Testo integrale con note e bibliografia

Testo della sentenza

 

1. Con la sentenza n. 194/18 la Corte costituzionale ha ritenuto che l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui determina l’indennità in un «importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», viola anche gli artt. 76 e 117, primo comma Cost., in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea, in base al quale le Parti contraenti, per assicurare l’effettivo esercizio del diritto a una tutela in caso di licenziamento, si impegnano a riconoscere «il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione» (primo comma, lett. b).
L’affermazione della idoneità delle previsioni della Carta sociale europea (nel prosieguo, breviter, la Carta o la CSE) ad integrare il parametro dell’art. 117, primo comma, Cost., non costituisce una novità nella giurisprudenza della Consulta. Invero, già nella pronuncia n. 178/15 la Corte Costituzionale aveva espressamente menzionato la Carta, ma solo quale fonte sovranazionale alla cui stregua leggere le disposizioni costituzionali. È solo con la successiva sentenza n. 120/18, dichiarativa della parziale illegittimità costituzionale dell’art. 1475, comma 2, del d.lgs. 66/10 (Codice dell’ordinamento militare, recante il divieto per i militari di costituire associazioni professionali a carattere sindacale o aderire ad altre associazioni sindacali), che, per la prima volta, una disposizione della CSE – l’art. 5 – viene assunta fra i parametri interposti di legittimità costituzionale ex art. 117 Cost., in quanto idonea ad ampliare i diritti dei militari sino a ricomprendere il diritto di associazione, che l’ordinamento interno può disciplinare, ma non escludere.
Con la or citata sentenza n. 120/18, al Corte Costituzionale ha anzitutto rilevato che la Carta “presenta spiccati elementi di specificità rispetto ai normali accordi internazionali, elementi che la collegano alla CEDU”, di cui ha la stessa Carta costituisce “il naturale completamento” sul piano sociale, poiché “gli Stati membri del Consiglio d’Europa (come si legge nel Preambolo della stessa CSE) hanno voluto estendere la tutela anche ai diritti sociali, ricordando il carattere indivisibile di tutti i diritti dell’uomo. Per queste sue caratteristiche la Carta, dunque, deve qualificarsi fonte internazionale, ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost.. Essa è priva di effetto diretto e la sua applicazione non può avvenire immediatamente ad opera del giudice comune”, ma richiede l’intervento della Consulta, cui va prospettata la questione di legittimità costituzionale ”per violazione del citato primo comma dell’art. 117 Cost. della norma nazionale in contrasto con la Carta”.
In definitiva, con la decisione n. 180/18, la Corte costituzionale ha ammesso le norme CSE fra i parametri interposti, ma, al contempo, ha delimitato l’impatto della sua stessa pronuncia, precisando che la struttura della CSE “si caratterizza prevalentemente come affermazione di principi ad attuazione progressiva, imponendo in tal modo una particolare attenzione nella verifica dei tempi e dei modi della loro attuazione”.
Nella decisione qui esaminata, si rinvengono due ulteriori puntualizzazioni che finiscono per temperare la portata del principio enunciato: per un verso, l’art. 5 CSE è stato considerato parametro interposto in quanto ha un “contenuto puntuale”, a differenza di altre norme della CSE le quali entrano sì nel giudizio di costituzionalità, ma la cui attuazione è subordinata al principio di progressività; per altro verso, è stata individuata una “corrispondenza” di contenuti con le norme di altre fonti internazionali pattizie di cui è pacifica la ammissione fra i parametri interposti di legittimità costituzionale: l’art. 5 cit. ha “un contenuto molto simile” a quello degli artt. 11 e 14 della CEDU “e, conseguentemente, si deve egualmente concludere che sia incompatibile con essa l’esclusione nei confronti dei militari del diritto di associazione sindacale da parte degli Stati sottoscrittori”.
