testo integrale con note e bibliografia

testo della sentenza

Il caso.
Il provvedimento in commento è relativo ad un caso di discriminazione della lavoratrice madre.
In particolare, la ricorrente proponeva ricorso ex art. 38 del d.lgs. n.198 del 2006, a seguito della condotta illecita ed illegittima del datore di lavoro, il quale, in coincidenza dell’assenza della lavoratrice madre per maternità, interrompeva la corresponsione della retribuzione mensile in favore della stessa, senza addurre alcuna giustificazione.
Il Giudice del Lavoro, ravvisando la sussistenza del fattore di rischio meritevole di tutela, a salvaguardia dell’essenziale funzione familiare svolta al genitore, ordinava alla società convenuta la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti, con condanna al pagamento immediato di quanto dovuto alla lavoratrice a titolo di indennità di maternità ed al ristoro dei danni non patrimoniali patiti dalla lavoratrice madre, liquidati sulla base dei parametri tabellari milanesi.
1. La tutela antidiscriminatoria nel Codice delle Pari opportunità.
Il diritto antidiscriminatorio presenta una moltiplicazione di fattori, ai quali si estende la tutela in materia di lavoro. La normativa è, quindi, frazionata in più testi legislativi e, a seconda della fattispecie e del fattore di rischio in rilevo, è necessario rifarsi a discipline differenti, ciascuna delle
quali dotata di un proprio apparato di tutele, sanzioni, strumenti processuali per far valere i propri
diritti. Il genere mantiene, a tutti gli effetti, una sua specificità e una disciplina separata.
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea distingue la previsione di un generale divieto di discriminazione di cui all’art. 21 –che si riferisce ad una pluralità di fattori, compreso il sesso– dedicando una disposizione specifica alla parità tra uomini e donne, in tutti i campi della vita e delle relazioni, compresi quelli concernenti l’occupazione, il lavoro e la retribuzione.
L’evoluzione legislativa è approdata all’introduzione nel nostro ordinamento del Codice delle Pari opportunità tra uomo e donne, di cui al D.Lgs. n.198/2006, in attuazione dell’articolo 6 della legge 28/11/2005 n.246, finalizzato a combattere le discriminazioni esistenti tra i due sessi, ovvero garantire una valida uguaglianza degli stessi in ogni ambito sociale ed economico.
Tale legge istitutiva del Codice del 2006 ha subito nel tempo delle revisioni, dapprima attraverso il d.lgs. 5/2010, poi attraverso la legge di bilancio 205/2017 ed infine attraverso la L. 5 novembre 2021, n.162 quest’ultima intervenendo anche sulla definizione stessa di discriminazione, ampliandone i contenuti.
La disposizione cardine è rappresentata dall’art. 25 del richiamato Codice che vieta le discriminazioni dirette e le discriminazioni indirette, laddove con le prime si intendono tutte quelle disposizioni, criteri, prassi, atti, patti o comportamenti esplicitamente pregiudizievoli per la lavoratrice o il lavoratore in ragione del genere e che, comunque, determinino un trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o lavoratore in situazione analoga (art. 25, comma 1, del Codice), mentre con le seconde ci si riferisce a disposizioni, criteri, prassi, atti, patti o comportamenti, che, seppur apparentemente neutri, pongono la lavoratrice o il lavoratore in una situazione di particolare svantaggio, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa e purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari (art. 25, comma 2, del Codice).
Completa il quadro sopra descritto il comma 2-bis, la cui nuova formulazione contiene disposizioni assai più ampie di quelle precedenti.
Infatti, come già suggerito in dottrina, le discriminazioni nei confronti delle lavoratrici possono realizzarsi anche mediante «criteri aggiuntivi» rispetto alla semplice appartenenza al genere femminile. Ravvisando la necessità di introdurre fattori ulteriori, parimenti meritevoli di essere valutati come motivi discriminatori, il testo attuale fa rientrare nella nozione di discriminazione ogni trattamento o modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che, in ragione del sesso, dell’età anagrafica, delle esigenze di cura personale o familiare, dello stato di gravidanza / maternità /paternità, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti, pone o può porre il lavoratore in almeno una delle seguenti condizioni: (a) svantaggio rispetto alla generalità dei lavoratori; (b) limitazione delle opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali; (c) limitazione rispetto all’avanzamento e alla progressione di carriera.
2. Onere della prova “attenuato”.
