Testo integrale con note e bibliografia

1. Il fatto
Nella provincia di Barcellona, nel giugno 2009, la direzione di un supermercato constatava che dal febbraio dello stesso anno il negozio registrava importanti e crescenti perdite economiche (pari a circa 80.000 euro). Con l’intento di investigare internamente, il direttore decideva di installare, a decorrere dal 15 giugno 2009, alcune telecamere nel punto vendita: alcune visibili e altre nascoste.
Quelle visibili riprendevano le entrate e le uscite del supermercato, mentre le altre erano posizionate sulle casse automatiche.
La società aveva informato il personale addetto della presenza delle sole videocamere visibili: in particolare, aveva affisso un cartello (genericamente) indicativo della presenza di telecamere nel punto vendita, senza però specificare l’ubicazione e il contenuto.
L’amministrazione del supermercato, il 25 giugno 2009, comunicava al rappresentante sindacale che da un filmato, registrato dalle telecamere nascoste, emergevano dei furti i cui autori erano alcuni dipendenti.
Le immagini riprese dalle telecamere nascoste, tra il 15 e il 18 giugno 2009, mostravano che i lavoratori scansionavano gli articoli presentati all’uscita dai clienti o dai colleghi e avevano proceduto alla cancellazione degli acquisti in un secondo momento, con il risultato che quella merce non era stata pagata. Il confronto tra i beni portati via dai clienti e gli scontrini di vendita aveva provato quanto sospettato (cfr. par. 16 della sentenza).
Tra il 25 e il 29 giugno 2009 tutti i cinque lavoratori ritenuti responsabili dei furti venivano convocati in amministrazione per colloqui individuali; in tale occasione tre di loro ammettevano gli addebiti contestati.
All’esito dell’incontro, la società notificava il licenziamento a due dei cinque dipendenti ritenuti responsabili dell’ammanco di cassa; gli altri tre colleghi definivano la risoluzione del rapporto di lavoro con atto transattivo.
I lavoratori coinvolti, dunque, adivano il Tribunale del Lavoro spagnolo: i due dipendenti licenziati impugnavano l’atto solutorio, mentre gli altri tre colleghi coinvolti, che avevano definito la questione con atto abdicativo, impugnavano la transazione sottoscritta unitamente al rappresentante sindacale.

2. I procedimenti giudiziari avviati dai lavoratori
I ricorrenti contestavano, in particolare, l’uso illegittimo della videosorveglianza nascosta, sostenendo la violazione del loro diritto alla privacy. Chiedevano, per l’effetto, che le registrazioni ottenute con tali mezzi non fossero ammesse come prove durante il procedimento.
Il Tribunale, seguendo i principi affermati dalla Corte Costituzionale spagnola , rigettava l’istanza, affermando che non c’era stata “alcuna violazione del diritto del ricorrente al rispetto della propria vita privata e che, di conseguenza, le registrazioni costituivano prove valide” (cfr. par. 26 della sentenza in commento).
Il Tribunale, quindi, rigettava le domande dei ricorrenti, atteso che “la condotta [realizzata] costituiva una violazione del principio di buona fede che, avendo minato il rapporto di fiducia con il datore di lavoro, legittimava i licenziamenti” (cfr. par. 28 della sentenza).
Anche l’Alta Corte di Giustizia della Catalogna, cui si erano i rivolti i ricorrenti, confermava la legittimità dei licenziamenti, mentre la Corte Suprema dichiarava i ricorsi avverso la sentenza d’appello inammissibili per “l’inesistenza di una violazione di un diritto fondamentale” (cfr. par. 39 della sentenza).
Esperiti tutti i gradi di giudizio previsti dall’ordinamento spagnolo, i lavoratori adivano la Corte Europea dei diritti dell’uomo con il deposito di due istanze (n. 1874/13 e 8567/13) contro il Regno di Spagna, ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione per la Protezione dei Diritti Umani e delle Libertà Fondamentali (Cedu).
I ricorrenti sostenevano che la decisione con la quale il loro datore di lavoro li aveva licenziati fosse stata presa sulla base di una videosorveglianza attuata in violazione del loro diritto al rispetto della vita privata, garantito dall’articolo 8 della suddetta Convenzione, e che i tribunali nazionali non avessero adempiuto l’obbligo di assicurarne l’effettivo rispetto (par. 3 della sentenza).
I lavoratori, in particolare, ai sensi dell’articolo 6 della CEDU , avevano contestato l’ammissione, come prova durante il processo, delle registrazioni del sistema di videosorveglianza, sulla cui base erano stati licenziati e giudicati dagli organi giurisdizionali spagnoli (cfr. par. 3 della sentenza).
