Testo integrale con note e bibliografia

1. La nozione legale di subordinazione desumibile dall’art. 2094 c.c. postula, quale presupposto, quello della eterodirezione, da intendersi come il potere del datore di lavoro di dirigere la prestazione verso un risultato atteso .
Al di là del paradigma legale del lavoro subordinato, l’eterodirezione è stata valorizzata, nel tempo, al punto punto di ergersi quale elemento costitutivo determinante per la verifica della subordinazione, se non addirittura di essere intesa come sinonimo della subordinazione stessa.
Tale conclusione, sebbene sottoposta a critica nell’ambito del nutrito dibattito sul confine tra prestazioni di lavoro subordinato e autonomo , non presenta particolari problematiche nell’ambito dell’indagine sull’effettiva titolarità del rapporto di lavoro, dal lato datoriale, nelle ipotesi di appalto illecito.
Quest’ultima evenienza è assai frequente nei casi in cui le lavorazioni vengono affidate per mezzo di appalti endoaziendali labour intensive nel settore della logistica.
Si tratta, in particolare, degli appalti sostanzialmente fondati sull’apporto di manodopera, in cui viene demandato a terzi lo svolgimento di «attività concernenti un settore dell’organizzazione tecnica propria dell’attività dell’impresa concedente l’appalto, ossia uno dei servizi principali o ausiliari predisposti ai fini della realizzazione del suo ciclo produttivo» .
Come noto, l’art. 29, comma 1, d.lgs. 276/2003 distingue il contratto di appalto di cui all’art. 1655 c.c. dalla somministrazione di lavoro, facendo leva sulla necessaria ricorrenza, in capo all’appaltatore, dell’organizzazione dei mezzi necessari per lo svolgimento dell’attività.
Tale elemento deve risultare dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori impiegati nell’appalto nonché dall’assunzione, in capo all’appaltatore stesso, del rischio di impresa .
Nelle ipotesi in cui il rapporto lavorativo non risulti conforme ai requisiti delineati dalla legge per l’appalto, lo stesso viene qualificato come contratto di somministrazione, la cui legittimità deve essere a propria volta valutata sulla base dei requisiti di legge .
In tale prospettiva, l’elemento centrale ai fini dell’indagine riguarda prioritariamente l’effettiva titolarità del potere direttivo in capo all’appaltatore ovvero, nei casi patologici, al formale committente.
Ciò al fine di accertare se un «fisiologico decentramento» dei poteri datoriali debba ritenersi, nella sostanza, aggirato per mezzo di un intento elusivo dei vincoli normativi scaturenti dall’assunzione diretta della forza lavoro .
La giurisprudenza ha precisato in più occasioni che le disposizioni vigenti prevedono una chiara distinzione tra il contratto di appalto (artt. 1655 ss. cc.) e la somministrazione di lavoro, incentrata nella strumentalità dell’organizzazione dei mezzi dell’appaltatore rispetto alla realizzazione del servizio.
In particolare, tale differenza risiede:
§ nell’organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati;
§ nella necessaria assunzione, in capo all’appaltatore, del rischio di impresa.
I requisiti di cui sopra debbono essere necessariamente riscontrabili nell’appalto per ritenerne la genuinità.
Ai fini dell’indagine sulla liceità degli appalti anche dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 276/2003, la giurisprudenza più recente richiama gli orientamenti elaborati anche nel periodo precedente, nella vigenza della l. 1369/1960 .
In base a tali orientamenti, era ritenuto illecito un appalto «il cui oggetto consista nel mettere a disposizione del committente una prestazione lavorativa, lasciando all’appaltatore-datore di lavoro i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (retribuzione, assegnazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione mediante le opportune sostituzioni), ma senza una reale organizzazione della prestazione stessa finalizzata ad un risultato produttivo autonomo» .
Queste posizioni risultano tendenzialmente condivise anche dalla giurisprudenza di legittimità e di merito maturata in epoca successiva all’entrata in vigore del d.Lgs. 276/2003.
Sul punto, è stato chiarito che, ferme le distinzioni ontologiche tra la disciplina di cui al d.lgs. 276/2003 e quella previgente, sia tutt’ora possibile rinvenire nei principi dell’abrogata l. 1369/1960 «alcuni parametri significativi al fine della verifica della ricorrenza o meno di un contratto di appalto attraverso il quale si intenda eludere le disposizioni che disciplinano il mercato del lavoro. Ciò, in particolare, tenendo conto che il citato art. 29 fa riferimento, giova ribadirlo, nell’indicare le peculiarità del contratto di appalto, all’organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, nonché per la assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d’impresa» .
