Testo integrale con note e bibliografia


1. La proposta di Direttiva e le piattaforme digitali.
La proposta di Direttiva sul miglioramento delle condizioni di lavoro dei lavoratori delle piattaforme, con cui la Commissione europea compie un significativo passo avanti nel percorso di attuazione del Pilastro europeo dei diritti sociali, ha riportato al centro del dibattito il tema della qualificazione giuridica del rapporto di lavoro tramite piattaforme.
L’impiego di nuove tecnologie ha provocato sensibili trasformazioni anche nel mondo del lavoro, creando continue tensioni con gli schemi giuridici tradizionali. L’impatto più dirompente si è manifestato proprio nel lavoro tramite le piattaforme digitali, creando complessi problemi di catalogazione giuridica, accompagnati dalla difficoltà pratica per le autorità nazionali di intercettare queste forme di attività, specie ove svolte in ambito transfrontaliero. L’economia delle piattaforme, detta anche collaborativa, ha assunto in breve tempo una forte rilevanza in termini economici, in diversi settori. Secondo le stime della Commissione europea, il lavoro mediante piattaforme digitali attualmente coinvolge oltre 28 milioni di persone nell'UE, per lo più appartenenti alle giovani generazioni, e si prevede che raggiungerà i 43 milioni nel 2025.Inoltre, in base ai dati raccolti dalla Commissione, il 55% dei lavoratori delle piattaforme percepisce una retribuzione netta inferiore al salario minimo orario, ove legislativamente previsto, e mediamente essi trascorrono 8,9 ore alla settimana svolgendo compiti non retribuiti (ad es., in attesa di incarichi).
Tali criticità sono considerate effetto della errata classificazione giuridica dei platform workers, essendo essi per la maggior parte qualificati come lavoratori autonomi.
Nei vari Stati dell’Unione si è sviluppato un corposo dibattito sulla qualificazione giuridica dei nuovi lavoratori, alimentato da interventi legislativi e da pronunce giurisprudenziali , e il dibattito ha inevitabilmente varcato i confini nazionali interpellando la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE .
Le indagini e le valutazioni operate dalla Commissione, nei termini sinteticamente riportati, hanno posto al centro della riflessione l’esigenza, avvertita dagli attori politici, sindacali e dai giuristi del lavoro, di un esatto inquadramento giuridico di queste nuove forme di lavoro perché non siano catapultate, per la forza centrifuga del mercato, all’esterno del nucleo protettivo del diritto del lavoro.

2. Il problema della errata qualificazione giuridica del rapporto di lavoro.
Il progetto di Direttiva individua tre settori di intervento in relazione ad altrettante problematiche: l’errata classificazione giuridica dei lavoratori; la mancanza di correttezza, trasparenza e responsabilità nella gestione algoritmica dei rapporti di lavoro; le difficoltà nell’applicazione degli obblighi normativi per la mancanza di trasparenza e tracciabilità del lavoro tramite piattaforme, specie se svolto a livello transfrontaliero.
Il tema dell’errata classificazione, che rileva ai fini di questa riflessione, parte dalla constatazione che alcune persone che lavorano mediante le piattaforme di lavoro digitali si trovano ad affrontare cattive condizioni di lavoro e accesso inadeguato alla protezione sociale. Si tratta in molti casi di lavoratori autonomi fittizi, cioè di persone la cui situazione occupazionale è classificata in modo errato. Chi lavora mediante tali piattaforme con una classificazione errata della situazione occupazionale non ha né i diritti né le tutele che l'acquis nazionale e dell'UE in materia di lavoro riconoscono ai lavoratori subordinati, né l'autonomia e la maggiore forza contrattuale sul mercato del lavoro di cui godono molti veri lavoratori autonomi .
Simili distorsioni si pongono direttamente in tensione con il diritto di ogni lavoratore a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose, nonché col diritto all’informazione e alla consultazione, come sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, e collidono con i capisaldi del Pilastro europeo dei diritti sociali per cui "indipendentemente dal tipo e dalla durata del rapporto di lavoro, i lavoratori hanno diritto a un trattamento equo e paritario per quanto riguarda le condizioni di lavoro e l'accesso alla protezione sociale e alla formazione”.
La proposta di Direttiva individua come strumento, per fronteggiare i rischi legati ad una errata qualificazione del rapporto di lavoro, l’obbligo degli Stati membri di predisporre procedure adeguate per verificare e garantire la corretta determinazione della situazione occupazionale delle persone che svolgono un lavoro mediante piattaforme digitali (art. 3), in linea con il “principio del primato dei fatti” (art. 3). Stabilisce inoltre una presunzione legale relativa di esistenza di un rapporto di lavoro tra la piattaforma e le persone che lavorano mediante tale piattaforma, se quest’ultima controlla determinati elementi dell'esecuzione del lavoro. Tale presunzione legale si applica in tutti i procedimenti giudiziari e amministrativi, compresi quelli avviati dalle autorità nazionali competenti per l'applicazione delle norme in materia di lavoro e protezione sociale, e può essere confutata dimostrando l'assenza di un rapporto di lavoro con riferimento alle definizioni nazionali (art. 4).L'articolo individua i criteri da cui possa desumersi che la piattaforma di lavoro digitale controlla l'esecuzione del lavoro. Il rispetto di almeno due indicatori dovrebbe far scattare l'applicazione della presunzione legale.