Con una decisione del 9 gennaio 2018, una Camera della Terza Sezione riuniva le istanze e le dichiarava parzialmente ammissibili, riscontrando la violazione dell’articolo 8 della Convenzione e la mancata violazione dell’articolo 6.
Il 27 marzo 2018, ai sensi dell’articolo 43 della Convenzione, il Governo aveva chiesto il rinvio della questione alla Grande Camera.
La Grande Camera, dopo aver deliberato in camera di consiglio il 20 giugno 2019, decideva il caso con la sentenza in commento.

3. Il ruolo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e della Corte EDU
La Convenzione europea dei diritti dell’uomo è un trattato di diritto internazionale, ovvero è norma internazionale pattizia. Le norme della Cedu non sono direttamente efficaci nel nostro ordinamento giuridico, ma costituiscono un parametro di legittimità costituzionale, ai sensi dell’art. 117, comma 1, Cost., e un parametro di interpretazione conforme. In virtù dell’art. 117 Cost., invero, il legislatore italiano è obbligato al rispetto della Costituzione, dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.
Nel sistema delle fonti la Cedu si colloca tra la Costituzione e le fonti ordinarie.
La Corte Costituzionale ha precisato che “le norme della CEDU, quali interpretate dalla Corte di Strasburgo, non acquistano la forza delle norme costituzionali e sono perciò immuni dal controllo di legittimità costituzionale. Proprio perché si tratta di norme che integrano il parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre ad un livello sub-costituzionale, è necessario che esse siano conformi a Costituzione. La particolare natura delle stesse norme, diverse sia da quelle comunitarie sia da quelle concordatarie, fa sì che lo scrutinio di costituzionalità non possa limitarsi alla possibile lesione dei principi e dei diritti fondamentali o dei principi supremi , ma debba estendersi ad ogni profilo di contrasto tra le “norme interposte” e quelle costituzionali” .
Da questo sistema deriva che il contrasto tra una norma nazionale ed una norma CEDU non può essere risolto con la disapplicazione della norma italiana: il giudice dovrà verificare, in primo luogo, se è possibile una interpretazione della norma nazionale coerente col parametro convenzionale e, in caso di impossibilità, deve sollevare la questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117, comma 1, Cost. .
La Cedu, inoltre, si distingue da altri trattati internazionali, in quanto ha un proprio giudice: la Corte europea dei diritti dell’uomo che ha sede a Strasburgo ed alla quale è attribuita una competenza esclusiva in materia di interpretazione delle norme Cedu.
La Corte Costituzionale, con la storica sentenza n. 348 del 2007 , sul punto, ha affermato che “la CEDU presenta, rispetto agli altri trattati internazionali, la caratteristica peculiare di aver previsto la competenza di un organo giurisdizionale, la Corte europea per i diritti dell’uomo, cui è affidata la funzione di interpretare le norme della Convenzione stessa. Difatti l’art. 32, paragrafo 1, stabilisce: «La competenza della Corte si estende a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli che siano sottoposte ad essa alle condizioni previste negli articoli 33, 34 e 47»” .

4. I Principi affermati dalla Grand Chamber
I ricorrenti adivano la Corte Edu eccependo la violazione dell’art. 8 della Cedu e sostenendo che le prove utilizzate nei processi nazionali erano state acquisite attraverso l’uso illegittimo di un sistema invasivo e fortemente limitativo del diritto al rispetto della vita privata.
La Grande Camera rigettava l’istanza dei lavoratori, affermando di non aver riscontrato la violazione dell’articolo 8 della Convenzione nell’uso della videosorveglianza da parte del datore di lavoro, il cui sistema era stato installato in funzione della tutela dei beni aziendali e in ogni caso di diritti altrettanto meritevoli, tali da non sbilanciare il giusto equilibrio tra interessi concorrenti .
L’art. 8 Cedu, infatti, prevede che “ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata (…). Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.
La Corte Edu, nel decidere la questione, ricorda in primo luogo che la definizione di “vita privata” è un concetto ampio che non può essere riportato ad una definizione esaustiva. Esso copre l’integrità fisica e psicofisica di una persona. Può, quindi, abbracciare molteplici aspetti dell’identità fisica e sociale della persona. Si estende, in particolare, ad aspetti legati all’identità personale, come il nome o l’immagine (cfr. par. 87 della sentenza).
Il concetto di vita privata non è limitato, precisa la Corte Edu, ad una “ristretta cerchia” nella quale l’individuo vive la propria vita personale senza interferenze esterne, ma comprende anche il diritto di condurre una “vita sociale privata” che vuol dire la possibilità di stabilire e sviluppare relazioni con altre persone e con il mondo esterno. Non esclude le attività professionali in questo senso o le attività che si svolgono in un contesto pubblico. C’è una zona di interazione di una persona con altre, anche in contesti pubblici, che può ricadere nell’ambito del concetto di “vita privata” (cfr. par. 88 della sentenza).
