Testo integrale con note e bibliografia

1. Premessa. La sentenza della Corte di giustizia, emessa dalla Grande Sezione su istanza italiana, del 2.9.2021, O.D. e altri c. INPS, C-350/20  appare molto significativa sotto tre profili concorrenti. Il primo è che, con la sua chiarezza ed univocità, appare idonea a risolvere un odioso trattamento verso cittadini di paesi terzi, già oggetto da una specifica procedura di infrazione pendente da oltre un biennio, regolarmente presenti nel nostro territorio in primis per lavorare. Si tratta di lavoratori che concorrono alla ricchezza nazionale ed al complessivo gettito fiscale e previdenziale, che vengono esclusi dall’accesso a prestazioni sociali a carattere essenziale correlate alle maggiori spese per mantenimento e per l’educazione dei figli sulla base della mancanza del requisito del permesso per lungo soggiornanti che presuppone periodi di residenza molto lunghi (5 anni) e requisiti di affidabilità “ reddituale”, “linguistica” ed addirittura “abitativa” non sempre raggiungibili, visti la precarietà dell’occupazione reperibile nel nostro paese e il livello vergognoso di alcuni trattamenti retributivi, in difetto di un sistema legale di salario minimo. Come si accennerà non è questo il solo settore nel quale i cittadini di paesi terzi vengono esclusi da prestazioni sociali concesse per aiutare le famiglie, non solo dallo Stato ma anche da Regioni, Province e Comuni; si vedrà se lo spirito ugualitario che promana dalla sentenza, anche al di là della sua efficacia immediata su altre provvidenze, porterà ad un più generale revisione del trattamento interno riservato ai migranti regolari secondo principi inclusivi ed ispirati alla parità di trattamento. Non sembra casuale che, a pochi mesi di distanza della decisione, il Governo abbia il 19.11. 2021 licenziato il testo di attuazione (ora all’esame delle Camere) della legge delega n. 46 dell’1 aprile 2021 sull’assegno unico ed universale (misura che assorbe le due provvidenze oggetto dell’esame della Corte di giustizia) che stabilisce che (dal 1 marzo 2022) i requisiti per godere della nuova, organica, misura sarà la cittadinanza italiana, quella europea oppure un permesso di soggiorno anche per ragioni di lavoro almeno di sei mesi ed una residenza da almeno due anni in Italia anche non a carattere continuativo o la titolarità di un contratto di lavoro a tempo indeterminato o determinato di almeno sei mesi. Tali requisiti appaiono prima facie avvicinarsi, salvo il problematico requisito di residenza, a poter soddisfare la direttiva antidiscriminatoria 2011/98/UE che, per i titolati di permesso unico di lavoro, autorizzava gli stati ad una deroga parziale (per le prestazioni familiari) limitando l’accesso alle prestazioni per i primi sei mesi ( ). Il secondo profilo che emerge è che questa decisione è il frutto di una feconda ed intensa collaborazione tra la giurisdizione interna, Corte costituzionale e Cassazione, con la Corte del’Unione che ha consentito di affinare e specificare i quesiti da porre alla Corte Ue onde diradare ogni dubbio sulla portata effettiva della normativa del 2011, anche in rapporto alla Carta dei diritti, posto il noto problema dei limiti di operatività del principio di non discriminazione per nazionalità anche per i cittadini dei paesi terzi, problema non definitivamente chiarito dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. Il terzo profilo, vicino al secondo, attiene ad un approfondimento su quale sia il percorso più opportuno da intraprendere in ipotesi come quella in esame e cioè il rinvio pregiudiziale o l’incidente di costituzionalità, nei casi di violazione prima facie sia della Carta Ue (ma anche delle direttive che ne sono la fonte, non essendo ammissibile separare la Carta dalle norme sostanziali che ne costituiscono il substrato) che della nostra Costituzione.
