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1. Disuguaglianze, giurisdizione e persistente questione ‘di genere’: introduzione.
I giuslavoristi conoscono il tema della discriminazione e sanno che il diritto del lavoro mira al riequilibrio di posizioni diseguali. Un tema vastissimo ed oltremodo irto di tante, troppe, questioni irrisolte. Le regole antidiscriminatorie sono parte della nostra stessa Carta Costituzionale e in particolare del suo art. 51 Cost., ma lo sono anche del diritto dell’Unione Europea e, non da ultimo, dello stesso diritto societario per effetto della legge Golfo-Mosca n.120 del 2011 per le società quotate in borsa.
Per parlare di differenza di genere occorre partire dal dettato costituzionale che ben ci consente di riflettere sul genere, ma anche di utilizzare il genere per riflettere sulla Costituzione. L’impianto della Carta Costituzionale è fortemente innovativo quanto alla ‘uguaglianza fra i sessi’. La nostra Costituzione, non va dimenticato, venne promulgata alla fine della guerra mondiale durante la quale, mentre gli uomini erano al fronte, le donne avevano permesso al Paese di andare avanti, donne cui tuttavia non erano riconosciuti diritti fondamentali. Fino alla fine della seconda guerra mondiale le donne non potevano votare, in buona parte non lavoravano o studiavano ed in famiglia erano sottoposte al marito, che dovevano seguire ed al quale erano soggette entro la famiglia patriarcale.
Il suffragio universale innegabilmente caratterizza le origini e le radici della nostra Carta costituzionale repubblicana.
Il voto ha, infatti, riconosciuto la piena cittadinanza politica delle donne, incorporando nel patto fondamentale i diritti politici delle stesse come diritti inviolabili.
Con il pieno ingresso delle donne nella sfera politica e il loro accesso nei luoghi della rappresentanza è stata resa possibile una democrazia consapevolmente declinata rispetto al genere, capace di riconoscere le differenze tra i sessi e di assumerle in modo non discriminatorio.
La presenza delle donne nelle sedi della rappresentanza permette di influenzare la produzione delle leggi, che definiscono le condizioni delle donne e degli uomini.
La nostra Costituzione nomina la differenza in termini di sesso (direttamente nel principio fondamentale dell’art. 3 Cost.) e di genere nei numerosi articoli ove riconosce una posizione differente degli uomini e delle donne rispetto al lavoro e alla famiglia (in forma esplicita, negli art. 36, 37, 31, e, più indirettamente, negli articoli 29, 48 e 51 Cost.). L’art. 51 Cost. primo comma, innovato dalla legge costituzionale 30 maggio 2003 n. 1, sancisce che cui tutti i cittadini di qualsivoglia sesso, uomini o donne che siano, possano accedere agli uffici pubblici ed alle cariche elettive in condizioni di ‘uguaglianza’, secondo i requisiti stabiliti dalla legge e significativamente prevede che “…A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”, statuizione ricondotta dalla Corte Costituzionale al principio di ‘uguaglianza sostanziale’ (cfr. C. Cost. n. 4 del 2010, infra).
In forza di tale norma sono divenute oggi, non solo ammissibili le azioni ‘positive’ in materia elettorale, ma le medesime sono state dalla Corte di fatto sollecitate per affrontare e (finalmente) risolvere la sotto-rappresentanza di genere presente nelle istituzioni democratiche.
Con la riforma costituzionale del 2003 si è voluto fare delle pari opportunità l’obiettivo, da perseguire e conseguire con l’adozione di apposite misure statali.
Non si può, poi, non accennare brevemente al fatto che la successiva giurisprudenza costituzionale ha salvato le misure antidiscriminatorie introdotte con la legge per favorire l’elezione di donne nelle Assemblee elettive od ancora ricordare le pronunce della giurisprudenza amministrativa sulla composizione delle Giunte Regionali e degli Enti Locali, decisioni tutte con cui si è consolidata l’idea che la ’assenza di donne’ dagli organi medesimi costituisca non solo un vulnus costituzionale ma anche un elemento di malfunzionamento.
L’assenza o la sotto-rappresentazione del genere femminile negli organi decisionali è infatti contraria non solo al più basilare divieto di discriminazione ma anche all’interesse stesso di quegli organi, che si vedono privati della possibilità di decidere sulla base del confronto tra sensibilità, punti di vista e modi di pensare espressivi dei ‘due’ fondamentali modi di essere della persona.
Il tema della ‘uguaglianza dei sessi’, ha ricordato il costituzionalista prof. Valerio Onida (Eguaglianza di genere in Magistratura, Pag. 26 e ss, collana di Diritto e Società openSpace, FrancoAngeliEditore 2017 file:///C:/Users/carla.lendaro/Downloads/277-99Z_Book%20Manuscript-1293-1-10-20180116%20(1).pdf): “…è bifronte: uguaglianza e differenza non significa soltanto eliminare le differenze ingiustificate, ma anche valorizzare le differenze in modo adeguato”. L’illustre studioso, dopo avere rilevato che ora la questione essenzialmente viene affrontata quanto all’accesso ai pubblici uffici ed alle cariche elettive e dunque nell’ambito dell’art. 51 Cost., ha argutamente osservato che sarebbe davvero ‘impensabile’ immaginare oggi, fra i requisiti per fare il magistrato, che possa esservi l’appartenenza al sesso maschile in quanto tale magistratura esprimerebbe una cultura maschilista e sarebbe pertanto meno adeguata alle esigenze della Società: la differenza e la complementarità fra i generi sono una risorsa e “…La rappresentanza migliore è quella che tiene conto delle differenze nel corpo che deve essere rappresentato,,,”, un CSM di soli (o quasi) uomini -come per lungo tempo è stato (infra)- non è positivo, non essendo in grado di rappresentare la ‘diversità’ del corpo della magistratura e, dunque, anche la ‘diversità di genere’.
Il tema è innegabilmente ‘politico’ inerendo al modo migliore e più completo di rappresentare il corpo della Magistratura. A rifletterci non è stato, infatti, un caso che solo per l’intervento della politica nei passati anni ottanta siano entrate a fare parte del Consiglio Superiore della Magistratura (Ombretta Fumagalli Carulli e Cecilia Assanti) e che solo nella consiliatura successiva vi sia stata la prima consigliera ‘togata’, Elena Paciotti, una donna che detiene anche un altro primato (mai più eguagliato), quello di essere diventata la prima e unica giudice ad oggi divenuta presidente dell’A.N.M. Associazione Nazionale Magistrati (cfr. infra).
Imparare a ‘riconoscere la differenza’ è un’esigenza che risponde ai bisogni della Giustizia, un fattore di funzionamento ed una risorsa del sistema.
L’uguaglianza voluta dalla Costituzione non significa tuttavia solo eliminare le differenze in modo adeguato, è altro. Involge i valori stessi della democrazia e della crescita della Società. In uno Stato democratico ‘devono’ potere partecipare uomini e donne. Ciò è già stato dal legislatore previsto con le leggi n. 215 del 23.11.2012, recante disposizioni per promuovere il riequilibrio di genere nei Consigli e nelle Giunte degli Enti Locali e nei Consigli Regionali, o nella legge n. 65 del 22.04.2014 per le elezioni del Parlamento Europeo od ancora nella legge n. 20 del 15.02.2016 sull’equilibrio della rappresentanza fra uomini e donne nei Consigli Regionali ed anche dalla Legge elettorale n. 165 del 3.11.2017, che disciplina la rappresentanze di genere nelle liste per le elezioni della Camera e del Senato.
In diverso campo, quello societario, ancora una volta per volontà della politica si sono fatti passi avanti.
Con la legge n. 120/11 è stata prevista una profonda innovazione dell’ambito societario disponendosi che gli organi delle società ‘quotate in borsa’ (ove erano in scadenza il 12 agosto 2012) fossero rinnovati per un decennio (sino al 2021) con la ‘riserva della quota di almeno un quinto dei propri membri al genere sotto rappresentato’, a tal momento le donne. L’obiettivo perseguito dal legislatore con tale significativa ‘misura positiva’ di riequilibrio è di consentire, per tale via, di potere dimostrare da parte del ‘genere’ meno rappresentato di possedere, non solo la conoscenza della materia e dell’ambito settoriale, ma soprattutto l’attitudine (la quale, come sappiamo, si può verificare unicamente ‘sul campo’, dunque proprio dove le donne sino ad allora erano estraniate). Il legislatore volutamente lo ha fatto permettendo, anzi imponendo, alle donne di entrare a fare parte dei Consigli di Amministrazione e di assumerne le responsabilità per affermare le proprie competenze. La sua ‘scommessa’ è stata quella che, al termine del decennio, nel nostro Paese si sarebbe stati in grado di contribuire alla creazione di valore e non si sarebbe avuto più bisogno di una legge per superare il tema del ‘genere’, essendo divenuto usuale candidare alle cariche sociali delle società semplicemente coloro che avessero le caratteristiche più adeguate per il ruolo da rivestire, indipendentemente dall’essere essi uomo o donna. Il cambiamento auspicato dal legislatore vi è stato. In questi otto anni la presenza femminile nei CdA è passata dalla percentuale dell’8% di presenze del 2009 a quella del 36% (dati aggiornati a giugno 2018), dunque uno su tre (una donna e tre uomini) ma tuttavia non vi è stato ancora l’effetto volano sperato. E’ mancata analoga espansione di presenze femminili nelle società ‘non quotate’ e sono ancora poche le società ‘quotate’ ove la presenza numerica delle donne sia divenuta superiore al ‘minimo’ imposto dalla legge Golfo-Mosca, soprattutto sono pochissime le presenze femminili nei ‘board’ esecutivi delle società quotate (solo l’11,9% nel 2019) ed è oggettivamente risibile il loro numero nelle posizioni di vertice (e ciò a prescindere dal considerare il gravissimo forte ‘gap’ salariale esistente, che è stato posto in luce da recenti ed autorevoli ricerche di settore, ricordate, di recente, anche dalla stampa nazionale https://www.repubblica.it/economia/miojob/lavoro/2019/11/07/news/lavoro_gender_gap-240287711 , come già in precedenza nel 2018 in https://www.hr-link.it/borsa-le-donne-in-cda-pagate-sei-volte-di-meno/, e che ha fatto concludere l’Executive Compensation Outlook 2019, studio che analizza i compensi degli executive-manager e dei membri Board di società quotate in Borsa Italiana e realizzato da Badenoch + Clark Executive in collaborazione con l'Osservatorio JobPricing, che: "…Nonostante la crescita della presenza femminile nei board, in termini retributivi è ancora enorme il gender gap" https://www.badenochandclark.com/it-it/salary-guide/executive-compensation-outlook-2018/).