Ci sono modi differenti per assicurare il rispetto della vita privata e la natura delle obbligazioni statali dipende da quale aspetto di quest’ultima sia controverso.
Più nello specifico, per quel che riguarda la sorveglianza dei dipendenti sul posto di lavoro, la Corte ha dichiarato che l’articolo 8 lascia alla discrezionalità degli Stati di decidere se implementare o meno una legislazione specifica sulla videosorveglianza o sul controllo della corrispondenza non professionale e altre comunicazioni degli impiegati. Ad ogni modo, essa ha sottolineato che, ferma restando la discrezionalità dello Stato nella scelta dei modi più appropriati per proteggere i diritti in questione, le autorità nazionali devono assicurare che l’introduzione di misure di sorveglianza da parte del datore di lavoro, che abbiano effetti sul diritto al rispetto della vita privata o della corrispondenza dei lavoratori, sia proporzionato e accompagnato da adeguate e sufficienti tutele contro eventuali abusi (cfr. punto 114).
La Corte Edu, dunque, ha ribadito i principi già affermati in precedenza, nella sentenza Bărbulescu e nella sentenza Kopke, in quanto applicabili, mutadis mutandis, alla circostanza nella quale un datore applichi misure di videosorveglianza in un luogo di lavoro. Questi criteri, afferma la Corte di Strasburgo, devono essere applicati tenendo in considerazione le peculiarità dei rapporti di lavoro e lo sviluppo delle nuove tecnologie che possono consentire l’adozione di misure sempre più invadenti della sfera privata dei lavoratori (cfr. punto 116).
In questo contesto, per garantire la proporzionalità delle misure di videosorveglianza nei luoghi di lavoro, le corti nazionali devono considerare i seguenti fattori nel bilanciamento dei vari interessi concorrenti (cfr. punto 116):
Se il datore di lavoro abbia avvertito il lavoratore della possibilità che siano adottate misure di videosorveglianza e dell’applicazione di queste misure. Tale comunicazione dev’essere chiara circa il carattere del monitoraggio e dev’essere fornita preventivamente.
b) La portata del monitoraggio da parte del datore di lavoro e il livello di invadenza nella privacy del dipendente: l’area monitorata, la durata del controllo e il numero di persone terze che hanno accesso ai risultati.
c) Se il datore di lavoro abbia fornito ragioni legittime a giustificazione della misura e della durata di essa. Più invadente è la sorveglianza, maggiore è il peso della giustificazione richiesta.
d) Se sussistano motivi legittimi per giustificare il monitoraggio e se il datore di lavoro avesse potuto istituire un sistema di monitoraggio basato su metodi e misure meno invasivi della privacy dei dipendenti.
e) Le conseguenze del monitoraggio per il dipendente che vi è sottoposto e come il datore di lavoro abbia utilizzato i risultati dell’operazione di monitoraggio, ovvero per conseguire il fine dichiarato della misura.
f) Se siano state fornite al dipendente adeguate garanzie, specialmente quando le operazioni di monitoraggio effettuate dal datore di lavoro siano state di carattere invasivo (cfr. punto 116).
La Corte, nel caso di specie, è stata chiamata a valutare se la legge nazionale spagnola e, in particolare, la sua applicazione da parte dei tribunali del lavoro avesse fornito sufficiente protezione del diritto al rispetto della vita privata dei lavoratori, soprattutto avuto riguardo al bilanciamento degli interessi coinvolti.
Analizzando tutti i principi affermati, dalla motivazione emerge chiaramente che, all’epoca dei fatti, la legge spagnola aveva previsto un quadro normativo sulla protezione della vita privata dei lavoratori in situazioni come quelle del caso in discussione. La violazione delle garanzie prescritte poteva comportare l’irrogazione di sanzioni amministrative e la responsabilità civile della persona preposta al trattamento dei dati. In queste circostanze, la Corte ritiene che il quadro normativo nazionale non sia in discussione nel presente caso. D’altronde, i ricorrenti non hanno contestato, di fatto, la pertinenza di questo quadro, ma hanno sostenuto che a violare la Convenzione sia stato il rifiuto dei giudici del lavoro di trarre le conclusioni appropriate dal comportamento omissivo del datore che non ha rispettato gli obblighi di informazione ex lege (cfr. par. 120).
