Testo integrale con note e bibliografia

1. Posizione del problema

È sempre più accentuato l’interesse del legislatore – non solo nazionale – e delle parti sociali verso l’articolazione di un sistema di tutele per favorire la protezione sociale dei lavoratori autonomi. Sembrerebbe quindi giunto il momento di affrontare quella «sfida» – di cui parlava Gino Giugni – che questo «secolo pone al diritto del lavoro, costruito mattone su mattone sulle solide fondamenta del lavoro dipendente» ma che oggi viene «posto a confronto con un dato sociologico che propone nuovamente, come fu all’inizio del secolo, la necessità di una congrua traduzione nella struttura giuridica» delle mutevoli esigenze di tutela che la realtà pone .E’ dai diversi frammenti normativi ma anche dalla «realtà giuridica fattuale»  incarnata dai sistemi contrattual-collettivi governati dalle rappresentanze sindacali, che è possibile accorgersi di come questi due attori – legislatore e organizzazioni sindacali – nell’ambito di un disegno riformatore non sempre sincrono e omogeneo, procedano verso una nuova dimensione regolatoria del lavoro autonomo, in particolar modo quella afferente ai diritti a contenuto economico, non più affidata esclusivamente al diritto civile e al diritto commerciale .
L’ordinamento giuridico italiano da tempo registra la vigenza di accordi collettivi economici  finalizzati a determinare un compenso minimo anche per i lavoratori autonomi, talvolta promossi dal legislatore , talaltra nati nell’ambito della prassi sindacale ( ). Peraltro, tali accordi non si limitano più soltanto a dettare delle disposizioni deputate a regolare la sfera economica del rapporto, avendo, invece, esteso il proprio ambito d’intervento anche verso istituti tesi a tutelare il lavoratore autonomo in caso di sopravvenienze o eventi che lo costringono alla sospensione del rapporto, esponendolo così a molteplici rischi derivanti dalla mancanza di reddito .
Diversamente, le istituzioni comunitarie hanno sempre mostrato un «atteggiamento ambivalente» nei confronti del lavoro autonomo poiché «da una parte» si riconosce «nel Pilastro europeo dei diritti sociali, il diritto dei lavoratori autonomi a una protezione sociale minima», mentre «dall’altra» la Corte di Giustizia dell’Unione europea «non riconosce l’esenzione dal controllo del rispetto delle norme sulla concorrenza, di cui all’art. 101 del TFUE, al contratto collettivo dei lavoratori autonomi che fissa tariffe salariali minime» .
Come è noto, infatti, il Social Pillar, proclamato nel 2017 dal Parlamento Europeo in occasione del vertice di Göteborg, contempla venti principi che dovranno guidare lo sviluppo dell’Europa verso il nuovo secolo ( ). Tra questi, ve ne sono alcuni dedicati al lavoratore autonomo, incluso tra i soggetti che abbisognano di protezione sociale. Eppure, nella recente proposta di direttiva del Parlamento europeo in materia di salario minimo, sono stati esclusi dal campo di applicazione della stessa «i lavoratori effettivamente autonomi» in quanto a rientrarvi sono solo i «falsi lavoratori autonomi» intesi come quelli che «al fine di evitare determinati obblighi giuridici o fiscali» sono inquadrati solo formalmente come tali ( ).
Diversamente, l’iniziativa lanciata il 6 gennaio 2021 dalla Commissione europea, alla quale ha fatto seguito la consultazione pubblica avviata il 5 marzo 2021, si pone nella prospettiva di «definire il campo di applicazione del diritto della concorrenza dell’UE, al fine di consentire un miglioramento delle condizioni di lavoro attraverso contratti collettivi, non solo per i lavoratori dipendenti, ma anche, in determinate circostanze, per i lavoratori autonomi individuali» ( ). L’iniziativa della Commissione prende forma alla luce delle recenti trasformazioni del mercato del lavoro, che registra condizioni di precarietà e perdita di potere negoziale crescenti tra i lavoratori autonomi, talvolta “schiacciati” da altre imprese che tendono a monopolizzare alcuni settori del mercato dei servizi .
Nella Valutazione d’impatto iniziale della proposta , la Commissione prende anche atto del fatto che l’importanza di riconoscere alla contrattazione collettiva la possibilità di fissare un compenso minimo non riguarda solo i lavoratori autonomi che si impegnano ad erogare dei servizi in favore delle piattaforme digitali ma vi è la necessità di tutelare diverse forme di lavoro autonomo, che sono anche al di fuori della gig economy. Allo stesso tempo, però, dalla Valutazione d’impatto si evince anche che la Commissione mostra consapevolezza verso il principale ostacolo che una tale iniziativa deve affrontare, ovvero individuare le ragioni in base alle quali poter considerare questi lavoratori non alla stregua di “imprese” – nel cui caso ricadrebbero nell’ambito di applicazione dell’art. 101 del TFUE, il quale vieta gli accordi tra soggetti economici indipendenti che mirino a restringere la concorrenza sul mercato – ma come lavoratori che, nonostante prestino la propria attività di lavoro senza vincoli incisivi sull’organizzazione e talvolta in regime anche di mono-committenza, abbisognano di una minima tutela sociale in quanto esposti a molteplici fattori di rischio (come si vedrà, infra, § 7).
Questo breve contributo ha come obiettivo quello di indagare il grado di compatibilità delle scelte che sta compiendo il legislatore europeo rispetto alla determinazione del compenso minimo per i lavoratori autonomi attraverso la promozione di accordi collettivi con la normativa antitrust ed eventualmente come superare la “tensione” tra questi contratti e l’art. 101 del TFUE . In particolare, una volta analizzate le posizioni critiche assunte dalla Corte di Giustizia rispetto alla tematica (§ 2), ad oggi principale ostacolo del legislatore europeo, si procederà con l’analizzare quali possano essere le ricadute della pronuncia anche nell’ordinamento interno (§§ 3, 4 e 5) e quali gli approdi teorici dai quali (ri)partire per poter riarticolare il rapporto tra i diritti sociali dei lavoratori autonomi e la normativa comunitaria in materia di antitrust (§§ 6 e 7).