2. Dalla Corte di cassazione alla Corte di giustizia: le vie del dialogo. Il punto da cui partire è il regolamento n. 883 del 2004 che, in funzione di garanzia e promozione della libertà di stabilimento dei cittadini lavoratori dei paesi dell’Unione in altri stati aderenti, architrave della costruzione di un mercato unico, ha stabilito di far accedere tali cittadini ai sistemi di sicurezza sociale dei paesi ove questi si siano spostati per risiedervi con una certa continuità. Si tratta di un principio essenziale per lo sviluppo di un “mercato unico” in quanto non dovrebbe costituire un ostacolo alla mobilità all’interno dell’Unione il pericolo di non essere adeguatamente protetti in relazione ai principali rischi sociali perdendo, così, il trattamento più favorevole del paese di origine. Il regolamento del 2004 definisce in dettaglio le condizioni ed i termini di questa parità di trattamento; più tardi la direttiva 2011/98, nel disciplinare i vari tipi di permesso di soggiorno per i cittadini di paesi terzi, in particolare con l’introduzione del permesso unico di lavoro, ha esteso a coloro che sono legalmente residenti nei paesi dell’Unione i principi (non discriminatori) del regolamento del 2004 e cioè l’accesso alle prestazioni di sicurezza sociale, segnatamente quelli a carattere “familiare” (salvo il potere di deroga per soli sei mesi se concretamente esercitato dagli stati ospitanti). In sostanza i principi di universalità ed uguaglianza riguardo alcuni diritti sociali fondamentali, attraverso il rinvio tra regolamento del 2004 e direttiva del 2011, vengono estesi all’intera platea di soggetti che risiede legalmente e con continuità in un certo paese dell’Unione sulla base della considerazione che chi vive stabilmente e per ragioni legittime in un determinato stato dell’Unione deve poter fruire di quelle prestazioni che questo stato riserva ai suoi cittadini e che sono indispensabili ad una schermatura dai rischi fondamentali, tale da proteggerlo nei suoi “bisogni di base”. Si tratta di un esemplum virtutis di come la costruzione del più importante “bene comune” dei cittadini europei, il mercato unico, sia stato anche il vettore di un’apertura di segno garantista dei welfare nazionali all’inclusione di ogni soggetto lavoratore insediato stabilmente in quel mercato sino a ricomprendere anche persone di nazionalità diversa da quelle coinvolte dal processo di integrazione. In Italia, invece, questa estensione è stata, in genere, molto parziale e riservata ai soli cittadini extracomunitari in possesso dello status di lungo- soggiornante, sulla base di una legislazione che ha ignorato le disposizioni sovra-nazionali per le varie tipologie di assegni di natalità e per l’assegno di maternità (ma anche per altre provvidenze non esaminate dalla sentenza Corte di giustizia): da ciò si è generato un ampio contenzioso avanti i giudici italiani che, in prevalenza, hanno riconosciuto il diritto alla parità di trattamento disapplicando la normativa interna per contrasto con il diritto dell’Unione, anche interpretato alla luce degli artt. 20, 21, 24, 31 e 34 (sul diritto alla sicurezza ed all’assistenza sociale) della Carta dei diritti fondamentali dell’U.E. ( ). La questione è poi arrivata alla Corte di cassazione che, con una serie di ordinanze emesse tutte il 17.6.2019 (n. 16164/2019 e seguenti per l’assegno di natalità e nn. 16163 e 16167 del 2019 per quello di maternità), ha ritenuto che le disposizioni interne sull’assegno di natalità (mutate nel tempo) apparissero violative del diritto secondario dell’Unione, interpretato anche alla luce della Carta dei diritti ed al tempo stesso della nostra Costituzione. Per l’assegno di maternità tuttavia non è stato profilato un contrasto con la direttiva del 2011 in quanto le fattispecie esaminate erano relative a periodi precedenti la scadenza del termine per il suo recepimento ma solo con la Costituzione e con i già citati articoli della Carta dei diritti richiamando comunque il principio, più volte affermato dalla Corte di giustizia, per cui in pendenza del detto termine, lo stato deve astenersi da atti legislativi che possano compromettere il raggiungimento degli obiettivi della direttiva ( ). La Corte cassazione, come detto, ha optato, nel caso dell’assegno di natalità, più interessante per il rapporto tra Corti su cui ci soffermeremo, con una complessa e molto attenta motivazione sulla contemporanea violazione delle fonti costituzionali interne e sovranazionali, per l’incidente di costituzionalità non procedendo alla disapplicazione delle norme alla luce dell’art. 12 della direttiva del 2011 (che era la strada scelta dalle Corte di appello) .Ora nelle ordinanze della Cassazione non sembra in realtà dubitarsi della riconducibilità nel grande contenitore delle prestazioni familiari alla luce del Regolamento del 2004 delle due prestazioni, ma si esclude la disapplicazione non solo in virtù della possibilità di eliminare erga omnes le norme discriminatorie ad opera della Corte delle leggi, ma- da quel che sembra di capire- per la necessità di un nuovo bilanciamento tra interessi in gioco spettante alla nostra Corte delle leggi che impedirebbe un’operazione (come quella compiuta in genere dai giudici di merito sulla questione) di mera sostituzione “disapplicativa” delle norme interne con quelle sovranazionali. Questo dubbio, però, non mi pare fondato: la direttiva del 2011 nel suo art. 12 è certamente self executing nel senso che afferma il diritto del cittadino di paesi terzi che vanta un permesso di soggiorno per