Testo integrale con note e bibliografia

Testo della sentenza Cassazione C-652/19

Testo della sentenza Cassazione C-32/20

Testo della sentenza Trib. Milano sez. Lavoro n.5797

1. La questione della disparità di tutela contro il licenziamento ingiustificato tra lavoratori a tempo indeterminato assunti prima e dopo il 7 marzo 2015.
Con l’ordinanza del 4 giugno 2020 in C-32/20 e la sentenza del 17 marzo 2021 in C-652/19 la CGUE ha concluso con chiarezza, e una certa perentorietà, di non poter esaminare la questione di compatibilità con gli artt. 20 e 30 della Carta dei Diritti della diversità di tutela contro il licenziamento collettivo illegittimo per violazione dei criteri di scelta prevista per i lavoratori assunti prima e dopo il 7 marzo 2015 posta dai giudici italiani in seguito all’entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015.
I criteri di scelta dei lavoratori da licenziare nell’ambito delle procedure di licenziamento collettivo e la tutela conseguente alla loro violazione - ha affermato la CGUE - non rientrano nell’ambito di disciplina della Direttiva 1998/59/CE né di altra fonte europea: pertanto le disposizioni della Carta, ai sensi del suo art. 51, non possono essere invocate quale parametro di legittimità della normativa nazionale.
La medesima questione, prima di giungere all’esame della CGUE, era stata posta all’attenzione della Corte Costituzionale, anche se con riguardo alla diversa fattispecie del licenziamento individuale ed invocando a parametro di legittimità, in via principale, le disposizioni della Carta Costituzionale.
Nell’ordinanza di rimessione la questione dell’irragionevole disparità di trattamento tra nuovi e vecchi assunti era quasi inscindibilmente connessa all’argomentazione sull’inadeguatezza della tutela riservata ai nuovi assunti, di cui il giudice rimettente contestava l’assenza del carattere «compensativo» utilizzando come parametro di riferimento la disciplina vigente fino ad allora e rimasta vigente per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015.
La Corte, nella sentenza n. 194 del 2018 , ha isolato la questione dell’irragionevolezza rilevando che il giudice rimettente l’aveva motivata censurando non tanto il nuovo regime di tutela - anche se per il vero l’ordinanza sembra imperniata sulla non adeguatezza di tale regime - quanto piuttosto per il fatto che la data di assunzione era dato accidentale ed intrinseco a ciascun rapporto, inidoneo a differenziare un rapporto da un altro e tale così da rendere irragionevole la disparità di trattamento.
E facendosi così carico della censura di disparità di trattamento in sé e per sé considerata, a prescindere dalla diversa questione del carattere sufficientemente compensativo della nuova tutela, non ha ritenuto di poter superare il dubbio di costituzionalità solo richiamando il principio corrente nella sua giurisprudenza secondo cui non contrasta di per sé con il principio di eguaglianza un trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie ma in momenti diversi nel tempo, poiché il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche; oppure facendo semplicemente riferimento alla discrezionalità del legislatore, che, nonostante potesse applicare la nuova tutela a tutti i lavoratori, si è risolto per un intervento parzialmente conservativo, da cui sono stati esclusi gli assunti prima del 7 marzo 2015, non per mero arbitrio ma per ragioni di praticabilità e opportunità politica, operando una scelta improntata al carattere della gradualità che si faceva carico delle aspettative maturate dei lavoratori in forza, i quali solo 3 anni prima avevano già subito in corso di rapporto una riduzione di tutela.
La Corte è pervenuta, invece, alla conclusione che la modulazione temporale dell’applicazione del d.lgs. n. 23 non contrasta con il canone di ragionevolezza e, quindi, con il principio di eguaglianza se a essa si guarda alla luce dello scopo dichiaratamente perseguito dal legislatore di rafforzare, mediante la predeterminazione e l’alleggerimento delle conseguenze del licenziamento ingiustificato, le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di chi di un lavoro «fosse» privo – ma destinate ad applicarsi, invero, anche a chi di un lavoro sarà privo, così, dunque, da ricondurre alla questione dell’adeguatezza della nuova tutela.
La Corte, dunque, ha ritenuto legittima la diversità di trattamento tra i lavoratori conseguente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 23 sulla base dello scopo «dichiarato» dal legislatore valutando non implausibile l’idoneità del mezzo adottato (l’alleggerimento e la predeterminazione delle tutele) e precisando che non rientra nei suoi poteri addentrarsi in valutazioni sui risultati che la politica occupazionale perseguita dal legislatore può aver effettivamente conseguito.