La Corte ha avviato la sua analisi sottolineando che i tribunali del lavoro hanno dapprima identificato i vari interessi in gioco, riferendosi espressamente al diritto dei ricorrenti per il rispetto della loro vita privata e al bilanciamento di tale diritto con l’interesse del datore ad assicurare il buon funzionamento dell’azienda, esercitando i suoi poteri di gestione (cfr. par. 122).
La giurisprudenza delle Corti spagnole, infatti, richiede che qualunque misura che interferisca con la privacy dei lavoratori deve perseguire uno scopo legittimo (test di adeguatezza), deve essere necessaria al raggiungimento di questo (test di necessità) e deve essere proporzionato alle circostanze di ogni singolo caso (test di stretta proporzionalità) (cfr. paragrafi 54 e ss.).
Le corti domestiche avevano dapprima accertato che, in conformità con la giurisprudenza della Corte Costituzionale, l’installazione della videosorveglianza era stata giustificata da motivi legittimi, cioè il sospetto di furti giustificato dalle perdite significative registrate nel corso di alcuni mesi. Le stesse, poi, avevano preso in considerazione il legittimo interesse del datore di lavoro di prendere misure per scoprire e punire i responsabili delle perdite, con l’intento di assicurare protezione alla propria proprietà e il buon funzionamento dell’azienda (cfr. par. 123).
I giudici spagnoli, dunque, avevano esaminato la portata del controllo e il grado di ingerenza nella privacy dei ricorrenti, constatando che per quanto riguarda le aree e il personale monitorato, la misura fosse circoscritta – dato che le telecamere coprivano solo l’area delle uscite, nella quale probabilmente avvenivano le perdite – e che la sua durata non eccedesse quella necessaria a confermare i sospetti furti. Secondo la Corte questa conclusione non può essere giudicata irragionevole. La Corte Edu, infatti, sottolinea che la sorveglianza non aveva coperto l’intero negozio, ma solo le aree prossime alle casse, dove era probabile che fossero stati commessi i furti (cfr. par. 124).
I tre ricorrenti che lavoravano come cassieri erano sorvegliati con le telecamere durante la giornata lavorativa. Come risultato del lavoro che svolgevano nell’azienda, essi non avrebbero potuto eludere queste registrazioni, che avevano come oggetto il personale che lavorava nelle aree d’uscita e che operavano permanentemente e senza limiti. In parte, quindi, essi si trovavano in un’area limitata. Per quanto riguarda il quarto e il quinto ricorrente, le telecamere li avevano filmati solo nel momento in cui erano passati nelle aree d’uscita (cfr. par. 124).
La Corte Edu precisa, altresì, che i doveri dei ricorrenti si svolgevano in un luogo aperto al pubblico e comportavano contatti permanenti con la clientela. A tal proposito, la Grande Camera ritiene necessario distinguere, nella valutazione della proporzionalità della misura di videosorveglianza, i vari luoghi nei quali è stato condotto il monitoraggio, alla luce della ragionevole aspettativa dell’impiegato sulla protezione della propria privacy. Questa aspettativa è molto alta nei luoghi per loro natura privati, come i bagni o i camerini, dove una protezione più alta o addirittura il divieto completo della videosorveglianza è giustificato. L’aspettativa rimane alta in luoghi di lavoro chiusi, come gli uffici. È, invece, manifestamente bassa in luoghi che sono visibili o accessibili ai colleghi o, come nel caso di specie, al pubblico generale (cfr. par. 125).
Per quanto riguarda la portata della misura nel tempo, la Corte ha rilevato che seppure il datore di lavoro non avesse prefissato la durata della videosorveglianza, di fatto questa era durata dieci giorni ed era stata interrotta non appena i dipendenti responsabili erano stati identificati. La lunghezza del controllo, quindi, non è stata ritenuta eccessiva di per sé. Inoltre, solamente il manager del supermercato, il legale rappresentante e il rappresentante sindacale avevano visualizzato le registrazioni, prima che i ricorrenti fossero informati (cfr. par. 126).
Prendendo in considerazione tutti questi fattori, la Corte ha ritenuto che l’interferenza nella privacy dei ricorrenti non abbia raggiunto un alto livello di gravità (cfr. par. 126).
Per quanto riguarda le conseguenze del controllo, la videosorveglianza e le registrazioni non sono state utilizzate del datore per scopi diversi da quello di intercettare la causa delle perdite di beni e di prendere misure disciplinari conseguenti, per cui sono state considerate legittime da questo punto di vista (cfr par. 127).