motivi di lavoro (o ricerca) di godere dello stesso trattamento spettante ai cittadini italiani o di altro stato dell’Unione nell’accesso alle prestazioni familiari(salvo la deroga sino a sei mesi); non è necessario alcun bilanciamento (che peraltro rischierebbe di non chiudere il procedimento di infrazione) perché la norma antidiscriminatoria è chiara ed univoca e non va in alcun modo integrata e quindi, nei confronti dello stato, può essere applicata senza neppure passare attraverso l’uso diretto della Carta dei diritti che, con riferimento all’art. 21, potrebbe essere problematico trattandosi di discriminazione per nazionalità (di paesi terzi). Non va dimenticato che l’art. 12 ( ) di fatto estende il principio di parità di trattamento tra cittadini lavoratori dell’Unione che esercitano la loro libertà di circolazione stabilito addirittura da un Regolamento la cui efficacia diretta è incontestabile. Da questo punto di vista la successiva correzione della Corte costituzionale che ha rimesso la questione sul binario sovranazionale appare opportuna perché i giudici di merito che hanno saggiamente disapplicato sino ad oggi l’odiosa disciplina interna potrebbero sentirsi smentiti dalla ordinanze della Suprema Corte, venendo in contestazione l’immediato, diretto ed univoco enforcement del diritto dell’Unione che costituisce la quintessenza della disapplicazione come pronto adeguamento alle norme sovranazionali (self executing come nel caso di specie), ove non sia possibile una interpretazione conforme della normativa interna. La Corte costituzionale ha invece optato per un rinvio pregiudiziale con l’ordinanza n. 182 del 2020 per ottenere un chiarimento da parte del Giudice comunitario sulla portata definitoria delle nozioni utilizzate nella direttiva del 2011 (e del connesso regolamento 883/84) onde meglio stabilire il campo di applicazione delle norme dell’Unione, anche alla luce di quanto disposto dall’art. 34 della Carta dei diritti dell’Unione, invitando i Giudici sovranazionali a valutare se la normativa sovranazionale fosse di ostacolo all’esclusione degli stranieri dotati di permesso unico (di lavoro) dall’accesso alle prestazioni. Soprattutto in relazione all’assegno di natalità la Corte delle leggi individua una pluralità di finalità assegnate al sostegno; per l’assegno di maternità si <<chiede alla Corte di giustizia se esso debba essere incluso nella garanzia dell’art. 34 CDFUE, letto alla luce del diritto secondario, che mira ad assicurare «uno stesso insieme comune di diritti, basato sulla parità di trattamento con i cittadini dello Stato membro» a tutti i cittadini di paesi terzi che soggiornano e lavorano regolarmente negli Stati membri, vincolando questi ultimi all’indicato obiettivo>>. In quest’ultimo passaggio sembra così chiarirsi che venga in gioco il capoverso dell’art. 34 della Carta di Nizza che stabilisce che <<ogni persona che richieda o si sposti legalmente all’interno dell’Unione ha diritto alle prestazioni di sicurezza sociale e ai benefici sociali conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali>>. La sentenza emessa il 2.9.2021 dalla Corte di giustizia deriva, quindi, da una stretta collaborazione costruttiva tra i supremi organi giurisdizionali italiani ed i Giudici del Lussemburgo anche sotto il profilo di una chiarificazione sulla riconducibilità delle varie misure adottate dagli stati per sostenere le famiglie ad una categoria unitaria, alla luce degli interventi normativi dell’Unione, onde, in linea di principio, consentire l’accesso a tutti coloro che risiedono attivamente (e legalmente) nei territori degli stati membri.
3. La Corte di giustizia. Intelligenti pauca. I Giudici del Lussemburgo hanno adottato una decisione molto chiara ed univoca sulla riconducibilità delle prestazioni prima ricordate nell’alveo del principio di parità di trattamento in favore dei cittadini di paesi terzi affermato dall’art. 12 della direttiva 2011/98. La Corte premette che l’art. 34 paragrafo 1 della Carta dei diritti U.E. riconosce l’accesso ad una serie di prestazioni di sicurezza sociale ed ai servizi sociali secondo le modalità stabilite dal diritto dell’Unione e dalle legislazioni e prassi nazionali. Il paragrafo 2 sancisce che <<ogni persona che risieda o si sposti legalmente all’interno dell’Unione ha diritto alle prestazioni di sicurezza sociale ed ai benefici sociali, sempre conformemente al diritto ed alle legislazioni e prassi nazionali>>. Ora, afferma la Corte, il regolamento 883/2004 stabilisce le prestazioni (dello stato ospitante) che comunque spettano ai cittadini dell’Unione quando si spostano stabilmente in altro stato membro e l’art. 12 della direttiva 2011/98 estende i principi di parità di trattamento per quanto concerne i settori della sicurezza sociali disciplinati dal regolamento ai cittadini extracomunitari che risiedano legalmente in uno degli stati dell’U.E.: <<con tale rinvio al regolamento occorre constatare che l’art. 12.. della direttiva 2011/98 dà espressione al diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale di cui all’art. 34 par. 1 e 2 della Carta>>. Pertanto la Corte Ue ha deciso la questione sulla base della normativa secondaria dell’Unione in quanto le norme sovranazionali apparivano di per sé chiare ed univoche dando attuazione ai principi di uguaglianza e non discriminazione recepiti dalla Carta dei diritti. La Corte ricorda i propri precedenti (in particolare la sentenza del 2.6.2017, Martinez Silva, C- 449/16, spesso applicata dai Giudici italiani ai fini della disapplicazione