Il cammino delle donne è sempre stato caratterizzato da passi avanti e passi indietro, avanzando poi nonostante difficoltà od anche periodi di stasi. Un recente esempio è quanto intervenuto in ottobre 2019 in Friuli Venezia Giulia con la mancata introduzione (come già in passato avvenuto ben altre due volte) nella legge elettorale regionale FVG del ‘doppio voto di genere’ (di fatto, una ‘mera’ chance), che è presente nelle leggi regionali della stragrande maggioranza delle Regioni italiane (salvo quattro), con rinvio per il riesame della questione a lungo termine, a quasi un anno, nell’estate 2020 assieme alla ipotizzata revisione dell’intera legge elettorale FVG. L’opposizione all’introduzione è avvenuta con motivazioni stereotipate, anche di alcune delle elette in Consiglio Regionale FVG (complessivamente sei su quarantasette componenti, circa il 15%), che hanno espresso ferma contrarietà all’introduzione di tale misura positiva reputandola non necessaria o comunque non voluta dalle donne, nonostante le autorevoli difformi dichiarazioni pubbliche di tantissime note figure femminili locali, del mondo dell’accademia e dell’imprenditoria, ovvero di associazioni e delle stesse rappresentanti dei CPO regionale o di quello comunale triestino.
Le donne devono ‘esserci’ per potere ‘fare’. Debbono certamente possedere qualità e professionalità ma debbono imparare anche a ‘fare squadra’ ed a lavorare assieme ‘in rete’, come sanno fare i componenti dell’opposto genere.
Il cammino delle donne comunque continuerà come già avvenuto n Europa, ove il superamento delle diseguaglianze ha raggiunto buoni livelli di avanzamento.
Secondo il Trattato dell’Unione Europea (art. 157TFUE ed anche art. 23 Carta Dir. Fondamentali), infatti, la ‘uguaglianza tra i generi’ era l’obiettivo da perseguire da gli Stati membri e dagli stessi attuare con l’adozione di ogni possibile strumento di ‘riequilibrio’. Nel 2000 il Parlamento Europeo (risoluzione B5-0180) ha sollecitato tutti gli Stati membri ad adoperarsi attivamente per conseguire una più equa presenza di donne e uomini in ogni istituzione indicando, quale sua minimale misura necessaria, quella di ‘almeno un terzo’ di donne presenti negli organismi istituzionali, affermando inoltre che la sotto-rappresentanza femminile nei settori chiave poteva essere riequilibrata con l’introduzione di ‘quote’ quali misura transitoria per conseguire lo scopo. Non a caso il successivo 12 marzo 2003 il Comitato del Consiglio dei Ministri della Consiglio di Europa, nella “Recomandation on balanced partecipation of women and men in political and public decision-making” (cfr. Recomandation Rec(2003)3 ), ha invitato tutti gli Stati dell’Unione a raggiungere il 40 % di partecipazione femminile ‘anche’ con l’introduzione di specifiche misure ‘…volte a stimolare e sostenere la partecipazione femminile ai processi decisionali in ambito politico e pubblico’, esortandoli a riconoscere pubblicamente che la promozione dell’equilibrata ‘rappresentanza di donne e uomini’, oltre che di età e background diversi, rafforza ed arricchisce la democrazia.
In seguito, nella Comunicazione del Parlamento Europeo 21.10.2010, intitolata ‘Strategie per la parità tra uomini e donne per il periodo 2010-2015’, sono stati ribaditi i punti altresì affermati alla Conferenza Mondiale delle Donne di Pechino del 1995 quanto alle misure di accesso alle strutture di potere, processi decisionali e ruoli dirigenziali (punti G1-G2). I risultati conseguiti in quindici anni per effetto di questi incisivi interventi sono riportati nel rapporto 2017 Gender Equality della CommissioneConsiglioEuropeo(https://eeas.europa.eu/sites/eeas/files/2017_report_equality_women_men_in_the_eu_en.pdf ).
Per quanto qui di interesse emerge dalla lettura del rapporto che nella Magistratura europea solamente in pochi Stati è stato raggiunto lo standard minimo ipotizzato del 40% che era stato auspicato e che la ‘media’ europea dei Paesi-Membri si attesta su livelli più bassi: del 33% nelle Corti Supreme; del 28% negli organi di Autogoverno e del 51% negli uffici di primo grado. Un dato che fa riflettere. Si consideri che in Italia, seppure le magistrate siano oggi più della metà della Magistratura essendo ora il 53,8% (n.5189 su 9612), nondimeno la presenza delle giudici è circa del 30% di presenze in Cassazione a cinquanta dall’ingresso in Magistratura nel 1963. Ed ancora che nella Suprema Corte nessuna donna è mai stata nominata Primo Presidente o Presidente Aggiunto ed ancora che solo il 5% delle magistrate è stata eletta a comporre il Consiglio Superiore della Magistratura (infra). Un dato oggettivo che rende evidente il persistere della questione ‘di genere’ in Magistratura.

 

2. Pregiudizio e sottorappresentazione di genere: un breve viaggio nella storia e nel tempo.
Sono arcaiche, millenarie, le ragioni della resistenza alla presenza femminile e della diffusa sotto-rappresentazione delle donne.
Vi sono stati molti e diversi percorsi teorici di studi per analizzarne le cause e, tra essi, l’approfondito ed attento pensiero delle donne. Lo spazio di questo articolo non consente l’approfondimento del tema se non per brevi pennellate (rimandando, quanti lo volessero, ad esempio agli scritti di Adriana Cavarero Per una teoria della differenza sessuale, Diotima-Il pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano 1987 o L'ordine dell'uno non è l'ordine del due, Il genere della rappresentanza, a cura di M.L. Boccia e I. Peretti, Editori Riuniti, Roma 1988).
E’ in generale molto difficile scardinare qualsivoglia pre-giudizio ma è ancora più difficile farlo quando più a lungo si è permesso ad esso di sedimentare il ‘luogo comune’ nella mentalità collettiva.
L'esclusione delle donne è stata la dis-uguaglianza più antica e duratura mai esistita e, paradossalmente, è avvenuta in forma palese, mai celata.
Nel diritto, legislatori e giuristi, hanno costantemente posto attenzione e rilievo alla figura femminile nella società per governarne saldamente la presenza e perpetrare l’assetto sociale attuato. Non si è mai ignorata l'esistenza di due generi ma, nel tempo, sono state imposte regole rigide, volte alla tutela ed al mantenimento della struttura patriarcale. Il modello di femminilità imposto come normale, cui era giusto che le donne si conformassero, è stato così per secoli il ‘modello materno’.
La donna, prima di ogni altra cosa, era ‘madre’ ed il suo destino era e doveva essere solo la maternità.
La discriminazione contro le donne inoltre si è accompagnata, sin dai tempi più antichi, al diffuso pre-giudizio dell’essere la donna naturalmente inferiore all’uomo, che si è sedimentato nella mentalità collettiva.
E’ stato così a lungo usuale (e sufficiente) il richiamare la ‘sapienza antica’, quella dei giureconsulti romani e dei Padri della Chiesa, ogniqualvolta che si affrontava la questione della 'incapacità’ del sesso femminile od occorreva motivare le ragioni della esclusione delle donne.
Tutto ciò si è consolidato nel tempo, talora irrigidendosi, fatto facile in un mondo che era rappresentato da un ‘unico’ sesso, perlomeno fino a quando le donne non hanno cominciato … ad entrare a farne parte. Ad esservi partecipi.
La discriminazione della donna dagli pubblici uffici è affermata da Ulpiano nel Digesto: “Feminae ab omnibus officiis civilibus vel publicis remotae sunt et ideo nec iudices esse possunt nec magistratum gerere nec postulare nec pro alio intervenire nec procuratores existere” (D. 50, 17, 2). Cicerone parlava di “imbecillitas animi ecfeminati” e Valerio Massimo di “imbecillitas mentis” (Fact. dict. mem. IX,1,3). Aristotele teorizzava la ‘inferiorità’, non solo fisica, ed anche psichica dell’intero universo femminile affermando che le donne “…sono per natura più deboli e più fredde, e si deve supporre che la natura femminile sia come una menomazione” (Aristotele, De gen. anim.: 775a, 15-16) e dovevano restare confinate in ambito domestico, essendo tragico assumessero ruoli di comando e fosse loro riconosciuta ‘autonomia’. Platone, a sua volta, affermava nel Timeo (90e – 91a) che la donna era frutto di un processo di corruzione e degenerazione dell’essere umano e che “…solo i maschi sono creati direttamente dagli dei e sono forniti di anima. Coloro che vivono in rettitudine ritornano in cielo, ma coloro che sono 'vili' o vivono da malvagi si può con ragione supporre trasformino la loro natura in quella di donna in una seconda generazione...”. Tra i Padri della Chiesa, S.Tommaso D’Aquino nella Summa Theologica, a sua volta, riteneva la donna ‘un maschio fallito’, essendo l’uomo l’essere perfetto cui tende la natura, come altresì similmente affermato da S. Agostino e dalla letteratura canonistica (per l’approfondimento tematico si veda, per iniziare, l’incisiva recensione di M.T. Guerra Medici al libro di G. Minucci Sulla capacità processuale della donna nel pensiero canonistico, in Studi Senesi, CIII, I, 1991, pp.170-174). Nonostante il passare dei secoli anche in epoca più recente i diritti hanno continuato ad essere declinati solo al maschile. Si deve arrivare al 1791 e ad Olympe de Giuges perché cominciassero ad emergere voci diverse. Sull’onda della rivoluzione francese e dei principi di libertà e di uguaglianza che vi si accompagnavano Olympe de Giuges, con ardore, modificò ‘in chiave di genere’ la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino scrivendo, in luogo dell’art. 1 (“Gli uomini nascono e rimangono liberi nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune”) che: “Le donne nascono libere e rimangono uguali all’uomo nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune” e poi, nel post-scriptum, ha invitato le donne a ‘superare le barriere’ contro cui si scontravano ed a riflettere ‘…che era in loro potere superarle’ e che ‘…dovevano farlo anche per il progresso della società’. Nella Dichiarazione ancora lucidamente affermava che la ‘…rivoluzione avrà effetto solo quando tutte le donne diventeranno pienamente consapevoli della loro deplorevole condizione, dei diritti che hanno perso nella società…’, una piena consapevolezza del tutto non raggiunta neppure in questo nuovo millennio, oltre duecento anni dopo. Venne ghigliottinata tre anni dopo (quando salì al potere Robespierre ed iniziò il periodo del ‘terrore’) ma le sue parole non sono state dimenticate: sono parte della storia, non solo di quella delle donne.
Il tempo lentamente ha continuato a scorrere.
