Testo integrale con note e bibliografia

1.La tendenza universalistica nelle tutele e il poliformismo lavorativo nel Volume di Adalberto Perulli
Il recente contributo di Adalberto Perulli  ci offre un’organica ricostruzione di una “nuova stagione universalistica” che da tempo attraversa il diritto del lavoro dei paesi occidentali, una tendenza “espansiva” che, passo dopo passo, dispone l’allargamento dei confini delle protezioni e delle tutele a tutte le forme di lavoro reso per “altri” , non solo nel rapporto di lavoro ma anche riguardo l’accesso agli istituti del welfare. Questa prepotente tendenza allude ad una ricomposizione, necessariamente pluralistica, delle forme di garantismo sociale oltre le tradizionali colonne d’ercole della “subordinazione” o della “dipendenza” e conferisce riconoscimento giuridico alle richieste di attribuzione di una parità di status e di dignità al lavoro autonomo che si svolge con modalità che necessitano, per ragioni di equità e di giustizia sociale, di un riequilibrio di forza negoziale e, comunque, della predisposizione di schemi contrattuali razionali (aggiornati alla luce dell’evoluzione sociale e delle dinamiche produttive che si stanno affermando) per assicurare alle parti il legittimo perseguimento dei loro rispettivi interessi  . La forza della tesi di Perulli sta nel superare la logica con cui, sino ad oggi. si è guardato al tema della protezione dei lavoratori non dipendenti, come ad una necessaria integrazione di completamento del garantismo sociale esistente, di manutenzione delle zone di confine, di promozione nel pianeta delle tutele dei più meritevoli di sostegno e di dannazione dei più fortunati allo logiche del mercato, nella conservazione, però, dell’impianto generale e dei suoi principi costitutivi edificati sulla base del privilegio selettivo, nell’ammissione alle tutele, all’istituto della subordinazione come trasmessoci, con qualche marginale differenza, dalla fonti internazionali, europee ed interne. La scommessa del Volume mi sembra sia quella di mirare ad un vero cambio di paradigma non solo come proposta dottrinaria o di filosofia sociale ma come ricognizione necessaria di quel che è ( in parte) già accaduto sotto la pressione di richieste di protezione di ceti produttivi esclusi o anche puramente funzionalistiche di regolamentazione dell’apporto del fattore umano nelle nuove filiere di produzione del valore, uno smottamento continuo dei pilastri degli schemi di classificazione “ del lavoro” su cui si è retta l’architettura delle garanzie. Non si tratterebbe più esclusivamente di “estendere” le protezioni proprie del lavoro dipendente a chi -per caratteristiche dell’attività svolta, per debolezza contrattuale di chi la esegue o, ancora, per dipendenza strutturale da un committente- può vantare un qualche criterio di assimilazione alla condizione di subordinato (certamente anche questo) ma di riconfigurare il “lavoro” ed i suoi diritti autenticamente attorno ad un genus più comprensivo si da mantenere la promessa di cui parlavano i costituenti di una tutela di ogni sua “forma ed applicazione” o i padri della Carta di Nizza (nel suo articolo 15) attraverso la formulazione di un “right to engage in work” capace di offrire a tutti coloro che “operano per altri” le basi necessarie per godere di un’esistenza libera e dignitosa e per poter realizzare il “proprio” progetto di vita (anche lavorativa). Quello che ci offre Perulli è, allora, una lettura, anche in chiave comparativa, di questa tendenza o linea di sviluppo del giuslavorismo contemporaneo che cerca di trascendere i fondamenti sociologici su cui originariamente è nato e si è radicato anche a livello costituzionale nell’aspirazione a trovare canali più inclusivi per promuovere l’homo faber nelle sue molteplici, senza dubbio molto più pluralistiche che nel passato, realizzazioni produttive . L’inarrestabile processo di digitalizzazione della produzione, di cui il lavoro su piattaforma è l’aspetto più spettacolare, ha infatti fatto precipitare in senso pragmatico e interventista un dibattito già iniziato nei tardi anni 80 costringendo gli stati ad adottare importanti manutenzioni dei criteri di protezione sociale. Tali soluzioni, pur presentate spesso come provvedimenti “tampone” per fronteggiare emergenze sociali allarmanti (tipicamente la questione riders), in vista di una riforma organica della nozione di subordinazione per proporla con maggiore plausibilità al governo della realtà produttive del terzo millennio, in realtà hanno penetrato in profondità il sistema delle garanzie spostandone il baricentro in senso al contempo universalistico e pluralistico. La mossa argomentativa cruciale del Volume risiede nel vedere queste varie strade già intraprese in alcuni ordinamenti e solo accennate in altri come declinazioni di una medesima tensione costruttiva che riporta, con i necessari adattamenti e dosaggi equitativi, l’insieme delle attività prestate per altri nell’alveo di una logica convergente di protezione e valorizzazione e che, unitariamente, interpreta la semantica dei diritti fondamentali, iscritta nella Carte costituzionali, nelle Carte europee, nelle