Testo integrale con note e bibliografia

1. La Cour de Cassation, con sentenza dell’Assemblée Plénière del 5 aprile 2019, n. 18-17442, segna una svolta importante nella giurisprudenza francese riconoscendo il diritto al risarcimento del «danno da ansia» o del «danno da paura di ammalarsi» (préjudice d’anxiété) a lavoratori che, pur non avendo sviluppato alcuna malattia, dimostrino: a) di essere stati esposti all’amianto e di correre per questo il rischio concreto di sviluppare una grave patologia; b) il colpevole inadempimento del datore di lavoro dei propri obblighi di sicurezza; c) il danno d’ansia di conseguenza patito, consistente nell’angoscia e sofferenza permanente che si prova dinanzi alla possibilità che ci venga diagnosticata da un momento all’altro una malattia dall’esito infausto. Il risarcimento è dovuto – ed è qui l’elemento di novità rispetto all’orientamento giurisprudenziale inaugurato nel 2010 – a prescindere dall’inclusione del datore di lavoro nell’elenco ministeriale delle imprese ai cui dipendenti, per essere stati particolarmente esposti all’amianto, è riconosciuto il diritto al pensionamento anticipato al compimento del cinquantesimo anno di età e all’erogazione di una speciale (seppure non cospicua) indennità detta Acaata (art. 41, Loi 23 dicembre 1998, n. 98-1194) .
Nel caso di specie, un dipendente della EDF, la più importante società francese di distribuzione e produzione di energia a larga partecipazione pubblica, era stato esposto alle fibre di amianto per il periodo 1973-1988. Pur non avendo sviluppato alcuna malattia professionale e pur non risultando la EDF inclusa nell’elenco ministeriale delle imprese esposte al «rischio-amianto», egli agisce per ottenere il risarcimento del danno d’ansia che patisce ogni giorno, consistente nelle sofferenze, nel terrore e nell’angoscia di ammalarsi da un momento all’altro e morire: un’angoscia acuita dalla necessità di sottoporsi periodicamente a controlli medici.
L’Assemblea plenaria della Corte di cassazione conferma anzitutto la decisione assunta nei gradi precedenti nella parte in cui viene riconosciuto il diritto di qualsiasi lavoratore – e non soltanto di quelli dipendenti delle imprese incluse nella «lista-amianto» – al risarcimento del danno d’ansia patito a seguito dell’esposizione ad amianto, allorquando da ciò derivi il rischio di sviluppare una grave patologia, così allargando sensibilmente la platea dei destinatari dell’eventuale risarcimento che era stata individuata in una precedente sentenza del 2010. Tuttavia, la sentenza impugnata viene cassata nella parte in cui era stato liquidato un risarcimento pari a 10.000 Euro senza consentire all’impresa di dimostrare l’eventuale assenza di colpa, avendo adottato tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e psichica dei propri dipendenti, né approfondire le caratteristiche dello specifico pregiudizio patito dal lavoratore, considerato troppo sbrigativamente un «pregiudizio morale di carattere intangibile e personale».
Pochi mesi dopo, l’11 settembre 2019, approda in Cassazione la vicenda dei minatori della Lorena (n. 17.24.879-17.25.623) che cassa e rinvia alla Corte d’appello la sentenza che negava la responsabilità del datore di lavoro e l’obbligo del risarcimento del danno d’ansia sulla base di una non sufficientemente motivata esclusione di un inadempimento colposo dell’obbligo di sicurezza mentre qualche mese prima, il 3 giugno 2019, i Prud’hommes di Compiègne riconoscono a 130 lavoratori del gruppo industriale Saint-Gobin (alcuni dei quali morti nel corso del procedimento) un risarcimento di 20.000 Euro a testa per il pregiudizio morale patito a seguito dell’esposizione all’amianto, in applicazione del principio affermato il 5 aprile .