I giudici nazionali, inoltre, avevano rilevato che, nelle circostanze del caso, non vi fosse alcun altro mezzo attraverso il quale perseguire lo scopo legittimo e che, per tale motivo, la misura posta in essere dovesse considerarsi “necessaria” secondo il significato della giurisprudenza costituzionale. Ciò in quanto l’entità delle perdite identificate dal datore di lavoro suggerivano che i furti fossero stati commessi da più soggetti e che la previsione dell’informazione ad ognuno dei membri del personale avrebbe potuto vanificare lo scopo della videosorveglianza che era, come notato dai tribunali nazionali, quello di scoprire i colpevoli dei furti e di ottenere le prove da usare nei procedimenti disciplinari contro di loro (cfr. par. 128).
Per quanto riguarda l’informativa dell’installazione della videosorveglianza, la Corte rileva che mentre la legge spagnola e gli standard europei ed internazionali non sembrano richiedere il consenso preventivo degli individui soggetti alla raccolta dei loro dati personali, le stesse regole stabiliscono che, in principio, è necessario informare gli interessati, in maniera chiara e, prima dell’implementazione delle misure stesse, dell’esistenza e delle condizioni della raccolta dati, anche solo in maniera generale. Il requisito della trasparenza e il conseguente diritto all’informazione, dunque, sono fondamentali, in particolare, nel contesto delle relazioni lavorative, dove il datore ha poteri significativi rispetto ai lavoratori e dove è necessario evitare eventuali abusi. La previsione dell’informazione ai soggetti interessati del controllo e della sua portata, in ogni caso, costituisce solo uno dei criteri che devono essere presi in considerazione nel giudizio sulla proporzionalità della misura adottata. Se tale informazione è omessa, allora la protezione derivante dagli altri criteri dovrà essere ancora più importante (cfr. par. 131).
La legislazione nazionale, inoltre, prevedeva altri rimedi con i quali i ricorrenti avrebbero potuto assicurare specifica protezione ai propri dati personali, ma essi avevano scelto di non farvi ricorso. In tal senso, la Corte ribadisce che l’effettiva protezione del diritto al rispetto della vita privata in caso di videosorveglianza sul posto di lavoro può essere assicurato in vari modi, mediante legislazione del lavoro oppure con leggi amministrative, civili e penali (cfr. par. 136).
Alla luce delle circostanze riportate, considerando le significative garanzie previste dal quadro giuridico spagnolo, inclusi i rimedi non utilizzati dai ricorrenti, e il peso delle considerazioni che hanno giustificato la videosorveglianza come analizzato dalle corti nazionali, la Corte conclude che le autorità nazionali non hanno violato le obbligazioni positive previste dall’articolo 8 della Convenzione, di conseguenza non è riscontrabile alcuna violazione di questa previsione (cfr. par. 137).
I giudici di Strasburgo, inoltre, non ravvisano neppure la violazione dell’art. 6 Cedu. I lavoratori, invero, nel medesimo giudizio avevano eccepito la violazione dell’articolo 6 in virtù dell’ammissione come prova delle registrazioni fatte a mezzo di videosorveglianza. La Corte evidenzia che le corti nazionale, in linea con la giurisprudenza della Corte Costituzionale, avevano ritenuto che la videosorveglianza non fosse stata attutata in violazione del diritto dei ricorrenti al rispetto della vita privata. E, inoltre, avevano considerato che le immagini ottenute non fossero state le uniche prove nel fascicolo (cfr. par. 154-158). I ricorrenti, inoltre, in nessuna fase, avevano messo in discussione l’autenticità o l’accuratezza delle immagini registrate. Le corti nazionali, per l’effetto, avevano ritenuto che le registrazioni offrissero sufficienti garanzie di autenticità. Date le circostanze nelle quali le registrazioni erano state ottenute, la Corte non ha ravvisato ragioni per contestare la loro autenticità e veridicità ed ha ritenuto, quindi, che esse costituiscano prove solide che non necessitano di essere corroborate da altro materiale. Ad ogni modo, le registrazioni in questione non erano state le uniche prove sulle quali le corti nazionali avevano basato le proprie conclusioni. Come si può rilevare dalle loro decisioni, esse avevano preso in considerazione anche le dichiarazioni dei ricorrenti, le testimonianze del direttore del supermercato, del legale rappresentante dell’azienda e del rappresentante del personale – al quale i ricorrenti avevano ammesso la propria condotta – e la relazione dell’esperto, nella quale erano state confrontate le immagini registrate dalla videosorveglianza e le ricevute delle casse. Per i lavoratori che avevano sottoscritto accordi transattivi, i tribunali si erano basati anche sull’ammissione dei fatti contenuta negli stessi atti. Avendo esaminato le prove nel loro insieme, i giudici nazionali avevano considerato i fatti accertati nel loro complesso. La Corte Edu, per l’effetto, ha concluso che l’uso come prova delle immagini ottenute a mezzo di videosorveglianza nel caso di specie non abbia minato la correttezza dei procedimenti (cfr. par. 154-158).