fonti internazionali. In questa prospettiva Perulli riesce a mostrare efficacemente come, nel nostro paese, la disciplina sul lavoro autonomo eterorganizzato, quella sui riders , i tentativi di allargamento della nozione di subordinazione di alcune decisioni giudiziarie interne meno formalistiche che si ispirano alla giurisprudenza più duttile della Corte di giustizia, ma anche il cosidetto Statuto del lavoro autonomo di cui al decreto legislativo n. 81 del 2017 possano essere viste come risposte convergenti di una nuova sensibilità che non assegna più alla subordinazione un ruolo egemone regolativo per disciplinare esperienze lavorative che sono lontane anni luce da quelle in riferimento alle quali sono stati definiti i vecchi paradigmi del garantismo sociale. La logica annessionista dei nuovi territori della produzione a quelli un tempo dominanti egemoni attraverso l’imposizione legislativa del contratto tipico di quest’ultimi, la cui capacità rappresentativa “universale” è oggi chiaramente in discussione, per quanto riguarda la legislazione italiana degli ultimi anni non è, nei fatti, stata accolta; i riders rimangono anche per la Corte di cassazione lavoratori autonomi, così come coloro che operano in generale, in modo etero-organizzato tramite piattaforme, nonostante siano loro applicabili molte delle garanzie tipiche della subordinazione; agli indipendent workers lo statuto del 2017 promette  una serie di tutele civilistiche (in certi casi anche lavoristiche e previdenziali) senza interferire sulle loro scelte contrattuali. Le garanzie costituzionali e di fonte sovranazionale si estendono, si diramano nella società raggiungendo una cittadinanza laboriosa che ne era tenuta al margine, ma l’impero del lavoro subordinato ne risulta incrinato in un nuovo pluralismo regolativo riferito a comuni valori di protezione. L’emergere del lavoro su piattaforma ha fatto precipitare il tempo delle scelte; gli stati hanno dovuto fronteggiare situazioni di asservimento e sfruttamento pre-moderni  rispetto alle quali una posizione astensionistica sulla base dell’esigenza di non contrastare l’innovazione tecnologica si è rivelata nel tempo intenibile, ma- alla fine- la tesi per cui niente di sostanziale fosse accaduto e i tradizionali contenitori fossero più che attrezzati a racchiudere le inedite attività digitali non è stata –almeno in Italia- quella vincente (. Può avere una sua plausibilità per i riders  che operano in sostanza con modalità rapportabili a quelle dei trasportatori disciplinati dal contratto della logistica, ma il lavoro digitale in generale (a cominciare da alcune prestazioni che si eseguono integralmente sulle piattaforme) è sempre meno catturabile con i vecchi arnesi classificatori che perdono di plausibilità proprio in relazione alle dinamiche produttive più innovative. La richiesta di garanzie irradiate secondo criteri universalistici deve, quindi, combinarsi, con una tolleranza per il poliformismo lavorativo ripudiando quella tentazione di ascrivere necessariamente alle inedite attività che oggi si dipanano in varie forme nella rete ( e che non hanno in gran parte ancora una loro rappresentanza sindacale o anche sociale) proprio gli schemi contrattuali (poco importa se con qualche aggiornamento) del passato otto-noventesco realizzando il paradosso << di un diritto che per tutelare assoggetta, per emancipare nega la libertà, per riequilibrare posizioni soggettive giuridiche squilibrate legittima e formalizza un rapporto di potere asimmetrico tra le parti>>  , i cui tratti salienti continuano a risiedere in poteri quasi-militari (o comunque in caratteristiche anche del lavoro servile) come quello disciplinare, lo ius variandi, il potere di trasferimento, l’assegnazione del periodi di ferie, l’obbligo di fedeltà e via dicendo. Un certo superamento del privilegio tradizionalmente accordato al lavoro dipendente da parte dello stato italiano nell’attribuzione di risorse pubbliche a favore dei disoccupati (implicitamente così individuando nello status di dipendente l’unica soluzione durevole nel tempo) ci viene dalla normativa sul reddito di cittadinanza del 2019 che, mentre condiziona il beneficio al mancato rifiuto da parte dei suoi fruitori (che possono lavorare) di un’occasione di lavoro “congrua” dal punto di vista del tipo contrattuale (cioè di lavoro subordinato a termine per più di sei mesi o a tempo indeterminato) o reddituale (superiore del 10% all’importo di 750 euro), legittima il beneficiario a chiedere alcune mensilità addizionali (sino a sei mesi) onde aprire un’attività di lavoro autonomo o cooperativo (l’anticipazione di alcune mensilità spettanti al fruitore di Naspi per fini analoghi era già prevista). Si tratta di un chiaro segnale legislativo (recentemente attuato con il decreto del 12 febbraio 2021 dei Ministeri del lavoro, dell’Economia e dello Sviluppo economico) che la strettoia immaginativa della creazione di “lavoro” solo attraverso i canali della dipendenza appare oggi superata dalla constatazione che l’incentivazione di attività autonome potrebbe risultare molto più realistica e promettente di sviluppi occupazionali duraturi .