Tale impostazione è riscontrabile anche a livello ministeriale, laddove si è posta l’attenzione sull’esigenza di valutare, ai fini della valutazione sulla liceità di un appalto, se l’assetto organizzativo complessivo dell’appaltatore consenta di ritenere soddisfatta la «soglia minima di imprenditorialità», ovverosia la sussistenza di una struttura imprenditoriale adeguata rispetto all’oggetto del contratto .
Inoltre, recente giurisprudenza ha ribadito come non sia essenziale un autonomo accertamento della natura fittizia dell’impresa appaltatrice «atteso che, una volta accertata l’estraneità dell’appaltatore all’organizzazione e direzione del prestatore di lavoro nell’esecuzione dell’appalto, rimane priva di rilievo ogni questione inerente il rischio economico e l’autonoma organizzazione del medesimo» .
In sintesi, «ciò che rileva […] è piuttosto un potere di direzione, di conformazione del lavoro nel servizio.
D’altra parte, alla titolarità di un simile potere in capo all’appaltatore nel rapporto con i suoi dipendenti deve corrispondere, necessariamente, sul piano dei rapporti tra appaltatore e committente e in accordo ancora con la nozione codicistica di appalto, un minimo necessario di autonomia dell’appaltatore nell’esecuzione del servizio rispetto alle indicazioni del committente, indicazioni che non potranno essere così stringenti da risolversi nella concreta direzione del lavoro dei dipendenti dell’appaltatore, magari per il tramite di un preposto del formale appaltatore mero portavoce delle direttive del committente.
Così che risulta decisivo accertare non la mera presenza di un referente dell’appaltatore sul luogo di lavoro, ma un suo ruolo effettivo ed autonomo di intervento nell’esecuzione della prestazione» .
Da ultimo, è stato stabilito che nei casi di appalti ad alta intensità di manodopera (c.d. labour intensive) è irrilevante che manchi, in capo al formale committente, l’intuitus personae nella scelta del personale, essendo invece dirimente verificare la sussistenza di una effettiva e autonoma organizzazione del lavoro in capo al soggetto appaltatore .
In buona sostanza, la giurisprudenza maturata dopo l’abrogazione della l. 1369/1960 ha inteso recuperare una visione «sostanzialistica» dell’assetto dei rapporti trilaterali tra committente, appaltatore e lavoratori, valorizzando una serie di indici da cui possa desumersi la correttezza dell’imputazione dei rapporti di lavoro all’appaltatore stesso ovvero, nei casi patologici, l’individuazione in capo al committente di un centro di imputazione delle obbligazioni datoriali.

2. Nel settore della logistica è sempre più frequente che le lavorazioni vengano svolte con l’utilizzo, da parte del personale, di un sistema di voice-picking, le cui caratteristiche possono essere così riepilogate per sommi capi: l’azienda raccoglie gli ordini della merce da parte dei propri clienti finali e, attraverso una verifica manuale oppure automatizzata, li inserisce in un database interno per il successivo «lancio», ossia per la trasmissione degli ordini stessi al personale operante nei magazzini che è chiamato ad eseguirli.
Il lavoratore, all’inizio del turno, viene dotato di una strumentazione (solitamente una cuffia auricolare e un microfono), che gli trasmette le informazioni attraverso un ricevitore connesso alla rete.
Le informazioni, solitamente, coincidono con le specifiche direttive secondo cui svolgere la prestazione richiesta.
In considerazione della natura delle mansioni svolte abitualmente dal personale operante nel settore della logistica, si tratta, di base, del numero e della tipologia dei colli da movimentare da un punto a un altro (internamente o esternamente all’ambiente lavorativo), cui si accompagna di colli da movimentare da un punto A a un punto B, cui fa seguito, ordinariamente, l’annotazione dell’operazione e la registrazione del tempo occorrente per svolgerla.
Terminata la singola operazione, il lavoratore fornisce un output al sistema operativo, che gli trasmette un nuovo ordine con analoghe modalità.
