testo integrale con note e bibliografia

PREMESSA
Davanti alle Corti di merito, si è di recente posto il caso della rimozione di video dal canale Youtube di un giornalista professionista, il quale svolge come free-lance la propria attività prevalente in detta piattaforma.
La circostanza si è ripetuta diverse volte ed è stato così raggiunto un numero di sanzioni tale per cui, a fronte di un ulteriore strike , sarebbe intervenuta la rimozione del canale . La cancellazione definitiva ha carattere tombale, impedendo di salvare qualsiasi contributo prodotto e distribuito mediante la piattaforma.
Il contraddittorio col gestore, pur previsto al fine di decongestionare il contenzioso, non reca alcuna utilità reale, risolvendosi la procedura interna di contestazione della sanzione in una mera formalità, che sovente si conclude con la conferma delle decisioni adottate (tra le quali, l’asportazione dei video dal sito, il blocco del canale, l’impossibilità di realizzare nuove trasmissioni in diretta o di caricare altri video per la settimana successiva al provvedimento).
In particolare, il cd. Team Creator del gestore del servizio, ovvero l’organo con cui si svolge il confronto, non motiva alcunché di specifico circa le ragioni per cui i contenuti caricati on-line si porrebbero in contrasto con le cd. “Norme della Community”, solo invitando, allo scopo, a “dare un’occhiata” alla sezione dedicata.
Orbene, è evidente che in assenza di motivazione, non essendo chiari i motivi presupposti alla rimozione dei video (rimanendo indeterminati gli imprecisati rinvii alle Norme della Community), non è dato opporsi validamente alla misura sanzionatoria e non è certo possibile agire con serenità e libertà nell’esercizio della professione, stante il rischio non governabile della rimozione definitiva del canale.
E’ quindi lampante il sacrificio dei diritti di professionista, nonché delle funzioni -anche di pubblico interesse e utilità- svolte in qualità di giornalista.
Informare la cittadinanza, in ossequio al principio del pluralismo e della libertà di manifestazione del pensiero, è infatti impedito dalla condotta arbitraria -in odore di censura- di un operatore privato, monopolista, che per l’uso e la monetizzazione del canale impone unilateralmente condizioni all’utenza.

1. IL CONTRATTO B. TO B., LA FORMULA DEL “PRENDERE O LASCIARE” E L’ABUSO “IMPROPRIO” DI POSIZIONE DOMINANTE
Dal punto di vista strettamente negoziale, il rapporto tra il professionista titolare di un canale e Youtube si presenta sperequato. Classificabile come b. to b., esso lega un piccolo operatore commerciale con un grande operatore e non consente una reale contrattazione, improntandosi la genesi del rapporto a una logica di take it or leave it, “prendere o lasciare”: non essendo dato ricercare utilmente altri operatori sul mercato di riferimento, stante il monopolio di Youtube nelle piattaforme on-line di condivisione dei contenuti, al fine di svolgere utilmente la propria professione di giornalista indipendente, il piccolo professionista accetta di stipulare il contratto anche se gli impone condizioni inique (tuttavia, se potesse scegliere, più probabilmente che no, non concluderebbe un negozio che lo svantaggia).
Come noto, ciascuna per la propria specializzazione, le realtà Google-Apple-Facebook-Amazon-Microsoft costituiscono un oligopolio mondiale entro cui si distinguono monopoli settoriali, tanto da essere stato perfino istituito l’acronimo GAFAM per indicarlo. Ad Amazon va riconosciuto il monopolio dei commerci on-line e delle spedizioni, a Facebook (con Meta) quello dei social network, ad Apple, invece, spetta il monopolio degli hardware (pc, tablet, smart-phone), mentre a Google -segnatamente, la sua Youtube- si assegna il monopolio dell’informazione indipendente on-line e delle piattaforme di condivisione di contenuti .
There is no alternative .
Ne consegue che il gestore abusa della propria posizione dominante sul mercato.
In termini generali, ai sensi dell’art. 3 della L. 287/90, l’abuso di posizione dominante consiste nella imposizione diretta o indiretta di condizioni ingiustificatamente gravose, nonché nella subordinazione della conclusione dei contratti all'accettazione, da parte degli altri contraenti, di prestazioni supplementari inconferenti con l'oggetto dei contratti stessi.
L’approfittamento di Youtube si atteggia, però, in modo peculiare, tanto da potersi parlare di abuso improprio di posizione dominante.