2. Un precedente “scomodo”: il caso FNV Kunsten

Sciolti i dubbi circa la compatibilità tra il diritto antitrust e la contrattazione collettiva dei lavoratori subordinati con la sentenza Albany – la quale ne aveva sancito l’esenzione dal campo di applicazione dell’art. 101 del TFUE alla luce del fatto che si trattava di contratti che «per loro natura» erano tesi a «migliorare le condizioni di occupazione e di lavoro» ( ) – la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha dovuto “rivisitare” questo aspetto, con la differenza che nel caso giudiziario sollevato nel 2014, ad essere oggetto di analisi non era il contratto collettivo destinato alla regolazione dei rapporti di lavoro dei (soli) lavoratori dipendenti ma anche dei lavoratori autonomi.
Il caso FNV Kunsten Informatie en Media c. Staat Nederlanden (C‑413/13) riguardava un accordo collettivo stipulato in Olanda tra una organizzazione sindacale rappresentante dei musicisti (in qualità sia di lavoratori subordinati che autonomi) e un’associazione datoriale rappresentante anche le orchestre. Questo contratto collettivo era stato valutato dall’Autorità Olandese per la Concorrenza in contrasto con l’art. 101 del TFUE e con la disciplina antitrust nazionale in quanto prevedeva al suo interno, oltreché alla determinazione del salario per i musicisti subordinati, anche una fissazione del “prezzo” (pay) dell’attività svolta da parte dei musicisti autonomi, i quali avevano la funzione di sostituire i colleghi, assunti con un contratto di lavoro subordinato, tutte le volte che se ne presentava la necessità.
Il provvedimento dell’Autorità Olandese aveva condotto l’associazione datoriale a disdettare l’accordo collettivo. Diversamente, il sindacato dei musicisti si rivolgeva al giudice distrettuale olandese per accertare che l’accordo collettivo fosse compatibile con il quadro normativo nazionale ed europeo in materia di tutela della concorrenza, sostenendo che lo stesso non era mirato a creare delle posizioni monopolistiche nel mercato – e quindi a ledere il principio della libera concorrenza sancito dall’art. 101 del TFUE – ma a tutelare i lavoratori subordinati dai possibili meccanismi di dumping che potevano innescare i musicisti che lavoravano saltuariamente come lavoratori autonomi.
Il giudizio di primo grado si concludeva con la soccombenza dell’organizzazione sindacale la quale, però, ricorreva in appello. Il giudice di seconde cure decideva di sospendere in via cautelare il giudizio per sottoporre, attraverso il meccanismo del rinvio pregiudiziale, due quesiti di diritto alla Corte di Giustizia, finalizzati a dirimere la controversia.
Il primo quesito verteva sulla possibilità o sull’impossibilità di ricomprendere nel campo di applicazione dell’art. 101 del TFUE un contratto collettivo volto a fissare delle tariffe minime anche per i lavoratori autonomi. Il secondo quesito, invece, speculare al primo, verteva sulla possibilità di considerare un contratto collettivo esente dalla disciplina antitrust tutte le volte in cui questi sia mirato a migliorare le condizioni di lavoro dei lavoratori ai quali si applica, a prescindere dalla natura del rapporto di lavoro.
La sentenza che ne è scaturita da questo rinvio non si è occupata della possibilità che un contratto collettivo fissi delle tariffe anche per i lavoratori autonomi al fine di scongiurare delle dinamiche di dumping contrattuale, da un lato, e di migliorare quindi le condizioni di questi lavoratori dall’altro ( ). Piuttosto, la Corte di Giustizia compie la scelta di incentrare il proprio iter argomentativo attorno alla possibilità di estendere la disciplina antitrust fissata dall’art. 101 anche agli accordi collettivi che introducono delle tariffe per i lavoratori autonomi. In questa prospettiva, la Corte:
a) prende atto che i lavoratori autonomi interessati dall’accordo, «pur svolgendo la stessa attività» dei lavoratori subordinati, «sono, in linea di principio, “imprese” nel senso dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE, dal momento che offrono i loro servizi dietro corrispettivo in un determinato mercato» ( ). Di conseguenza, accogliendo anche il rilievo sul punto dell’avvocato generale Nils Wahl, la Corte evidenzia che «quando un’organizzazione rappresentativa dei lavoratori procede a trattative in nome e per conto» dei lavoratori autonomi, «non agisce come associazione sindacale e dunque come parte sociale, ma in realtà come associazione di imprese» ( ) e pertanto le clausole che fissano il prezzo della prestazione in questione non rappresentano «il risultato di un trattativa collettiva tra parti sociali» e quindi non possono «essere escluse dall’ambito di applicazione dell’articolo 101» ( );
b) inoltre, la stessa osserva anche che i tratti europei non prevedono «alcuna disposizione che […] incoraggi i prestatori autonomi a istaurare un simile dialogo con i datori di lavoro presso i quali forniscono prestazione di servizi in forza di un contratto d’opera e, dunque, a stipulare accordi collettivi con detti datori di lavoro al fine di migliorare le proprie condizioni di occupazione e lavoro» ( ).
Sancito tale principio, la Corte, tuttavia, riconosce anche che – in accordo con quanto osservato dall’avvocato generale ( ) – «non è sempre agevole identificare nella situazione economica attuale lo status di impresa di taluni prestatori autonomi». Ed infatti, «un prestatore di servizi può perdere la qualità di operatore economico indipendente, e dunque d’impresa, qualora non determini in modo autonomo il proprio comportamento sul mercato, ma dipenda interamente dal suo committente, per il fatto che non sopporta nessuno dei rischi finanziari e commerciali derivanti dall’attività economica di quest’ultimo e agisce come ausiliario integrato nell’impresa di detto committente» ( ). In altri termini, secondo la Corte, il lavoratore che venga ingaggiato formalmente «come prestatore autonomo di servizi ai sensi del diritto nazionale» solo «per ragioni fiscali, amministrative o burocratiche» ma che, nel concreto, agisce «sotto la direzione del suo datore di lavoro, per quanto riguarda in particolare la sua libertà di scegliere l’orario, il luogo e il contenuto del suo lavoro» e per di più non partecipa «ai rischi commerciali» dell’impresa committente ma sia integrato in quest’ultima «per [tutta] la durata del rapporto di lavoro, formando con essa un’unità economica» ( ), deve ritenersi un “falso lavoratore autonomo” ( ). Di conseguenza, il contratto collettivo che provvede a fissare delle tariffe minime per i prestatori di servizi che sono da ricondurre alla nozione di «falsi autonomi», non può essere assoggettato all’art. 101 del TFUE in quanto ha ad oggetto non pratiche restrittive indirizzate ad influenzare situazioni di mercato ma il «miglioramento delle condizioni di occupazione e di lavoro» dei “falsi autonomi” ( ).
Spetterà, dunque, al giudice nazionale, di volta in volta, «valutare se, al di là della natura giuridica del contratto d’opera, tali supplenti non si ritrovino nelle condizioni indicate» nella sentenza, abilitate dalla Corte ad identificare i “falsi autonomi” ( ).