Solitamente, l’utilizzo del sistema di voice-picking, ove adottato, permea l’intera giornata lavorativa e costituisce il principale strumento che governa lo svolgimento delle mansioni del lavoratore.
Dal lato imprenditoriale, il sistema di voice-picking risulta decisamente vantaggioso, in quanto aumenta la produttività del lavoratore, il quale lavora «a mani libere».
Tale aspetto è di particolare rilevanza nell’ambito della cosiddetta «catena del freddo», in cui i lavoratori devono dotarsi di D.P.I. particolarmente invasivi che renderebbero oltremodo difficoltosa l’evasione delle direttive trasmesse in via cartacea.
L’attività del picker è usualmente monitorata dai responsabili, i quali possono controllare, in tempo reale, l’intero svolgimento nel dettaglio delle mansioni da esso svolte (quali, ad esempio, il codice del cliente al quale è rivolta una certa operazione; gli spostamenti fisici del lavoratore all’interno dell’area di stoccaggio; la percentuale di avanzamento di un’operazione; la velocità nel compimento dell’operazione; il dialogo tra il picker e il sistema voice, ecc.).
In buona sostanza, una voce sintetica dirige il lavoratore, adeguatamente identificato, nei singoli compiti da svolgere, dettandone anche i tempi; inoltre, l’intera strumentazione è normalmente idonea a controllare le modalità di svolgimento di ogni singolo compito da parte del lavoratore, dovendosi tuttavia rispettare i principi più volte scolpiti dall’Autorità Garante per la Privacy, intervenuta anche recentemente proprio sulla determinazione della natura degli strumenti utilizzati allo scopo di stabilire la liceità della raccolta e del trattamento dei dati dei dipendenti .
Siffatto sistema parrebbe delineare - peraltro con tratti assai stringenti - i poteri direttivo e di controllo nei confronti del lavoratore.
Laddove il ciclo produttivo sia, in tutto o in parte, oggetto di un contratto di appalto endoaziendale (circostanza, questa, assai frequente nel settore di cui si discute) occorre allora valutare se l’utilizzo della strumentazione di cui sopra possa avere una certa incidenza relativamente alla valutazione sulla genuinità del contratto di appalto.
A tal fine, è necessario comprendere se il sistema di voice-picking (o sistemi analoghi), ove utilizzato nell’ambito di un appalto ex art. 1655 c.c., sia in grado di costituire un elemento rilevante per ritenere integrata un’ipotesi di interposizione illecita di manodopera laddove le componenti della strumentazione (software, hardware e terminali operativi) siano di proprietà, ovvero rientrino comunque nella disponibilità, dell’impresa committente.

3. La questione è stata affrontata in alcune occasioni dalla giurisprudenza di merito, che non è giunta a conclusioni univoche.
Secondo un primo orientamento , l’utilizzo di un sistema informatico per la gestione degli ordini costituirebbe un semplice mezzo, tecnologicamente avanzato, con cui il committente individua il servizio da svolgere di volta in volta.
Si tratterebbe, quindi, di una programmazione «a monte» dell’attività da svolgere nell’ambiente lavorativo ma non di una modalità di organizzazione del personale da impiegare nell’esecuzione del contratto di appalto.
Quanto alla genuinità dell’appalto sarebbe allora necessario verificare a chi competa la scelta del personale da utilizzare, sia dal punto di vista della professionalità che del numero: sarebbe quest’ultimo aspetto - e non altro - a costituire l’elemento di decisiva rilevanza, tenuto conto che l’investimento sulla manodopera configurerebbe il dato economico (decisamente) più significativo negli appalti labour intensive.
Difatti, tale elemento sarebbe idoneo a costituire la fonte del rischio di impresa, la cui imputazione all’appaltatore rappresenta l’elemento centrale da riscontrare ai fini della complessiva valutazione sulla legittimità di un appalto.
In buona sostanza, l’utilizzo di un sistema di voice-picking, in uno con l’indagine sul relativo regime proprietario, rappresenterebbe un elemento di scarsa rilevanza per la verifica in questione, che dovrebbe essere preferibilmente orientata sul riscontro di altri elementi.
Un secondo orientamento, assunto, in epoca relativamente recente, dal Tribunale di Padova , valorizza maggiormente l’incidenza di una relazione informatizzata tra committente e lavoratore come elemento rilevante per riscontrare la genunità, o meno, di un appalto.