La conclusione della Corte ha provocato la vigorosa reazione di alcuni interpreti che le hanno rimproverato di non essersi avveduta che senza un «effettivo» controllo di congruità causale-sostanziale tra le finalità enunciate dal legislatore e gli strumenti all’uopo impiegati le differenze di trattamento giuridico introdotte dalla legge, salvi i casi di irrazionalità manifesta per evidente incoerenza logica, diventano tutte automaticamente giustificate .
Di tali critiche si trova chiara eco nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale del tribunale di Milano cui ha fatto seguito la sentenza della CGUE del 17 marzo 2021, il quale ha testualmente sostenuto che per affermare la ragionevolezza della disparità di trattamento tra assunti prima e dopo il 7 marzo 2015 la Corte Costituzionale avrebbe dovuto fare proprio quello che ha espressamente affermato di non poter fare: verificare, cioè, l’adeguatezza strumentale della norma scelta rispetto al fine da realizzare, impiegando dati extra-normativi, come le conoscenze tecnico-scientifiche, i modelli statistici e i riscontri di tipo fattuale, così da valutare se la legge possa dirsi in rapporto logico con il fine che la giustificherebbe come ragionevole. Verifica che, sempre a dire del tribunale, avrebbe certamente dato esito negativo considerato che nessuna correlazione positiva tra riduzione delle tutele e incremento dell’occupazione è mai stata avvalorata nella letteratura economica né sarebbe stata avvalorata dall’esperienza applicativa italiana del contratto a tutele crescenti, posto che a oltre tre anni dall’entrata in vigore della legge l’aumento delle occupazioni stabili si sarebbe rivelato del tutto «deficitario».
Così, implicitamente considerando che la Corte non avrebbe mutato avviso nemmeno se la questione dell’irragionevole disparità le fosse stata proposta in riferimento ad una fattispecie di licenziamento collettivo in cui erano contestualmente coinvolti lavoratori assunti prima e dopo il 7 marzo 2015, il tribunale di Milano si è risolto a cercare la giustizia denegata dalla sentenza n. 194 presso un altro giudice, il Giudice europeo, facendo principalmente leva sugli artt. 20 e 30 della Carta di cui, in effetti, non ha evidenziato la superiore pregnanza rispetto ai principi di eguaglianza e non discriminazione e tutela contro il licenziamento ingiustificato sanciti dalla nostra Carta costituzionale come interpretata dalla Corte.
La medesima questione di compatibilità con la normativa europea è stata posta dalla Corte d’Appello di Napoli che, tuttavia, diversamente dal tribunale di Milano, ha contestualmente investito della questione anche la Corte Costituzionale (sull’esito dell’incidente di costituzionalità v. infra, par. 3).

2. Il «non liquet» della CGUE sulla disparità di tutela
Con l’ordinanza del 4 giugno 2020 in C-32/20 e la sentenza del 17 marzo 2021 in C-652/19 la CGUE si è dichiarata incompetente a decidere la questione di compatibilità con le disposizioni della Carta della diversa, deteriore tutela contro il licenziamento collettivo ingiustificato per violazione dei criteri di scelta introdotta dal legislatore italiano a favore dei lavoratori assunti dal 7 marzo 2015 rispetto a quelli già in forza a tale data proposta dai giudici di Milano e di Napoli, dando l’impressione di voler tenersi bene alla larga da una questione che ha valutato, a ragione, come una questione di diritto e di politica interni.
La CGUE ha ribadito, innanzi tutto, che l’art. 51 della Carta non estende l’efficacia della Carta oltre le competenze dell’Unione e che quando non viene in gioco il diritto dell’Unione non viene in gioco nemmeno l’applicazione della Carta.
E nella questione proposta dai giudici nazionali, secondo la Corte, non viene in gioco il diritto dell’Unione, in particolare la Direttiva sui licenziamenti collettivi 98/59/CE invocata come tramite per attrarre la normativa italiana in contestazione nell’orbita di influenza della Carta.
Al fine, infatti, non basta che una normativa nazionale sia stata adottata in occasione dell’attuazione di una direttiva ma è necessario che si tratti di una normativa adottata in attuazione di obblighi specifici derivanti dalla direttiva.