delle norme interne) secondo la quale, per stabilire se alcune prestazioni sociali rientrano o meno nel campo di applicazione del regolamento 883/2004, occorre fare riferimento agli elementi costitutivi della prestazione, in particolare alle loro finalità ed ai presupposti per la concessione apparendo irrilevante se lo stato abbia qualificato la misura come a carattere previdenziale o meno. La misura può essere considerata previdenziale se <<da un lato è attribuita ai beneficiari prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle loro esigenze personali, in base ad una situazione definita ex lege e dall’altra se si riferisce ad uno dei rischi espressamente elencati all’art. 3 par. 1 del regolamento 883/2004>>. Queste prestazioni devono essere attribuite automaticamente alle famiglie che rispondono a criteri oggettivi definiti ex lege e non sulla base di una valutazione discrezionale dell’autorità delle esigenze personali del richiedente già al momento della concessione del beneficio; sono considerate prestazioni familiari (rientranti nei settori della sicurezza sociale di cui al regolamento del 2004) tutti i contributi pubblici destinati al bilancio familiare destinati ad alleviare gli oneri derivanti dal mantenimento dei figli. Fatte queste precisazioni circa l’assegno di natalità la Corte evidenzia che si tratta di un assegno erogato dall’INPS che mira principalmente a contribuire alle spese derivanti dalla nascita di un figlio, concesso sulla base di previsioni normative che all’inizio lo attribuivano alle famiglie sotto una determinata soglia di reddito e poi esteso a tutte le famiglie ma stabilito in concreto sulla base di indicatori di disponibilità economica familiare. Le modifiche intervenute non appaiono rilevanti per escludere la natura di “prestazioni familiare” visto che comunque i criteri sono predeterminati per legge ed hanno la chiara funzione di sostenere il bilancio familiare, poco importa- ci dice la Corte- se a questa funzione si aggiunge lo scopo premiale di incentivare la natalità che si cumula a quella richiesta dalla normativa dell’Unione. Circa l’assegno di maternità la Corte( ) osserva che l’aiuto è concesso per ogni figlio nato (o adottato) alla donna che non sia già beneficiaria di un’indennità di maternità come lavoratrice ( autonoma, subordinata o professionista) nei casi in cui il nucleo familiare non superi una certa soglia di disponibilità economica. Anche in questo caso la misura è correlata a parametri oggettivi e predeterminati ex lege, senza discrezionalità dell’amministrazione: questi benefici rientrano quindi tra i settori della sicurezza sociale che il legislatore europeo ha ritenuto pertinenti per estendere la protezione non solo ai cittadini dell’Unione ma anche a coloro che vi risiedono legalmente (sia con permesso unico per lavoro che per altri motivi riconosciuti come quelli di studio o ricerca): conseguentemente la normativa sovranazionale osta a quella nazionale che richiede per i beneficiari la titolarità del permesso di lungo soggiornanti. I giudici del Lussemburgo rispondono quindi univocamente alla Corte costituzionale senza rinviare ad ulteriori accertamenti da parte del giudice nazionale sulle finalità della normativa interna. Il contrasto è pieno, la risposta è secca. Certamente si tratta di una decisione di importanza continentale il cui significato non è certamente limitato all’esame di una legislazione interna che, sia a livello dottrinario che giurisprudenziale, è stata definita come discriminatoria (ed oggetto di una specifica procedura di infrazione promossa dalla Commissione nel 2019). La Corte di giustizia offre, infatti, parametri obiettivi e piuttosto chiari e persuasivi per qualificare una prestazione come di sicurezza sociale o “familiare” alla luce del regolamento del 2004 e della direttiva del 2011 che a questa si riferisce. Inoltre ammonisce gli stati che non è sufficiente per esimersi dagli obblighi che derivano dal diritto dell’Unione aggiungere finalità ulteriori a quelle indicate dalle legislazione sovranazionale ai fini della parità di trattamento perché è sufficiente che la misura comunque persegua anche gli obiettivi indicati dal regolamento del 2004, mettendo così in mora quei paesi che, per ragioni di risparmio nei costi o anche di politica del diritto diretta a privilegiare i soli cittadini nell’accesso al welfare, introducono surrettiziamente plurimi obiettivi onde camuffare la discriminazione attuata nei confronti soprattutto di chi legalmente lavora da anni nel paese ospitante. La sentenza avrà un notevole significato ugualitario ed universalistico con un prevedibile impatto non secondario per indurre gli stati a rispettare le scelte antidiscriminatorie dell’Unione. La sentenza non precisa se l’art. 34.2 della Carta abbia eventualmente diretta applicabilità posto che la violazione è sostanzialmente accertata rispetto all’art. 12 della direttiva del 2011 e perché sia la Cassazione che la Corte costituzionale non lo hanno chiesto, ma, comunque, questa particolare efficacia sembra improbabile vista la sua formulazione. Semmai si potrebbe ipotizzare, visto che la Carta dei diritti è un sistema organico nel quale le protezioni si integrano tra loro, che il richiamo congiunto all’art. 34 ed ad altre norme certamente di efficacia diretta come l’art. 47 e gli artt. 20 e 21 possa produrre questo effetto di protezione in via autonoma ed immediata laddove non possa essere realizzato attraverso il diritto secondario come nello schema delle storiche decisioni Egemberger e IR ( ).