2. Già nel 2010 la Cour de Cassation (Cass. soc., 11 maggio 2010, n. 09-43.241) aveva riconosciuto per la prima volta il diritto dei lavoratori esposti all’amianto di ottenere il risarcimento del préjudice d’anxiété inteso come «stato di inquietudine permanente che si prova dinanzi al rischio che, da un momento all’altro, venga diagnosticata una delle gravi patologie collegate all’amianto» . È quell’insieme di turbamenti interiori che si provano quando si è costretti a vivere con una «spada di Damocle» sulla testa . Ad avviso della Corte, al fine di ottenere tale risarcimento, la cui quantificazione in via equitativa oscilla tra i 5.000 e i 20.000 Euro, è sufficiente che l’impresa risulti tra quelle iscritte nell’apposita «lista-amianto» redatta dal Ministero del lavoro. In quest’ottica, è stato osservato, il lavoratore combina i benefici propri dell’automatismo vigente nel diritto della sicurezza sociale – la sussistenza dell’illecito e del danno è, infatti, presunta – con il principio dell’integrale risarcimento del danno alla persona che opera, invece, nel diritto civile comune – il lavoratore non ottiene l’indennizzo ma il risarcimento dell’ulteriore danno alla persona patito – . La modestia dell’indennizzo (Acaata) erogato ai lavoratori era, d’altra parte, una delle ragioni che hanno spinto la Corte di cassazione a riconoscere la risarcibilità di un pregiudizio di natura interiore e intangibile ulteriore.
In base al principio affermato dalla Cassazione nel 2010, si era dunque stabilito nei fatti un doppio regime: ai lavoratori dipendenti di imprese incluse nella «lista-amianto» veniva riconosciuto il diritto al risarcimento del danno d’ansia, condizionato al solo onere di dimostrare di essere stati esposti all’amianto; viceversa, ai lavoratori dipendenti di imprese non incluse nella suddetta lista, che pure erano stati esposti all’amianto per anni, non veniva riconosciuto alcunché.
Con la sentenza del 5 aprile 2019, l’Assemblea plenaria pone fine a quella che da molti era ritenuta un’ingiustizia estendendo a tutti i lavoratori il diritto ad ottenere il ristoro del pregiudizio d’ansia patito in conseguenza dell’esposizione all’amianto e del grave rischio di sviluppare una patologia dall’esito infausto. Resta tuttavia ferma la distinzione tra coloro che hanno lavorato alle dipendenze di imprese incluse ovvero non incluse nella «lista-amianto». I primi beneficiano di una sorta di doppia presunzione: sono presunti sia l’inadempimento colpevole del datore di lavoro degli obblighi di sicurezza sia la sussistenza del danno. Viceversa, ai secondi si applica il diritto comune nella sua interezza, con la conseguenza che grava su di essi l’allegazione dell’inadempimento colposo dell’obbligo di sicurezza da parte del datore di lavoro, al quale deve essere concessa la possibilità di dimostrarne il corretto adempimento, e la prova del pregiudizio patito .

3. Fonte della responsabilità contrattuale in capo al datore di lavoro e dell’obbligazione risarcitoria è la violazione degli Artt. L. 4121-1 e L. 4121-2 del Code du Travail in base ai quali il datore di lavoro è obbligato ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e psichica dei propri dipendenti.
Proprio la vicenda delle malattie professionali amianto-correlate ha spinto la Cour de Cassation, negli anni duemila, a qualificare tale obbligazione come «di risultato» allo scopo di alleggerire l’onere probatorio gravante sui lavoratori. Tuttavia, le modifiche legislative intervenute successivamente hanno progressivamente arricchito tali disposizioni codicistiche con un elenco di misure preventive che il datore di lavoro deve adottare , così spingendo gli interpreti a ritenere che sul datore di lavoro gravi l’obbligo di adottare tutte le misure necessarie alla tutela del lavoratore ma non l’obbligo di garantire che egli sia in salute al termine del rapporto lavorativo: insomma, un’obbligazione di mezzi e non di risultato o, meglio, si conviene che il risultato atteso è l’adozione di misure preventive nel concreto idonee a garantire la tutela dell’integrità psicofisica del lavoratore.