Ricordata la normativa di cui sopra, è opportuno soffermarsi su una caratteristica fondamentale dell’azione speciale individuale disciplinata dall’art. 38 del Codice delle Pari Opportunità: in questi giudizi l’onere della prova è “alleggerito” (cfr. Alberto Guariso, La tutela giurisdizionale, in La tutela antidiscriminatoria. Fonti, strumenti, interpreti, Torino, 2019). Tale principio è sancito dall’art. 40 CPO, in base al quale: “quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all'assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l'onere della prova sull'insussistenza della discriminazione.”
Infatti, la caratteristica che più caratterizza il rito antidiscriminatorio consiste nello spostamento dell’onere della prova dal ricorrente/discriminato al resistente/discriminante.
Concretamente, il ricorrente può fornire elementi di fatto desumibili anche da dati statistici (relativi ad assunzioni, retribuzione, mansioni, qualifiche, trasferimenti e progressioni di carriera e licenziamenti) purché idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti o patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l’onere della prova sull’insussistenza della discriminazione.
Tale previsione agevola in maniera sostanziale la posizione della persona discriminata, che si trova
spesso in difficoltà nel reperimento, all’interno della realtà aziendale e in una posizione non certo
paritaria rispetto al proprio datore, delle prove necessarie per la compiuta dimostrazione dell’esistenza di una condotta discriminatoria.
Non si tratta, quindi, di una vera e propria inversione dell’onere della prova bensì di una prova per presunzioni attenuata il cui assolvimento richiede il conseguimento di un grado di certezza minore rispetto a quello di cui all’art. 2729 c.c.: non è richiesto il requisito della gravità della presunzione, ma solo i caratteri della precisione e della concordanza.
Per tale ragione, nel caso in esame, la testimonianza resa dal compagno convivente della ricorrente ha una valenza probatoria importante.
Assolto l’onere della prova dal lavoratore in termini di verosimiglianza della discriminazione, è onere del datore di lavoro dimostrare la correttezza del proprio operato, ossia dedurre e provare circostanze non equivoche, idonee ad escludere, con precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della situazione denunciata. Sul punto, così si è espressa una recentissima pronuncia della Suprema Corte richiamata anche nel provvedimento di cui alla presente nota (Corte Cass., ordinanza del 03/02/2023 n.3361), in base alla quale: «in tema di comportamenti datoriali discriminatori fondati sul sesso, l’art. 40 del d.lgs. n. 198/2006 stabilisce un’attenuazione del regime probatorio ordinario in favore della parte ricorrente, la quale è tenuta solo a dimostrare una ingiustificata differenza di trattamento o anche solo una posizione di particolare svantaggio dovute al fattore di rischio tipizzato dalla legge in termini tali da integrare una presunzione discriminatoria, restando per il resto, a carico del datore di lavoro l’onere di dimostrare le circostanze inequivoche, idonee ad escludere, per precisione gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della condotta».
Il lavoratore, quindi, deve provare il fattore di rischio e il trattamento che assume meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe ma non portatori del fattore di rischio, deducendo una correlazione significativa tra questi elementi che renda plausibile la discriminazione; il datore di lavoro, dal canto suo, deve allegare e provare circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione gravità e concordanza di significato la natura discriminatoria del comportamento, in quanto dimostrative di una scelta che sarebbe stata operata con i medesimi parametri nei confronti di qualsiasi lavoratore privo del fattore di rischio che si fosse trovato nella stessa posizione.
3. Conclusioni
Sulla base dei criteri sopra enunciati il Tribunale di Milano ha accolto il ricorso presentato dalla lavoratrice madre, ritenendo provato dall’istruttoria svolta sulla base del principio di cui all’art.40 CPO l’intento discriminatorio nei confronti della ricorrente, la quale, proprio in ragione del suo stato di lavoratrice madre in congedo obbligatorio era trattata in una posizione di svantaggio rispetto agli altri dipendenti (“retribuita per ultima o addirittura non retribuita”).
Ad avviso di chi scrive, la conoscenza della normativa antidiscriminatoria e il corretto inquadramento del caso nelle ipotesi legali rispetto alle quali è possibile procedere con azioni processuali speciali caratterizzate da un evidente alleggerimento dell’onere probatorio consentono di ottenere più agevolmente ed in tempi rapidi la migliore tutela dei diritti ed interessi della lavoratrice madre; ciò con riguardo anche alle conseguenze sanzionatorie in termini di risarcimento dei danni.

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