Infatti, non si tratta di una condotta volta a limitare la concorrenza o tenuta in ragione di illeciti interessi economici; piuttosto, il gestore della piattaforma impone surrettiziamente (take it or leave it) decisioni arbitrarie circa i contenuti e le informazioni condivisibili nel canale, conformandoli al proprio interesse.
Mediante contestazioni generiche, accompagnate da motivazioni vaghe e incomprensibili, Youtube tiene in scacco i titolari del canale, minacciando una sanzione tombale -gravemente pregiudicante per un professionista- nel caso in cui non adeguino la loro condotta e i contenuti che caricano nella piattaforma ai desiderata del gestore. In altre parole, si tratta di una forma di censura ad libitum, che impedisce il sereno svolgimento della professione di giornalista, come di ogni altra professione intellettuale, e che ne mina la libertà di iniziativa economica, paralizzandone l’attività. Invero, l’assenza di indicazioni precise e chiare circa i motivi per cui si rappresenta come possibile conseguenza del caricamento del video perfino la chiusura irreversibile del canale e la contestuale sospensione degli utili dallo stesso ricavabili -come si chiarirà di seguito- mette in condizione il giornalista di adeguarsi obtorto collo a una sorta di linea editoriale dettata da Youtube .
Se n’è avveduto, di recente, il legislatore, che è intervenuto in materia, evidenziando come sia ormai necessario “accendere un faro sulle "dinamiche disfunzionali" che interessano il sistema della comunicazione sul web, dove i soggetti gestori delle piattaforme "si atteggiano, in buona sostanza, a 'padroni' dei contenuti che vengono veicolati per il loro tramite, applicando le proprie regole di condotta anche a dispetto delle normative interne degli Stati in cui operano” .
Ciò, evidentemente, sempre per il legislatore, ha lo scopo di “orientare il messaggio politico, facendo emergere e rendendo accessibile prevalentemente un determinato tipo di contenuti a scapito di altri ritenuti meno meritevoli di diffusione".
Va soggiunto, al riguardo, che la riserva di cancellazione che il gestore mantiene su di sé va oltre i doveri legali della piattaforma.
Il Testo Unico per la fornitura di servizi di media audiovisivi in considerazione dell’evoluzione delle realtà del mercato (D. Lgs. n. 208/21), all’art. 41, applicabile ai fornitori di servizi di piattaforma per la condivisione di video stabiliti sul territorio nazionale, richiama al sesto comma gli articoli 3, 4, 5 e da 14 a 17 del diverso D.lgs. 70/03, prevedendone l’applicazione. In particolare, l’art.17 di quest’ultimo decreto chiarisce che nella prestazione dei propri servizi, il prestatore “non è assoggettato ad un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmette o memorizza, né ad un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite”. Per tali si deve intendere, evidentemente, attività contrarie al diritto nazionale e non anche confliggenti con statuizioni private, dettate dall’arbitrio esclusivo della società che gestisce la piattaforma .
Almeno allorché si verta fuori dai discorsi d’odio (cd. hate speech), quindi, la rimozione dei contenuti assume le sembianze di una vera e propria forma di censura privata, praticata da un imprenditore commerciale nell’esercizio della propria esclusiva discrezionalità.
In proposito, occorre notare, però, che l’ablazione di contenuti espressivi della manifestazione di pensiero e/o di opinioni altrui non è effettuata entro una cornice privatistica, in un rapporto iure privatorum, ma in un contesto che ha assunto ormai una natura pubblicistica.
Il trittico Google-Youtube/Facebook/Twitter è ormai divenuto la nuova agorà , le citate piattaforme risultando luoghi imprescindibili per l’espressione dell’identità personale dei cittadini. Si tratta di vere e proprie formazioni sociali ai sensi dell’art.2 Cost., entro le quali manifestare se stessi e la propria personalità, che impongono alla Repubblica di riconoscere e garantire al loro interno i diritti inviolabili dell’uomo. Tra questi, certamente si inscrivono il diritto al lavoro, la libertà di manifestazione del pensiero e il diritto di accesso libero ai luoghi, cioè la garanzia della fruibilità erga omnes dei servizi -pubblici- resi mediante tali piattaforme.
Evidentemente, ciò deve avvenire nei limiti di legge, potendo l’esclusione dipendere solo dalla commissione di illeciti ai sensi della normativa nazionale in cui il gestore opera o risiede, ma non anche per clausole meramente potestative imposte dalla piattaforma.