3. Segue: “falsi autonomi” o “falsa impresa”? La dottrina italiana a confronto con la sentenza Kunsten

Nel caso Kunsten, la prospettiva adottata dalla Corte di Giustizia si spinge nella direzione di sottrarre al campo di applicazione dell’art. 101 del TFUE solo quegli accordi collettivi che fissano le tariffe per i c.d. “falsi lavoratori autonomi”. Alla luce di tale considerazione, resterebbe da capire cosa si intende quando la Corte parla di “falsi autonomi”. Sul punto, il giudice comunitario sembrerebbe fare ricorso a diversi indici (quali un’eccessiva dipendenza dal committente, assenza di rischi finanziari e commerciali derivanti dall’attività svolta, integrazione nell’impresa del committente), salvo poi precisare, al punto 37, che in ogni caso «spetta […] al giudice del rinvio valutare [e quindi al giudice nazionale] se, al di là della natura giuridica del contratto d’opera» il lavoratore al quale andrebbe applicato l’accordo collettivo si trovi «in un rapporto di subordinazione» o disponga di «maggiore autonomia e flessibilità».
Sebbene la giurisprudenza italiana non abbia mai sollevato una questione di legittimità su tale profilo lamentando un vizio di conformità di tali accordi rispetto al diritto comunitario ( ), né l’Autorità garante della concorrenza e del mercato italiana (A.G.C.M.) ha mai contestato tali pratiche negoziali ( ), dal canto suo, la dottrina giuslavorsitica italiana ha avuto modo di potersi confrontare con questo importante dato giurisprudenziale, a tal punto da dubitare, aderendo all’impostazione della Corte, della legittimità degli accordi collettivi stipulati in favore dei lavoratori autonomi, in particolare quelli applicabili ai collaboratori coordinati e continuativi (art. 409 c.p.c.) e ai collaboratori etero-organizzati (art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015) ( ).
Secondo un primo approccio interpretativo, nella nozione di “falsi lavoratori autonomi” sembrerebbero rientrare quei lavoratori che «soddisfano i criteri stabiliti dalla Corte di giustizia per determinare lo status di lavoratore», dovendo considerare, quindi, come tale quel lavoratore che dipenda economicamente dal proprio committente, che sia integrato nella sua organizzazione produttiva o che «fornisce per un certo periodo di tempo» a favore di un’impresa «e sotto la direzione di quest’ultima, prestazioni in contropartita delle quali riceve una retribuzione» ( ). Pertanto, ad esempio, «i collaboratori eterorganizzati» – ovvero quelli che, come prevede l’art. 2, comma 1 del d.lgs. n. 81 del 2015, offrono «prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente» – che parte della dottrina riconduce nell’ambito della fattispecie del lavoro autonomo ( ), rientrerebbero in tale nozione in quanto non possono essere considerati «lavoratori autonomi genuini» poiché «non operano come delle vere e proprie imprese in un mercato concorrenziale» .
Secondo una diversa prospettiva, invece, laddove il giudice europeo giunge alla conclusione secondo cui il contratto collettivo può essere ritenuto sottratto alla disciplina dell’antitrust tutte le volte che è destinato a fissare la tariffa per i “falsi lavoratori autonomi”, si sarebbe concretizzata una confusione nell’iter argomentativo della Corte e, quindi, una sovrapposizione tra i criteri finalizzati ad identificare lo status di lavoratore subordinato nell’ambito del diritto comunitario e quelli, invece, deputati a verificare l’indipendenza o meno di un soggetto economico sul mercato quale presupposto per essere qualificati come “impresa” ai sensi dell’art. 101 del TFUE. In altri termini, la Corte avrebbe fatto ricorso ai criteri giuslavoristici utili a distinguere il lavoro autonomo genuino da quello “mascherato” (c.d. Bogus Self-Employment) ( ) per verificare se i lavoratori autonomi in questione avessero i requisiti per poter rientrare nella nozione di “impresa” ai fini dell’applicazione della normativa antitrust . Questo approccio ha inficiato il percorso logico-giuridico posto alla base del giudizio e non è stato funzionale a risolvere il conflitto apparente tra l’art. 101 e gli accordi collettivi per i lavoratori autonomi. Ci si esprime in termini di conflitto apparente perché l’art. 101 non mira a spiegare i suoi effetti rispetto alle caratteristiche dell’agente quanto piuttosto agli effetti della condotta sul mercato che può assumere un determinato soggetto ( ).