La Corte costituzionale, inoltre, nella decisione n. 120/18, non ha mancato di rilevare come, a differenza della CEDU, la CSE non contiene una disposizione equivalente all’art. 32, par. I, che affida alla competenza della Corte EDU l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi Protocolli; parimenti, il Protocollo addizionale alla CSE non presenta una disposizione di contenuto analogo all’art. 46 CEDU, che fonda l’autorità di res iudicata delle sentenza Corte EDU. Pertanto, per la Consulta, rispetto alle decisioni del Comitato europeo dei diritti sociali, organo non giurisdizionale cui compete il controllo sull’osservanza della Carta, “non può trovare applicazione quanto affermato da essa Corte nella sentenza n. 348 del 2007“, secondo cui le norme CEDU vivono nell’interpretazione che delle stesse viene data dalla consolidata giurisprudenza della Corte europea.
Al contrario, ha puntualizzato la Corte Costituzionale nella decisione n. 120/18, “le pronunce del Comitato, pur nella loro autorevolezza, non vincolano i giudici nazionali nella interpretazione della Carta, tanto più se – come nel caso in questione – l’interpretazione estensiva proposta non trova conferma nei nostri principi costituzionali”.
2. La sentenza n. 194/18, come ricordato in premessa, conferma l’utilizzabilità delle norme della CSE quale parametro interposto di legittimità costituzionale.
Dal punto di vista dell’affermazione di tale principio, dunque, la pronuncia n. 194/18 non costituisce una novità, ponendosi nel solco della precedente decisione della Corte costituzionale, all’uopo espressamente richiamata in motivazione.
E tuttavia, sul punto specifico, la sentenza n. 194/18 sembra rappresentare uno sviluppo dell’orientamento inaugurato, con qualche cautela, dalla decisione n. 120/18 (per un esame comparato delle due pronunzie si vedano i puntuali rilievi di C. LAZZARI, Sulla Carta Sociale Europea quale parametro interposto ai fini dell’art. 117, comma 1, Cost.: a margine delle sentenze della Corte Costituzionale n. 120/2018 e n. 194/2018, in www.federalismi.it del 20 febbraio 2019; per altri riferimenti, I. TRICOMI, Complementarietà tra CEDU e Carta sociale europea: principi costituzionali, parametri europei, proporzionalità e ruolo dei giudici. Il caso della libertà sindacale dei militari, in Diritto pubblico europeo rassegna online, giugno 2018).
Intanto, nell’ambito della decisione n. 194/18, la utilizzabilità come parametro interposto della disposizione della CSE in rilievo (l’art. 24, secondo cui va riconosciuto al lavoratore licenziato senza valido motivo “un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione”) è riconosciuta in considerazione della specifica disposizione in sé considerata e non perché coincidente, sotto il profilo contenutistico, con disposizioni della CEDU (quasi una sorta di utilizzabilità “ancillare” della Carta, quella propugnata nella sentenza n. 120/18).
Inoltre, manca nella pronuncia in commento ogni riferimento alla natura puntuale o programmatica dell’art. 24, quale presupposto della sua operatività ai sensi dell’art. 117 Cost..
Infine, due sono gli aspetti in relazione ai quali la sentenza n. 194/18 sembra maggiormente segnare, come anticipato, una evoluzione rispetto all’indirizzo espresso dalla precedente decisione n. 120/18, nel senso di una più accentuata valorizzazione della rilevanza sul piano interno della Carta.