Non si comprende, del resto, su quali basi, agendo in forza esclusiva di una discrezionalità privata sia possibile espellere un cittadino da un contesto pubblico; nemmeno si comprende come la stessa sorte possano subire i contenuti (ad esempio, di stampa) caricati sulle piattaforme di detti gestori, allorché non si estrinsechino in violazioni di legge. Tanto vale specialmente fuori da obblighi legali di rimozione dei contenuti caricati on-line, di fronte ai quali non v’è rischio alcuno di sanzione ove il gestore li mantenga .
Sicché, la deliberata attività di ricerca e cancellazione di contenuti espressivi di opinioni sostanzia una forma di censura privata attiva, che confligge con la necessità di tutela dei diritti di rango costituzionale, dovendo essere garantita la permanenza on-line di tali contenuti se si vuole riconoscere, come si ritiene dovuto, la natura almeno para-pubblicistica di quegli spazi, non certamente escludibili né limitabili da parte di un quisque privato .

2. L’IMPATTO SUL DIRITTO AL LAVORO E LA SCELTA DEL RITO
Come dianzi accennato, sebbene Youtube sia formalmente un semplice operatore di mercato, è innegabile che il suo ruolo di monopolista influisce sul servizio che svolge, implicando la necessaria presenza nello spazio di mercato che cura e organizza. In assenza di alternative reali, operare nella piattaforma è divenuto necessario per realizzare non solo finalità professionali, ma anche la propria identità personale, come già accennato.
Quanto all’informazione, ad esempio, la rassegna dei fatti quotidiani non passa più esclusivamente, né principalmente, per stampa e tubo catodico, ma tali strumenti sono stati quasi del tutto soppiantati da quelli offerti via web. Le nuove tecnologie e le piattaforme del mercato on-line stanno divenendo il riferimento essenziale per le attività tradizionalmente svolte dagli organismi pubblici, come la Radiotelevisione Italiana.
Ne discende che le condizioni per l’adesione alla piattaforma non sono discusse come avviene ordinariamente nella relazione di diritto privato, tra pari, ma sono imposte dalla parte strutturalmente forte del rapporto, cioè Youtube.
Pertanto, allorché il gestore approfitta della propria posizione, non consentendo la pubblicazione di video o contenuti in base al proprio arbitrio, lede il diritto al lavoro del giornalista, dal canto suo tenuto a una condotta di astensione per scongiurare il rischio di perdere la possibilità di lavorare nella piattaforma, ove svolge la propria attività prevalente: le sanzioni pregiudicano l’esercizio della professione, la libertà di iniziativa economica e perfino della libertà di manifestazione del pensiero dell’intestatario del canale, con la conseguente produzione di effetti negativi anche sull’interesse generale al pluralismo divulgativo.
Tanto chiarito, occorre soffermarsi sui rimedi offerti, in tal caso, dall’ordinamento.
In assenza di una legge specifica in materia, è certamente possibile richiamare le previsioni generali, che specialmente in merito alla scelta del rito si rivelano idonee alla protezione delle posizioni giuridiche incise.
In particolare, assolve una funzione di garanzia per il lavoratore il cosiddetto “rito lavoro”, che mira alla salvaguardia del diritto al lavoro, atteggiandosi in modo peculiare rispetto a quello civilistico ordinario. L’art. 409 c.p.c. disciplina un rito speciale a cognizione piena, che il n.3) della medesima disposizione rende applicabile ai contenziosi relativi a rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione d’opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato .
Per valutare, quindi, se il caso in trattazione sia sussumibile nella previsione generale è necessario passare in rassegna tali presupposti applicativi e verificare se sussistano effettivamente.
Preliminarmente, il rapporto deve essere di collaborazione, per tale intendendosi una forma di scambio professionale tra il gestore della piattaforma e il titolare del canale.
Già in regime di contratto base con Youtube è facile riscontrare che, nei Termini di servizio, lo stesso gestore prende in considerazione l’ipotesi che la piattaforma possa essere utilizzata nell’ambito di una attività professionale.
Invero, nell’accordo si riscontra una limitazione di responsabilità per la società valida “solo per Utenti aziendali”, cioè nel rapporto con coloro che utilizzano il servizio “nell'ambito della attività commerciale, aziendale, artistica o professionale”.
Tale circostanza consente, evidentemente, di inscrivere il rapporto tra quelli professionali in senso stretto, cioè destinati allo svolgimento di attività di lavoro.