2. IL riformismo europeo bloccato dall’orientamento della Corte di giustizia.
Nell’ultimo anno, nel pieno della pandemia, l’Unione sembra avere riscoperto il tema delle tutele del lavoro autonomo. Il primo, organico, strumento predisposto dall’Unione in favore degli Stati, lo SURE, di cui recentemente al vertice informale di Porto l’8 maggio 2021 il Presidente Draghi ha chiesto la trasformazione in istituto strutturale o quanto meno una significativa proroga, per fronteggiare il rischio di una disoccupazione di massa nei paesi più colpiti difficilmente fronteggiabile con gli strumenti ordinari, prevede tra le misure finanziabili anche provvedimenti in favore degli indipendent workers senza ripetere la consueta, irragionevole, formula (sulla quale torneremo) della non genuinità della qualificazione del rapporto come autonomo, sia di riduzione dell’orario (o anche provvedimenti dal contenuto analogo) che di erogazione di reddito sostitutivo. L’Unione scopre anche la cassa integrazione, sia pure indicando come modello quella praticata dalla Germania (che il Governo italiano ha poi in qualche modo replicato con il nuovo istituto del Fondo nuove competenze), che sino allo SURE era in genere mal vista in quanto non solo non praticata in tutti i paesi membri, ma anche forma surrettizia, in genere, per concedere aiuti di stato al di fuori dei paletti sovranazionali. Di fatto l’Italia ha usato lo SURE a titolo di rimborso anche per alcune indennità emergenziali in favore dei lavoratori autonomi, come ad esempio per le partite IVA, per i professionisti, per i coordinati e continuativi (in alcuni casi in via automatica, in altri selettivamente). I Progetti del Recovery Plan dovranno essere implementati nel rispetto del Pilastro sociale europeo i cui principi in genere sono molto più inclusivi (riguardo il lavoro autonomo e quello atipico) rispetto a quanto previsto dalle vere e proprie fonti del diritto europeo, direttive e regolamenti. Nelle Raccomandazioni all’Italia del Consiglio e della Commissione del 20 luglio 2020 (il cui rispetto è peraltro obbligatorio per godere dei benefici del Recovery ) si legge <<Tenuto conto dell'impatto della pandemia di Covid-19 e delle sue conseguenze, gli ammortizzatori sociali dovrebbero essere rafforzati per garantire redditi sostitutivi adeguati, indipendentemente dallo status occupazionale dei lavoratori, in particolare di coloro che si trovano di fronte a carenze nell'accesso alla protezione sociale. Il rafforzamento del sostegno al reddito e del reddito sostitutivo è particolarmente pertinente per i lavoratori atipici e per le persone in situazioni di vulnerabilità>>, un chiaro invito a sostenere il reddito non dei soli subordinati. Interpretando questi forti ed univoci segnali la legge di bilancio (n. 178/2020) all’art. 1 comma 398 prevede il nuovo istituto dell’ISCRO, una sorta di embrione di cassa integrazione sulla base di una modesta contribuzione per gli autonomi, connessa anche a ipotesi di formazione professionale: provvedimenti più robusti sono stati formulati dalla Commissione per la riforma degli ammortizzatori sociali nominato dal Ministro del lavoro del Governo Conte bis. Tuttavia questo percorso, soprattutto se lo si individua come un sentiero europeo, è tutt’altro che lineare. Qui le migliori intenzione degli organi dell’Unione incontrano gli ostacoli del diritto sovranazionale così come interpretato sulla base di una giurisprudenza della Corte di giustizia ostaggio di alcuni assiomi del giuslavorismo tradizionale, sia pure declinati per sostenere le basilari regole del mercato comune (le costitutive 4 libertà comunitarie e le norme sulla concorrenza ). Va ricordato che sul piano della riflessione pubblica l’Unione (ed in particolare la Commissione europea che svolge un ruolo più progettuale rispetto agli altri organi) è stata un’apripista del dibattito contemporaneo sulla trasformazione digitale dell’economia e della connessa necessità di un aggiornamento del catalogo delle tutele fondamentali per i lavoratori caduti (al di là delle barriere tra tipologie contrattuali) nel gorgo di una innovazione sregolata, sin dalla Comunicazione sulla modernizzazione del diritto del lavoro del 2006 sino alla Comunicazione sulla economia collaborativa e, successivamente, alla stesura di un ambizioso Pilastro europeo dei diritti sociali  in cui è evidente l’esigenza di universalizzazione delle tutele (a cominciare da quelle welfaristiche) nella prospettiva della promozione del lavoro tout court. Come diremo di qui a poco, almeno per le attività più innovative e veicolate attraverso i nuovi spazi di Internet, quanto disegnato nel Pilastro viene ad essere testato attraverso ipotesi regolative sulle quali si sta svolgendo un’ampia e certamente delicata discussione, sopratutto con le parti sociali, dal lavoro tramite piattaforma al diritto alla sconnessione. Certamente per questi settori, inevitabilmente investiti dal Piano strategico sul decennio digitale dell’Unione, che nel brevissimo periodo dovrebbe portare all’approvazione di un rivoluzionario regolamento sull’Intelligenza Artificiale ( reso noto come proposta ad Aprile), pieno di risvolti lavoristici, sembra ineludibile che si vada oltre- per lo meno sulle tutele essenziali- i confini