Il primo è quello della efficacia da attribuire alla decisione del Comitato europeo dei diritti sociali (nel prosieguo, breviter, il Comitato), organo non giurisdizionale composto da esperti indipendenti preposto, come detto, a vigilare sulla corretta applicazione della Carta sia attraverso monitoraggi generali sui rapporti periodici predisposti dai singoli Paesi, sia attraverso la definizione dei reclami presentati da soggetti collettivi per denunciare la violazione delle previsioni della stessa CSE (in argomento, riassuntivamente, S. FORLATI, Corte Costituzionale e controllo internazionale: quale ruolo per la “giurisprudenza” del Comitato europeo per i diritti sociali nel giudizio di costituzionalità delle leggi?, in AA.VV., La normativa italiana sui licenziamenti: quale compatibilità con la Costituzione e la Carta sociale europea? Atti del Seminario in previsione dell’udienza pubblica della Corte costituzionale del 25 settembre 2018 sulla questione di costituzionalità del d.lgs. n. 23/2015, in www.forumcostituzionale.it, 71 ss.).
Su tale questione, parte della dottrina aveva sostenuto che, malgrado l’assenza di disposizioni specifiche nella CSE, le pronunce del Comitato fossero vincolanti, non solo in considerazione del fatto che il Comitato è l’unico organo istituzionalmente deputato ad interpretare la Carta, ma soprattutto sottolineando che quelle pronunce – pur di carattere non propriamente giurisdizionale e non assistite da sanzioni – sono emesse all’esito di specifiche procedure finalizzate ad accertare la violazione degli obblighi previsti dalla Carta e che l’obbligo di rimediare alle violazioni, una volta accertate, origina dalla stessa accettazione della CSE da parte degli Stati sottoscrittori. La dottrina appena richiamata – forte dell’orientamento espresso con riferimento alla CEDU – auspicava, dunque, che la Corte adottasse lo stesso orientamento per la CSE, ritenendo non solo quest’ultima vincolante in sé, ma vincolanti, se frutto di un orientamento consolidato, anche le decisioni del Comitato istituzionalmente chiamato ad interpretarla (così, testualmente, M.T. CARINCI, La Corte costituzionale n. 194/2018 ridisegna le tutele economiche per il licenziamento individuale ingiustificato nel “Jobs Act”, e oltre, in WPCSDLE “Massimo D’Antona”.IT-378/2018, 22-23, che richiama in senso conforme C. PANZERA, Diritti ineffettivi? Gli strumenti di tutela della Carta sociale europea, in AIC, n. 1/2017, 1).
Per altro orientamento, invece, il principio di “sincera collaborazione” posto dall’art. 3 dello Statuto del Consiglio d’Europa [assimilabile – perché al pari di questo riconducibile all’obbligo di diritto internazionale di buona fede nell’interpretazione ed esecuzione dei Trattati - all’analogo principio di leale collaborazione enunciato dall’art. 4 TUE (in base al quale la Corte di giustizia, con la sentenza 13 dicembre 1989, C-322/88, Grimaldi, ha affermato che, a dispetto del carattere non vincolante delle raccomandazioni, i giudici nazionali sono comunque “tenuti a prender[le] in considerazione […] ai fini della soluzione delle controversie sottoposte al loro giudizio”, soprattutto quando esse mirano a chiarire gli obblighi posti dai Trattati)], imponendo agli Stati contraenti di collaborare “sinceramente ed operosamente” nella promozione e tutela dei diritti sociali, importerebbe anche l’obbligo delle Corti nazionali di prendere necessariamente “in considerazione” le decisioni del Comitato e di potersene discostare solo con adeguata motivazione (in tal senso, L. BORLINI, L. CREMA, Il valore delle pronunce del Comitato Europeo dei diritti sociali ai fini dell’interpretazione della Carta Sociale Europea nel diritto internazionale, in AA.VV., La normativa italiana sui licenziamenti: quale compatibilità con la Costituzione e la Carta sociale europea?, cit., 103; nonché D. AMOROSO, Sull’obbligo della Corte costituzionale italiana di “prendere in considerazione” le decisioni del Comitato Europeo dei Diritti sociali, ibidem, 81).