Così non può dirsi, afferma ancora la CGUE, con riguardo ai criteri di scelta dei lavoratori da licenziare né con riguardo alla tutela da somministrare in caso di violazione di tali criteri.
La Direttiva sui licenziamenti collettivi, infatti, ha l’obiettivo di far procedere il licenziamento collettivo da una consultazione dei rappresentanti dei lavoratori, finalizzata ad evitare o ridurre i licenziamenti e ad attenuarne le conseguenze ricorrendo a misure intese a facilitare la riqualificazione e la riconversione dei lavoratori, nonché dall’informazione all’autorità pubblica competente: garantisce, cioè, un’armonizzazione solo parziale delle regole di tutela dei lavoratori in caso di licenziamento collettivo, occupandosi esclusivamente della procedura da seguire.
E le modalità di tutela da accordare ai lavoratori oggetto di un licenziamento collettivo illegittimo per violazione dei criteri di scelta sono un tema manifestamente privo di collegamento con gli obblighi di consultazione e di notifica previsti dalla Direttiva.
E’ vero, aggiunge la Corte, che l’art. 6 della Direttiva impone agli Stati membri di garantire ai rappresentanti dei lavoratori o ai lavoratori strumenti di tutela efficaci e dissuasivi ma ciò vale solo in relazione agli obblighi che la Direttiva impone, vale a dire gli obblighi di consultazione e notifica, non oltre. Né, afferma implicitamente, rileva che ai sensi dell’art. 5 della Direttiva gli Stati membri abbiano la facoltà di introdurre disposizioni legislative più favorevoli ai lavoratori – espressione abbastanza lata per comprendervi disposizioni più favorevoli rispetto agli obblighi specifici derivanti dalla Direttiva ma anche disposizioni che estendano la tutela prevista dalla Direttiva: ciò invero non vale ad attrarre nell’ambito del diritto dell’Unione la normativa nazionale di favore, producendosi altrimenti l’effetto che l’ambito di operatività del diritto dell’Unione finirebbe per dipendere da scelte del legislatore nazionale.
Si è parlato di conclusione un po' deludente della Corte .
E, in effetti, è vero che l’interpretazione dell’art. 51 da parte della CGUE non è propriamente monolitica ma, piuttosto, «a fisarmonica», nel senso che a volte, in applicazione dello stesso art. 51, vengono attratte nell’orbita della Carta situazioni che con la normativa di derivazione europea sembrano avere solo un labile collegamento .
Nel caso di specie, tuttavia, se non si può dire che la CGUE abbia largheggiato non si può nemmeno dire abbia adottato una prospettiva eccessivamente restrittiva. Anche tenuto conto del fatto che, sebbene la disciplina delle modalità di tutela contro il licenziamento illegittimo rientra nelle competenze dell’Unione, l’Unione non è mai intervenuta in materia e che la notevole differenza di disciplina che si dà nei diversi ordinamenti nazionali comportava un elevato rischio di indebite e non gradite ingerenze della Corte nelle scelte degli Stati membri.
A sommesso avviso di chi scrive sembra che nelle questioni che si agitano intorno al sistema remediale introdotto dal d.lgs. n. 23 come emendato dalla sentenza n. 194 della Corte Costituzionale tendano sovrapporsi e confondersi due piani distinti: quello della «congruità» del nuovo sistema di tutela, che è un concetto elastico, che ammette escursioni entro un range più o meno ampio, e quello della «legittimità» interna o europea, da valutare peraltro alla stregua di disposizioni non proprio stringenti.
E, quanto alla «congruità», non si può trascurare che dopo il cd. decreto Dignità e l’intervento correttivo della sentenza n. 194 l’importo che può essere corrisposto al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo raggiunge una misura di tutto rispetto (fino a 36 mensilità) anche in comparazione con i sistemi di tutela degli altri paesi europei. Misura, poi, che nel caso di un licenziamento collettivo affetto da gravissimi vizi procedurali e, perciò, presumibilmente contestato da molti lavoratori, raggiunge per effetto della sua moltiplicazione livelli che sembra possibile ritenere normalmente e mediamente «dissuasivi», tenuto conto che nell’area di tutela rientrano datori di lavoro la cui forza economica è notevolmente diversa .