4. L’ethos inclusivo della Corte del Lussemburgo. La parola ritorna alla Corte costituzionale che, ora, ha alle spalle una ricognizione molto precisa della normativa sovranazionale e dell’incompatibilità tra questa e la legislazione nazionale. La decisione potrebbe avere effetti anche sul contenzioso giudiziario interno che riguarda molte altre provvidenze a carattere sociale come le varie forme di aiuto alle famiglie bisognose per gli affitti o per il pagamento delle bollette relative ai servizi essenziali, nell’affidamento di alloggi pubblici ( ), la partecipazione ai bandi regionali per l’acquisito di computer per l’accesso alla didattica a distanza ( ) e via dicendo. In genere si tratta di provvedimenti adottati dagli enti locali che escludono i cittadini dei paesi terzi senza il permesso di lungo soggiorno (in certi casi addirittura quelli dei paesi Ue) o che richiedono periodi di residenza effettiva in Italia così lunga da escludere i migranti lavoratori o i loro parenti legittimamente presenti sul territorio nazionale. Talvolta sono state introdotte prove diaboliche a carico dei migranti come la dimostrazione di non avere proprietà immobiliari nei paesi di origine, spessissimo sprovvisti di un catasto ufficiale o centralizzato ( ).La fenomenologia è vastissima ed eccede questo commento, ma non vi è dubbio che molte di queste misure potrebbero essere ricondotte nel contenitore delle prestazioni familiari costituendo <<contributi pubblici destinati al bilancio familiare destinati ad alleviare gli oneri derivanti dal mantenimento dei figli>>. In genere si tratta di atti con carattere di generalità ed astrattezza, quindi con criteri oggettivi e non mutuati sulle specifiche esigenze del beneficiario e senza un intervento discrezionale dell’amministrazione. La Corte usa il termine ex lege che sembra però doversi intendere in senso sostanziale e non formale con specifico riferimento alla ratio della direttiva che è quella di escludere dalla parità di trattamento solo interventi di emergenza, puntuali, a carattere strettamente assistenziale e caritativa. I due requisiti in senso forte che emergono dalla decisione della Corte dell’Unione e cioè la destinazione al sostegno alle famiglie (anche concorrente con altre finalità) e la predeterminazione “legale” degli aiuti sembrerebbero ricorrere in molte ipotesi. Viene infine in rilievo la principale riforma del nostro welfare negli ultimi venti anni e cioè l’introduzione del reddito di cittadinanza che però, proprio sul terreno che stiamo esaminando presenta, una clamorosa doppia discriminazione. Il beneficio è infatti è attribuito solo (art. 2 L. n. 26 del 2019) a coloro che sono in possesso della cittadinanza italiana o di paesi membri dell’Unione, ovvero di un loro familiare che sia in possesso del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, ovvero ai cittadini di paesi terzi in possesso del permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo con residenza in Italia da almeno dieci anni gli ultimi due, considerato il momento della presentazione della domanda, e per tutto il periodo delle erogazione, in modo continuativo. I titolari di permesso di soggiorno per ragioni di lavoro (o di ricerca) sono quindi esclusi doppiamente dalla sfera di tutela sia direttamente con riferimento alla titolarità “formale” sia indirettamente attraverso il requisito abnorme della residenza decennale che ha pochi precedenti ( ). Allo stato questa esclusione è anche in distonia con la proposta governativa di riforma della materia degli aiuti alla famiglia perché il nuovo “assegno unico ed universale” è molto più coerente con le fonti sovranazionali, per cui i cittadini con permesso di lavoro di paesi terzi mentre percepiscono l’assegno per i figli non accedono a quei benefici che sono pensati per assicurare una “esistenza dignitosa” e che sono per giunta parametrati sui bisogni e sul numero dei componenti della famiglia.