della subordinazione, a meno di non cadere in un luddismo autolesionista che l’Europa ha da sempre rifiutato. E’ vero che sul piano dell’impostazione la Commissione riesce in questi ultimi anni piuttosto abilmente a recepire le spinte regolative garantiste che provengono dagli stati ed a cercare di proiettarle in una qualche visione culturale che non “tenga il broncio la proprio tempo”, nell’equilibrio tra sicurezza e trasformazione, ma l’Unione sembra ostaggio delle vecchie dogmatiche che rendono le tutele epifenomeno del sempre meno plausibile inquadramento del “lavoro” nel contratto tipico del “mondo com’era”, la subordinazione. Ad imbrigliare l’azione dell’Unione è una discutibile sentenza del 2014 sugli orchestrali olandesi (comunque non di Grande Chambre, anche se mai né smentita né ribadita da altre decisioni ) della Corte di giustizia (4 Dicembre, FNV Kunsten Informatie en Media, C-413/2013) , forse non meditata adeguatamente per il suo impatto sociale, secondo la quale lavoratori autenticamente autonomi ( il che spetta al giudice nazionale verificare) non potrebbero giovarsi di minimi contrattuali perché considerati alla luce della cosidetta competition law come imprenditori. Tali minimi rappresenterebbero pratiche - ex art. 101 TFUE- di restrizione della concorrenza, mentre una disciplina protettiva non sarebbe illegittima per i “falsi autonomi” perché assimilati ai dipendenti circa la necessità di una protezione delle condizioni di lavoro. La Corte del Lussemburgo ha in quella decisione lapidariamente affermato (punti 29, 30)che << quando un’organizzazione rappresentativa dei lavoratori procede a trattative in nome e per conto di tali prestatori autonomi di servizi che ne sono membri, essa non agisce come associazione sindacale e dunque come parte sociale, ma in realtà opera come associazione di imprese…. Occorre anche aggiungere che il Trattato, sebbene prenda in considerazione un dialogo sociale, non prevede alcuna disposizione che, alla stregua degli articoli 153 TFUE e 155 TFUE nonché 1 e 4 dell’accordo sulla politica sociale (GU 1992, C 191, pag. 91), incoraggi i prestatori autonomi a istaurare un simile dialogo con i datori di lavoro presso i quali forniscono prestazioni di servizi in forza di un contratto d’opera e, dunque, a stipulare accordi collettivi con detti datori di lavoro al fine di migliorare le proprie condizioni di occupazione e di lavoro (v., per analogia, sentenza Pavlov e a., EU:C:2000:428, punto 69).. >>. Tale decisione ha per così dire “gelato” il dibattito europeo ed anche il processo legislativo sovranazionale: Commissione e Corte di giustizia hanno ribadito nei loro atti che le direttive a carattere sociale si applicano anche ai lavoratori “falsi autonomi” ma questo riassicurazione appare ipocrita: il “falso autonomo“ per rivendicare i suoi diritti deve chiedere la trasformazione del suo rapporto in un contratto di lavoro subordinato altrimenti non può accedere alle tutele del capitolo sociale dell’Unione che, anzi, se applicate a chi rimane nelle condizioni di indipendent worker potrebbero essere ritenute in frizione o quanto meno eccentriche rispetto al diritto dell’Unione . E’ ben vero che la sentenza del 2014 si riferisce alla disciplina di trattamenti retributivi di origine contrattuale, ma c’è il serio dubbio che anche discipline legali nazionali dirette a proteggere il lavoro autonomo potrebbero essere individuate come limitative della concorrenza e della libertà di stabilimento visto che ostacolerebbero l’azione nel mercato comune di “imprese “. Dubbi sono sorti per i lavoratori in Italia considerati “etero-organizzati” ai sensi dell’art. 2 d.lgs. n. 81 del 2017 (tra i quali vanno inclusi i riders): sono costoro falsi lavoratori autonomi perché deve essere applicata, in difetto di una contrattazione collettiva di settore, l’intera normativa sul lavoro dipendente, nonostante la Corte di cassazione abbia correttamente ritenuto che tali lavoratori rimangono “autonomi”? E comunque sarebbe legittima la stessa contrattazione collettiva autorizzata dalla legge (in difetto della quale si applica la disciplina del lavoro dipendente) visto che protegge lavoratori che non cambiano il loro status di qualificazione contrattuale (lo stesso discorso deve farsi per la contrattazione collettiva in favore dei riders occasionali di cui alla legge n. 128 del 2019). Ed ancora è legittima la nuova “mini cassa integrazione” per gli autonomi, che li obbliga ad assicurarsi ? Gli interrogativi sono molti, tanto più che appare evidente che in questi settori dinamici ed in piena espansione, secondo processi difficili da strutturare per legge, gli accordi tra le parti appaiono un vettore prezioso ed insostituibile per la sperimentazione sociale e per il reciproco adattamento delle aspirazioni e degli interessi in gioco . Norme di protezione sovranazionali per gli autonomi sembrerebbero più tollerabili applicandosi a tutti gli stati ma, una volta scelta la strada dell’equiparazione tra questi e le imprese, inevitabilmente sorge una questione di base giuridica per l’intervento difficilmente rinvenibile nel titolo X del TFUE ed anche di opportunità istituzionale visto che il rischio è il prezzo che l’imprenditore paga per potere liberamente agire sul mercato.