Secondo questo orientamento, tutto deve partire dal presupposto che il diritto dell’Unione è privo – a differenza degli ordinamenti nazionali tra i quali quello italiano – «di una definizione di impresa» cosicché «la giurisprudenza europea ha sempre ricondotto» ad essa «qualsiasi soggetto, comprese perciò le persone fisiche e, dunque, il lavoratore autonomo, che eserciti un’attività economica, a prescindere dal relativo status giuridico, così come dalle rispettive modalità di finanziamento» . Infatti, «il lavoro autonomo è stato sinora, nella giurisprudenza eurounitaria, perfettamente equiparato all’impresa in quanto unità economica operante sul mercato»  in modo indipendente.
Se così è, l’attenzione dei giudici – coerentemente con le premesse assunte al punto 33 della sentenza Kunsten secondo cui ai fini dell’applicazione dell’art. 101 a rilevare sarebbero le condotte tenute sul mercato dell’agente e non le sue caratteristiche soggettive – si sarebbe dovuta incentrare sul comprendere se quei lavoratori autonomi potevano essere considerati alla stregua delle vere e proprie imprese ai fini del diritto antitrust oppure se erano delle “false imprese”, cioè soggetti non in possesso dei requisiti di indipendenza, tali da determinare in modo autonomo il proprio comportamento sul mercato. In questa prospettiva, nella nozione di “falso autonomo” non rientrerebbe il lavoratore autonomo che, sebbene sia dotato di autonomia organizzativa, versa comunque in una situazione di dipendenza economica. Piuttosto, in questa nozione dovrebbe rientrare quell’attività di lavoro che, sebbene prestata in modo autonomo e prevalentemente proprio, non sia tale da tradursi in un’impresa organizzata di stampo capitalistico, che per essere tale si presuppone debba predisporre dell’«impiego del lavoro altrui, o del capitale, cioè di macchinari, attrezzature, strumenti, ecc.», nonché di «atti organizzativi» per avviare l’attività di produzione quali «affitto di locali, assunzione di dipendenti, acquisto di ingenti quantitativi di materie prime o di merci, ecc.» . In altri termini, nella nozione di “falso autonomo” rientrerebbe quel lavoratore autonomo genuino che tuttavia presta la propria attività sfruttando prevalentemente le proprie energie, senza avvalersi di una organizzazione produttiva.
È solo in questa prospettiva che la sentenza Kunsten potrebbe apportare importanti spunti alla riflessione giuslavoristica, in particolare quella nazionale, la quale deve tenere in debita considerazione che, a differenza dell’ordinamento comunitario, quello italiano conosce delle distinzioni tra lavoro subordinato, lavoro autonomo e attività d’impresa. Infatti, «mentre nel diritto dell’Unione europea esiste una dicotomia tra lavoratori e imprenditori (funzionalmente intesi come unità economiche operanti sul mercato interno), negli ordinamenti nazionali la situazione è più complessa» ( ).
Per esemplificare la problematica appena accennata, basti pensare che nell’ordinamento italiano l’art. 2082 cod. civ. definisce l’impresa come quell’«attività economica organizzata» ed «esercitata professionalmente» con l’obiettivo di produrre e scambiare beni o servizi. Diversamente, l’art. 2222 cod. civ. regola quel contratto attraverso il quale il lavoratore «si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente». Riprendendo un insegnamento del passato ma che si dimostra essere ancora attuale, possiamo notare – come ebbe a rilevare S. Hernandez – che anzitutto vi è una distinzione tra lavoratore autonomo e impresa e che tale distinzione si gioca sulla sussistenza di un’organizzazione dei fattori produttivi ed anche sul coordinamento del lavoro altrui. Come spiega S. Hernandez, il legislatore, nel distinguere il prestatore d’opera di cui all’art. 2222 cod. civ. dall’imprenditore (chi fa attività d’impresa) ed anche dal piccolo imprenditore di cui all’art. 2083 cod. civ., «pone […] l’accento sull’organizzazione, specificando […] l’ampiezza e la composizione dell’organizzazione medesima, mentre, invece, nell’art. 2222 cod. civ. non v’è traccia alcuna di un’attività del lavoratore autonomo diretta all’organizzazione del lavoro altrui, dovendo l’assuntore valersi prevalentemente (o, comunque, normalmente) della propria opera personale .
Alla luce di tali considerazioni, la questione sembrerebbe ritornare, ancora una volta, nelle mani del giudice nazionale il quale, come ricorda la stessa Corte, deve stabilire, al di là dello schema contrattuale con il quale l’impresa ingaggia il committente, se il lavoratore in questione sia un dipendente o un lavoratore che dispone di maggiore autonomia e flessibilità organizzativa rispetto al lavoratore subordinato, tenendo conto anche del quadro normativo nazionale di riferimento.