La violazione dell’art. 6 non è stata ravvisata dalla Corte di Strasburgo neppure con riferimento all’ammissione nel processo degli accordi transattivi firmati da alcuni ricorrenti, atteso che i giudici nazionali avevano correttamente affermato la validità degli stessi (cfr. par. 159-161).

5. Le critiche mosse alla sentenza dai tre giudici dissenzienti
La decisione della Grand Chambre, tuttavia, non ha trovato d’accordo tutti i componenti del collegio, come si evince dall’allegato in calce alla sentenza, nella quale alcuni componenti del collegio spiegano le ragioni per le quali ritengono che sia stato violato l’art. 8 Cedu nel caso di specie.
I giudici dissenzienti evidenziano che la maggioranza, nella sentenza in commento, concorda nel ritenere che la legge Spagnola considera “necessario informare le persone interessate dell’esistenza e delle condizioni della raccolta dati, in maniera chiara e prima della sua effettiva applicazione”, limitando in questo modo l’invasione della sfera privata e dando ai dipendenti l’opportunità di regolare la propria condotta. Questo requisito, tuttavia, non sarebbe stato rispettato nel caso in discussione, poiché la maggioranza ha continuato ad affermare che questo rappresenta “solo uno dei criteri che deve essere preso in considerazione per accertare la proporzionalità di una misura” (cfr. par. 7 dell’allegato).
Il datore di lavoro, sottolineano i tre giudici, aveva due scopi legittimi: in primo luogo, evitare ulteriori furti, per il quale sarebbe stato sufficiente un avviso dell’installazione del sistema di sorveglianza; in secondo luogo, voleva trovare il responsabile delle perdite subite nel corso dei mesi precedenti, per questo, la notifica preventiva dell’installazione delle videocamere visibili e di quelle nascoste non sarebbe stata utile. Ad ogni modo, poiché il furto aveva una valenza penale, il datore di lavoro avrebbe potuto e dovuto, avvisare la polizia prima di prendere iniziative per proprio conto (cfr. par. 9 dell’allegato).
I giudici dissenzienti, dunque, affermano che l’esigenza di far luce su un reato non giustifica un’indagine privata, anche sotto forma di video-sorveglianza nascosta, che equivale ad una misura eccessivamente intrusiva e ad un abuso di potere. Secondo i consiglieri, in sostanza, la Corte, non condannando questo comportamento commesso da privati, potrebbe incoraggiare i singoli ad appropriarsi della risoluzione di questioni di competenza delle pubbliche autorità. Al contrario, deve rimanere una prerogativa delle autorità competenti prendere provvedimenti adeguati in quanto legittimate sia riguardo al potere che alla conseguente responsabilità (cfr. par. 9 dell’allegato).
La maggioranza dei giudici ha evidenziato che “non si può accettare il principio che il minimo sospetto di appropriazione indebita o di qualunque altro comportamento illecito da parte dei dipendenti possa giustificare l’installazione della videosorveglianza nascosta da parte del datore di lavoro”, ma ciononostante afferma che “l’esistenza di un ragionevole sospetto di cattiva condotta (...) può costituire una importante giustificazione” per una tale misura. I giudici dissenzienti rilevano, sul punto, che in assenza di un obbligo di chiare tutele procedurali, l’esistenza di “un ragionevole sospetto di cattiva condotta” non è sufficiente in quanto può tradursi in un’indagine privata e potrebbero essere usata come giustificazione in un inaccettabilmente ampio numero di casi. Mentre, in via di principio, il requisito del “ragionevole sospetto” è un’importante tutela, di fatto, non è sufficiente a proteggere i diritti di privacy quando si tratta di sorveglianza elettronica di natura occulta. In circostanze come quelle del caso in oggetto, dove un datore di lavoro usa la videosorveglianza nascosta senza prima darne notizia agli impiegati, c’è necessità di ulteriori tutele procedurali; simili a quelle richieste dalla Convenzione per l’uso delle intercettazioni segrete nei processi penali. I giudici, quindi, affermano la necessità di individuare requisiti procedurali che permettano una verifica attendibile da parte di una parte terza dell’esistenza di un “ragionevole sospetto di gravi comportamenti” e garanzie contro il fatto che la giustificazione alla base della sorveglianza sia data “dopo il fatto” (cfr. par. 10 dell’allegato).