3. La nozione eurounitaria di lavoratore.
La proposta di Direttiva non si discosta dalla logica binaria che caratterizza il diritto dell’Unione e che vede contrapposte le figure di lavoratore subordinato e di impresa (a cui è equiparato il lavoratore autonomo), in assenza di figure intermedie, diffuse tanto nei sistemi di common law che in quelli di civil law.
Non è stata seguita la strada del tertium genus, cioè di una terza categoria di lavoratori, con uno status giuridico intermedio tra i lavoratori subordinati ei lavoratori autonomi, come già esiste nel Regno Unito, e a cui parte della dottrina italiana ha ricondotto la figura del lavoro etero-organizzato, di cui all’art. 2, del d.lgs. n. 81 del 2015.
Come è noto, nel diritto dell’Unione non esiste una definizione generale e unitaria di lavoratore. Il riferimento nell’art. 45 TUFE ai “lavoratori”risponde allo scopo di assicurarne la libera circolazione all’interno del mercato comune, quindi ad una prospettiva “geneticamente diversa da quella propria degli ordinamenti nazionali” , in cui la nozione di lavoratore è funzio¬nale a «immettere nel contratto di lavoro uno statuto protettivo» .
L’impegno per il miglioramento delle condizioni di lavoro nell’ordinamento dell’Unione si è tradotto nel tentativo di superare, o almeno mitigare, l’approccio casistico, con definizioni di lavoratore differenti a seconda dei settori di applicazione , per dare “un significato comunitario all’espressione lavoratore” .
A partire dalla sentenza Lawrie-Blum , la Corte di Giustizia ha individuato quale “caratteristica essenziale del rapporto di lavoro […] la circostanza che una persona fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un’altra e sotto la direzione di quest’ultima, prestazioni in contropartita delle quali riceva una retribuzione».
In base a tali coordinate e grazie ad una lettura estensiva delle stesse, la Corte ha potuto includere nel raggio di azione dell’art. 45 TFUE i lavoratori a tempo parziale, a chiamata, occasionali e intermittenti, temporanei e stagionali, impegnati in attività formative o solo di stage, e altre figure sui generis.
La nozione eurounitaria di lavoratore subordinato ha così varcato i confini del luogo di nascita, quello della libera circolazione, per espandersi in “ambiti regolativi diversi e in funzione dell’applicazione di vari statuti protettivi, in primo luogo quando ad entrare in gioco è un diritto fondamentale garantito dall’ordinamento dell’Unione” .
Nella Relazione alla proposta di Direttiva si ricorda che la Carta dei diritti fondamentali dell'UE tutela e promuove un'ampia gamma di diritti del lavoro, tra cui il diritto dei lavoratori all'informazione e alla consultazione all'interno dell'impresa (art. 27), il diritto alla contrattazione collettiva e a ricorrere ad azioni collettive per la difesa dei propri interessi, compreso lo sciopero (art. 28), la tutela in caso di licenziamento ingiustificato (art. 30) e il diritto a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose (art.31).
Si dà atto che l'Unione ha creato una base minima di diritti del lavoro (ad esempio, in tema di orario di lavoro, di tutela per la salute e sicurezza, di condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili, di equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza, di accesso alla protezione sociale), applicabili ai lavoratori in tutti gli Stati membri, quando hanno un rapporto di lavoro e sono pertanto classificati come lavoratori subordinati. Solo i lavoratori che rientrano nell'ambito di applicazione personale degli strumenti giuridici predisposti beneficiano della protezione che essi offrono. I lavoratori autonomi di norma non godono di tali diritti, il che rende la condizione di lavoratore subordinato un punto fondamentale di accesso all'acquis dell'UE in materia sociale e di lavoro.
L’art. 2, par. 1 della proposta di Direttiva definisce il proprio campo di applicazione come relativo “alle persone che hanno, o che sulla base di una valutazione dei fatti si può ritenere abbiano, un contratto di lavoro o un rapporto di lavoro quali definiti dal diritto, dai contratti collettivi o dalla prassi in vigore negli Stati membri, tenuto conto della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea”, ed utilizza l’identica formula “ibrida” già impiegata nella Direttiva 2019/1152 sulle condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili.
La soluzione compromissoria che la proposta di Direttiva consegna agli interpreti fa leva su un concetto nazionale di lavoratore mitigato dal riferimento alla nozione di subordinazione elaborata dalla Corte di Giustizia.
Non è facile prevedere come quest’ultima potrà interpretare la formula in esame, in cui alcuni autori hanno colto un segnale di conferma e rafforzamento della “valenza espansiva e inclusiva della nozione europea di lavoratore subordinato” , coerente con la preoccupazione di applicazione uniforme dell’acquis sociale europeo.
La formula adoperata nella proposta di Direttiva ribadisce il “primato dei fatti”, costantemente affermato nella giurisprudenza eurounitaria, in conformità alla maggior parte degli ordinamenti nazionali. La qualificazione del rapporto di lavoro deve avvenire in base al concreto svolgersi dello stesso e la formale classificazione di lavoratore autonomo, in base al diritto nazionale, non può pregiudicare la qualifica del medesimo come lavoratore, secondo il diritto dell’Unione, se la sua indipendenza è solo fittizia e nasconde un vero e proprio rapporto di lavoro (cd. falsi autonomi).