La sentenza n. 194/18 sembra avvicinarsi a questo secondo indirizzo (contra M.T. CARINCI, op. cit., 23). La Corte, infatti, ribadisce la non vincolatività delle pronunce del Comitato europeo per i diritti sociali, sebbene ne richiami una decisione (resa a seguito del reclamo collettivo n. 106 del 2014, proposto dalla Finnish Society of Social Rights contro la Finlandia) per rafforzare la tesi per cui l’indennità risarcitoria per il lavoratore licenziato senza giusta causa dev’essere congrua per il lavoratore e dissuasiva per il datore di lavoro pena l’illegittimità della indennità.
L’espresso richiamo in motivazione e l’utilizzo ai fini decisori della pronuncia del Comitato sembrano confermare che le pronunce di questo devono essere necessariamente tenute in considerazione nell’interpretazione delle norme della CSE, su cui, comunque, l’ultima parola spetta alla stessa Corte costituzionale (fatto salvo l’obbligo “rafforzato” di motivazione nel caso in cui le decisioni del Comitato vengano disattese).
In tal senso, la valutazione formulata, nella sentenza n. 120/2018, nei riguardi della “giurisprudenza” del Comitato appare solo formalmente confermata dal successivo intervento della Consulta che, richiamando la decisione antecedente, sembra all’apparenza porsi in linea di continuità con quest’ultima.
L’autorevolezza di quella “giurisprudenza”, riaffermata in modo espresso dalla sentenza n. 194/18, risulta, infatti, qui ulteriormente avvalorata – sì da assumere ben altro significato rispetto all’immediato precedente – dall’esplicito riferimento in motivazione, e in senso ad essa adesivo, alla pronuncia resa dal Comitato, alla quale si fa rinvio proprio per chiarire il contenuto precettivo dell’art. 24 della Carta (così C. LAZZARI, op. cit., 19-20).
3. La più attenta considerazione dei risultati dell’attività interpretativa del Comitato che emerge nella pronuncia n. 194/18 si connette, peraltro, in tale decisione, alla evidente valorizzazione, che da essa traspare, della CSE, nell’ottica di garantire un rafforzamento della tutela multilivello dei diritti fondamentali.
La Corte, infatti, colmando una lacuna palesata dalla precedente sentenza n. 120/18 in ordine alla (mancata) invocazione del principio del “trattamento più favorevole”, richiama espressamente le enunciazioni formulate, in relazione alla CEDU, dalla propria precedente pronuncia n. 317/09, secondo la quale “il confronto tra tutela convenzionale e tutela costituzionale dei diritti fondamentali deve essere effettuato mirando alla massima espansione delle garanzie, anche attraverso lo sviluppo delle potenzialità insite nelle norme costituzionali che hanno ad oggetto i medesimi diritti” ed “il risultato complessivo dell’integrazione delle garanzie dell’ordinamento deve essere di segno positivo, nel senso che dall’incidenza della singola norma della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sulla legislazione italiana deve derivare un plus di tutela per tutto il sistema dei diritti fondamentali” (la sentenza n. 317/09 può leggersi in Foro it., 2010, I, 359, con nota di G. ARMONE; sulla decisione, fra gli altri, cons. A. RUGGERI, Conferme e novità di fine anno in tema di rapporti tra diritto interno e CEDU (a prima lettura di Corte cost. nn. 311 e 317 del 2009), in www.forumcostituzionale.it; F. BILANCIA, Con l’obiettivo di assicurare l’effettività degli strumenti di garanzia la Corte costituzionale italiana funzionalizza il “margine di apprezzamento” statale, in Giur. cost., 2009, 4772; e, più di recente, R.G. CONTI, Il sistema di tutela multilivello e l’interazione fra ordinamento interno e fonti sovranazionali, in Questione giustizia, 4/2016, 93).
Si tratta, forse, del passaggio più significativo ed innovativo della sentenza n. 194/18 in parte qua, in cui sembra potersi cogliere la volontà della Consulta di far uscire definitivamente la Carta da quella condizione di “minorità” in cui per lungo tempo era stata relegata, conferendole a pieno titolo ed in termini inequivocabili il valore di fonte sovranazionale dotata di autonoma rilevanza ai fini della individuazione del più adeguato standard di tutela dei diritti individuali.