Pertanto è inevitabile tornare a chiedersi se il RDC sia coerente con il diritto dell’Unione. L’art. 1 legge 28 marzo 2019, n. 26 sembra costruito in realtà ad arte per fugare questo dubbio nel definire il RDC quale <<misura fondamentale di politica attiva, a garanzia del diritto al lavoro, di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale, nonché diretta a favorire il diritto all’informazione, all’istruzione, alla formazione e alla cultura..>>. La pluralità di finalità sembra voler offuscare il primario obiettivo di tutte le forme di reddito minimo garantito (qual è il RDC) e cioè l’offrire un sostegno economico di garanzia dei bisogni primari (ius existentiae), che quasi ovunque (in Ue e nel mondo) è assicurato su base familiare, onde portare la soglia reddituale di questa al di sopra di quella ritenuta, anche alla luce degli standard sovranazionali, compatibile con un’esistenza dignitosa. Certamente questo è il caso del RDC italiano la cui entità è commisurata al numero dei componenti del nucleo familiare e che prevede condizionalità e requisiti che valgono per tutti i componenti di tale nucleo individualmente e collettivamente. Il più importante e selettivo criterio di accesso, quello reddituale, (ma anche gli ulteriori sbarramenti connessi alla capienza dei conti correnti o alle proprietà immobiliari ove la famiglia non risieda) sono individuati sulla base di una ricognizione (più o meno razionale, ma questo è un altro discorso) della capacità del nucleo nel suo complesso di garantire ad ogni partecipante un “minimo vitale” ( ). Del resto nelle premesse del D.L. n. 4 del 2019 correttamente si rileva <<la straordinaria necessità e urgenza di prevedere una misura di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale>> come ragione fondante questa kehre del nostro stato sociale che finalmente integra la tutela della dignità primaria delle persone in sé e per sé nel suo orizzonte (superando un’arcaica ed antistorica limitazione ai soli lavoratori). Sembrerebbe, quindi, potersi dire che il sostegno va alle famiglie (ovviamente anche a quelle mono-nucleari) per alleviarne il documentato stato di difficoltà economica e spesso anche “relazionale”, e che questa prioritaria finalità concorre con altre modalità di promozione delle capabilities individuali come le offerte di formazione, lavoro, l’accesso alla cultura, il sostegno anche non economico dei servizi sociali: del resto la sentenza della Corte di giustizia non solo ci dice che il pluralismo degli obiettivi è compatibile con la nozione di “prestazioni familiari” ma anche che l’aiuto pubblico alle famiglie non deve neppure essere la funzione più importante tra quelle perseguite dalla normativa interna. Possono però nascere dei dubbi che vi sia stata una chiara volontà del legislatore europeo di erogarla secondo i principi di uguaglianza e parità di trattamento nella direttiva del 2011 anche a cittadini non lungo soggiornanti di paesi terzi. Infatti i redditi minimi garantiti previsti dalle legislazioni nazionali trovano, per quanto concerne l’erogazione a cittadini di altri paesi membri, una specifica disciplina all’art. 70 del regolamento 883/2004 sotto la dizione <<prestazioni speciali in denaro non soggette a contribuzione>> (la lettera i) concerne proprio le tipologie di reddito minimo di sussistenza), finanziate dalla fiscalità generale e contenute nell’allegato x del Regolamento nel quale, se non altro per ragioni cronologiche, il nostro RDC non compare. Ora a parte quest’ultimo punto ( non crediamo davvero che la mancata notifica di una misura nazionale salvi il nostro stato dagli effetti di un Regolamento Ue) sembrerebbe di un certo rilievo che il legislatore dell’Unione, il quale non ha equiparato totalmente la posizione dei cittadini dei paesi membri a quella dei paesi terzi, non abbia menzionato l’art. 70 e le prestazioni ivi regolate (tra le quali in primis il reddito minimo) laddove ha determinato l’ambito di estensione del principio di parità di trattamento. In ogni caso la questione della legittimità costituzionale,sia alla luce di parametri costituzionali interni, sia per incompatibilità con il diritto primario dell’Unione (Carta di Nizza)e con quello secondario, è già stata sollevata dal Tribunale di Bergamo con ordinanza del 9.7.2020 ed alla nostra Corte non mancheranno di certi argomenti per rimuovere la macroscopica discriminazione di cui soffrono i migranti, persino quelli lungo soggiornanti ( ). Persino nella tanto discussa sentenza n. 50/del 2019 sull’assegno sociale si è ribadito (punto 11) che <<nella giurisprudenza di questa Corte l’elemento di discrimine basato sulla cittadinanza è stato ritenuto in contrasto con l’art. 3 Cost. e con lo stesso divieto formulato all’art. 14 Cedu, solo con riguardo a prestazioni destinate al soddisfacimento di bisogni primari e volte alla garanzia della stessa sopravvivenza del soggetto>> come sono tutti i redditi minimi europei che il regolamento del 2004 definisce di “sussistenza”.
In ogni caso l’ultima giurisprudenza della Corte di giustizia, con la sua opzione per una nozione molto ampia di “prestazione familiare” e di “ sicurezza sociale”, nel riconoscimento di principi generali antidiscriminatori, dovrebbe favorire, irradiando in tutti i paesi membri un ethos integrazionista ed inclusivo, il processo in corso di revisione equitativa o di manutenzione per opera della giurisprudenza costituzionale della normativa sociale interna con l’accesso alle prestazioni essenziali di chi vive alla luce del sole nel nostro paese.