Lo stato dell’arte oggi esibisce una sorta di schizofrenia nell’operato degli organi sovranazionali per cui mentre, grazie al diritto dell’Unione, alcune prerogative diventano proprie del cittadino “laborioso” come la non discriminazione o la protezione dei dati previsti dalla Carta di Nizza(si tratta tuttavia in sostanza di due meta- diritti idonei a gemmare una serie di tutele ad amplissimo raggio) altre, come il salario minimo europeo, pur proposto proprio per arrivare ad offrire tutele essenziali (che interferiscono anche in materie come la salute e sicurezza) a tutti coloro che gravitano per la loro attività nel campo delle imprese non riescono ad evadere (nella proposta della Commissione) il campo di applicazione del lavoro autonomo non genuino, con un contrasto piuttosto netto con il Parlamento europeo che vorrebbe proteggere anche chi subordinato non è . Persino nell’importante direttiva 2019/1152 in materia di condizioni di lavoro trasparenti e meritevoli che persegue la ratio di rendere visibile ogni modalità di utilizzazione del “lavoro altrui” ci si arrende all’impossibilità di monitorare il lavoro genuinamente autonomo, entrando così in contraddizione proprio con la ratio della normativa che vorrebbe visibilità e trasparenza nei rapporti di produzione in generale. Ancora la Corte di giustizia ha licenziato alcune decisioni dissonanti tra loro (che hanno risvolti lavoristici) in ordine alla qualificazione di alcune società che gestiscono note piattaforme che assicurano servizi di trasporto tra le quali Uber pop per la quale è stato ritenuto assorbente l’aspetto di “trasporto di persone” rispetto alla componente digitale dell’attività svolta con conseguente non applicazione della direttiva sul servizi svolte da società dell’informazione o Star Taxi App’s per la quale è stato deciso, in relazione alle caratteristiche tecniche dello specifico servizio, l’esatto contrario . Potremmo andare avanti tra chiusure ed aperture alla protezione (contrattuale e/o legislativa) del lavoro autonomo, tra stop and go continui, ma ci sembra di poter condividere senz’altro l’affermazione di Perulli << la verità è che, allo stato attuale, il conflitto tra diritto del lavoro e diritto della concorrenza esiste e deve essere risolto per consentire al freelance di godere dei diritti di libertà e di associazione e rappresentanza collettiva. Salvo improbabili revirement della Corte, la soluzione passa per una modifica del diritto europeo della concorrenza in senso derogatorio al divieto di intese anticoncorrenziali ex art, 101 TFUE..>>.

3. Addomesticare in senso garantista l’innovazione: le nuove iniziative della Commissione
Un punto qualificante del risveglio degli organi di Bruxelles per la dimensione sociale è la crescente attenzione per le nuove tecnologie e l’apertura ad una estensione dei diritti ad attività che vengono prestate in contesti inediti produttivi. Parlamento e Commissione sembrano ora collaborare strettamente: le Risoluzioni hanno premesse, anche statistiche, che sono le stesse delle proposte della C.E. e medesimi obiettivi, sempre più spesso radicati nelle norme della Carta dei diritti e nella giurisprudenza della Corte di giustizia che fa ad essa riferimento . Gli articoli 8, 20, 21, 28, 31, 47 del Testo di Nizza operano da trama comune per la progettazione di proposte regolative che mirano contemporaneamente a combattere la discriminazione, promuovere l’accesso ai diritti fondamentali della persona (ad esempio alla protezione dei dati personali ) e a quelli collettivi, ad offrire ad ogni “lavoratore” condizioni di lavoro eque e giuste. La semantica dei diritti fondamentali sembra, finalmente, pervadere in radice l’onda riformista interpretando il carattere direttivo e di indirizzo politico che il Bill of rights di Nizza possiede come tutti i Testi di natura costituzionale in un rapporto dialettico ed aperto con la giurisprudenza della Corte di giustizia le cui decisioni sono il punto da cui partire, ma non un limite per il garantismo europeo. Le iniziative normative dovrebbero assumere, ad esempio, la concezione “umanista” del progresso digitale che emerge da storiche decisioni della Corte del Lussemburgo per elaborare nuovi diritti e nuove libertà per gli spazi virtuali della produzione di valore contemporanea .