Nel 1848 venne promulgato lo Statuto Albertino (rimasto in vigore per quasi un secolo) il cui art. 24, che in apparenza affermava l’eguaglianza formale di ognuno nei diritti civili e politici, all’ultimo paragrafo nascondeva la disparità nello statuire: “…salve le eccezioni determinate dalle leggi”, ovviamente quella delle donne. Decenni dopo la Commissione Zanardelli ‘Per la Riforma della legge elettorale del 1880”, pur riconoscendo il valore della petizione di Anna Maria Mozzoni e la legittimità giuridica della sua richiesta del ‘voto’ alle donne, ha rigettato nuovamente limitandosi a ribadire l’inopportunità del suffragio femminile per la “…speciale missione domestica della donna” e le sue “…naturali virtù (tenerezza e passionalità, sentimento e generosità) incompatibili con i forti doveri razionali della vita civica”, dunque con espressioni mutuate dalla già ricordata ‘sapienza antica’. Il diritto di voto non venne riconosciuto a cagione di tale ‘indiretta’ esclusione. Un fatto questo che emblematicamente emerge dalla storia processuale delle dieci maestrine marchigiane, che agirono in giudizio per vedersi riconoscere tale diritto (ottenendo una pronuncia favorevole in primo e secondo grado). La Corte di Appello di Ancona infatti, con sentenza del 25.6.1906 (rel. L. Mortara), ritenne infondato l’appello del Procuratore del Re presso il Tribunale di Ancona che aveva impugnato la delibera di loro ‘iscrizione nelle liste elettorali’ affermando che i regnicoli -quali allora eravamo- erano tutti uguali di fronte alla legge e godevano di diritto elettorale, un diritto politico spettava ‘in difetto di espressa eccezione’, la quale non poteva essere desunta dal mero silenzio della legge ma necessitava che il legislatore lo avesse espressamente sancito (come era avvenuto nel caso dell’interdizione al voto amministrativo previsto dall’art. 26 della legge n.2248 del 1865 e dall’art. 22 del R.D. n. 164 del 1898). Tale avvenieristica decisione venne cassata dalla Suprema Corte con la sentenza del 4-15.12.1906 che affermò invece che il ‘diritto di elettorato delle donne’ trovava ostacolo nelle ‘eccezioni’ dettate dalla legge e di cui parlava proprio l'art. 24 dello Statuto Albertino, una norma che comprendeva, oltre a quanto espressamente disposto, anche ‘quanto desumibile’ dalle regole fondanti la legislazione in materia di pubblico diritto, per cui era necessario uno ‘specifico intervento legislativo’ per rimuovere l’ostacolo al diritto di voto sussistendo l’esclusione in forza del principio presupposto “…dell’estraneità delle donne a qualsiasi carica e funzione attinente alla vita politica dello Stato”, principio tanto forte che “… non si è sentito neppure il bisogno di dichiararlo espressamente”. Per quei giudici, per quei colleghi, la differenza tra donne e uomini esisteva dunque “in natura” così come un millennio e oltre prima avevano affermato gli antichi giuristi, uno stereotipo che si continuava ad avallare.
Nel 1912, all’esito di altro similare dibattito parlamentare, la richiesta di ‘voto’ alle donne nuovamente venne respinta.
Solamente nel 1946, alla fine della seconda guerra mondiale, tale fondamentale diritto venne riconosciuto.
L’esclusione nel diritto del ‘femminile’ e la sua sussunzione nell'universale ‘uomo ha precluso alle donne nel tempo una larga sfera di poteri, prima di tutto quello politico, grazie alla definizione e disegno sul maschile dei diritti fondamentali dell'individuo.
Conoscere le disuguaglianze significa riconoscerle, tenerne conto nella nostra quotidiana attività di tutela dei diritti di tutte e tutti e, da ultimo, finalmente superarle.

 

3. Donne e magistratura. L’accesso.
Quindici anni dopo l'entrata in vigore della Costituzione venne affermato il principio di ‘uguaglianza’ fra i sessi nell'accesso in Magistratura e cadde l’esclusione ‘per genere’, che era stata sino ad allora in essere.
In precedenza, infatti, la legge 17 luglio 1919 n. 1176 riconosceva la ‘capacità giuridica della donna’ ad esercitare professioni e impieghi pubblici ma non la giurisdizione, così statuendo: “Le donne sono ammesse, al pari degli uomini, ad esercitare tutte le professioni e a coprire tutti gli impieghi pubblici esclusi soltanto … quelli che implicano poteri pubblici giurisdizionali o l’esercizio di diritti e di potestà politiche, o che attengono alla difesa militare dello Stato…”.
Nel successivo ventennio fascista i requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie furono individuati ancora più restrittivamente dall’art.8 dell'Ordinamento Giudiziario del 1941, nel dovere essere il giudice:“…cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al P.N.F.".
In sede di Costituente il dibattito sull’ingresso alle donne in Magistratura fu acceso. L'ipotizzato art. 98 (divenuto art. 106) della Carta costituzionale in elaborazione, al primo comma, disponeva che le nomine dei magistrati dovevano avere luogo ‘per concorso’ e poi inizialmente prevedeva al secondo comma che: ‘Possono essere nominate anche le donne nei casi previsti dall'ordinamento giudiziario’. Riportava, dunque, un criterio oggettivo cin la necessità del ‘concorso’ per l’ingresso in Magistratura, che sul piano formale eliminava qualsiasi discriminazione tra sessi, ma ancora una volta celava la discriminazione nella sua seconda parte, prevedendo che la nomina delle magistrate sarebbe stata possibile ‘solo’ nei casi previsti dall'ordinamento giudiziario, disposizione palesemente limitativa per le donne.
Le nostre 21 Madri Costituenti, nonostante il loro risibile numero e diversa provenienza politica, sociale, geografica e culturale, riuscirono a fronteggiare i ben 556 Padri Costituenti (il 95% dei partecipanti alla Costituente).
Ottennero un risultato straordinario lavorando trasversalmente, unite e coese: la definitiva espunzione del secondo comma dell’articolo 106 Cost., avendo con lungimiranza compreso che sarebbe bastata l’applicazione dell’art. 51 Cost. a garantire il diritto all’accesso per le donne in Magistratura e che tale mancata previsione nella Carta Costituzionale, peraltro, avrebbe evitato alle donne l’esclusione da talune funzioni giurisdizionali in base al comma controverso (come desumibile dall’intervento di G. Leone, cfr. www.nascitacostituzione.it/05appendici/06p2/04p2t/04/08index.htm?018.htm&2), verosimilmente quelle più prestigiose .
Le parole alla Costituente della on. Federici sono state memorabili nel rimarcare il fatto che tale secondo comma prevedeva delle innegabili restrizioni per le donne e che il ricorso alle ‘attitudini’ mostrava fragilità ed immotivata fondatezza in quanto solo con il lavoro e con l'esercizio della professione la donna avrebbe potuto dimostrare se le aspettative attitudinarie nella giurisdizione sussistevano oppure meno, parole cui si contrapposero quelle di molti Costituenti (anche insigni giuristi) che utilizzarono, ancora una volta, stereotipi e noti (arcaici) pregiudizi ‘di genere’ richiamando a supporto la ‘sapienza antica’, parole quali: “…solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni…”; o “…La donna deve rimanere la regina della casa…”; o “…Con tutto il rispetto per la capacità intellettiva della donna, ho l’impressione che essa non sia indicata per la difficile arte del giudicare. Questa richiede grande equilibrio e alle volte l’equilibrio difetta per ragioni anche fisiologiche…”; o “…impossibile parificare i sessi perché … nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento…”; od infine che “…già nel diritto romano…che la donna, in determinati periodi della vita, non ha piena capacità di lavoro…”. Il 26 novembre 1947 la on. Federici, incisivamente e con ardore, quasi sfidandoli, a tutti così rispose: “…facciamo la prova, vediamo se la donna è veramente in grado di coprire le cariche che sono inerenti all’alto esercizio della magistratura. A tutto quanto si è detto, io potrei rispondere che una raffinata sensibilità, una pronta intuizione, un cuore più sensibile alle sofferenze umane e un’esperienza maggiore del dolore non sono requisiti che possono nuocere, sono requisii preziosi che possono agevolare l’amministrazione della giustizia. Potrei rispondere che le donne avranno la possibilità di fare rilevare attraverso un lungo tirocinio la loro capacità; saranno sottomesse e sottoposte ai concorsi e a una rigida selezione. Le donne che si presenteranno a chiedere di salire i gradi della magistratura devono avere in partenza (e li avranno) i requisiti che possono dare loro una certa garanzia di successo..’ (https://www.nascitacostituzione.it/05appendici/06p2/04p2t4/04/08/index.htm?018.htm&2 ).
Dopo un decennio di stasi la legge 27 dicembre 1956 n. 1441 permise alle donne di fare parte di collegi di Corte di Assise ma ci volle ancora quasi un altro decennio perché alle donne fosse consentito l’ingresso nella Magistratura.
La Corte Costituzionale, a fine anni cinquanta, dapprima riconobbe con la sentenza n. 56 del 1958 la costituzionalità dell’art. 7 legge n. 1176 del 1919 affermando che occorreva “… tener conto, nell’interesse dei pubblici servizi, delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purchè non fosse infranto il canone fondamentale dell’ eguaglianza giuridica…” ma in seguito (pronunciando nel caso di una laureata in scienze politiche, Rosanna Oliva de Conciliis, esclusa dal concorso per ‘prefetto’) dichiarò con la sentenza n. 33 del 1960 parzialmente illegittimo l'art. 7 laddove “…escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l'esercizio di diritti e di potestà politiche”.
Il Parlamento, con la legge 9.2.1963 n. 66, finalmente abrogò la legge del 1919 e statuì: ‘Art. 1. La donna può accedere a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la Magistratura, nei vari ruoli, carriere e categorie, senza limitazione di mansioni e di svolgimento della carriera, salvi i requisiti stabiliti dalla legge. L’arruolamento della donna nelle forze armate e nei corpi speciali è regolato da leggi particolari. Art. 2. La legge 17 luglio 1919, n. 1176, il successivo regolamento approvato con regio decreto 4 gennaio 1920, n. 39 ed ogni altra disposizione incompatibile con la presente legge sono abrogati’, così permettendo alle donne di accedere a ‘tutte’ le cariche, professioni ed impieghi pubblici, nei vari ruoli e carriere e categorie previste, senza limitazioni di mansioni e di svolgimento della carriera.
Il primo concorso per l’accesso in magistratura aperto alle donne venne bandito il 3 maggio 1963 e fu vinto da ben otto colleghe (una arrivò addirittura ‘seconda’), questi i loro nomi: Graziana Calcagno Pini, Emilia Capelli, Raffaella D’Antonio, Giulia De Marco, Letizia De Martino, Annunziata Izzo, Ada Lepore, Gabriella Luccioli.