4. Ordinamento comunitario e teoria dei controlimiti: perché la libertà sindacale è un principio fondamentale dell’ordinamento

Come è noto, per evitare che le ingerenze del diritto comunitario potessero “oscurare” i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico, la Corte Costituzionale ebbe a riconoscere «l’intangibilità dei principi supremi e dei diritti fondamentali dell’ordinamento costituzionale dello Stato, al fine di salvaguardare l’essenza dell’ordinamento interno nei suoi caratteri peculiari da qualunque forma di aggressione e/o interferenza che possa provenire dalle fonti interne o esterne all’ordinamento considerato» . In base a tale teoria – meglio conosciuta come teoria dei controlimiti – il diritto comunitario, nonostante sovraordinato alle fonti normative nazionali, avrebbe dovuto sempre trovare un contemperamento con i principi fondamentali dell’ordinamento, sanciti nella Carta costituzionale. Pertanto, se nell’ordinamento interno il principio della libertà sindacale dei lavoratori autonomi è disciplinato e tutelato da una fonte di rango primario, quale è la Costituzione, la disciplina dell’ordinamento comunitario che collide con tali principi dovrebbe limitare la propria sfera di influenza . E il diritto alla contrattazione collettiva, sebbene non contemplato tra i primi dodici articoli della Costituzione i quali esprimono i principi fondamentali dell’ordinamento, presenta comunque delle connessioni evidenti tanto con l’art. 2 Cost. che con l’art. 3 Cost. poiché l’introduzione e la regolazione dei sistemi di tutela non passano solo attraverso la legge ma anche attraverso la partecipazione delle forze sociali  le quali, attraverso lo strumento della contrattazione collettiva, tendono a riequilibrare, di fatto, la libertà e l’eguaglianza delle e tra le parti nel rapporto di lavoro . Peraltro, non è mancato in dottrina chi ha considerato l’art. 39 Cost. come il riflesso del principio democratico dell’ordinamento espresso dall’art. 1 Cost. nell’organizzazione dei rapporti socioeconomici, conferendo così ai cittadini la piena sovranità nella determinazione delle regole in materia di lavoro .
In questa prospettiva, le (discutibili) istanze della Corte di Giustizia rispetto alla contrattazione collettiva che vede coinvolti anche i lavoratori autonomi dovranno cedere il passo al libero dispiegarsi dei principi fondamentali dell’ordinamento, anche nel rispetto del principio di leale collaborazione.

5. Lavoro autonomo, interesse collettivo e contrattazione collettiva: dalla debolezza negoziale alla (correzione della) distorsione di mercato