Rimane da valutare la configurabilità, anche in relazione alle disposizioni della Carta, di un obbligo di interpretazione conforme (sul tema, per una indagine a compasso allargato e di particolare respiro sistematico, V. PICCONE, L’ordinamento integrato, il giudice nazionale e l’interpretazione conforme, in Scritti in onore di Giuseppe Tesauro, vol. II, Napoli, 2014, 1173 ss.; per una interessante applicazione giurisprudenziale, di recente, Cass. n. 6680/19). L’espresso richiamo al canone della massima espansione delle tutele potrebbe rappresentare, in questa prospettiva, il sintomo di un approccio ermeneutico teso ad evidenziare i tratti comuni di CEDU e CSE (e le conseguenti esigenze di omogeneità di trattamento) piuttosto che ad enfatizzarne le pur riconosciute differenze. Se così è, parrebbe allora non implausibile sostenere che, se è vero che, da un lato, al giudice è inibita la disapplicazione della regola nazionale configgente con la CSE, dall’altro lato potrebbero confermarsi, ancorchè la Corte non si soffermi espressamente su tale profilo, le acquisizioni della giurisprudenza costituzionale, elaborate a partire dal 2007, a proposito del fatto “che la questione dell’incostituzionalità di una norma di legge per contrasto con una norma pattizia va posta dal giudice di merito soltanto in caso di contrasto irrisolvibile in via interpretativa”, sicchè “il giudice comune deve verificare preliminarmente se non sia possibile arrivare ad un’interpretazione della norma interna che sia conforme al significato e alle implicazioni della norma pattizia” [così, C. LAZZARI, op. cit., 13-14: contra C. SALAZAR, La Carta sociale europea nella sentenza n. 120 del 2018 della Consulta: ogni cosa è illuminata?, in Quaderni cost., 2018, 906, secondo cui “la sentenza 194 non accenna al potere-dovere dei giudici di esperire l’interpretazione conforme: se si reputa che il silenzio su questo punto di evidente rilievo non sia casuale, emerge una differenza di non poco conto, da aggiungere a quelle che affiorano dai passaggi della motivazione in cui sono messi a fuoco gli (ulteriori) elementi di diversità tra i due cataloghi di diritti”].
In definitiva, seguendo l’impostazione “estensiva” dianzi richiamata, pur senza pervenire ad una completa parificazione fra le due fonti sovranazionali in esame, si valorizzerebbe ulteriormente, nella dinamica applicativa del diritto internazionale pattizio, il ruolo del giudice comune, chiamato a risolvere l’eventuale conflitto tra regola interna e parametro sovranazionale, anche se costituito da una disposizione della Carta, ricorrendo alla interpretazione conforme della prima rispetto al secondo.
5. È auspicabile che la Corte costituzionale risolva i nodi problematici poc’anzi ricordati che ancora sussistono in relazione alla CSE.
La pronuncia n. 194/18 offre, però, lo spunto per alcune riflessioni conclusive di carattere più generale, inserendosi in un momento storico che vede sorgere, in tema di rapporti fra Corte Costituzionale e giudici comuni nell’applicazione del diritto sovranazionale, alcune tensioni.