Le prime otto magistrate entrarono in servizio il 5 aprile 1965.
L’ingresso della donna in Magistratura è stato uno strumento di civiltà giuridica avendo eliminato una situazione di ingiustificata, inaccettabile, discriminazione di genere ed è stato anche strumento d’innovazione dell’esercizio della giurisdizione.

4. Donne e Magistratura, i primi anni e la crescita sino ad essere oggi le giudici oltre la metà.
L’ingresso per le donne in Magistratura, in un mondo che sino ad allora era stato maschile, non è stato di certo facile.
Larga parte della Magistratura era contraria ed erano forti i pre-giudizi, radicati i luoghi comuni talora pur celati sotto un’apparente gentilezza o garbata galanteria o paternalismo, più rari furono gli atteggiamenti di talvolta freddezza o di aperta disapprovazione.
Per comprendere quale poteva essere la situazione aiuta ricordare che, solo pochi anni prima del 1963, era stato nel 1957 pubblicato un libercolo di successo di appena settanta pagine, intitolato La donna giudice ovverosia la grazia contro la giustizia, ove l’autore Eutimio Ranelletti, presidente onorario Corte di Cassazione, sosteneva che la donna ‘…è fatua, è leggera, è superficiale, emotiva, passionale, impulsiva, testardetta anzichenò, approssimativa sempre, negata quasi sempre alla logica e quindi inadatta a valutare obiettivamente, serenamente saggiamente, nella loro giusta portata, i delitti e i deliquenti’, parole stereotipate sull’onda della ricordata ‘sapienza antica’. Una consolidata tradizione di pensiero ben difficile da rimuovere.
Nel 1965, al loro accesso in magistratura, le donne giudice erano solo lo 0,14 % su n.5647 magistrati in servizio.
Giulia De Marco, una delle prime otto valorose magistrate, in occasione del convegno sui cinquanta anni dell’ingresso della donna in Magistratura (http://www.donnemagistrato.it/home/dettaglio/associativa/Nazionale/50anni/programma.htm), ha ricordato: “Qual’era la condizione femminile nell’ Italia del 1965? Di soggezione sia all’interno dello Stato che all’interno della famiglia …. Come venimmo accolte noi otto giovanissime donne in questo mondo maschile e maschilista? Con benevola tolleranza dai magistrati anziani che ci trattavano alla stregua di figlie un po’ ribelli; con un certo fastidio dai colleghi coetanei che ci vivevano come potenziali rivali, avendo conosciuto sui banchi di scuola la nostra determinazione, la nostra intelligenza, la nostra capacità di impegno; con un certo sospetto dagli avvocati per i quali rappresentavamo un’assoluta incognita. In concomitanza del nostro arrivo in magistratura, infatti, alcuni media avevano ricordato l’acceso dibattito svoltosi all’interno della Assemblea Costituente dove alcuni senatori e deputati si erano esibiti , per nascondere il loro pregiudizio verso le donne, in una serie di argomentazioni pseudo scientifiche : alcuni si erano richiamati a Charcot e alla sua teoria sull’isteria, altri avevano sostenuto che nelle donne prevale il sentimento sul raziocinio per cui erano idonee al lavoro giudiziario in cui la razionalità è il principio cardine, altri avevano affermato che in determinati periodi del mese la funzione intellettuale delle donne è offuscata, altri infine ,con molta supponenza, avevano dichiarato che le donne non potevano essere magistrati perché “mancano di temperamento, di forza d’animo, di fermezza di carattere , di resistenza fisica”. Ebbene, in 50 anni abbiamo dimostrato quanto quelle obiezioni fossero infondate, frutto solo di un malcelato maschilismo…”(http://www.donnemagistrato.it/home/dettaglio/associativa/Nazionale/50anni/interventi/DE%20MARCO.pdf) ed a sua volta Gabriella Luccioli “Ero molto giovane e priva di ogni esperienza professionale … Mi trovai, unica donna vincitrice nel distretto di Roma, dapprima al centro dell’ attenzione dei media, che per qualche tempo fecero di me un fenomeno da esibire, e poi, dopo l’ entrata in servizio, oggetto di curiosità da parte dei colleghi e del foro. La mia prima destinazione dopo il conferimento delle funzioni fu il Tribunale di Montepulciano: lì trovai un foro civilissimo, che non mostrò alcuna difficoltà ad interloquire con una donna magistrato. Forse più difficile fu il rapporto con i colleghi, non sempre disponibili, spesso proprio i più giovani, ad un rapporto paritario con una donna.. Tornai a Roma…da allora fu tutto più facile. Certo, ho il ricordo di piccole discriminazioni, di alcuni sgarbi, di diffidenze più o meno manifeste, di certi atteggiamenti paternalistici chiaramente stridenti con il modello paritario, ma è decisamente prevalente la memoria delle tante manifestazioni di apprezzamento, di disponibilità rivoltemi da capi e da colleghi..”(http://www.donnemagistrato.it/home/dettaglio/associativa/Nazionale/50anni/interventi/Luccioli.pdf) .
Il prezzo pagato dalle donne per la loro ammissione è stato quello di dimostrare di essere ‘brave’ quanto gli uomini, ‘efficienti’ quanto gli uomini, ‘simili’ il più possibile agli uomini, come ricordato tante volte ancora da Gabriella Luccioli.
Un prezzo pagato, dunque, talora omologandosi al modello maschile ovvero rendendosi poco visibili (come desumibile dal fatto, oggi quasi incredibile, che non vi sono foto che le ritraggano assieme, mai scattata) od anche colpevolizzandosi per la durata dei tempi della gravidanza e della maternità, vissuti come tempi sottratti all’attività professionale, lontano da uffici ove quanto più rapidamente possibile si cercava di rientrare (tra esse, io stessa, diversi decenni dopo e molte altre ancora).
A venti anni dal loro ingresso in Magistratura, negli anni ’90, oramai le donne giudice esercitavano in primo grado ogni funzione.
Nel 2015 hanno superato la metà della magistratura.
Oggi sono il 53,8% (n.5189 su n.9612) e hanno una età media di 47 anni, che è inferiore di cinque anni rispetto a quella degli uomini.
Negli ultimi tre concorsi, va detto ancora, le vincitrici sono state il 65%.
Il sorpasso femminile è da tempo un risultato consolidato, trentennale, risalendo al lontano concorso del 1987 ove accadde che le vincitrici fossero n.156 su n.300 vincitori del concorso in Magistratura.
Qualche ulteriore dato.
Le magistrate ‘direttive’ e ‘semidirettive’ ad inizio ‘90 erano appena il 2%, un numero che è cresciuto e cresce molto lentamente.
Nel 2013, dopo ulteriori venti anni, erano solo il 17% negli incarichi ‘direttivi’ ed il 28% in quelli ‘semidirettivi’.
Nel 2018, su n. 434 ruoli ‘direttivi’ gli uffici ricoperti dalle magistrate, erano appena il 27% a fronte del 73% di quelli ricoperti da magistrati (tre capi uffici su quattro, erano uomini), molto raramente in sedi grosse e prestigiose, più spesso in piccoli-medi uffici o in ambiti specializzati, nella specie il 57% in Tribunali di Sorveglianza e il 42% in Tribunali per i Minorenni.
Nel 2018 le colleghe con incarichi ‘semidirettivi’ erano il 38% su n.690 ruoli (circa una su tre).
Una situazione peggiore negli uffici ‘requirenti’ ove solo al 20% delle donne ricoprono incarichi direttivi (di cui il 13% nelle Procure della Repubblica ed il residuo nelle Procure della Repubblica per i Minorenni, ove percentualmente sono invece il 64% del totale): un fatto che è stato rimarcato anche dal precedente Ministro della Giustizia (http://webtv.camera.it/evento/11493) .
Nessuna donna nel tempo ha mai raggiunto i vertici dell’ordinamento giudiziario e ricopre (od ha ricoperto) il ruolo di primo presidente della Corte di Cassazione o di procuratore generale presso la Corte di Cassazione (ove ancora, solo pochi giorni fa, è stato nominato nuovamente un uomo) o di procuratore nazionale Antimafia.
Si dice frequentemente (ed enfaticamente) nei vari convegni o durante i dibattiti e lo si scrive anche nelle diverse chat o mailing-list che nelle ultime due consiliature del C.S.M. vi sia stato un significativo incremento nel conferimento di incarichi direttivi e semidirettivi alle magistrate e, in particolare, si afferma ancora che ciò è avvenuto grazie al T.U. Dirigenza introdotto il 28 luglio 2015.
Personalmente ritengo che l’incremento delle nomine degli incarichi direttivi e semidirettivi alle magistrate sarebbe comunque avvenuto e che, anzi, forse sarebbe avvenuto in numero maggiore con la regola della c.d. anzianità ‘senza demerito’, avendo nel 2015 le magistrate da tempo raggiunto rilevante anzianità di servizio, come allora era necessario. Negli anni ’70 le magistrate erano circa duecento ma alla fine degli anni ’80 erano divenute oltre mille (erano il 38% a fronte del 62% di uomini). Tutte le giudici di quei concorsi, tante, avevano una anzianità che avrebbe permesso loro di concorrere a pieno titolo e buone ‘chances’ con il ricordato vecchio sistema. Colleghe con (quantomeno) trentennale anzianità professionale ed età tra i cinquanta e sessanta anni. Un’intera generazione di magistrate con ‘effettiva e concreta aspettativa’ di potere ottenere incarichi apicali o semi-apicali che, raggiunta l’anzianità necessaria, si videro all’improvviso precluso lo ‘step’ professionale per l’innovazione delle regole per il conferimento degli incarichi, che ora discrezionalmente valorizzava altri indici ed elementi. In molte sono rimaste danneggiate dalle disposizioni repentinamente introdotte dal T.U. Dirigenza non avendo potuto per tempo conseguire quelle deleghe divenute necessarie o svolgere quegli incarichi cui tanto rilievo venne dato, accumulando così le ‘medagliette’ (come in A.D.M.I., da subito, le chiamammo) divenute indispensabili per la valorizzazione dei profili nelle comparazioni tra aspiranti. Il T.U. Dirigenza, peraltro, danneggerà, le aspettative anche delle più giovani colleghe, posto che molte di esse non avranno comunque la possibilità di svolgere quei compiti aggiuntivi oggetto delle (preziose) deleghe, lavorando spesso in sedi medio-piccole e lontane dalla residenza e famiglia d’origine, colleghe inoltre con difficile mobilità per il peso della cura domestica, dell’accudimento di figli e anziani (questione subito sollevata da A.D.M.I. mentre ancora il T.U. era in fase di elaborazione nella primavera-estate 2015, che scrisse al Presidente della Repubblica, quale Presidente del CSM, http://www.donnemagistrato.it/home/dettaglio/associativa/Nazionale/TU_Dirigenza.pdf ).