Come detto, la sussistenza dell’illecito è presunta qualora l’impresa risulti inclusa nella «lista-amianto». Un simile automatismo si concilia difficilmente con la disciplina del danno alla persona la cui risarcibilità si fonda sui meccanismi del diritto comune e, in particolare, sulla dimostrazione della sussistenza di un illecito imputabile a dolo o colpa del datore di lavoro. E infatti, se l’impresa non è inserita nella lista, la giurisprudenza condiziona il risarcimento alla prova della sussistenza di un illecito contrattuale di natura almeno colposa: una volta accertata la prolungata esposizione all’amianto del lavoratore, il datore di lavoro potrà liberarsi dalla responsabilità dimostrando di aver adottato tutte le misure preventive necessarie, secondo le conoscenze del tempo, a tutelarne l’integrità fisiopsichica.
La prospettiva francese richiama qui quella italiana per cui «in tema di responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 cod. civ., qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla nocività dell'attività lavorativa per esposizione all'amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia, escludendo l'esposizione della sostanza pericolosa, anche se ciò imponga la modifica dell'attività dei lavoratori, assumendo in caso contrario a proprio carico il rischio di eventuali tecnopatie» .

4. La paura di ammalarsi configura un danno di natura non patrimoniale. Utilizzando le categorie italiane, è un danno morale soggettivo coincidente con il patema d’animo o la sofferenza interiore subiti dalla vittima di un illecito o, secondo una più ampia e recente interpretazione, con «la lesione arrecata alla dignità e integrità morale, quale massima espressione della dignità umana» . Non si può escludere a priori che il danno d’ansia si estenda alla sfera esteriore areddituale del soggetto, tracimando nel danno esistenziale, ovvero si traduca in una lesione dell’integrità psichica, configurando un danno psichico.
La giurisprudenza italiana già riconosce la risarcibilità del danno morale, quale danno ontologicamente distinto dal danno biologico, nei casi in cui al lavoratore venga diagnosticata una malattia dall’esito infausto causalmente connessa all’esposizione pluriennale all’amianto . Il danno morale, il cui risarcimento si trasmette anche agli eredi iure hereditario, consiste in tal caso nei «patimenti interiori connessi alla malattia ed alla consapevolezza dell’imminente suo esito infausto» . La particolarità della giurisprudenza francese è che il danno d’ansia viene considerato risarcibile per il solo fatto che il lavoratore, a causa di una prolungata esposizione all’amianto, corre il rischio, grave e concreto, che una simile patologia gli venga diagnosticata. Ad un tale risultato potrebbe giungere la giurisprudenza italiana? L’angoscia provata a causa del rischio concreto di ammalarsi gravemente configura un danno morale risarcibile anche in assenza di un danno alla salute in senso stretto?
Per rispondere al quesito occorre ricordare che la giurisprudenza sul danno non patrimoniale è approdata ad una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. in base alla quale il danno morale, che si distingue dagli altri danni poiché resta confinato nella sfera interiore del soggetto, è risarcibile non più solo quando il fatto costituisca astrattamente reato ma anche nei casi in cui sia stata accertata la lesione di un bene o interesse della persona di rango costituzionale .
Ora, quando, in conseguenza della prolungata esposizione all’amianto imputabile a colpa del datore di lavoro, il lavoratore corra il pericolo grave e concreto di sviluppare una malattia dall’esito infausto, si può senz’altro ritenere che l’evento-lesione del diritto di rango costituzionale alla salute si sia già verificato anche se non si è (ancora) manifestato l’evento-danno biologico in senso stretto. Infatti, costretto a vivere con una «spada di Damocle» sulla testa, il lavoratore non potrà più godere del proprio diritto alla salute alla pari degli altri essendo costretto ad accertamenti medici periodici e continui. Si pensi, per fare un solo esempio, agli esami radiologici, sicuramente non innocui sulla biologia cellulare. In questa prospettiva, il danno non patrimoniale di tipo morale appare derivare da una compromissione del diritto alla salute.