3. Partita chiusa?
Ci si può chiedere se queste pronunce della CGUE chiudano definitivamente la partita europea aperta contro il decreto n. 23 del 2015.
Come hanno ricordato la Corte costituzionale nella sentenza n. 194 del 2018 e la CGUE non vi sono disposizioni di diritto dell’Unione che impongano agli Stati membri specifici obblighi di tutela contro il licenziamento individuale ingiustificato, sicché non vi sono a prima vista chances di investire efficacemente la CGUE di questioni di compatibilità con gli artt. 20, 21 e 30 della Carta nel contesto di procedimenti di impugnazione di licenziamenti individuali.
E nemmeno, ha detto la CGUE con le pronunce in commento, nel contesto di procedimenti contro licenziamenti collettivi nei quali si faccia questione dei «criteri di scelta».
Pare, dunque, residuare uno spazio per chiamare in causa la CGUE allorquando il giudizio di impugnazione del licenziamento collettivo verta sulla violazione degli obblighi di consultazione e notifica, gli unici, secondo le pronunce della CGUE, che derivano dalla Direttiva.
Senonché, a ben vedere, potrebbe non sussistere un interesse ad una tale iniziativa giudiziale considerato che la tutela prevista per la violazione degli obblighi di informazione e consultazione per i lavoratori assunti prima e dopo il 7 marzo 2015 è sostanzialmente la medesima, per entrambi di carattere indennitario. Forse, anzi, è più vantaggiosa la tutela prevista per gli assunti dal 7 marzo, sia per il numero massimo di mensilità acquisibili (36 invece di 24), sia per l’obbligo del giudice di tener conto ai fini della determinazione del risarcimento dovuto ai lavoratori assunti prima del 7 marzo delle iniziative da loro intraprese per la ricerca di una nuova occupazione, ciò cui non si fa cenno nell’art. 3 del d.lgs. 23 e che non è richiamato nella sentenza n. 194 tra i criteri per graduare l’indennizzo.
Non sembra darsi, in conclusione, una disparità di trattamento da censurare tra assunti prima e dopo il 7 marzo 2015; e, dopo la sentenza n. 194 della Corte Costituzionale, nemmeno seri dubbi di adeguatezza della tutela prevista per questi ultimi, che, in effetti, all’indomani della legge 92 del 2012, nessuno ha avanzato con particolare convinzione.
Considerato, poi, che secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione l’incompletezza della comunicazione agli uffici pubblici di cui all’art. 4, comma 9, della l. n. 223 del 1991 non è di per sé sussumibile nella «violazione dei criteri di scelta» – anche se di fatto può impedire di verificarne il rispetto – nemmeno in tale ipotesi di vizio procedurale sussiste una disparità di trattamento tra vecchi e nuovi assunti che giustifichi il rinvio pregiudiziale alla CGUE magari sotto il profilo della violazione degli obblighi di informazione effettiva dell’autorità pubblica circa la decisione di licenziare, che, come abbiamo visto, è obbligo sancito dalla Direttiva.
Lo strumento per riportare alla ribalta e rimettere in discussione il sistema della doppia tutela contro il licenziamento collettivo illegittimo per violazione dei criteri di scelta resta un ulteriore incidente di costituzionalità, dopo che la Corte Costituzionale con sentenza n. 254 del 2020 ha dichiarato inammissibile quello provocato dalla Corte d’appello di Napoli.
Con una sentenza, a dire il vero, abbastanza severa nella valutazione del presupposto di rilevanza della questione e che lancia ai naviganti un avviso che lascia perplessi circa la necessità, ai fini dell’ammissibilità della questione, di fornire indicazioni univoche circa gli effetti che si «prefigura» dalla declaratoria di incostituzionalità, se la caducazione tout court dell’art. 10 del d.lgs. 23 o la sostituzione del sistema di tutela in esso previsto con il sistema previgente.
Non è, comunque, facilmente ipotizzabile che dopo la sentenza n. 194 la Corte possa tornare sui suoi passi ed attestarsi sulla diversa posizione della irragionevolezza della disparità di trattamento tra vecchi e nuovi assunti; tanto più dopo avere inciso in modo sostanziale sul sistema di tutela dei nuovi assunti per ricondurlo ad adeguatezza.