Qualche altro dato.
Sino al febbraio 2012 nell’A.N.M. Associazione Nazionale Magistrati non sono state elette più di n. 5 donne su n.36 componenti.
Una sola donna, ad oggi, ne è stata eletta sua presidente (Elena Paciotti).
Solamente dopo le importanti modifiche statutarie del 2012 e dopo l’introduzione delle quote di risultato del 30% vi è stato in ANM un rilevante cambiamento: il suo C.D.C. Comitato direttivo Centrale ora è composto da n.14 colleghe a fronte di n. 36 componenti (ma nondimeno nessuna di loro ha avuto poi l’incarico di presidente o di segretario, neppure nell’alternanza introdotta dalle turnazioni annuali…nonostante l’indubbia loro capacità ed esperienza associazionistica).

5. Il Consiglio Superiore della Magistratura e la sottorapresentanza di genere
Dall’ingresso in magistratura nel 1965 ci sono voluti 27 anni prima che l’organo di Autogoverno acquisisse consapevolezza dell’esistenza di una ‘questione femminile’ all’interno della Magistratura.
La risposta del C.S.M. a fronte di questa ‘nuova’ consapevolezza è stata nel 1992 l’istituzione del C.P.O.M., alla cui nascita l’A.D.M.I. ha dato un forte contributo. L’introduzione dello strumento, una misura positiva volta a rimuovere la discriminazione ‘indiretta’, ha reso palese la (sotterranea) esistenza della questione, disvelandola.
Un momento indubbiamente significativo dell’attività del Consiglio Superiore della Magistratura, cui è seguita nel tempo la costituzione di C.P.O. presso i Consigli Giudiziari di ogni Corte di Appello ed anche in Corte di Cassazione (di cui la nostra associazione è una stabile componente).
Nel 2000 venne poi istituita una Commissione Pari Opportunità anche nella Associazione Nazionale Magistrati. Nel corso del successivo Convegno della C.P.O.-A.N.M. del 28.5.2010 si è attentamente osservato che lo stato dei rapporti dei diversi C.P.O. con i Consigli Giudiziari e con i dirigenti degli uffici è ‘cartina di tornasole’, non sempre trasparente e brillante, delle pratiche della non-discriminazione di genere: tanto nei progetti tabellari che nella organizzazione concreta del lavoro degli uffici od ancora nella formazione professionale, infine nella diffusione tra gli operatori del diritto della cultura stessa della parità di genere, un aspetto oltremodo rilevante.
Non sono nondimeno ancora definitivamente superati pregiudizi e stereotipi e personalmente credo, come già detto in altre occasioni, che nel nostro Paese non sia stato ancora raggiunto ciò che in altri paesi è invece un dato culturalmente acquisito oramai da tempo: la consapevolezza che il valore del “genere femminile” è una ricchezza in termini di capitale umano, ma anche un patrimonio ed un investimento.
Nella Magistratura, tuttora, la qualità delle giudici non è pienamente riconosciuta, lo confermano i dati 2017 della Gender Equality Commission del Consiglio di Europa (cfr. supra).
Ma è facile desumerlo anche da altri.
La Corte Costituzionale Italiana, per legge, è composta di quindici giudici, nominati per un terzo dal Presidente della Repubblica, per un terzo dal Parlamento in seduta comune e per un terzo dalle supreme magistrature ordinaria e amministrative (art. 135, primo comma, Cost.). Attualmente vi sono in Corte Costituzionale solo tre donne su 15 giudici. Complessivamente, dal nascere della Corte, le donne sono state solo cinque su 106 giudici nominati in sessanta anni (4 nominate dal presidente repubblica e una dal parlamento). Il 5% circa. Nessuna donna ha mai presieduto la Corte.
Ed ancora emerge da ulteriori dati.
Le Assemblee Parlamentari vennero chiamate ad inizio luglio 2018 ad eleggere i componenti ‘laici’ degli organi delle magistrature ordinaria e speciali: del CSM-Consiglio Superiore della Magistratura, del CPGA-Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa, del CPGT-Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria e del CPCC-Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti.
Hanno eletto ‘solo uomini’.
Per 21 posizioni sono stati eletti 21 uomini.
Nell’immediatezza, come A.D.M.I., abbiamo espresso sbalordimento ed indignazione per la ‘totale’ assenza di componenti di genere femminile e, non da ultimo, anche per la stessa nomina di otto uomini su otto consiglieri ‘laici’ CSM con esclusione di personalità femminili, che sicuramente erano presenti nelle compagini politiche nell’attuale maggioranza parlamentare ed abbiamo osservato che era indispensabile che il CSM esprimesse le diverse sensibilità, anche di genere, in quanto funzionali all’effettiva tutela e garanzia di ogni giudice, possibile solo grazie alla pluralità di apporti secondo i principi della nostra Carta costituzionale oltre che delle direttive europee in materia di equilibrata rappresentanza di genere recepite dal Paese (file:///C:/Users/carla.lendaro/ADMI/Lettera%20ADMI%20al%20Presidente%20della%20Repubblica%20-%20Elezioni%20Csm.pdf). Le costituzionaliste AIC hanno anch’esse espresso deplorazione ai Presidenti di Camera e Senato sollecitando -come fatto da ADMI- una riflessione interna alle Assemblee, così come poi le avvocate della rete dei CPO del CNF, inoltre il CPO di Cassa Forense e la presidente della Fondazione Marisa Bellisario, oltre che le Senatrici che nella 25^ seduta del 24.7.2018 presentarono altresì una ‘mozione’ per adottare una disposizione anti discriminatoria volta a rimuovere gli ostacoli che, formalmente e sostanzialmente, si frappongono alle donne devono a fronte del persistente monopolio maschile nell’elezione degli organi di Autogoverno di tutta la magistratura nonché per promuovere e rafforzare la tutela dei diritti delle donne e il loro empowerment in tutti i settori, garantire loro l’effettiva partecipazione e la possibilità di assumere la leadership a tutti i livelli decisionali, politici, economici e sociali (https://27esimaora.corriere.it/18_luglio_26/csm-maschile-parlamento-intervenga-quote-50-5037b9bc9e-9106-11e8-bee6-2347460b1b21.shtml) .
Ed ancora emerge da altri dati.
Dal 1959 ad oggi, al C.S.M. Consiglio Superiore della Magistratura sono state elette solo 28 donne su un totale di quasi 500 consiglieri togati. Solo il 5% delle magistrate, dunque, ha avuto la possibilità di fare sentire la propria voce e di esprimere il proprio punto di vista, proprio e del genere di appartenenza, all’interno dell’Organo di rappresentanza dell’intera Magistratura.
Un grave danno per l’istituzione-Giustizia e per l’Organo costituzionale di Autogoverno.
Credo sia ineludibile, a fronte di tali dati oggettivi, che vadano ricercate soluzioni per superare la grave situazione e per garantire la piena rappresentanza di genere in aderenza al dettato della nostra Carta costituzionale ed alla normativa europea. Occorre individuare modalità per valorizzare la differenza di genere, la ‘nostra’ differenza, quella di tutte noi magistrate, più della metà della Magistratura.
Imparare a ‘riconoscere la differenza’, lo si ripete, è un’esigenza che risponde ai bisogni della Giustizia ed è un fattore di funzionamento e una risorsa del sistema.
L’uguaglianza va raggiunta con rapidità attraverso la promozione di misure positive e di strumenti operativi di valorizzazione delle specificità dei ‘generi’ ed inoltre con l’offerta di effettive ‘pari opportunità’ così da consentire a tutte e tutti, senza differenze, di potere accedere agli stessi livelli.
Va ricordato che l’iniziale cambiamento della composizione dell’Organo di Autogoverno lo si deve alla ‘politica’, con la designazione nella consiliatura CSM 1981-1986 quali componenti ‘non togate’ di due donne, Ombretta Carulli Fumagalli e Cecilia Assanti, ben 22 anni dopo la sua istituzione.
Si è dovuta attendere invece la consiliatura 1986-1990 per vedere la prima componente ‘togata’ al CSM, Elena Paciotti, cui compete un altro record (finora non eguagliato): quello di essere stata la prima e unica donna nominata presidente A.N.M.
Nelle successive due consiliature, tuttavia, non vi fu nessuna magistrata.
Il trend negativo sembrò essersi invertito nella consiliatura 1998/2002, ove furono elette tre togate, ma poi nella susseguente consiliatura non vi furono donne.
Si è dovuto quindi attendere la consiliatura CSM 2006-2010 ove quattro donne vennero elette tra i togati (grazie alla felice scelta di una corrente di candidare ‘solo’ colleghe), cui si aggiunsero due ‘non togate’.
Un risultato non più eguagliato, sicuramente un momento importante anche se non di piena uguaglianza.
Come spesso avviene al passo in avanti seguono passi indietro.
Nella consiliatura CSM 2010-2014, su sedici, furono solo 2 le ‘togate’ e purtroppo nessuna tra i componenti laici.
La situazione è ulteriormente peggiorata nella consiliatura 2014-2018 ove su sedici componenti ‘togati’ venne eletta solo una donna Maria Rosaria Sangiorgio (peraltro la componente più votata con oltre duemila voti, se ricordo bene) e ad equilibrare la situazione è intervenuta di nuovo la ‘politica’ con la designazione poi di due componenti laiche, Elisabetta Alberti Casellati e Paola Balducci.
Nella presente consiliatura 2018-2222 le componenti ‘togate’ elette erano quattro su sedici e ad esse se ne è aggiunta una ulteriore la scorsa estate (dopo dimissioni nel CSM): ora sono dunque cinque. Non vi è nessuna consigliera ‘non togata’. La componente femminile attualmente non raggiunge il quarto dei componenti.
In conclusione: un panorama che denuncia l’esistenza di un maschilismo radicato che lede i diritti di tutti, non solo quelli delle donne, e nuoce all’immagine del CSM.

 

6- L’associazionismo, le correnti e la loro degenerazione e l’esplodere a giugno 2019 della questione morale. La necessità di una nuova legge elettorale CSM.
L’associazione italiana delle donna magistrato A.D.M.I. è nata nel lontano 1990 senza fini di lucro ed indipendente da ogni altra organizzazione.
