato, con annesso aggravamento dei relativi oneri a carico (soprattutto) dei datori di lavoro.