In questa chiave va segnalata la Risoluzione del 21.1.2021  “recante raccomandazioni alla Commissione sul diritto alla disconnessione” che offre una ricostruzione piuttosto organica delle “luci e delle ombre” del fenomeno, in forte crescita, fattasi verticale nel 2020 quando circa un terzo dei lavoratori europei durante i vari lock-down ha utilizzato le modalità del “lavoro a distanza”. La Risoluzione, pur ricordando che lo strumentario digitale è in grado di sviluppare nuove campi di attività creativi ed innovativi, sembra, però, vedere più ombre che luci alla fine concentrandosi sulle difficoltà che fa nascere il tele-lavoro nella misurazione dello stesso orario lavorativo , accentuando la pressione su chi opera dai computer, stressando i soggetti nell’alterazione di una chiara distinzione tra tempo di vita e tempo di produzione con l’ulteriore effetto di ridurre i compensi ed incrementare i controlli anche indiretti sulle prestazioni. Comunque- come si dirà- è un dibattito ancora in fieri dove si contrappongono con vigore apocalittici ed integrati anche a livello internazionale . Un certo massimalismo interpretativo dei fenomeni in corso, tra l’enfasi sulla distruzione creatrice e il protezionismo del sindacato tradizionale, ha certamente contribuito alla paralisi normativa, paralisi dalla quale però il Parlamento in realtà vorrebbe uscire tanto da proporre alla Commissione una proposta di direttiva che però non riesce a superare i limiti di cui abbiamo parlato, ad andare oltre il caso degli orchestrali olandesi (sebbene questi limiti siano in plateale contrasto con la ratio dell’intervento). Sul fronte, parallelo, della Commissione invece Il 24.2.2021 è stata lanciata una consultazione con le parti sociali “on possibile action addressing the challenges related to working condictions in platform work” ai sensi dell’art. 154 TFUE, cioè “prima di presentare proposte nel settore della politica sociale a livello dell’Unione”. Il Documento non può che rimarcare una situazione di grande incertezza nel settore alimentato dalla diverse linee regolative nazionali, per giunta neppure consolidate, che rischia di generare un disorientamento diffuso anche in ordine all’applicabilità di un insieme di norme già operanti dell’Unione come la Direttiva n. 1152/2019 sulla trasparenza nelle condizioni di lavoro, la Direttiva n. 1158/2019 sul bilanciamento tra tempi di lavoro e tempi di vita, le direttive sul lavoro a termine, il part-time e il lavoro interinale, la direttiva sull’orario di lavoro, le tre direttive antidiscriminatorie del 2000, il regolamento del 2016 sulla general data protection, la stessa direttiva “ madre” sulla salute e sicurezza (83/1989). Scrive la Commissione “existing EU-level instruments only partially impact che challenges posed by platform work, notably due to the question of employment status. The issue of sorveillance, direction and performance appraisal, most notably as related to algorithmic management, is an area where existing EU labor law also does non provide specific protection. The self-employment are outside of the scope of most of the instruments”. Nonostante il sindacato europeo abbia promosso una sistematica campagna rivendicativa per i lavoratori delle piattaforme (prevalentemente di quelle dedite al trasporto delle persone) nella maggior parte dei paesi dell’Unione questi sono ancora considerati lavoratori autonomi e quindi “outside of the scope of most of the instruments”.
La Commissione in primo luogo osserva che il settore è in rapida ascesa essendosi incrementato del 30% negli ultimi due anni ( arrivando a 24 milioni di persone coinvolte ivi compreso però lavoratori che operano tramite le piattaforme in via marginale), con una buona partecipazione dei giovani e con un livello educativo più alto di quello dei lavoratori tradizionali. La Commissione mira ad uno sguardo molto ampio ed inclusivo sul fenomeno: seguendo Eurofond dovrebbe definirsi “platform work” una forma di attività lavorativa che utilizza una piattaforma online per consentire ad organizzazioni o individui di far accedere altre organizzazioni o individui per risolvere problemi o per fornire servizi in cambio di un pagamento (sarebbero escluse le piattaforme gratuite e quelle delle agenzie interinali). Da qui una distinzione di base tra le “on-location labour platforms” (trasporto di passeggeri, merci, lavoro domestico) e “online labour platforms ( ove le “tasks are not location- dipendent” per esempio trattamento di dati, lavori di traduzione, progetti di design): tale distinzione fa pensare che la Commissione possa ritenere ragionevole adottare misure diverse per questi sub-settori visto che si sottolinea come le problematiche più gravi, dal punto di vista garantistico, si siano verificate nel primo campo, più simile -per la ineludibile fisicità delle prestazioni- al lavoro tradizionale. Tuttavia questo orientamento non esclude che una parte delle misure che si potranno adottare non sia comunque per ogni tipo di piattaforma, come potrebbe accadere per la protezione dei dati, per la salute o sicurezza, per l’accesso alle prestazioni sociali etc.