In conclusione, il parere dei giudici dissenzienti è che sia le Corti nazionali sia la Corte Edu non siano riuscite a trovare il giusto equilibrio tra i diritti del datore di lavoro e quelli dei dipendenti. Gli stessi evidenziano, inoltre, la necessità di introdurre chiare tutele procedurali, al fine di scongiurare “indagini private” lesive della privacy, poiché il datore di lavoro, ove abbia un fondato sospetto della commissione di illeciti da parte dei propri dipendenti, dovrebbe rivolgersi alle autorità competenti e affidare loro le eventuali attività investigative che dovessero rendersi necessarie.

6. Le ripercussioni nel nostro ordinamento giuridico
La Corte Edu, ancora una volta, ha affrontato una tematica di grande attualità: l’utilizzo delle tecnologie da parte del datore di lavoro ai fini del controllo occulto dei lavoratori.
Nel nostro ordinamento giuridico la disciplina relativa all’utilizzo, nell’ambiente di lavoro, degli impianti audiovisivi ed altri strumenti di controllo si rinviene nell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori. Tale norma, come noto, ha subito una importante modifica ad opera dell’art. 23, comma 1, d.lgs. 14 settembre 2015, n. 151.
L’art. 4, come novellato dal legislatore del Jobs Act, consente al datore di lavoro l’utilizzo di “impianti audiovisivi e di altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori”. Il ricorso a tali mezzi è consentito, però, a due condizioni imprescindibili: “per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale”; e “previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali” . Il legislatore della riforma precisa, al comma 2, che “tale disposizione non si applica agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze”. In ogni caso, “le informazioni raccolte ai sensi dei commi 1 e 2 sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro, a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196” .
Nel caso di specie, tuttavia, la Corte ha esaminato un’ipotesi peculiare: il controllo occulto operato dal datore di lavoro al fine di appurare l’effettiva commissione di illeciti da parte dei dipendenti del supermercato.
Tale ipotesi sembra sussumibile nella categoria dei “controlli difensivi” .
Nella vigenza della precedente formulazione dell’art. 4, l. 300/1970, la giurisprudenza aveva affermato che i controlli difensivi esulavano dalla disciplina dell’art. 4 cit., “qualora avessero ad oggetto comportamenti dei lavoratori, qualificabili come illeciti extracontrattuali, ovvero fossero diretti a tutelare il patrimonio aziendale” .
La novella normativa, però, ha inserito la “tutela del patrimonio aziendale” nell’alveo delle finalità per le quali è consento al datore di lavoro l’utilizzo di “impianti audiovisivi e di altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori”.
Questa affermazione ha generato due tesi opposte in merito alla riconduzione o meno dei controlli difensivi nell’ambito di applicazione dell’art. 4.
Una corrente di pensiero considera i controlli difensivi assorbiti nella nuova formulazione della norma ; l’altra corrente, viceversa, afferma la perdurante esistenza dei controlli difensivi, quale categoria estranea all’art. 4 cit. .
I corollari di questi due orientamenti, sul piano pratico, sono rilevanti.
L’art. 4 prevede che “l’impiego e l’installazione degli strumenti di controllo a distanza” è possibile solo se in costanza di tutti i requisiti previsti dalla legge: i motivi legittimanti l’installazione e il preventivo accordo sindacale o autorizzazione amministrativa . Va aggiunto, poi, che l’utilizzo dei dati così raccolti è possibile, “a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro, a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196” .
Se i controlli difensivi rientrassero nell’ambito di applicazione dell’art. 4, anche l’acquisizione e l’utilizzo dei dati raccolti, per l’effetto, necessiterebbero di tutte le garanzie procedimentali ed i requisiti sostanziali richiesti dalla disciplina legislativa.
L’atra tesi, viceversa, considera i controlli difensivi quale categoria autonoma che, nonostante la modifica legislativa, continua ad esulare dall’ambito di applicazione dell’art. 4. Tali controlli, dunque, possono essere attivati anche in assenza di preventivo accordo sindacale o autorizzazione amministrativa, purché finalizzati all’accertamento di condotte illecite dei dipendenti .
D’altro canto, una volta appurata, in concreto, “l’esistenza di un fatto reato commesso dal lavoratore non connesso in alcun modo con la prestazione lavorativa, vengono in considerazione altre norme, senza che il lavoratore possa invocare più le garanzie che l’ordinamento mette a tutela del suo diritto alla riservatezza e alla dignità” .
La nostra giurisprudenza considera il controllo “difensivo” quando abbia ad oggetto “comportamenti del lavoratore che, pur posti in essere in occasione dello svolgimento della prestazione lavorativa, possano acquisire una rilevanza giuridica del tutto autonoma rispetto agli obblighi connessi al rapporto di lavoro e che, come tali, non siano qualificabili come “attività del lavoratore” ai sensi dell’art. 4 St. lav.” .