Un’associazione che rifiuta ogni connotazione politica e la cui conoscenza nell’ultimo quinquennio (e due mandati di questo direttivo) si è diffusa e radicata ovunque sul territorio nazionale, da nord a sud. Un’associazione che ha occhio attento alle problematiche degli uffici, in particolare di merito, ed alle spesso difficili condizioni lavorative locali ma che non trascura temi e questioni che costituiscono il suo patrimonio culturale ed associativo. L’A.D.M.I. mira, da sempre, allo studio ed all’approfondimento dei problemi giuridici, etici e sociali riguardanti la condizione della donna nella società ed ha lo scopo di promuovere la professionalità della donna giudice, a garanzia dei cittadini e per il migliore funzionamento della giustizia. E’ ‘trasversale’ rispetto a tutte le correnti associative, di cui riconosce la ricchezza culturale e propositiva. Nel tempo ha cercato molteplici strade per superare le discriminazioni e le dis-uguaglianze persistenti, senza mai arrendersi di fronte agli ostacoli, da cui anzi ha tratto forza. Ha organizzato molti incontri di studio, convegni e partecipato a Tavoli di lavoro Ministeriali, a conferenze nazionali ed internazionali, pubblicato libri e scritto diversi documenti indirizzati alla Presidenza della Repubblica o di Camera e Senato od al Ministro della Giustizia e partecipato ad audizioni parlamentari.
L’associazionismo è linfa vitale che va costantemente alimentata. Oggi più che mai. Non è facile risalire la china che in Magistratura l’investe dopo gli accadimenti della scorsa fine primavera 2019 e tanto meno è facile rispondere in maniera costruttiva e coinvolgente alla sempre maggiore disaffezione di colleghi e fermare il loro allontanamento, ma occorre provare.
La crisi dell’associazionismo si combatte infatti solo con l’associazionismo.
Occorre recuperarne valori, scopi ed intenti per rivitalizzarlo. Vanno valorizzate diversità e differenze ed individuati obiettivi comuni. Una via da percorrere con l’apporto, importante e prezioso, di ognuno.
Un po’ per volta, progressivamente, si sta oggi purtroppo consolidando il modello burocratico ed impiegatizio del giudice e quello dell’associazionismo quale sindacalismo: un fenomeno che va contrastato. Nelle correnti si sono progressivamente assottigliate differenze e contrapposizioni culturali, progettuali o programmatiche e, all’occorrenza, si sono preferite soluzioni dettate da ragioni contingenti di mera opportunità, con quanto ne è conseguito. Certo anche le correnti dichiarano di essere contrarie al carrierismo nondimeno appare evidente la prevalenza della logica individualistica, quella del singolo e non del ‘servizio Giustizia’, della sua efficienza e, non da ultimo, dell’Istituzione.
Nel documento ADMI del 21 giugno 2019 sulla “Questione Morale” scrivendo a fronte dei gravi fatti emersi dalle indagini condotte dalla Procura della Repubblica di Perugia, ci siamo domandate come sia stato possibile un tale intreccio di affari, di interessi e di collusioni, tanto lontano dalle finalità istituzionali dell’Organo di autogoverno ed all’interno di un sistema che ha visto il ‘sacrificio della vita’ di non pochi magistrati, il forte impegno per contrastare terrorismo, la criminalità organizzata e corruzione e il profondo attaccamento alle istituzioni democratiche, tale da avere portato alla rimozione di magistrati iscritti a logge massoniche.
Abbiamo amaramente concluso che oggi la ‘questione morale’ investe l’intera magistratura nel suo complesso e che per andare avanti occorrono, non solo una profonda ed ampia riflessione ‘etica’ ma anche, soprattutto, interventi rapidi per un cambio di rotta con le opportune ed indilazionabili iniziative di autoriforma, prima che prevalga il progetto, da tempo coltivato dalla politica, di controllare e condizionare la giurisdizione.
Non abbiamo potuto non costatare che la Magistratura associata, in passato, non aveva reagito con fermezza ad un sistema elettorale che mostrava carenze, che comunque ha attribuito ruolo preminente ai gruppi associativi e che ha accentuato la gerarchizzazione degli uffici giudiziari soprattutto quelli di Procura incoraggiando così le ambizioni carrieristiche di alcuni magistrati, rendendo marginale il criterio dell’anzianità ‘di servizio’ ed eccessivamente discrezionale l’attuale scelta dei dirigenti (frutto della (unanime) approvazione del T.U. Dirigenza, cfr. supra), richieste che investono il corretto esercizio del potere del CSM, nel complesso.
E’ più che mai necessario rafforzare il senso della giurisdizione come ‘servizio’ e non come esercizio di ‘potere’.
Per farlo occorre, ancora una volta, la presenza maggiore e più attiva di magistrate nelle scelte di politica giudiziaria ed associativa ma anche la predisposizione di adeguate misure organizzative e di aggiornamento professionale, che possano incidere sulla qualificazione e sul percorso professionale, così arginando le forme di esclusione o di autoesclusione femminile.
E’ indifferibile la riforma del sistema elettorale del C.S.M. per riappropriarci di quei valori e comportamenti che hanno fatto la storia della Magistratura italiana e risolvere al contempo la persistente sotto-rappresentazione di genere.
A tale fine crediamo vada recuperata l’elaborazione svolta da A.D.M.I. nella passata legislatura. È amaro, infatti, constatare che l’approvazione della nostra proposta associativa del 2017 di riforma della vecchia legge elettorale del 1958 (come innovata nel 2002), che prevedeva l’introduzione di talune prime misure di riequilibrio e, tra esse, quella della “doppia preferenza” di genere, avrebbe evitato le elezioni suppletive CSM indette nel secondo semestre di questo anno. Non avremmo nemmeno assistito alla presentazione di una lista CSM Requirenti, con candidature di “quattro su quattro” posti od alla presentazione di una lista CSM-Merito con numero risibile di possibili ‘non eletti’, vi sarebbe stato un congruo numero ulteriore di eleggibili (il doppio del precedente, quantomeno). Non vi sarebbe stata ancora la persistenza della sotto-rappresentanza di genere nel CSM, inaccettabile in una Magistratura ora ‘femminile’ al 53%.
L’assenza di consigliere ‘togate’ al C.S.M. è un segnale innegabile di democrazia ‘incompleta’, un ostacolo al ruolo di civile progresso che la donna rivendica.
Occorre ‘la voce delle donne’ per cambiare le cose e per farlo è necessario che vi sia una loro presenza non meramente simbolica.

7- Proposte allo studio per una nuova legge elettorale per l’Organo di Autogoverno
Per valutare e ricercare le soluzioni allo studio non si può che partire dall’esame dell’attuale legge elettorale, analizzare poi l’esito dei lavori della Commissione Ministeriale ‘Scotti’ e valutare sia quanto si è cercato di fare con la Proposta di Legge Ferranti (legge A.C. 4512/2017) e sia, per quanto nota, l’elaborazione in fase di stesura del Ministro della Giustizia on. Bonafede, infine accennare allo stato dei lavori del Tavolo ADMI/ANM per una nuova legge elettorale per il C.S.M. .
I.- La disciplina per l’elezione del C.S.M. è oggi regolata dalla legge 28.3.2002 n.44 (che ha riformato la legge n. 195 del 1958 di quando, cioè, alle donne non era stato ancora consentito l’accesso alla Magistratura).
Si fonda su un sistema ‘maggioritario’, senza voto di lista, articolato su tre collegi unici nazionali a base uninominale (in totale quindi di 16 magistrati), nella specie: a)-per n.2 magistrati della Corte di cassazione e della Procura Generale presso la stessa Corte da eleggere; b)- per n.4 magistrati del pubblico ministero; c)- per n.10 magistrati degli uffici di merito. Prevede la possibilità di esprimere la preferenza per solo uno dei candidati togati che si presentano in ciascuno dei tre collegi unici nazionali. Le candidature individuali possono essere presentate con un numero di sottoscrittori ‘non inferiore a 25 e non superiore a 50’.
E’ un sistema che certamente penalizza le donne affidando un potere determinante al peso delle ‘correnti’, posto che consente ad esse di limitare i candidati in numero corrispondente (o di poco superiore) a quello degli eleggibili in forza di intese preventive, con facilità attuate dai gruppi associativi, cui le donne sono escluse venendo raramente selezionate a monte e proposte o cooptate.
II.- Il C.S.M., con la delibera 4.4.2014, è intervenuto in tema con l’intento di dare finalmente una soluzione alla sotto-rappresentanza femminile nell’organo di Autogoverno ed ha indicato quale strumento l’introduzione della ‘doppia preferenza di genere nella elezione della componente togata, con previsione della la riserva di una quota minima di genere di un terzo per la componente togata e di un terzo per quella.laica’(https://www.csm.it/documents/21768/159899/Delibera+2.4.2014+Introduzione+alle+quote+di+genere/1d2f110e-d80f-3058-7001-7cf474d22a38 ) .
III.- Nel settembre 2015 il ministro Orlando ha, poi, nominato la Commissione c.d. Scotti per la formulazione delle proposte di riforma in tema di costituzione e funzionamento del C.S.M., tra cui il sistema elettorale, che a fine marzo 2016 ha concluso i lavori. Nel preambolo della sua Relazione Conclusiva si legge che il sistema elettorale ‘proposto come adottabile’ era ispirato al ‘principio della piena parità di genere’ ma nondimeno la relazione si conclude esprimendo preferenza (tra i diversi e variegati sistemi elettorali esaminati) per una ipotesi c.d. ‘mista’, strutturata in procedimento bi-fasico: 1)- una prima fase procedurale di tipo ‘maggioritario’ e per collegi territoriali, cui liberamente (anche individualmente) possono partecipare ‘tutti’ magistrati che si vogliono candidino per la categoria di appartenenza ed ove poi ogni elettore vota per il candidato di ciascuna categoria e può esprimere un ‘secondo voto’ solo per candidato ‘di genere’ diverso; 2)- una seconda fase di tipo ‘proporzionale’ e per collegio nazionale, con liste concorrenti, con la possibilità di una sola preferenza ovvero duplice di candidati ‘di genere’ diverso, sia della stessa lista che di altra. A tale seconda fase verrebbero ammessi un numero di candidati ‘pari al quadruplo dei magistrati da eleggere per ogni categoria’ e che ‘abbiano ottenuto il maggior numero di voti calcolato in senso decrescente sino al quadruplo’ (dunque, in concreto: 8+16+40). E’ previsto inoltre, nell’evenienza non si fosse realizzata parità ‘di genere’ tra i candidati selezionati, che vengano aggiunti altri candidati del genere ‘meno rappresentato’ e con maggior numero di voti tra i ‘non ammessi’ dopo il primo turno (https://www.giustizia.it/resources/cms/documents/Scotti_relazione_12ago2015.pdf).