Le statuizioni adottate dal giudice patavino prendono le mosse da una sentita esigenza di attualizzare il concetto stesso di «eterodirezione», rapportandolo con l’evoluzione tecnologica e con l’utilizzo di strumentazioni che siano comunque idonee a configurare i poteri datoriali tipici, specie negli appalti labour intensive, in cui i «beni strumentali» dell’appaltatore sono nulli o insignificanti.
Infatti, in tali settori risulterebbe obsoleta la relazione tra «superiore» e «subordinato», essendo rimesso direttamente alle macchine il compito di guidare materialmente il processo produttivo.
Nella fattispecie, era risultato che l’appaltatore svolgesse una funzione di controllo priva di discrezionalità, essendo i ritmi e le modalità di lavoro dettati dalla committente mediante l’ausilio del sopra descritto sistema di voice-picking.
Inoltre, il sistema informatico doveva essere «allenato» a riconoscere la voce del lavoratore per associarlo al proprio codice identificativo, con cui la committente avrebbe potuto - almeno sul piano teorico - esercitare un potere di controllo a distanza sulle mansioni del lavoratore, formalmente dipendente dell’impresa appaltatrice.
Proprio tale ultimo aspetto è stato parimenti valorizzato, poiché l’esercizio di un potenziale controllo a distanza secondo le modalità sopra citate sarebbe idoneo a realizzare un trattamento non autorizzato dei dati di lavoratori di imprese terze, elemento (ritenuto) utile a rinvenire nel committente il titolare dei poteri datoriali.
In sintesi, questo approccio riconosce e configura la eterodirezione anche nell’ipotesi in cui il processo produttivo sia guidato da un sistema informatico di proprietà del committente .
Come efficacemente individuato dai primi commentatori della pronuncia , la sentenza sembra alludere al fatto che il proprietario del sistema informatico, oppure anche chi ne abbia la materiale disponibilità, eserciti al contempo sia il potere direttivo che il potere di controllo, consentendo di ritenere integrata, in proprio capo, l’imputazione delle obbligazioni datoriali.

4. L’orientamento giurisprudenziale secondo cui l’impiego del sistema di voice-picking nell’esecuzione di un appalto configuri un elemento rilevante, se non addirittura decisivo, in ordine all’indagine sulla liceità dell’appalto stesso, appare condivisibile.
Come detto, il voice-picking è - dal punto di vista tecnico - un sistema complesso, che consta di una parte software, di una componente hardware e di un insieme di beni strumentali.
Ove, a seconda delle fattispecie concrete, il lavoratore svolgesse per intero le proprie mansioni eseguendo gli ordini trasmessi dal voice, questa «relazione informatizzata» tra la voce artificiale e il lavoratore stesso parrebbe, effettivamente, rilevante ai fini della ricerca del soggetto a cui effettivamente imputare il rapporto di lavoro.
Non sembra corretto, peraltro, limitare il campo d’analisi al mero riscontro in ordine al regime proprietario del sistema per trarre delle conclusioni definitive sulla genuinità dell’appalto.
Ciò in quanto le vigenti disposizioni normative non sembrano introdurre alcuna presunzione di non genuinità di un appalto sulla base della mera constatazione del fatto che i mezzi strumentali ivi impiegati siano di proprietà del committente (e non dell’appaltatore), ben potendo – gli stessi – rientrare nella disponibilità dell’appaltatore pur rimanendo di proprietà del committente, a fronte di un’apposita pattuizione tra il primo e il secondo (ad esempio, un contratto d’uso).
Infatti, alla luce dell’art. 29 d.lgs. 276/2003 e delle linee interpretative seguite dalla giurisprudenza nelle ultime due decadi, ciò che parrebbe effettivamente decisivo sarebbe il regime «dispositivo» (e non puramente «proprietario») dei beni in questione.
Invero, laddove un appalto prevedesse l’impiego del sistema di voice-picking e tale sistema fosse, anche al di là dello specifico regime proprietario, materialmente gestito o controllato dal committente, tale evenienza parrebbe costituire un elemento idoneo a privare l’appaltatore di quel margine di autonomia nell’esecuzione delle prestazioni che è elemento sufficiente e necessario per riscontrare l’illiceità di un appalto. Autonomia che deve necessariamente essere riscontrabile in concreto, al di là del nomen iuris attribuito da committente e appaltatore alla propria relazione negoziale.

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