D’altro canto, la questione della disparità di trattamento si pone nel licenziamento collettivo negli stessi termini in cui si pone nel licenziamento individuale; salvo che la contestualità dei licenziamenti e dei loro effetti rende maggiormente «visibile» la diversità di trattamento, anche se gli effetti non sono più gravi di quelli che si danno nel caso di un licenziamento individuale, magari plurimo.
Indubbiamente il diverso regime di tutela dei lavoratori coinvolti nella stessa procedura di licenziamento collettivo può generare complicazioni, anche gestionale, e secondo alcuni incidere in modo significativo sulla condotta dei datori di lavoro, inducendoli a preferire nella scelta dei licenziandi i lavoratori assoggettati al nuovo regime di tutela, in ragione dei minori rischi cui sono esposti nel caso in cui il licenziamento sia ritenuto illegittimo.
Al riguardo, tuttavia, viene da osservare che la selezione dei licenziandi è governata da regole uguali per tutti, che la partecipazione delle OO.SS. alla procedura - di cui si esalta comunemente il significato e la funzione - dovrebbe essere presidio di scelte non meramente opportunistiche, fondate sul regime di tutela dei licenziandi, e, in ultima analisi, che nel caso in cui possa dimostrarsi, anche per via indiziaria, che la scelta dei licenziandi è avvenuta esclusivamente per giovarsi del più leggero regime di tutela il licenziamento potrebbe essere considerato nullo per motivo illecito se non per frode alla legge.

4. La disparità di tutela e la discriminazione dei lavoratori a termine.
Con l’ordinanza di rinvio pregiudiziale nella quale ha denunciato l’incompatibilità con il diritto dell’Unione della disparità di tutela tra i lavoratori italiani assunti a tempo indeterminato prima e dopo il 7 marzo 2015, il tribunale di Milano ha denunciato anche la violazione del divieto di discriminazione sancito dall’art. 4 dell’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato allegato alla Direttiva 99/70 CE.
Nella prospettazione del tribunale, infatti, la CGUE avrebbe dovuto valutare senz’altro come discriminatoria la previsione dell’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 23 che prevede a favore del lavoratore assunto a termine prima del 7 marzo e che veda «convertito» il suo contratto a tempo indeterminato dal 7 marzo l’applicazione della nuova, deteriore tutela, diversamente da quanto accade a favore del lavoratore assunto in pari data a tempo indeterminato, che resta, invece, soggetto al precedente, più favorevole regime di tutela.
Misurandosi con la censura svolta dal tribunale la CGUE si è ampiamente diffusa per poi concludere che, sempre salve le verifiche che vanno effettuate dal giudice del rinvio, l’assimilazione della «conversione» di un contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato a una «nuova assunzione» deve considerarsi rientrante in una più ampia riforma del diritto italiano che ha l’obiettivo di promuovere le assunzioni a tempo indeterminato e che nel contesto di fatto e di diritto in cui si colloca giustifica la differenza di trattamento.
La CGUE, insomma, ha colto quello che il giudice nazionale sembrava non aver colto nell’ordinanza di rimessione: vale a dire che l’art. 1, comma 2, non è stata dettato per sfavorire irragionevolmente i lavoratori a termine ma per promuoverne la stabilizzazione, evitando che a fronte della prospettiva di poter effettuare assunzioni a tempo indeterminato con un regime di tutela più leggero i datori di lavoro potessero essere indotti a non convertire i rapporti a tempo determinato per l’effetto naturalmente retroattivo della conversione.
La CGUE ha precisato che favorire la conversione dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato costituisce un «obiettivo legittimo del diritto sociale». Ha ricordato, in punto di «adeguatezza» della misura scelta per perseguire l’obiettivo, che gli Stati membri dispongono di un «ampio margine di discrezionalità .. delle misure atte a realizzarlo» e che, a prima vista, salva la verifica del giudice interno, la misura scelta dal legislatore (assimilare la conversione ad una nuova assunzione) appare tale da incentivare i datori a convertire i contratti a termine. E, in punto di «necessarietà» della misura, che gli Stati membri godono un ampio margine di discrezionalità e che se ai contratti convertiti non si applicasse il nuovo regime «sarebbe escluso qualsiasi effetto di incentivo alla conversione dei contrati a tempo determinato in vigore al 7 marzo 2015 in contratti a tempo indeterminato».
Anche sulla questione della discriminazione dei lavoratori a tempo determinato la partita pareva chiusa; tanto più che non sembravano darsi questioni interpretative della normativa interna tali da influire sulla valutazione di adeguatezza del mezzo allo scopo di politica del lavoro del legislatore italiano espressa dalla CGUE.