4. La presunzione relativa.
Merita certamente plauso la previsione della proposta di Direttiva sulla introduzione di una presunzione legale iuris tantum di lavoro subordinato.
In base all’art. 4, par. 1, il rapporto di lavoro tra la piattaforma digitale e il lavoratore si considera subordinato, al ricorrere delle condizioni previste dalla Direttiva come sintomatiche di una forma di controllo del lavoratore. Più esattamente, la presunzione opera in presenza di almeno due degli indici così elencati dalla disposizione in esame:
a) determinazione effettiva del livello della remunerazione, o fissazione del suo tetto massimo;
b)obbligo per il lavoratore di rispettare regole vincolanti specifiche per quanto riguarda l’aspetto esteriore, il comportamento nei confronti del destinatario del servizio o l'esecuzione del lavoro;
c) la supervisione dell’esecuzione del lavoro o la verifica della qualità dei risultati, anche mediante l’impiego di strumenti elettronici;
d) l’effettiva limitazione, anche mediante sanzioni, della libertà del lavoratore nell’organizzazione del lavoro, in particolare quanto alla facoltà di scegliere l’orario di lavoro o i periodi di assenza, di accettare o rifiutare incarichi o di ricorrere a sostituti o subappaltatori;
e) effettiva limitazione della possibilità di costruire una propria clientela o di svolgere lavori per terzi.
Il successivo art. 5 prevede che la presunzione ammetta la prova contraria, con la conseguenza che sarà onere del datore-piattaforma digitale dimostrate il carattere effettivamente autonomo del lavoro svolto.
Si tratta di indici che rimandano ad una categoria di subordinazione intesa in senso ampio ed elastico, più di quanto ricavabile dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia e dai singoli ordinamenti nazionali. Su quest’ultimo aspetto, non appare azzardato affermare che gli elementi presuntivi in esame, quali “indici di dipendenza organizzativa” , siano astrattamente compatibili anche con la nozione di etero-organizzazione, introdotta in Italia dal d.lgs. n. 81 del 2015, art. 2, ed incentrata su prestazioni di lavoro “prevalentemente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente […] anche […] mediante piattaforme anche digitali” .