Si tratta, all’evidenza, di un sistema elettorale non condivisibile in quanto non garantisce concreta e piena parità ‘di genere’ (al di là delle apodittiche affermazioni) posto che il secondo voto di preferenza per il candidato ‘di genere diverso’ è solo:
a)- facoltativo al primo turno (e con esito, per di più, incerto a causa delle ‘cordate’ che, da sempre escludono le donne dalle aree di esercizio del potere;
b)- facoltativo anche al secondo turno.
E’ innegabile l’assoluta incertezza di dell’elezione di candidate di genere femminile, in quanto è del tutto improbabile che vengano elette candidate ‘aggiuntive’ che non avevano superato il primo turno dimostrando sostanziale loro debolezza per l‘estraneità dai gruppi organizzati. Con il sistema elettorale ipotizzato, paradossalmente, si avrebbe -ancora una volta- la possibilità dell’elezione di un C.S.M. solo ‘maschile’ laddove non fosse espressa al primo turno ‘una seconda preferenza’ (ipotesi questa, peraltro, non probabile) o se al secondo turno laddove, in presenza di candidature femminili, si votassero candidature solamente maschili (ipotesi questa, purtroppo probabile). In conclusione il sistema ipotizzato, per l’aleatorietà del risultato ipotizzabile, non garantisce un’efficace tutela per il genere ‘svantaggiato’, in contrasto con l’assunto delle stesse premesse della Relazione ‘Scotti’, quelle della ‘piena tutela della parità di genere’.
IV- A fine luglio 2016 l’allora Ministro della Giustizia on. Orlando ha trasmesso la Relazione ‘Scotti’ al CSM per il parere e la sesta commissione CSM (competente in tema di riforme), senza una previa consultazione del Comitato Pari Opportunità CSM, ha ha espresso “…apprezzamento per l’opzione di preservare la parità di genere”.
Il Plenum C.S.M. del 7.9.2016 ha, all’unanimità e senza discussione finale, deliberato tale (vaga) indicazione quale strumento astrattamente idoneo a garantire rappresentanza(https://www.csm.it/documents/21768/41479/risoluzione+7+settembre+2016/a3d6252f-a7f7-434a-bf54-32e0dc7b9db7).
V- L’assenza di una proposta di legge elettorale al termine dei lavori della Commissione Ministeriale Scotti (la relazione era, infatti, priva di articolato) ha indotto A.D.M.I. ad individuare rimedi da approntare ‘prima delle elezioni CSM dell’estate 2018’ per evitare si ripetesse quanto avvenuto nelle precedenti consiliature (cfr. supra).
Nella primavera 2017 è stata elaborata un’ipotesi di modifica della vigente legge elettorale contenente ‘prime misure di riequilibrio di genere’, una soluzione certamente diversa (e più blanda) rispetto a quella da tempo auspicata dell’introduzione di ‘temporanee quote paritarie di risultato per tre consiliature’, ma le uniche introducibili nel testo della detta legge elettorale ed armoniche con la nostra Carta Costituzionale (come confermatoci dai diversi costituzionalisti interpellati). Uno studio che raccoglieva i frutti del lavoro di lungo approfondimento, di tanti incontri e confronti nella magistrature ordinaria, amministrativa e contabile ed anche in ambito accademico e dell’esame dei diversi sistemi elettorali, che è divenuta la proposta di legge Ferranti ed altri 57 firmatari n.4512-2017 del maggio 2017 (http://www.donnemagistrato.it/Home/Dettaglio/Associativa/Nazionale/PdlFerranti/Pdl%204512.pdf).
Il PdL è stato ufficialmente presentato alla Camera dei Deputati dalla pres. Ferranti della Commissione Giustizia il 4 luglio 2017 (http://webtv.camera.it/evento/11493) e, dopo la calendarizzazione, ha quindi iniziato il suo percorso parlamentare il 12 ottobre 2017 con le audizioni del presidente A.N.M e di questa presidente A.D.M.I. (http://www.donnemagistrato.it/Home/Dettaglio/Associativa/Nazionale/PdlFerranti/Audizione%2029.11.17%20-%20Albamonte%20e%20Lendaro.pdf ) conclusesi nel dicembre 2017 con quelle dei costituzionalisti prof. Silvestre, prof. Onida, prof. Luciani e prof. Marilisa D’amico e la loro positiva valutazione positiva della costituzionalità dell’impianto normativo (http://www.donnemagistrato.it/Home/Dettaglio/Associativa/Nazionale/PdlFerranti/Audizione%2014.12.17%20-%20D'Amico,%20Luciani%20e%20Silvestri.pdf http://www.donnemagistrato.it/Home/Dettaglio/Associativa/Nazionale/PdlFerranti/Audizione%2019.12.17%20-%20Onida.pdf).
La proposta di legge ‘Ferranti’, va precisato, non garantisce direttamente il risultato della presenza ‘paritaria’ fra donne e uomini nella componente togata del C.S.M. ma mira ad ottenere un incremento della presenza femminile attraverso l’introduzione normativa del ‘principio generale’ (art. 23, comma 1) e del meccanismo della ‘doppia preferenza di genere’ (art. 25 commi 3 e 5, e art. 26), già introdotto e sperimentato nell’ambito della rappresentanza politica e valutato positivamente anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 4 del 2010. Non si tratta di “quote di risultato” ma nondimeno è una seria misura di riequilibrio nel pieno rispetto della volontà degli elettori. In concreto: nel PdL viene portato da uno a due il numero massimo di candidature presentabili in ciascun collegio da parte di magistrati presentatori, certamente utile perché spinge a sfruttare l’opportunità data dalla legge di esprimere non una sola ma due candidature e soprattutto farlo nel rispetto della ‘parità di genere’. Sono previste modalità di redazione dello “elenco dei candidati” distinto per ciascuno dei tre collegi, facendo in modo che la stessa sia presentata all’elettore “con alternanza di candidati di sesso diverso”, misura non sostanziale ma innegabilmente utile per la visibilità esteriore dell’intento perseguito. E’ previsto che all’art. 26, al comma 3, della legge elettorale in vigore venga che aggiunto: “3. Ogni elettore può esprimere sino a due voti su ciascuna scheda elettorale. Il secondo voto deve essere espresso per un candidato di sesso diverso dal primo. E’ nullo il secondo voto nel caso sia attribuito a un candidato dello stesso sesso.”, secondo l’impostazione utilizzata per le elezioni politiche, consentendo la possibilità di esprimere un doppio voto “di genere”, previsione ritenuta costituzionalmente legittima dalla sentenza n. 4 del 2010 della Corte costituzionale. E’ prevista la modifica della scheda elettorale per rendere palese il ‘secondo’ voto, che -se in favore di candidato del medesimo genere- risulterebbe ‘nullo’. E’ previsto, infine, che in caso di parità dei voti tra candidati di genere diverso prevalga quello del genere meno rappresentato.
Il Pdl Ferranti + 57 è stato oggetto di un importante incontro di studi organizzato in data 25.9.2017 dalla costituzionalista Marilisa D’Amico presso l’università Statale di Milano - Dipartimento di Diritto Pubblico Italiano con l’emblematico titolo: Eguaglianza di Genere in Magistratura: quanto tempo dobbiamo ancora aspettare?
(http://www.donnemagistrato.it/Home/Dettaglio/Associativa/Eguaglianza%20di%20genere%20in%20magistratura.pdf). Tra i molti autorevoli interventi (tra essi si è già ricordato quello del prof. Onida) merita di essere ricordato quello di Aniello Nappi, già componente del Consiglio Superiore della Magistratura (e relatore della delibera consiliare dell’aprile 2014, cfr. supra), che ha acutamente rilevato che per uscire dalla crisi nell’organo di Autogoverno: “…Uno dei sistemi potrebbe essere quello di imporre di presentare un numero di candidature maggiore del numero dei seggi in palio. Ma questo non puoi farlo, se non hai delle liste, perché le candidature sono individuali. Ecco perché torna utile la possibilità offerta da questa proposta legge, la possibilità di raddoppiare per genere le candidature per ciascun collegio, che porterebbe ad un aumento dei candidati proposti da ciascuna corrente. Ma questo aumento di complessità dell’offerta è inviso alle correnti, perché la maggiore complessità precluderebbe la possibilità del controllo e della redistribuzione anticipata dei voti. Anziché il solito numero di candidati, corrispondente al numero dei seggi già previsti come conseguibili, si potrebbe indurre le correnti a moltiplicare per due le candidature, superando così una prassi che, tra l’altro, ingessa il risultato elettorale: ed è perciò quanto di più conservatore ci possa essere, perché tende a riprodurre il risultato delle elezioni precedenti, senza alcuna prospettiva di cambiamento. Quindi questa proposta di legge, che nasce come iniziativa in favore della parità di genere, si rivela come iniziativa che favorisce una maggiore democraticità effettiva:
ha un risvolto di rilevanza istituzionale complessiva e non solo per le donne magistrato; ed è questo un suo aspetto certamente positivo.” (https://ojs.francoangeli.it/_omp/index.php/oa/catalog/book/277).
La fine della legislatura ha materialmente impedito nell’inverno 2017-18 il completamento, allo stato, dell’iter parlamentare (che speriamo possa continuare), cosicchè poi nel luglio 2018 le votazioni C.S.M. purtroppo si sono svolte con la vecchia legge elettorale, con il risultato e gli effetti deleteri già innanzi rilevati (cfr. supra).
VI.- Dalle audizioni parlamentari e dall’incontro delle volontà di A.N.M. e A.D.M.I. è nato, nella primavera 2018, il ristretto il Tavolo di Lavoro ANM/ADMI per lo studio e la predisposizione di un articolato di legge elettorale per l’Organo di Autogoverno della Magistratura, similare nel costrutto a quello previsto per le elezioni ANM, dunque un sistema proporzionale (quantomeno per ‘merito’ e, possibilmente, anche per ‘requirenti’) con collegio unico nazionale oppure distinto in macro-aree (del medesimo numero di magistrati-elettori) aventi continuità territoriale, compatibile con i principi e valori espressi dalla nostra Carta Costituzionale. Le due associazioni nel corso dei lavori si sono avvalse dell’ausilio di due esperti, Stefania Leone e Gabriele Maestri, che hanno approfondito ed elaborato distinte ipotesi nel parere redatto, intitolato ‘Modifiche alla legge 24 marzo 1958, n. 195, in materia di sistema di elezione dei componenti del Consiglio superiore della magistratura eletti dai magistrati e inserimento di norme volte all’equilibrio di genere’, ora è allo studio di ADMI e di ANM (e dei gruppi componenti della stessa), la cui introduzione è stata di pubblicata nella nostra rivista associativa GiudiceDonna (http://www.giudicedonna.it/articoli/Proposta%20di%20legge.pdf). All’esito riprenderanno i lavori del Tavolo .