Vieppiù, al contratto base può aggiungersi un secondo contratto, cosiddetto di monetizzazione e proprio nel collegamento tra i due schemi negoziali può scorgersi l’astratta riconducibilità del contratto tra professionista e Youtube al tipo richiesto dall’art.409, n.3, c.p.c.
Lo schema negoziale in parola si snoda entro un doppio livello: quello di cui si è dato dianzi atto, consistente nella sola apertura del canale, a cui si accompagna il contratto, ulteriore e successivo, di partenariato (cd. Programma partner di Youtube) .
Secondo tale contratto: “5.3. Attraverso il programma denominato "YouTube Partner Program", Google permette la cosiddetta "monetizzazione" dei video caricati dagli utenti su YouTube tramite la loro associazione a messaggi pubblicitari creati in modo autonomo dagli inserzionisti attraverso la piattaforma Google Ads”: “gli introiti pubblicitari derivanti dalla visualizzazione delle pubblicità su un dato video vengono ripartiti tra Google e l'utente che l'ha caricato sulla base dei criteri di revenue-sharing indicati nei Termini e Condizioni del servizio e nei documenti cui essi rinviano” .
Si conferma, perciò, un rapporto di collaborazione che permette “la condivisione delle entrate provenienti dagli annunci pubblicati sui tuoi contenuti” (riporta la p.1 del Programma Partner) e dunque la relazione è schiettamente commerciale, di tipo professionale.
Ai fini dell’applicabilità del rito lavoro, sicché, occorre valutare la sussistenza degli ulteriori requisiti del coordinamento e dello svolgimento della prestazione in forme prevalentemente personali.
Questo secondo aspetto appare di facile rilevazione, stante la generale possibilità di impiegare il canale Youtube a fini professionali: le prestazioni d’opera, artistica e intellettuale (come quella di giornalista), che compongono pressoché integralmente o nella parte più rilevante i contenuti offerti dalla piattaforma, si connotano proprio per il loro carattere personale.
Diversamente, una riflessione più approfondita merita il coordinamento.
La descritta collaborazione continuativa e personale, invero, deve estrinsecarsi in una prestazione coordinata.
Il significato di collaborazione coordinata è offerto oggi dallo stesso codice di rito (art. 409 c.p.c.): la prestazione continuativa è coordinata quando è svolta nel rispetto delle modalità stabilite di comune accordo dalle parti e il collaboratore organizza autonomamente l’attività lavorativa.
Se questo secondo aspetto fotografa un rapporto di lavoro di tipo non subordinato, giusta il fatto che il lavoratore è nella condizione di scegliere il luogo ove prestare la propria attività e non sottostare a orari di lavoro e turni organizzati dal datore (come invece avviene nella cd. etero-direzione), è pur vero però che si parla di para-subordinazione allorché il comune accordo delle parti circa l’esercizio della prestazione si connoti per un vincolo modale finalizzato al suo svolgimento.
In termini generali, per la giurisprudenza di Cassazione (cfr., ex multis, Cass. 29437/2017) il requisito del coordinamento dell'attività del lavoratore con le finalità del committente richiede un certo grado d'ingerenza del committente nelle modalità di esercizio della prestazione professionale.
Nel rapporto con Youtube, ciò può individuarsi nella direzione dell’operato del professionista da parte del gestore della piattaforma : la società detta i tempi di caricamento dei video e ne modula il contenuto, imponendo una prestazione d’opera continuativa e svolta secondo certe indicazioni di dettaglio, potendosi perfino giungere a ritenere il lavoratore-partner un soggetto inserito nell’organizzazione aziendale .
Invero, come si legge nei termini e nelle condizioni del modello di contratto predisposto dal gestore, è fatto obbligo all’utente -quindi anche a quello aziendale- di produrre in modo continuato contenuti, dovendo “Mantenere attivo il canale per continuare a guadagnare (…) potremmo disattivare la monetizzazione sui canali che non hanno caricato video o pubblicato post nella scheda Community per almeno sei mesi”.
La lettera del contratto è chiara ed eloquente: se il professionista, titolare del canale, vuole continuare a guadagnare deve mantenerlo attivo, caricandovi con una certa frequenza contenuti.