5. Le ricadute nell’ordinamento interno.
Nel valutare l’impatto della Direttiva, ove approvata in conformità alla proposta finora esaminata, occorre anzitutto considerare come, nel nostro ordinamento, il diritto del lavoro sia profondamente caratterizzato dal criterio di effettività (primato dei fatti), di cui sono espressione numerose disposizioni normative (v., ad esempio, gli artt. 27, 29 e 30 del d.lgs. n. 276 del 2003 e succ. modif.; l’art. 8 della legge n. 223 del 1991), a cominciare dall’art. 2094 cod. civ., costituendo principio giurisprudenziale consolidato quello secondo cui, ai fini dell'accertamento della natura subordinata di un rapporto di lavoro, devono ritenersi prevalenti, sull'assetto formale del rapporto contrattuale, le modalità di esecuzione dello stesso.
Il criterio di effettività poggia sul principio, di rilievo costituzionale, di indisponibilità del tipo legale, in virtù del quale non sarebbe consentito al legislatore negare la qualificazione giuridica di rapporti di lavoro subordinato a rapporti che oggettivamente abbiano tale natura, ove da ciò derivi l'inapplicabilità delle norme inderogabili previste dall'ordinamento per dare attuazione ai principi, alle garanzie e ai diritti dettati dalla Costituzione a tutela del lavoro subordinato. Né potrebbe consentirsi al legislatore di autorizzare le parti ad escludere direttamente o indirettamente, con la loro dichiarazione contrattuale, l'applicabilità della disciplina inderogabile prevista a tutela dei lavoratori a rapporti che abbiano contenuto e modalità di esecuzione propri del rapporto di lavoro subordinato. Ciò perché i diritti e le garanzie stabiliti dalla Costituzione in questa materia devono trovare attuazione ogni volta che il contenuto concreto del rapporto e le sue effettive modalità di svolgimento, eventualmente anche in contrasto con le pattuizioni stipulate e con il nomen iuris enunciato, siano quelli propri del rapporto di lavoro subordinato .
Dal punto di vista processuale, il lavoratore che agisce per l’accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro è onerato della relativa prova, solitamente fornita attraverso la dimostrazione di una serie di dati e circostanze costituenti indici presuntivi del carattere subordinato della prestazione resa. L’elemento della subordinazione, poiché non costituisce un dato di fatto elementare ma piuttosto una modalità di essere del rapporto, è potenzialmente desumibile da una pluralità di circostanze che richiedono una valutazione complessiva e globale.
In base alla regola dettata dall’art. 2697 cod. civ., qualora vi sia una situazione di incertezza probatoria, il giudice deve ritenere non assolto l’onere della prova e la parte onerata risulterà sul punto soccombente.
La regola di distribuzione dell’onere della prova subisce modifiche ove siano previste delle presunzioni legali (artt. 2727 e 2728 cod. civ.). Mentre le presunzioni assolute non ammettono la prova contraria, quelle relative esonerano la parte, a cui favore sono previste, dall’onere di prova e consentono alla controparte di fornire la prova contraria.
Il legislatore nazionale ha fatto ricorso, in diversi casi, al meccanismo della presunzione legale, per lo più al fine di arginare fenomeni di elusione dello statuto protettivo del lavoro subordinato. Ciò è accaduto, ad esempio, con l’art. 1 della legge n. 1369 del 1960 in tema di interposizione di manodopera e, più recentemente, con l’art. 69, d.lgs. n. 276 del 2003, come modificato dalla l. n. 92 del 2012 (art. 1, comma 23 lett. g) e comma 24), sui rapporti di collaborazione a progetto, con l’art. 69 bis del d.lgs. cit., introdotto dalla l. n. 92 del 2012 (art. 1, comma 26), a proposito di prestazioni lavorative rese da persona titolare di partita IVA, con l’art. 2549 cod. civ., modificato dalla l. n. 92 del 2012 (art. 1, comma 28) riguardo alle associazioni in partecipazione.
Mentre per i rapporti di collaborazione a progetto (la cui disciplina è stata poi definitivamente abrogata) e per le associazioni in partecipazione è stata introdotta una presunzione assoluta, per il fenomeno delle cd. false partite IVA è stata prevista una presunzione relativa, secondo uno schema simile a quello di cui alla proposta di Direttiva in esame, considerando la prova presuntiva soddisfatta al ricorrere di due dei tre elementi specificamente elencati.
Nella materia del lavoro tramite piattaforma, e in base alla proposta di Direttiva, l’introduzione della presunzione relativa in favore del lavoratore comporterà che, ove la piattaforma non sarà in grado di dimostrare la natura autonoma del lavoro svolto, il lavoratore sarà considerato subordinato e quindi tutelato in base alla normativa applicabile a tale categoria.