Il tribunale di Milano, tuttavia, in base alla corretta premessa di essere «l’unico competente ad interpretare» la normativa interna è andato di diverso avviso rispetto alla CGUE non ravvisando nell’intervento del legislatore italiano il perseguimento di alcuna legittima finalità di politica sociale idonea a giustificare la disparità di trattamento tra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato denunciata.
E questo in base ai medesimi argomenti già utilizzati per contestare il giudizio di ragionevolezza della disparità di trattamento tra assunti prima e dopo il 7 marzo 2015 formulato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 194 del 2018 e riportare la questione all’attenzione della CGUE. Argomenti già richiamati sopra (cfr. par. 1) secondo i quali, in sintesi, nessuna correlazione tra riduzione delle tutele e incremento dell’occupazione è avvalorata dalla letteratura economica né dai dati sull’andamento dell’occupazione in Italia nel periodo 2015/2018 in base ai quali «si può ben affermare che l’effetto di incremento dei contratti a tempo indeterminato sia correlata esclusivamente alla legge sugli sgravi contributivi e non alla legge del 2015».
Gli argomenti e le conclusioni del tribunale colpiscono per il loro carattere perentorio e suscitano più di qualche perplessità.
Innanzi tutto, salvo non ritenere che gli errori di valutazione del legislatore circa la misura adeguata ad un certo fine ridondino automaticamente in «irragionevolezza» costituzionalmente rilevante, non convince l’idea secondo la quale l’esercizio della discrezionalità legislativa in materia dovrebbe essere sindacato alla stregua delle valutazioni formulate nella «letteratura economica», in base alle quali l’alleggerimento delle tutele contro il licenziamento «non ha mediamente effetti statisticamente significativi sull’occupazione» o le riforme di flessibilizzazione del lavoro hanno un impatto nullo o marginalmente positivo sui livelli di occupazione nel lungo periodo. E neppure convince l’idea che la «ragionevolezza» di una scelta legislativa debba giudicarsi ex post in base ai risultati derivanti dalla sua applicazione: altro è una scelta sbagliata, altro è una scelta che a priori può essere giudicata manifestamente irragionevole.
In realtà, si può non essere d’accordo con l’alleggerimento delle tutele contro il licenziamento e reputarla una scelta sbagliata anche dal punto vista delle dinamiche occupazionali, ma ciò non autorizza a concludere, con la certezza necessaria per pervenire ad una valutazione di esercizio irragionevole della discrezionalità legislativa, che in un certo contesto, diverso da tutti gli altri in cui sono state sperimentate misure analoghe, la misura non possa produrre entro certi limiti l’effetto sperato, a breve, medio o lungo periodo.
Per altro verso le considerazioni circa l’assenza di correlazione tra la riduzione delle tutele contro il licenziamento e l’incremento dell’occupazione sembrano eccentriche rispetto alla valutazione cui il tribunale era chiamato a seguito della sentenza della CGUE.
Il tribunale, infatti, avrebbe dovuto valutare, non se la riduzione di tutele fosse in generale utile a promuovere l’occupazione, ma se la possibilità di applicare il nuovo regime di tutela introdotto dal d.lgs. n. 23 fosse utile a favorire la conversione dei rapporti di lavoro a termine già in essere il 7 marzo 2015 in rapporti di lavoro a tempo indeterminato e a promuovere così la stabilizzazione di una quota di lavoratori.
La valutazione della CGUE era stata positiva; e i dati delle conversioni nel triennio 2015/2018 sembrano confermarla o, comunque, non smentirla ; anche se, va detto, che valutare i dati è affare in sé complesso, e in questo caso complicato dal fatto che la conversione è stata senz’altro incentivata anche dallo sgravio contributivo introdotto dalla legge di stabilità per il 2015.
Resta da osservare che la rilevanza del tema meritava, forse, che in luogo della semplice disapplicazione nel processo dell’art. 1, comma 2, il tribunale investisse della questione della sua legittimità la Corte Costituzionale così da ottenere una pronuncia efficace nell’intero territorio nazionale ed evitare situazioni di incertezza destinate a protrarsi fino all’intervento della Corte di Cassazione e le conseguenti odiose disparità di trattamento tra lavoratori a termine nella medesima situazione.

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