È superfluo ricordare le critiche mosse alla Corte Costituzionale, dopo l’obiter della sentenza n. 269/17 (in parte rettificato e precisato dalla stessa Corte nelle successive pronunzie nn. 20, 63, 112 e 117 del 2019, su cui, riassuntivamente, N. LUPO, Con quattro pronunce dei primi mesi del 2019 la Corte Costituzionale completa il suo rientro nel sistema “a rete” di tutela dei diritti in Europa , in www.federalismi.it del 10 luglio 2019), per aver limitato l’autonomia dei giudici comuni nell’applicazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea [in tema, per tutti, G. BRONZINI, La Carta dei diritti nella crisi del processo di integrazione: la discutibile svolta della giurisprudenza costituzionale, in V. PICCONE – O. POLLICINO (a cura di), La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Napoli, 2018, 61 ss. e V. PICCONE, A prima lettura della sentenza della Corte di cassazione n. 4223 del 21 febbraio 2018. L’interpretazione conforme come strumento di “sutura” post Corte costituzionale n. 269/2017, in Rivista di Diritti comparati, n. 1/2018, 298 ss.]. E però, non sempre i giudici comuni sembrano fare tutto ciò che possono per applicare il diritto sovranazionale a tutela dei diritti individuali.
A titolo esemplificativo, possono citarsi i recenti rilievi critici di V. DE MICHELE, La sentenza della Corte di appello sul rapporto di lavoro dei riders: il diritto UE, questo sconosciuto, in www.europeanrights.eu, newsletter del 15 marzo 2019, il quale ha sottolineato come la qualificazione data dalla pronuncia commentata alle fattispecie di lavoro flessibile mediante piattaforme digitali “non sembra rispondere alla nozione di lavoratore (subordinato o autonomo) quale riviene dal diritto dell’Unione europea, di cui manca ogni disamina nella sentenza in commento”.
Ma, nella medesima prospettiva, è degna di menzione anche la vicenda annosa dell’illecito del legislatore per mancata attuazione di direttive comunitarie.
Ancora in tempi recenti (sent. n. 4915/03 e n. 23730/16, quest’ultima sull’illecito del legislatore regionale), infatti, la Cassazione ha negato il riconoscimento dell’obbligo risarcitorio dello Stato, sulla scia di Cass. 11 ottobre 1995, n. 10617, in base al discutibile principio della libertà nei fini della funzione legislativa in quanto espressione del potere politico, da cui l’insindacabilità dal punto di vista giurisdizionale dell’esercizio di tale potere e l’inconfigurabilità di un diritto del singolo all’esercizio del potere legislativo ai fini dell’azione risarcitoria. La nozione volontaristica di potere politico che tale principio evoca, con il riferimento ad una discrezionalità libera ed assoluta del legislatore, si pone in stridente contrasto non solo con il trasferimento di competenze su un complesso di materie alle istituzioni comunitarie, ma anche, e soprattutto, con l’affermazione del principio democratico e l’applicazione del principio di legalità anche allo Stato, nonché con la stessa idea di Costituzione rigida che caratterizza il costituzionalismo contemporaneo, secondo la quale il potere non è più concentrato in un onnipotente legislatore, ma è diffuso in una pluralità di poteri separati ed in rapporto di reciproco bilanciamento e controllo (così, testualmente, E. SCODITTI, Ancora sull’illecito dello Stato per mancata attuazione di direttiva comunitaria, in Foro it., 2003, I, 2016). Il far dipendere poi la conclusione negativa in punto di responsabilità civile dall’inesistenza di un diritto soggettivo all’esercizio del potere legislativo, vuol dire assumere la concezione della responsabilità extracontrattuale, come lesione di diritti soggettivi, definitivamente superata dalla giurisprudenza di legittimità con l’approdo alla lettura dell’art. 2043 c.c. nei termini della clausola generale del danno ingiusto, secondo quanto testimoniato dalla sentenza n. 500/SU del 1999 delle Sezioni Unite (ancora E. SCODITTI, op. cit.).
Oppure, si pensi, ancora, alla “trascuratezza” con cui è stata (anche dai giudici comuni) considerata la CSE fino alle più recenti decisioni della Consulta, come testimonia lo scarso numero di pronunzie relative alle disposizioni della stessa Carta reperibili nei repertori.