Relativamente all’oggetto dei contenuti, invece, tra le norme sulla monetizzazione nei canali Youtube è presente la voce “Rispetto delle Norme del programma AdSense”, ove si legge che “Contenuti ripetitivi [per cui si intendono] i canali che presentano contenuti molto simili tra loro, tanto che gli spettatori potrebbero faticare a notare le differenze tra i video dello stesso canale”, possono mettere il gestore nella condizione di rimuovere la monetizzazione dall’intero canale “se molti dei (...) video violano le nostre norme” (tra le quali evidentemente si inscrive detta ripetitività). Orbene, è evidente che la ripetitività non integra una violazione di legge, ma esprime una modalità operativa la cui valutazione ha un connotato schiettamente discrezionale; cosa è, infatti, “ripetitivo” spetta solo a Youtube deciderlo.
Se, per esempio, un artista-partner decidesse di proporre nel proprio canale una prestazione d’opera basata su minime variazioni, per esempio recitando poesie sempre diverse ma solo in minima parte, Youtube potrebbe escludere la monetizzazione nonostante la validità del rapporto contrattuale. Orbene, se anche l’artista avesse la volontà di esprimere la propria opera professionale reiterando la stessa poesia e variando solo contenuti impercettibili, subirebbe probabilmente il sacrificio di non ritrarre utili e dunque, in concreto, è ragionevole ritenere che conformerà la propria condotta alle prescrizioni del gestore per non perdere le utilità collegate al contratto. Il professionista nella realtà, come l’artista nell’esempio d’invenzione, non può quindi esprimersi liberamente per mantenere in esecuzione il partenariato e incassare utili lavorando: un’evidente forma di etero-direzione.
Inoltre, proseguendo nella lettura delle norme del contratto di partnership si scorgono ulteriori riferimenti ai tipi di contenuto consentiti per monetizzare, dovendo essi essere: “accattivanti e interessanti da guardare per gli spettatori. In altre parole, se lo spettatore medio è in grado di distinguere chiaramente la variazione dei contenuti tra un video e l'altro sul tuo canale, quest'ultimo è idoneo alla monetizzazione”.
V’è poi un elenco degli “Esempi di contenuti non monetizzabili” che conferma l’assunto del coordinamento e che preme evidenziare in quanto è composto da espressioni vaghe e indeterminate, tali da non consentire una esatta qualificazione di quanto può o non può generare monetizzazione (oltre ai già richiamati accattivanti, interessanti, si pensi ad aggettivi come salienti o ad espressioni tipo “gli spettatori potrebbero faticare a notare le differenze”, oppure ai contenuti caricati molte volte -quante?-, a quelli superficiali con valore didattico -superficiali secondo chi?-, oppure ancora al riferimento ai canali che presentano contenuti solo leggermente diversi tra un video e l'altro -quanto leggeri? In che termini?). Si tratta di un elenco dichiaratamente “non esaustivo”, che appalesa l’ampia discrezionalità della piattaforma nella valutazione propedeutica alla monetizzazione, in un meccanismo che non mette in condizione di prevedere quando il ricavo potrà darsi in concreto e, parimenti, esclude di potersi mettere al sicuro dalla sua perdita.
L’esecuzione negoziale è, pertanto, rimessa alla completa potestà del gestore della piattaforma, sussistendo una vera e propria modulazione da parte di Youtube delle forme e delle modalità con cui estrinsecare e realizzare la prestazione in partenariato: la società -fuori da ogni bargaining nella fase precontrattuale e in assenza di termini contrattuali oggettivi, determinati e chiari- impone unilateralmente condizioni operative e si riserva, per giunta, la possibilità di "ricompensare gli utenti che rispettano le regole della Community fornendo contenuti che si caratterizzano per [una non meglio precisata] elevata qualità informativa”. Un po’ come a dire che l’obbedienza -rectius: la sola obbedienza- alla volontà di Youtube sarà (stricto sensu) ripagata.
Irrobustisce poi la tesi del coordinamento rilevante ai fini dell’applicazione dell’art.409, n.3, c.p.c., l’art. 2 del D. lgs. 81/15 (decreto attuativo del cd. del Jobs Act, recante la “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell'articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183").
La norma, nel capo relativo alle disposizioni in materia di lavoro, a partire dal 1 gennaio 2016, prevede l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni prevalentemente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente, anche mediante piattaforme digitali.
Si tratta di un’interpretazione sostanziale di lavoro subordinato che mira a proteggere il lavoratore, parte debole del rapporto, consentendo l’estensione applicativa della disciplina sulla subordinazione anche a ipotesi formalmente non riconducibili a tale categoria di rapporti, come le collaborazioni organizzate dal committente.