VII.- Un progetto di riforma per una nuova legge elettorale C.S.M. è, da tempo, in fase di elaborazione da parte del Ministro della Giustizia on. Bonafede. Il contenuto di quanto è allo studio attualmente non è noto, salvo talune indiscrezioni di stampa.
Dopo talune notizie-stampa trapelate, si era parlato in passato a lungo della possibile introduzione del c.d. ‘sorteggio’, in particolare della estrazione ‘a sorte’ di una platea di n.100 magistrati ‘eleggibili’ quali dei componenti potenziali, che nella seconda fase sarebbero poi stati sottoposti al voto.
Nell’incontro con il Ministro on. Bonafede, ancora nell’autunno dello scorso 2018, ADMI ha espresso, per voce di questa presidente, opposizione al progetto in fase di studio per gli evidenti aspetti di incostituzionalità. Va ricordato, infatti, che il quarto comma dell’art. 104 Cost. prevede che due terzi dei componenti elettivi del CSM siano ‘eletti’ dai magistrati. Inoltre proprio non convince l’ipotesi di sorteggio per la prima fase e poi, nella seconda fase, l’elezione con volo solo tra i ‘sorteggiati’. In astratto tutti i magistrati sono idonei a svolgere il delicato incarico ed appare, in concreto, singolare demandare la scelta alla causalità di una ‘estrazione a sorte’, per di più sottratta alla stessa valutazione individuale del possesso di attitudine gestionale, sensibilità istituzionale, conoscenza ordinamentale e dell’apparato giudiziario (e delle sue esigenze), doti indispensabili per un componente dell’organo di Autogoverno, a prescindere dalla ulteriore valutazione, cui solamente si accenna, della rilevante incidenza della detta scelta sui diritti dell’elettore.
Una valutazione ‘negativa’ per il sorteggio è stata già espressa in passato nella Relazione ‘Scotti’ e, in seguito, anche dalla A.N.M. .
Il recente ‘Programma governo M5S-PD’ del Governo Conte bis, al suo punto n.12, prevede che: “Occorre… riformare il metodo di elezione dei membri del Consiglio superiore della Magistratura” (https://www.tpi.it/politica/programma-governo-m5s-pd-20190903410109/) e dalla stampa nazionale è stata diffusa la notizia del possibile ‘tramonto del sorteggio’ assieme al persistente convergere della maggioranza nell’obiettivo di combattere e cancellare le riscontrate degenerazioni del correntismo. Sembrano emergere nuove proposte di legge per la selezione dei consiglieri togati CSM, tra le quali quella dell’ex presidente del Senato Pietro Grasso “….di creare 150 collegi –in corrispondenza dei 145 Tribunali italiani– che eleggano un delegato, che, a sua volta, scelga tra i candidati i componenti del Consiglio superiore della magistratura…” e, tenuto conto che per ‘Base elettorale ed elezione dei delegati in Italia’ ci sono attualmente 145 Tribunali, creare “…150 piccoli collegi in base a numero di magistrati e continuità territoriale. Il numero di collegi non corrisponde a quello dei tribunali per un motivo evidente: grandi tribunali come quelli di Roma, Milano, Napoli o Palermo non possono essere equiparati a quelli molto più piccoli. Serviranno certamente degli accorgimenti per tenere conto delle differenze numeriche di organico tra tribunali. Ciascun collegio elegge un delegato: ogni magistrato, avendo una conoscenza diretta e reale di tutti i candidati, potrà scegliere sulla base della stima e del merito e non su logiche strettamente correntizie. Elezione di secondo livello basandosi sugli stessi criteri dei collegi, i delegati sono poi ripartiti in un numero di circoscrizioni pari ai togati da eleggere al Csm. Ciascuna circoscrizione, dapprima con maggioranza qualificata e poi, eventualmente, con un ballottaggio tra i candidati che hanno raccolto maggiori consensi, elegge un membro del Csm. In questo modo è difficile immaginare accordi correntizi, e sarà il merito a prevalere. Approssimando molto, la sintesi è ‘ogni tribunale un delegato, ogni dieci delegati un membro del Csm” (https://www.giustizianews24.it/2019/10/11/csm-bonafede-verso-la-rinuncia-al-sorteggio-e-grasso-offre-al-ministro-la-sua-proposta-per-le-elezioni-dei-consiglieri ).
Al recentissimo Corso di studi della SSM tenutosi a Roma in novembre 2019 sul tema ‘Le garanzie istituzionali di indipendenza della magistratura in Italia’, è emersa inoltre nella sessione dedicata alla ‘legge elettorale del CSM’ l'ipotesi del recupero di una vecchia proposta del costituzionalista prof. Silvestri di utilizzo del vecchio sistema di elezione del Senato, con attribuzione di gran parte dei seggi al vincitore in collegi uninominali, i cui candidati sono collegati a livello nazionale (con la conseguente considerazione dei gruppi associativi) e della rimanente ‘quota di seggi’ con i resti più alti. Un sistema che garantirebbe maggiore pluralismo secondo la costituzionalista-relatrice prof. Salazar, che al contempo ha riferito che il Ministero sembra essere orientato a proporre un ‘sistema uninominale secco su n.20 collegi’ (intendendo riportare il numero dei consiglieri togati a n.20).
Non è possibile esprimere, in assenza del necessario previo esame del testo e sulla base solo di tali vaghe notizie, qualsivoglia valutazione salvo solo sin da adesso rilevare che ‘nessuna’ delle stesse sembra al momento prevedere l’esistenza di misure positive di riequilibrio per superare la sottorappresentanza delle magistrate nell’Organo di Autogoverno. Un pesante passo indietro rispetto al PDL Ferranti + 57.

8. Alla ricerca del definitivo superamento della sotto-rappresentanza di genere e degli stereotipi: un obiettivo irrinunciabile anche in Magistratura
A conclusione non resta che rimarcare con fermezza che è obiettivo irrinunciabile, anche in Magistratura, il definitivo superamento della sotto-rappresentanza di genere e dei millenari stereotipi e pregiudizi tuttora persistenti.
Da lungo tempo in A.D.M.I. siamo convinte che per superare la situazione di disparità nell’Organo di Autogoverno la strada sia unica: l’adozione temporanea di quote di risultato.
I positivi effetti di tale scelta, ove fatta, sono sotto gli occhi di chiunque. Emergono ove si esamini l’esperienza del C.D.C. dell’A.N.M. (quota del 30%), ovvero del C.N.F. dell’Avvocatura (quota del 40%) od anche dei C.d.A. delle società quotate (quota del 30%) (cfr. supra). Laddove le quote di risultato non venissero introdotte, invece, secondo studi della Banca di Italia occorreranno altri 70 anni per raggiungere un effettivo equilibrio ‘di genere’.
La Magistratura appare sempre più indirizzata a divenire una professione prevalentemente femminile, alla cui organizzazione e riorganizzazione non dobbiamo né possiamo sottrarci posto che, senza rapidi correttivi dei sistemi di valutazione, di selezione o di rappresentanza le giudici, anche in futuro non si vedrà ridotto il ‘gap’ esistente e che divide le magistrate dai magistrati dell’altro sesso nella direzione degli uffici giudiziari o nella composizione del C.S.M. .
Le quote di risultato sono uno strumento proporzionale allo scopo che si intende perseguire ma sono (e debbono rimanere) solo un ‘mezzo temporaneo’, necessario per conseguire in tempi rapidi la piena parità di genere.
La loro introduzione è giustificata dalla necessità di sanare una grave situazioni di disparità, inoltre a generare buone pratiche e produrre valore, infine risolvere ‘in modo definitivo’ la persistente insostenibile disuguaglianza che, come affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 49 del 2003, è riconducibile “…al permanere degli effetti storici del periodo nel quale alle donne erano negati o limitati i diritti politici e al permanere, tuttora, di ben noti ostacoli di ordine economico, sociale e di costume suscettibili di impedirne un’effettiva partecipazione all’organizzazione politica del Paese…”, giudizio che emerge poi nelle aperture contenute anche nella sentenza della stessa Corte n. 4 del 2010, ove è stata affermata l’esistenza del principio fondamentale dell’effettiva parità tra i sessi nella rappresentanza politica, nazionale e regionale nello spirito dell’art. 3, secondo comma, Cost., opportunamente collegato agli artt. 51 e 117 Cost. .
Le quote non possono, in alcun modo, essere ritenute un segno di debolezza della donna ma sono solo il riconoscimento della ‘deficienza del sistema’ che finora non riconosce il suo valore, impegno professionale e capacità organizzativa, oltre che capacità di armonizzare la vita di studio e lavoro con gli impegni domestici e di assistenza di cui, pesantemente e nella stragrande maggioranza, è gravata.
Non sono certamente una ‘gabbia per specie protette’ come ritenuto da taluni e talune, ma bensì semplicemente una temporanea ‘misura positiva’ di riequilibrio, volta finalmente a consentire alle magistrate di potere dimostrare di possedere, non solo le competenze, ma anche l’attitudine, oggi misconosciute.
Non sono, neppure, retaggio di poche vetero-suffragette sopravvissute allo scorrere degli anni, come ironicamente detto da altri, ma le quote sono un ‘rimedio’ che è utilizzato in larga parte di Europa per superare la sottorapresentazione di genere e che ovunque ha funzionato.
Occorre, in tempi brevi, una seria riforma della legge elettorale per il CSM che nel rispetto della nostra Carta Costituzionale assicuri effettività alla presenza femminile nell’Organo di Autogoverno e ponga rimedio a quei meccanismi di selezione che tanto hanno penalizzato le donne.
Una legge elettorale che ponga definitiva fine alla questione ‘di genere’ e che consenta alle magistrate, di esserci, di partecipare, di mettersi in gioco, di concorrere con la propria voce femminile a formare quella del C.S.M. trasformandolo in organo di piena e completa ‘rappresentatività democratica’, espressione di tutte le diverse componenti.
E’ divenuto possibile fare il ‘balzo culturale’ per superare stereotipi ed pregiudizi frutto dell’arcaica ‘sapienza antica’ e per evitare l’ulteriore perpetrarsi delle disuguaglianze, oltre che per valorizzare le differenze.
Per effettuarlo e consolidarlo occorre che si dismetta l’uso del singolare e che divenga usuale il plurale, quello di uomini e di donne indistintamente, attuando quella democrazia partecipativa capace paritariamente di esercitare influenza sui processi politici o sulla attribuzione di valori.
Abbattere la cultura millenaria è doveroso, oramai non si può proprio più aspettare.

In corso di impaginazione della rivista, il giorno 11 dicembre 2019, la Prof. Marta Cartabia è divenuta la prima donna presidente della Corte Costituzionale e la collega dott. Elisabetta Chinaglia è divenuta la sesta consigliera del CSM

 

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