O, infine, nella medesima prospettiva ricostruttiva qui illustrata, si prenda in considerazione la vicenda della c.d. occupazione acquisitiva, la cui contrarietà alla CEDU (e, in particolare, all’art. 1 del protocollo addizionale) ha indotto le Sezioni Unite (sent. n. 735/15, in Foro it., 2015, I, 436 con nota di R. PARDOLESI ed osservazioni di C.M. BARONE) a porre fine a tale forma di “legalizzazione dell’illegale” riconoscendo – solo dopo lungo tempo e plurime condanne di Strasburgo – che in materia di espropriazione per pubblica utilità, la necessità di interpretare il diritto interno in conformità con il principio enunciato dalla corte europea dei diritti dell'uomo, secondo cui l'espropriazione deve sempre avvenire in «buona e debita forma», comporta che l'illecito spossessamento del privato da parte della p.a. e l'irreversibile trasformazione del suo terreno per la costruzione di un'opera pubblica non danno luogo, anche quando vi sia stata dichiarazione di pubblica utilità, all'acquisto dell'area da parte dell'amministrazione, sicché il privato ha diritto a chiederne la restituzione, salvo che non decida di abdicare al suo diritto e chiedere il risarcimento del danno per equivalente.
6. Quelli appena elencati sono solo alcuni esempi della persistenza di un approccio talvolta problematico del giudice comune al tema della integrazione fra fonti e relativi sistemi di tutela.
A dispetto di criticità siffatte, tuttavia, rimangono ferme la centralità e l’essenzialità del ruolo del giudice comune (oggi dotato, nella sua opera di interpretazione conforme, grazie all’intervento della Consulta, di tre cappelli e – quantomeno – una sciarpa, per usare una espressione riecheggiante una ormai celebre metafora) per realizzare una effettiva integrazione delle tutele offerte dalle varie fonti che risulti comunque di segno positivo, che offra cioè un plus di protezione dei diritti della persona rispetto a quanto garantito dall’ordinamento interno.
Ma questo riconoscimento di ruolo porta necessariamente con sé l’esigenza e la consapevolezza di svolgerlo appieno. Il che non è solo un problema di competenza tecnica ed adeguata conoscenza delle fonti sovranazionali (sul punto, peraltro, si vedano le giuste osservazioni di V. PICCONE, op. ult. cit., 312 e R. CONTI, L’interpretazione conforme e i dialoghi fra giudici nazionali e sovranazionali, in www.europeanrights.eu del 4 marzo 2007), ma è anche una questione di sensibilità ed attenzione per le implicazioni, sul piano del rafforzamento della tutela dei diritti individuali, che l’applicazione di quelle fonti produce nell’ordinamento interno.
Come ha scritto Giuseppe Tesauro (in Diritto dell’Unione europea, Premessa alla prima edizione, Padova, 2012, XXV-XXVI) con riferimento all’integrazione giuridica comunitaria “Il senno di poi e più decenni di dialettica, vivace ma senza fucili, fanno ancor più apprezzare il coraggio e la saggia lungimiranza del giudice comunitario nell’esaltare al giusto le potenzialità dei trattati. Soprattutto, hanno rivelato il contributo insostituibile della cooperazione tra giudice comunitario e giudici nazionali ed in particolare l’apporto dei “piccoli” giudici al consolidamento del sistema ed alla tutela giurisdizionale effettiva dei singoli. Avremmo un diritto comunitario molto diverso se non avessimo avuto il Pretore e persino il Conciliatore italiani o la Tariefcommissie olandese. Anche l’Europa sarebbe stata diversa. Peggiore” (la celeberrima sentenza Simmenthal 9 marzo 1978, causa 106/77, per esempio, scaturì dal rinvio pregiudiziale del Pretore di Susa).
Mutatis mutandis, queste riflessioni, sempre attuali, sembrano valere anche in relazione alla costruzione del sistema di tutela multilivello dei diritti fondamentali.

 

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