Le più importante sfide riguardano i seguenti aspetti lo statuto lavorativo (autonomi o dipendenti o da includere in un contenitore ad hoc), le condizioni di lavoro, l’accesso alla protezione sociale, l’accesso alla negoziazione collettiva ed ai diritti di rappresentanza sindacale, la dimensione trans-border dell’attività prestata (che pone cruciali questioni connesse all’accesso alla sicurezza sociale garantita su base nazionale ed alla tassazione delle prestazioni), al cosidetto management algoritmico (che comprende il lato del trattamento dei dati e i nuovi confini della sorveglianza) ed infine la formazione professionale. Chiaramente la meta-questione è soprattutto la prima cioè l’inquadramento di questi lavoratori o solo di alcuni come subordinati, para subordinati o autonomi che chiama a sua volta ad un approfondimento più specifico sul modo di operare delle piattaforme. La Commissione lascia spazio alla riflessione in corso sul futuro della nozione di subordinazione richiamando anche l’ipotesi di individuazione di una zona intermedia (ad alta densità tecnologica) come possibile opzione o in alternativa suggerisce anche l’adozione di un sistema di presunzioni di carattere non assoluto(come ha fatto la Spagna per i riders). Sembra chiaramente emergere da questo appassionante documento, che cerca di indirizzare il futuro secondo schemi garantisti, che una serie di tutele vadano in ogni caso attribuite a quei lavoratori che sono oggi (e forse anche un domani) considerati autonomi e che tra queste tutele debbano necessariamente figurare quelle di natura collettiva. Storicamente innovativa sembra quindi la volontà della Commissione (esplicitata nel Documento) di assumere una iniziativa per rendere bilanciabili la competition law e la negoziazione collettiva degli autonomi se necessaria a fini garantisti per realizzare compiutamente gli obiettivi di tutela sociale previsti nel Trattato. Ora si vedrà che cosa le parti sociali europee risponderanno: la Commissione non parla espressamente di una direttiva visto che il titolo x dell’Unione prevede varie forme di intervento, anche se non la esclude. Si dovrà anche vedere quali tipologie di piattaforme verranno indicate come oggetto di disciplina e quali saranno i profili ritenuti prioritari per una normativa sovranazionale, ma certamente il dibattito sarà cruciale anche per capire quale sarà il destino delle garanzie sociali nel processo, in dirompente sviluppo, della trasformazione digitale. Infine il 4.3.2021 la Commissione ha chiuso il cerchio del suo attivismo (direi senza precedenti) sul fonte sociale con la Comunicazione sull’“European Pillar of social rights Action Plan”( ) nella quale si prende l’impegno di avviare quanto già promesso nell’avvio del confronto sulla regolamentazione del lavoro su piattaforma e cioè un’iniziativa per superare gli ostacoli che la competition law porrebbe ad una contrattazione collettiva per il lavoro autonomo. In un testo sempre di inizio del 2021 (inception impact assessment) con il quale si informano i cittadini e gli stakeholders dell’intenzione di superare l’ostacolo derivante dall’orientamento della Corte di giustizia la Commissione, riassunto il contesto normativo in vigore che rende immune la contrattazione collettiva dalle regole sulla libera concorrenza ex art. 101 TFUE, rileva che- vista l’equiparazione tra lavoratori autonomi ed imprese- sarebbe impossibile consentire una tutela contrattuale << in absence of EU intervention>> neppure per le situazioni di maggiore debolezza sociale. Inoltre osserva che poiché la qualificazione dei lavoratori digitali è oggi molto incerta nelle situazioni di confine l’incertezza indebolisce l’adesione ai sindacati e sfavorisce il dialogo sociale. Insomma sarebbe giunto il momento di un intervento che potrebbe avere la natura di un regolamento del Consiglio o di una mera Raccomandazione della Commissione. Si disegnano 4 scenari per il campo di applicazione dell’intervento previsto: il primo riguarderebbe solo il lavoro autonomo personale su piattaforma, il secondo i lavoratori autonomi che svolgono attività personale per imprese di una certa dimensione, il terzo riguarderebbe l’intera sfera della contrattazione collettiva degli autonomi salvo i liberi professionisti, l’ultimo invece si estenderebbe a tutti gli autonomi. E’ certo che questa atteggiamento della C.E. rappresenta una svolta in termini di sensibilità e di responsabilità sociale nei confronti delle dinamiche produttive contemporanee che, se non regolate ed armonizzate con il codice dei diritti fondamentali , rischiano di generare gravi problema di equità e di sicurezza sociale in senso lato. L’ordinamento dell’Unione esibisce un