In questa ipotesi rilevano due contrapposti interessi: quello del datore di lavoro ad assicurare il buon funzionamento dell’azienda, esercitando i suoi poteri di gestione, e quello del lavoratore alla tutela della propria privacy.
Questa tesi sembrerebbe supportata dalla decisione della Corte Edu, ovviamente con le peculiarità dettate dal ruolo della stessa Corte, nonché dai connotati (fattuali) del caso di specie.
La giurisprudenza italiana ha affermato, in particolare, che “sono tendenzialmente ammissibili i controlli difensivi “occulti”, in quanto diretti all'accertamento di comportamenti illeciti diversi dal mero inadempimento della prestazione lavorativa, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, ferma restando la necessaria esplicazione delle attività di accertamento mediante modalità non eccessivamente invasive e rispettose delle garanzie di libertà e dignità dei dipendenti, con le quali l'interesse del datore di lavoro al controllo ed alla difesa della organizzazione produttiva aziendale deve contemperarsi, e, in ogni caso, sempre secondo i canoni generali della correttezza e buona fede contrattuale” .
I controlli “difensivi”, pertanto, rispondono a quel bilanciamento di contrapposti interessi ai quali si faceva riferimento pocanzi. Vi sono dei limiti invalicabili ai quali occorre attenersi e, in quest’ottica, la sentenza della Corte Edu può innestarsi.
La Corte di Strasburgo nella sentenza in esame, infatti, ha individuato alcuni criteri ai quali gli interpreti devono attenersi al fine di valutare l’effettiva proporzionalità delle misure di videosorveglianza nei luoghi di lavoro, qualora le stesse siano attuate in modo occulto.
L’organo giudicante, oltre a considerare le peculiarità proprie dei singoli rapporti di lavoro e lo sviluppo delle nuove tecnologie che possono consentire l’adozione di misure sempre più invadenti della sfera privata dei lavoratori, dovrà valutare: a) se il lavoratore sia stato avvertito della possibile adozione di misure di videosorveglianza da parte del datore di lavoro e dell’applicazione di queste misure; b) l’area monitorata, insieme a tutte le limitazioni di spazio e tempo e al numero di persone terze che hanno accesso ai risultati; c) se sarebbe stato possibile, eventualmente, istituire un sistema di monitoraggio basato su metodi e misure meno invasivi della privacy dei dipendenti; d) se il datore di lavoro abbia indicato motivi legittimi per giustificare il monitoraggio; e) le conseguenze del monitoraggio per il dipendente che vi è sottoposto e l’uso fatto dal datore di lavoro dei risultati dell’operazione di monitoraggio; g) se siano state fornite al dipendente adeguate garanzie, specialmente quando le operazioni di monitoraggio effettuate dal datore di lavoro abbiano carattere invasivo (par. 116 sentenza).
Questi principi, già affermati in precedenza, sono stati ribaditi dalla Corte Edu nel caso in esame.
Si potrebbe affermare che tali enunciati possano essere utilizzati quale parametro guida al fine di valutare quando il controllo difensivo occulto sia effettivamente compatibile con il diritto alla “tutela della vita privata”, riconosciuto dall’art. 8 Cedu. I criteri individuati dalla Grande Camera, così, fungerebbero da coordinate ermeneutiche utili nei processi interpretativi al fine di valutare la proporzionalità del controllo occulto, ossia quando possano ritenersi bilanciati i contrapposti interessi in gioco: quello del datore di lavoro ad assicurare il buon funzionamento dell’azienda e quello del lavoratore alla tutela della propria privacy.
Come affermato dalla Corte di Strasburgo, dunque, seppur, in via generale, non può essere accettato il fatto che un lieve sospetto di appropriazione indebita o di altri comportamenti sbagliati da parte dei lavoratori possa giustificare l’installazione di telecamere nascoste da parte del datore di lavoro, l’esistenza di ragionevoli sospetti di gravi scorrettezze e la portata delle perdite subite, in via teorica, possono costituire una decisa giustificazione (cfr. par. 134 sentenza). Questo è ancor più vero in situazioni nelle quali il buon andamento dell’azienda è messo in pericolo non dal comportamento di un singolo lavoratore, ma dal sospetto di azioni concertate tra più lavoratori, in quanto questo crea un’atmosfera generale di sfiducia all’interno del posto di lavoro (cfr. par. 134 sentenza).
Il controllo difensivo occulto dev’essere considerato, tuttavia, quale “extrema ratio”, al quale il datore di lavoro, come sostenuto dal Garante della privacy, può far ricorso solo “a fronte di ‘gravi illeciti’ e con modalità spazio-temporali tali da limitare al massimo l’incidenza del controllo sul lavoratore” .

 

 

 

 

 

 

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