Deve segnalarsi un aspetto di problematicità del regime probatorio, poiché gli indici elencati nell’art. 4 della proposta di Direttiva, la cui esistenza o inesistenza sarà oggetto dei rispettivi oneri probatori, non hanno tutti carattere oggettivo e definito ma sono, almeno in parte, descritti attraverso espressioni generiche e concetti elastici. Questo potrebbe creare difficoltà nella concreta applicazione della regola presuntiva ed è auspicabile una più univoca e rigorosa delimitazione e definizione degli indici elencati.
Il meccanismo di presunzione legale, ove introdotto, si collocherebbe accanto alle disposizioni normative nazionali soprarichiamate, quale ulteriore tassello volto ad alleggerire il carico probatorio di cui è attualmente onerato il lavoratore che rivendichi la natura subordinata dell’attività. Ciò in perfetta sintonia con l’esigenza di tutela del lavoratore, che lo stesso legislatore italiano ha riconosciuto, contro pratiche elusive dello statuto del lavoro subordinato, e che a maggior ragione esigono protezione nel settore, assai sfuggente, del lavoro tramite piattaforma.
Da un punto di vista teorico, si ritiene che non dovrebbero crearsi interferenze tra la proposta di Direttiva, ove così deliberata e recepita, e la disciplina dettata in ambito nazionale sulle collaborazioni etero-organizzate (art. 2, d.lgs. 81 del 2015 cit.) e sui cd. riders (artt. 47 bis e ss. d.l. n. 101 del 2019, conv. con modif. nella l. n. 128 del 2019), in quanto queste figure sono riconducibili, dal punto di vista logico e sistematico, allo schema del lavoro autonomo, sia pure equiparate, quanto alla disciplina, al lavoro subordinato (le collaborazioni) oppure destinatarie di un pacchetto di tutele minime (i riders).
In pratica, tuttavia, la presenza nel nostro ordinamento di una nozione di etero-organizzazione, che ha confini piuttosto labili e presenta inevitabili punti di contatto e di sovrapposizione con la fattispecie del lavoro subordinato, specie ove quest’ultima sia intesai n senso ampio “tenuto conto della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea” (art. 2, par. 1 della proposta di Direttiva), potrebbe creare non solo difficoltà applicative, a cominciare dal regime di presunzione legale, ma anche interferenze di sistema non facilmente risolvibili .
Il rischio di divergenze, in sede interpretativa, sulla significatività in concreto degli elementi presuntivi di cui all’art. 4 cit., oggetto di prova e controprova delle parti in causa, nel senso del lavoro subordinato oppure etero-organizzato, non pare allo stato escludibile, e ciò potrebbe vanificare, almeno in parte, nel nostro sistema l’utilità del criterio di agevolazione probatoria pensato dalla Commissione per i lavoratori delle piattaforme. E se è vero che l’art. 2 del d.lgs. 81 del 2015 estende al lavoro etero-organizzato le disposizioni sul lavoro subordinato, non è tuttavia ancora chiaro il contenuto e l’eventuale limite di tale estensione .
Per i lavoratori autonomi, o più esattamente perle persone che svolgono un lavoro mediante piattaforme digitali e che non hanno un rapporto di lavoro, l’art. 20, par. 2, seconda parte, della proposta di Direttiva lascia impregiudicata la prerogativa degli Stati membri di applicare o introdurre disposizioni legislative, regolamentari o amministrative più favorevoli, con il limite, però, che si tratti di norme nazionali compatibili con le norme relative al funzionamento del mercato interno. Si tratterà allora di verificare se e in che misura la estensione al lavoro etero-organizzato, svolto anche tramite piattaforme digitali, dello statuto protettivo del lavoro subordinato soddisfi o meno la condizione posta.
Probabilmente, un limite della proposta di Direttiva è quello di non aver previsto forme di tutela (eccetto quelle di cui agli artt. 6, 7, paragrafi 1 e 3, e 8, che, in base al disposto dell’art. 10, si applicano anche alle persone che svolgono un lavoro mediante piattaforme digitali e che non hanno un contratto di lavoro o un rapporto di lavoro)per i lavoratori delle piattaforme che non siano considerati subordinati, così lasciando uno spazio vuoto, ove sovente ristagnano condizioni di precarietà, marginalità e povertà lavorativa , che l’impegno per il Pilastro sociale europeo non può continuare ad ignorare e che forse richiedono il superamento, anche in ambito nazionale, dei vecchi schemi entro cui si continua a voler comprimere le nuove forme di lavoro.

 

 

 

 

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