Nel tentativo di superare l’equivoco creato dalla sentenza Kunsten, le argomentazioni fin qui sviluppate sono state incentrate prevalentemente sul dato letterale delle norme e sulle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza comunitaria, senza tralasciare le indicazioni della Corte Costituzionale circa i limiti del rapporto tra diritto interno e diritto comunitario.
Sennonché, un contributo notevole per allontanare il rischio di una continua tensione tra la contrattazione collettiva dei lavoratori autonomi e il diritto della concorrenza potrebbe giungere da quella parte della dottrina che giustifica l’arretramento della normativa antitrust tutte le volte in cui l’accordo collettivo è mirato a tutelare situazioni di oggettiva debolezza negoziale dei prestatori, tale da compromettere quella capacità di indipendenza e autonomia nella determinazione del proprio comportamento sul mercato rispetto alle imprese committenti . È lo stesso G. Giugni a non negare che il ricorso alla contrattazione collettiva – che l’ordinamento italiano non preclude ai lavoratori autonomi, non offrendo l’art. 39 Cost. alcun dato normativo per sostenere il contrario, e lo stesso può dirsi dell’ordinamento comunitario  – avviene tutte le volte in cui il prestatore, sia autonomo che subordinato, non è «appagato sul piano della trattativa individuale» a causa «della sua [sua] debolezza individuale» . Con specifico riferimento ai lavoratori autonomi, G. Giugni valorizza alcuni criteri che potrebbero essere d’ausilio all’organo giudicante nel momento in cui dovrà valutare se l’accordo può definirsi collettivo e in quanto tale mirato a tutelare e migliorare le condizioni di lavoro di un gruppo di lavoratori; tra questi figurano l’abitualità della prestazione, un certo grado di asimmetria contrattuale tra le parti, il potenziale ricorso allo sciopero da parte del gruppo tutelato dal contratto.
Anche P. Ichino si colloca in questa prospettiva, sostenendo, con riguardo al caso dei musicisti olandesi, che l’accordo collettivo mirava a tutelare «prestatori di lavoro non subordinati ma economicamente dipendenti» dal committente; e questa «sostanziale dipendenza», oltre a garantire l’esenzione dal campo di applicazione dell’art. 101 del TFUE, può essere desunta da una serie di elementi quali l’apprezzabile durata nel tempo del rapporto di lavoro o la condizione di mono-committenza . Tuttavia, P. Ichino aggiunge che per comprendere a fondo «la ragion d’essere sostanziale dell’esenzione dalle regole antitrust per un contratto collettivo di lavoro, o per la norma legislativa istitutiva di tariffe minime o altri standard di trattamento inderogabili» occorrerebbe osservare il problema dalla prospettiva dell’analisi economica del diritto. Infatti, sul piano logico, «la stipulazione di contratti collettivi, o comunque la predeterminazione di standard di trattamento minimi» dovrebbero essere ammessi nel caso dei lavoratori impegnati per lungo tempo in un rapporto di collaborazione esclusiva con un’unica impresa, proprio «in funzione della correzione di distorsioni rispetto al paradigma del mercato perfettamente concorrenziale, che si verificano tipicamente e diffusamente nel mercato del lavoro». Infatti, il prestatore che è economicamente dipendente e che collabora in modo continuativo ed esclusivo con una sola azienda è esposto ad una serie di rischi che richiedono e giustificano «l’intervento correttivo della norma inderogabile, limitativa della concorrenza», nell’ottica di arginare le notevoli distorsioni di mercato derivanti dal «difetto di informazione sulle opportunità offerte dal mercato del lavoro», dal «difetto di formazione in relazione alle opportunità stesse» e dal «difetto di mobilità» .
In altri termini, il contratto collettivo aiuterebbe a sostenere e non a ledere la concorrenza tra questi lavoratori, i quali, grazie alla norma inderogabile, avranno maggiore possibilità di operare nel mercato, contrastando la dispersione della propria professionalità, attutendo le difficoltà ad ottenere informazioni per lavorare presso altre aziende, ottenendo, attraverso gli enti bilaterali, la riqualificazione indispensabile per un nuovo inserimento lavorativo o sostenendo, attraverso prestazioni di welfare, la propria mobilità nel territorio per spostarsi verso nuove occasioni di lavoro. Ed infatti «la concorrenza», se «spinta ai suoi estremi», cioè abbandonata alla sola legge del mercato, «ammazza» sé stessa e «porta al monopolio dei sopravvissuti» .