tentativo di una più pronta riflessività normativa per cui persino le decisioni della Corte di giustizia in materie che sono connesse al mercato comune ed alla concorrenza non sono più viste come uno sbarramento per il perseguimento dei fini di tutela sociale di cui all’art. 3 TFUE (specificati nel capitolo sulla politica sociale) ma come l’individuazione di un problema regolativo da superare con una maggiore duttilità, anche nel dialogo con le parti sociali europee. A noi sembra, però, che l’operazione nel suo complesso possa avere successo ( cioè aprire un vero cantiere europeo per la costruzione di una rete di protezioni che arrivino a coprire anche il lavoro autonomo sia a livello contrattuale che normativo ) solo se la (parziale) sterilizzazione della competion law sarà prevista da una fonte obbligatoria come un Regolamento posto che deve fronteggiare l’autorevolezza di una sentenza della Corte di giustizia (per giunta in materia di concorrenza). Riteniamo che sarebbe sbagliato ribadire la tesi, sempre in verità ricorrente in taluni ambienti poco propensi a praticare le sfide europee, di un dovere di abstention dell’Unione da ogni controllo sui contenuti del negoziato sindacale anche quando questo finisce con l’incidere su aspetti costitutivi dell’integrazione europea (le 4 libertà comunitarie e le norme sulla libera concorrenza). Una sostanziale e totale immunità , in senso generale, della contrattazione collettiva (quella relativa ai dipendenti è comunque certa rispetto all’art. 101 TFUE visto che la norma si riferisce alle imprese) finisce con il non considerare le specificità dell’ordinamento dell’Unione che ha un problema strutturale che gli stati nazionali (nei quali non è in discussione che vi sia un mercato interno) non hanno e cioè di salvaguardare queste realtà istituzionali che sono “beni comuni” sedimentati dal processo di integrazione (anche nell’interesse dei lavoratori che non possono contare su alcun vantaggio di lungo periodo nel ripristino del protezionismo nazionale ). Gli interventi dello stato o quelli delle parti sociali dovrebbero quindi trovare modalità che non siano in contraddizione (e trovino un bilanciamento) con queste esigenze di salvaguardia del “cuore duro” del processo di integrazione, eventualmente proprio servendosi di inediti schemi normativi come quelli inediti cui allude oggi la Commissione che sta provando ad estendere il campo d’azione delle politiche sociali e di quelle sindacali. Del resto una totale immunità della contrattazione collettiva non esiste neppure nel nostro ordinamento essendo pacifico che un contratto collettivo discriminatorio (l’ipotesi è tutt’altro che di scuola) sarebbe nullo per contrarietà a norme inderogabili di legge. Come accade negli ordinamenti nazionali l’esistenza di una chiara indicazione sovranazionale sull’ammissibilità dei casi di ricorso alla contrattazione collettiva per gli autonomi (ci si augura con maglie le più ampie possibili) offrirebbe a quest’ultima una sorta di presunzione di legittimità relegando i controlli solo a casi eccezionali. L’intervento promosso dalla Commissione sarebbe, peraltro, un vettore indirettamente promozionale prezioso anche per una legislazione sovranazionale che allargasse agli autonomi anche le protezioni essenziali (con effetti nell’intero sistema produttivo continentale ) visto che la decisione del 2014, pur essendo ostativa alla sola contrattazione collettiva per gli indipendent workers, ha sollevato, come si è già accennato, il serio dubbio sull’opportunità che anche protezioni minime introdotte attraverso direttive o regolamenti vadano estese fuori dalla subordinazione vista l’equiparazione forzosa di un autonomo ad un imprenditore che per definizione dovrebbe conoscere solo il linguaggio del rischio.
Ci sembra, quindi, che la prospettiva del libro di Perulli possa, oggi, sperare di percorrere un cammino propriamente europeo: sarebbe in verità paradossale che l’Unione mentre licenzia ambiziosissime strategie a forte caratura costituzionale  che alludono ad un’ economia radicalmente digitalizzata all’insegna delle sfide sull’umanizzazione dell’automazione (che fa tesoro delle sentenze della Corte di giustizia sugli artt. 1 e 8 della Carta dei diritti) e della piena sostenibilità ecologica rendendo l’Unione protagonista su scala planetaria su questi temi, per la sostenibilità sociale di tali strategie si debba fermare a concezioni anguste del “lavoro” ancora ferme alla “grande trasformazione” di cui parla Karl Polanyi che, recedendo i legami produttivi comunitari (e le relative protezioni), ha reso egemone, anche sul piano culturale, il lavoro subordinato.

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