5. Lezioni di cooperazione tra Corti. Il chiarimento offerto dalla Corte di giustizia rafforza nettamente un orizzonte egualitario anche per un dossier notoriamente ad alta densità politica come quello in questione e dovrebbe poter guidare le Corti interne nel fronteggiare le variegate forme di ostracismo dei migranti dalla cittadella delle garanzie sociali: il secco niet al legislatore italiano (ed implicitamente, ci sembra, anche alle scelte di tante Regioni, Province, Comuni) è l’esito di intensa collaborazione tra la Corte del Lussemburgo e la Consulta che, prescindendo ora dal merito della questione affrontata, ha scelto questa occasione per rimarcare che in UE esiste un “ordine” garantista , cioè un sistema integrato di tutele che si compenetrano anche attraverso mutui rinvii, che salda il piano nazionale e quello sovrazionale (a loro volta accordati con quello convenzionale). Dopo lo “ sbandamento” dell’obiter del 2017 la Consulta ha precisato nelle decisioni n. 20 e 63 del 2019 che l’originario “deve”, per cui il Giudice nazionale in caso di contemporanea violazione della Carta di Nizza e della nostra Costituzione dovrebbe adire per prima la Corte delle leggi,va interpretato nel senso del “può”, cioè che spetta al Giudice decidere quale delle due strade intraprendere per prima. Questa giusta assegnazione al potere di valutazione del Giudice nazionale quale Corte superiore interpellare prioritariamente appare sacrosanta visto che è questo Giudice a conoscere il caso e ad avere la responsabilità di offrire una risposta all’istanza di giustizia che è stata sottoposta alla sua competenza decisionale ( ). Non da ultimo le rettifiche della Consulta consentono di ritenere il nostro sistema coerente con quello sovranazionale come precisato dalla Corte del Lussemburgo nella Global Starnet (20.12.2018, C-322/16). Tuttavia, sulla base di queste precisazioni “permissive” della Corte delle leggi, è sorta una terza via “agnostica” che vorrebbe praticare contestualmente la cosidetta doppia pregiudizialità attivando le due strade contemporaneamente verso Roma e verso il Lussemburgo che, astrattamente parlando, non sembrerebbe in contrasto con i due sistemi, nazionale e sovranazionale ( ).Questa linea “ mediana” non mi convince in quanto tende a drammatizzare il conflitto tra Corti superiori che vengono investite nello stesso momento di una questione di rilevanza costituzionale senza dare tempo all’una o all’altra di meditare termini e modi di soluzione della controversia; inoltre deresponsabilizza il Giudice nazionale che deve,invece, sforzarsi di individuare quale sia il canale di maggior pertinenza da percorrere, il sentiero “ del sistema” complessivo che è razionale percorrere per primo ( ). Mi sembra che oggi la Corte costituzionale fornisca indicazioni importanti a forte impronta “ cooperativa” (dopo che la “crisi Taricco” è stata risolta brillantemente dalla Corte di giustizia attivando i “contro limiti costituzionali” europei rappresentati dalla Carta di Nizza) per orientare la scelta, senza opportunamente dare dei diktat al giudice ordinario che- in presenza di questioni di diritto dell’Unione- agisce peraltro come organo del sistema giudiziario multilivello. La Corte con l’ordinanza n. 182 del 2020 ha sottolineato in primo luogo che il tema della dedotta discriminazione dei migranti dall’accesso alle prestazioni familiari aveva una dimensione indubbiamente paneuropea: << l’incertezza, che è necessario dirimere in maniera sollecita, è tanto più grave in quanto riguarda sia il settore nevralgico della politica comune dell’immigrazione dell’Unione europea nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, sia il tema della parità di trattamento tra cittadini dei paesi terzi e cittadini degli Stati membri in cui soggiornano, che di tale politica rappresenta elemento qualificante e propulsivo>>. Ed ha aggiunto che <<in un campo segnato dall’incidenza crescente del diritto dell’Unione, non si può non privilegiare il dialogo con la Corte di giustizia, in quanto depositaria del <<rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei Trattati>>(art. 19 paragrafo 1 del Trattato sull’Unione europea>>. Il divieto di discriminazione arbitrarie e la tutela della maternità e dell’infanzia, salvaguardati dalla Costituzione italiana(artt. 3 primo comma, e 31 Cost.), devono, difatti, essere interpretati anche alla luce delle indicazioni vincolanti offerte dal diritto dell’Unione europea (ex artt. 11 e 117, primo comma, Cost.). Sulla portata e sulla latitudine di tali garanzie, che si riverberano sul costante evolvere dei precetti costituzionali, in un rapporto di mutua implicazione e di feconda integrazione, si concentrano le questioni pregiudiziali che in questa sede si ritiene di sottoporre al vaglio della Corte di giustizia>>. Ancora nella sentenza n. 254 del 2020 (che ha concluso il doppio rinvio contestuale operato dalla Corte di appello di Napoli su un licenziamento collettivo) ha evidenziato che <<come questa Corte ha ribadito di recente (sentenze n. 63 e n. 20 del 2019 e ordinanze n. 182 del2020 e n. 117 del 2019), l’attuazione di un sistema integrato di garanzie ha il suo caposaldo nella leale e costruttiva collaborazione tra le diverse giurisdizioni, chiamate – ciascuna per la propria parte – a salvaguardare i diritti fondamentali nella prospettiva di una tutela sistemica e non frazionata. A tale riguardo, non è senza significato che l’art. 19, paragrafo 1, del Trattato sull’Unione europea (TUE)… consideri nel medesimo contesto – così da rivelarne il legame inscindibile – il ruolo della Corte di giustizia, chiamata a salvaguardare «il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati» (comma 1), e il ruolo di tutte le giurisdizioni nazionali, depositarie del compito di garantire «una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione» (comma 2)>> (punti 2.1, 2.2.). Ancor prima l’ordinanza di rinvio pregiudiziale n. 117 del 2019, nella spinosa questione del diritto a tacere nei procedimenti sanzionatori della Consob ricordava che “<<la sentenza n. 20 del 2019 ha ulteriormente chiarito, in proposito che << in generale la sopravvenienza delle garanzie approntate dalla CDFUE rispetto a quelle della Costituzione, arricchisce gli strumenti di tutela dei diritti fondamentali e, per definizione, esclude ogni preclusione>>. Tale concorso di rimedi consente in effetti alla Corte costituzionale di << contribuire per la propria parte a rendere effettiva la possibilità, di cui ragiona l’art. 6 sul Trattato sull’Unione europea (TUE).. che i corrispondenti diritti fondamentali garantiti dal diritto europeo, e in particolare dalla CDFUE , siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali comuni agli stati membri richiamate anche dall’art. 52.4 della stessa CDFUE…>>. Il tutto… << in un quadro di costruttiva e leale cooperazione tra i diversi sistemi di garanzia, nel quale le Corti costituzionali siano chiamate a valorizzare il dialogo con la Corte di giustizia…affinchè sia assicurata la massima salvaguardia dei diritti a livello sistemico>> ( ).