Se questa sembra la soluzione più corretta, al medesimo risultato si potrebbe giungere anche per vie diverse, sostenendo, ad esempio, che il danno morale consegua alla lesione di interessi e diritti di rango costituzionale diversi dalla salute, quali la dignità o la vita del lavoratore che, costretto a vivere nell’angoscia e nel terrore, è impossibilitato a trascorrere un’esistenza serena e dignitosa. Ma è specialmente il diritto alla salute e a godere della vita a mezzo di esso a venire in gioco.
Alla lesione del diritto alla salute potrà poi seguire un danno biologico se al lavoratore verrà infine diagnosticata una patologia amianto-correlata; vi sarà invece un danno solo morale fino a quando la malattia non si verifichi ma, a causa del concreto e grave rischio che ciò accada, il lavoratore ne soffra interiormente e profondamente. Infine, si realizzeranno entrambi i danni, biologico e morale, se il lavoratore si ammalerà e per questo ne soffrirà interiormente.
Le considerazioni svolte consentono, a questo punto, di affrontare una seconda questione: il danno morale d’ansia è un danno-conseguenza o un danno-evento o in re ipsa? Le indicazioni che si ricavano dalla giurisprudenza francese vanno nella prima delle due direzioni, seppure non ne vengano approfonditi di molto i profili giuridici. Specialmente per i lavoratori interamente assoggettati al regime di diritto comune – e cioè per i dipendenti delle imprese non incluse nella «lista-amianto» –, sussiste l’onere di dimostrare il danno subito, vale a dire i turbamenti e le ansie patite per il terrore di ammalarsi e morire. La conclusione appare condivisibile anche nel nostro ordinamento poiché, come detto, all’evento-lesione del diritto alla salute non consegue automaticamente un evento-danno (biologico e/o morale) la cui effettiva sussistenza va allegata e dimostrata dal danneggiato.
D’altra parte, la nozione di danno-evento è stata ormai definitivamente ripudiata dalla giurisprudenza in seguito all’approdo, nel 2008, ad una concezione unitaria di danno non patrimoniale e all’affermazione del principio dell’integrale risarcibilità del danno alla persona . Pur a fronte della unitarietà della categoria del danno non patrimoniale, un suo risarcimento integrale rende necessario individuarne e dimostrarne tutte le singole componenti biologiche, morali, esistenziali. In questa prospettiva, si può però subito osservare come il concetto di danno-conseguenza sia strumentale più a pervenire ad una esatta quantificazione del danno, così provvedendo al suo risarcimento integrale, che ad accertarne la sussistenza.
Non è un caso che, specialmente laddove siano in gioco danni, come quello morale ma anche esistenziale, che non si esteriorizzano nel mondo dei fatti toccando beni interiori, immateriali ed intangibili come la dignità, la sofferenza o il patema d’animo, il rigore di tale principio subisca nei fatti un deciso temperamento ad opera della giurisprudenza che ammette senza esitare la prova per presunzioni utilizzata per determinare sia l’an che il quantum del danno risarcibile.
Così, ad esempio, il Tribunale di Lucca afferma che il danno morale soggettivo costituisce un danno in re ipsa salvo precisare subito dopo che per «la sua quantificazione, deve tenersi conto di tutte le circostanze del caso concreto ed in particolare della gravità del reato, dell'entità delle sofferenze patite dalla vittima, dell'età, del sesso e del grado di sensibilità del danneggiato, del dolo oppure del grado di colpa dell'autore dell'illecito, della realtà socio-economica in cui vive il danneggiato» . Gli stessi elementi fattuali sono invece valorizzati dalla giurisprudenza prevalente (che considera il danno morale un danno-conseguenza) quali circostanze utili a dimostrare, per presunzioni, la sussistenza del danno e procedere quindi alla sua quantificazione in via equitativa . In entrambe le ipotesi, il risultato pratico non cambia. Del pari, nel caso del demansionamento, la sussistenza del danno può essere desunta da elementi gravi, precisi e concordanti quali la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione dell’attività, la natura della professionalità coinvolta: tutte circostanze fattuali che rilevano poi anche nella determinazione del quantum risarcibile .