6. Considerazioni conclusive. Una nuova chiave di lettura: il risk-based approach

All’esito di questa indagine, non possiamo esimerci dal ritenere che le posizioni assunte dalla Corte di Giustizia sul rapporto tra contrattazione collettiva per i lavoratori autonomi e diritto antitrust contrastino, anzitutto, con alcuni principi giuridici universalmente riconosciuti. Vi è, infatti, un primo fattore di cui la Corte non ha tenuto conto, connesso ad una questione di diritto positivo. Il riconoscimento del principio della libertà sindacale e, quindi, del diritto di stipulare accordi collettivi anche per i lavoratori autonomi è presente in diversi ordinamenti nazionali, tra i quali quello italiano . Inoltre, diverse fonti internazionali riconoscono il medesimo principio e sanciscono l’accesso alla pratica della contrattazione collettiva a prescindere dallo status del lavoratore rappresentato dalle organizzazioni sindacali nella trattativa negoziale . Peraltro, è proprio l’art. 28 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, conosciuta anche come Carta di Nizza, a riconoscere «il diritto dei lavoratori […] «di negoziare e di concludere contratti collettivi». Alla luce di tali disposizioni, ci si è chiesti per quale ragione la Corte non abbia considerato tali principi ed anzi, con vivo stupore, ha affermato che «alcuna disposizione che […] incoraggi i prestatori autonomi a istaurare un simile dialogo con i datori di lavoro presso i quali forniscono prestazione di servizi in forza di un contratto d’opera e, dunque, a stipulare accordi collettivi con detti datori di lavoro al fine di migliorare le proprie condizioni di occupazione e lavoro» .
Pertanto, ricollegandoci alla problematica posta in apertura di questa indagine, le perplessità manifestate dalla Commissione nella Valutazione d’impatto della proposta in materia di contrattazione collettiva per i lavoratori autonomi rispetto ai vincoli che pone l’art. 101 del TFUE possono essere superate valorizzando nell’intervento legislativo i principi enunciati tanto nelle convenzioni internazionali che in un atto giuridico dell’Unione (la Carta di Nizza). Ma non è solo questa la leva che consente di superare gli ostacoli del diritto antitrust.
Nella Valutazione d’impatto della proposta, infatti, la Commissione mostra una certa consapevolezza rispetto ai cambiamenti che sono in atto nel mercato del lavoro, laddove osserva che i lavoratori autonomi che si avvalgono del lavoro prevalentemente personale e senza l’apporto del lavoro altrui (self-employed without employees o solo self-employed) sono esposti ad una molteplicità di rischi, primo tra tutti quello della incertezza economica e della precarietà (risk of precariousness). In questa prospettiva, la Commissione vorrebbe favorire un percorso teso a sottrarre l’accordo collettivo dalla minaccia della possibile violazione della libera concorrenza – perché generatore di tariffe che influiscono sui prezzi dei beni e dei servizi – per riconoscergli, al contrario, il ruolo di strumento teso a migliorare le condizioni di lavoro dei prestatori autonomi che versano in una crescente situazione di insicurezza sociale.
Alla luce di questa tendenza, la Commissione sembrerebbe aver imboccato la strada del risk-based approach, ovvero quella teoria in base alla quale «è necessario definire le tutele sulla base dei rischi sociali ai quali i lavoratori, indipendentemente dalle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, sono esposti» ; che si tratti di rischi interni (ad esempio, la debolezza contrattuale rispetto al potere negoziale del committente) che esterni (dumping, certificazione della professionalità) al rapporto di lavoro. Ad influenzare la permanenza di un lavoratore sul mercato, infatti, non è solo – come osservato da P. Ichino – la dipendenza economica, la possibilità di contrastare la de-professionalizzazione o la dispersione delle competenze, la possibilità di accedere ad informazioni che consentano una rioccupazione o il sostegno alla mobilità territoriale; vi sono altri fattori di rischio quali l’età, la professionalità, il sesso, le peculiarità del settore, la disabilità, che influenzano notevolmente la capacità di un lavoratore di determinare in modo del tutto indipendente la propria condizione sul mercato. Davanti a tali fattori, la contrattazione collettiva si pone non tanto e non solo come strumento regolativo del compenso ma come forma di solidarietà e quindi come strumento di welfare, capace di dare protezione anche ai lavoratori autonomi . Di tale approccio, ve ne è traccia anche nella contrattazione collettiva, i cui contenuti vanno mutando, non limitandosi a disciplinare lo scambio “secco” tempo di lavoro-retribuzione. A titolo di esempio, nel rinnovo del CCNL degli studi professionali sottoscritto da Confprofessioni, Filcams-Cgil, Fisascat-Cisl, Uiltucs-Uil il 17 aprile 2015, le parti sociali hanno esteso diversi strumenti di welfare (esami oncologici e cardiovascolari, visite specialistiche, trattamenti fisioterapici, coperture per invalidità permanente e morte da infortuni e copertura per lo studio/ufficio, check-up medici) ai praticanti e ai collaboratori con partita IVA. È attraverso quest’ottica che il principio di diritto – non privo di equivoci – sancito dalla sentenza Kunsten può essere superato.

 

 

 

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