L’integrazione raggiunta tra le due dimensioni- interna e sovranazionale- deve indurre il Giudice comune a stabilire lui stesso chi interpellare, assumendo la responsabilità che gli compete o di organo di base del sistema multilivello o di giudice di uno stato membro ( ). La Consulta nelle decisioni prima citate ci parla di un ordine, frutto di integrazione tra fonti, procedure e principi; se pure talvolta quest’ordine deve essere ricostruito e non appare prima facie, nella sua sistematicità, evidente, tuttavia il Giudice nazionale non può che concorrere a costruirlo usando al meglio quelle “lenti bifocali”, per dirla con un recente, illuminante, saggio di Silvana Sciarra ( ), di cui ormai deve essere dotato. Forse ci sbagliamo ma da questa vicenda e da altre risolte con risultati molti persuasivi nella collaborazione tra le Corti per essersi la Consulta resa promotrice di un rinvio pregiudiziale come Giudice nazionale, sembra emergere che nelle materie in cui è più forte la matrice sovranazionale e dove quindi sono prioritari gli orientamenti che possono portare a decisioni cruciali per l’intero continente e ove in genere si aprono nuovi sentieri garantisti (come nel campo della privacy, del diritto alle ferie ( ), del contrasto delle discriminazioni e della tutela delle diversità degli orientamenti sessuali) va senz’altro preferita la strada del rinvio pregiudiziale ove sia impraticabile quella dell’applicabilità diretta del diritto dell’Unione. Se è vero che la Corte costituzionale può abolire erga omnes la disposizione interna, la Corte di giustizia può decidere la controversia con una validità (comunque vincolante) per 27 stati prevenendo anche ulteriori deviazioni nazionali dal quadro legale dell’Unione. Non a caso la recente sentenza del 6 ottobre 2021 Consorzio italian management, C- 561/19 sull’obbligo del rinvio pregiudiziale per i giudici di ultima istanza, ai casi consolidati nella cosidetta giurisprudenza Cilfit, aggiunge la valutazione dell’interesse “europeo” ad una pronuncia anche quando in uno stato membro appaia consolidata una certa interpretazione della norma sovranazionale (valutazione che la Consulta sembra aver fatto propria nella citata ordinanza n. 182). Del resto la preferenza (laddove la competenza sia dell’Unione, sia stata esercitata e l’impronta del diritto sovranazionale e della connessa giurisprudenza della Corte dell’Unione sia da tempo sviluppata) per l’applicabilità immediata del diritto euro-unitario o per il rinvio pregiudiziale sembra potersi desumere dalle stesse norme dei Trattati, in particolare dall’inedito art.2 del TFUE come introdotto dal Lisbon Treaty. Tale norma ci avverte che, se siamo in presenza di una competenza esclusiva dell’Unione, gli stati possono legiferare solo se a ciò autorizzati o, se si tratta di una competenza concorrente, gli stati membri possono farlo solo se l’Unione non ha esercitato la proprio competenza o se l’ha dismessa. I paesi membri sono comunque in una posizione ancillare rispetto a quella dell’Unione e questo ruolo non può che riflettersi sull’individuazione di quale sia, salvo controindicazioni specifiche che derivano dalla peculiarità della fattispecie esaminata, l’organo giurisdizionale privilegiato nell’orientare il processo di enforcement delle norme dell’Unione (quanto meno nei settori di cui agli artt. 3 e 4.2 TFUE) anche negli stati membri. L’ordinanza n. 182 ha certamente determinato una decisione preziosa per i diritti sociali essenziali di tutti i migranti presenti legalmente nei territori dell’Unione; la Consulta ha così fatto “la sua parte” agendo con spirito di apertura e collaborazione (che molte altre Corti nazionali hanno clamorosamente negato, da quella tedesca a quelle di Polonia e Romania) nei canali richiamati anche dall’art. 19 del TFUE, visto che erano sorti dei dubbi in ordine alla disapplicazione (rifiutata costantemente, peraltro, dagli enti pubblici italiani come l’INPS). Il risultato è stato il declinarsi argomentato e persuasivo di un “sistema” ordinato e razionale di tutele ed un messaggio chiaro ed importante per i giudici comuni.

 

 

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