5. In base alle considerazioni svolte, i principi elaborati dalla giurisprudenza francese sembrano “esportabili” nell’ordinamento italiano. Qualora si raggiunga in giudizio la prova dell’esposizione ad amianto e dell’inadempimento colpevole del datore di lavoro dell’obbligo generale di sicurezza, il lavoratore potrebbe chiedere il risarcimento del danno morale, ai sensi degli artt. 1218, 2087 e 2059 c.c., che si sia prodotto in conseguenza dell’evento-lesione del diritto alla salute ed anche in assenza del verificarsi di un danno (conseguenza) biologico in senso stretto. Tale danno consisterà, in particolare, nelle sofferenze interiori, nei turbamenti e nei patemi d’animo patiti dal lavoratore esposto al rischio, che deve essere reale, grave e concreto, che gli venga diagnosticata una malattia dall’esito infausto.
La prova del danno può essere raggiunta attraverso presunzioni e, in particolare, attraverso l’allegazione da parte del danneggiato di circostanze fattuali utili a determinarne la sussistenza quali, ad esempio, la durata dell’esposizione all’amianto, la necessità di sottoporsi a controlli medici, la gravità del rischio di sviluppare una patologia infausta, il grado di colpa del datore di lavoro, l’età, l’entità e la durata delle sofferenze patite, il grado di sensibilità del danneggiato, le condizioni sociali e personali e via dicendo.
Come detto, le medesime circostanze fattuali potranno poi essere utilizzate dal giudice per determinare in via equitativa il quantum del danno.
Ci si potrebbe però chiedere se, al fine di procedere alla liquidazione del danno, occorra fare riferimento al c.d. metodo tabellare. Qualora si sia verificato un danno biologico, il danno morale, qui inteso come componente ulteriore del danno biologico, potrebbe senz’altro venire liquidato facendo riferimento alle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano nelle quali sono previste percentuali massime di aumento per consentire la “personalizzazione” del danno non patrimoniale tenendo conto degli aspetti di sofferenza soggettiva del danneggiato. Non sembra sufficiente a mettere in discussione l’idoneità di tale metodo l’osservazione per cui esso non considererebbe adeguatamente il danno morale inteso, nella sua più ampia accezione, come «pregiudizio all’integrità morale, massima espressione della dignità umana» . Nel caso considerato sembra, infatti, più appropriato identificare il danno nella sofferenza soggettiva che si prova in conseguenza della lesione del diritto alla salute e della malattia eventualmente manifestatasi in un momento successivo, più che nella lesione dell’integrità morale o alla dignità umana. D’altra parte, la Corte di cassazione applica il metodo tabellare proprio nel caso di danno morale da malattia dall’esito infausto . Per contro, nel caso in cui non vi sia alcun danno biologico, il giudice più probabilmente procederà a quantificare il danno in via equitativa, valorizzando le circostanze fattuali sopra indicate, ma non può escludersi che anche in questo caso si faccia riferimento al metodo tabellare.
Per concludere, si può osservare come la soluzione a cui approda la giurisprudenza francese, costruita e fondata sul diritto comune, sia suscettibile di una ben più ampia applicazione. In particolare, un danno morale da ansia, inteso nel senso sopra precisato, potrebbe venire invocato dal lavoratore in tutti i casi in cui abbia svolto la propria attività lavorativa in ambienti nocivi da cui sia derivato il concreto rischio di sviluppare una grave patologia e il datore di lavoro non fornisca la prova di aver adottato tutte le misure necessarie, secondo le conoscenze del tempo, a tutelarne l’integrità fisiopsichica. Si tratta di una proiezione applicativa dell’orientamento giurisprudenziale descritto non affatto impossibile da immaginare a condizione di fissarne condizioni e paletti al fine di evitare «derive risarcitorie».

 

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