Anche la Corte di Cassazione (Corte di Cassazione del 24 gennaio 2020, n. 1663), chiamata a qualificare l’etero-organizzazione in tal senso rilevante, ha chiarito: “La norma introdotta nell’ordinamento nel 2015 (…) si inserisce in una serie di interventi normativi con i quali il legislatore ha cercato di far fronte, apportando discipline il più possibile adeguate, alle profonde e rapide trasformazioni conosciute negli ultimi decenni nel mondo del lavoro, anche per effetto delle innovazioni tecnologiche, trasformazioni che hanno inciso profondamente sui tradizionali rapporti economici (…) Pertanto, il legislatore, in una prospettiva anti-elusiva, ha inteso limitare le possibili conseguenze negative, prevedendo comunque l’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato a forme di collaborazione, continuativa e personale, realizzate con l’ingerenza funzionale dell’organizzazione predisposta unilateralmente”.
Per la Corte, l’art. 2 del cd. Jobs Act è norma di disciplina, stante l’ottica di prevenzione e rimediale che la connota, da cui consegue che, in presenza di “etero-integrazione, accompagnata dalla personalità e dalla continuità della prestazione (…) si impone una protezione equivalente e, quindi, il rimedio dell’applicazione integrale della disciplina del lavoro subordinato” .
In casi simili, occorre garantire al lavoratore in condizione di debolezza economica, operante in una zona grigia tra autonomia e subordinazione, la stessa protezione del lavoratore subordinato, essendo rapporti meritevoli di una tutela omogenea. Si deve rendere più facile l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato, essendo la stessa legge a mostrare “chiaramente l’intento di incoraggiare interpretazioni non restrittive di tale nozione” , al punto che “non viene meno la possibilità [del giudice] di accertare l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, secondo i criteri elaborati dalla giurisprudenza in materia, trattandosi di un potere costituzionalmente necessario, alla luce della regola di effettività della tutela (cfr. Corte cost. n. 115 del 1994) e funzionale, peraltro, a finalità di contrasto all’uso abusivo di schermi contrattuali perseguite dal legislatore anche con la disposizione [di cui all’art.2 del D. lgs. 81/15]” .
Terreno di elezione della descritta ratio di garanzia è sicuramente la sede processuale, ove il rito lavoro dota il giudice di poteri più pregnanti rispetto alla ordinaria cognizione civilistica, consentendo di offrire una protezione effettiva alla parte debole del rapporto.
Del resto, proprio l’esigenza di tutela del lavoratore ha condotto il legislatore nel 2017, con legge n. 81 del 22 maggio, a precisare il significato di “coordinamento della prestazione”, rilevante ai fini dell’applicazione dell’art. 409, n.3), c.p.c., occorrendo garantire il rito di favore per il lavoratore anche a coloro che, sebbene apparentemente autonomi, svolgano in concreto una attività professionale in cui la forza contrattuale prevalente del datore si esplica nell’imposizione di forme e modi di svolgimento della prestazione che, per quanto formalmente concordati tra le parti, estrinsecano l’effetto sostanziale del fisiologico squilibrio negoziale.
Il datore di lavoro fissa delle condizioni, il lavoratore ha bisogno di lavorare e dunque è disposto ad accettare proposte di modulazione della prestazione professionale anche inique.
Per la medesima ragione, già nel 1973 fu adottata la legge n. 533, contenente la “Disciplina delle controversie individuali di lavoro e delle controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie”, con cui venne introdotto nell’ordinamento il rito speciale a tutela del lavoratore : la scelta politica che costituisce il fondamento del processo del lavoro è costituita proprio dalla volontà di istituire un giudizio in cognizione piena, ma più celere e semplice rispetto a quello ordinario, sì da assicurare una tutela più veloce alle parti del rito lavoristico .
In conclusione, alla luce delle considerazioni sin qui espresse, risultando integrati tutti i presupposti applicativi dell’art.409, n.3), c.p.c., la scelta di condurre davanti al giudice del lavoro il contenzioso tra Youtube e il giornalista professionista che svolge la propria attività prevalente sulla piattaforma appare legittima, coerente con l’ordinamento e maggiormente atta a proteggere il lavoratore.

3. IL POTERE PUBBLICO DI FRONTE AGLI ABUSI DEL POTERE PRIVATO
In chiusura, preme dar conto di come le pubbliche Istituzioni, per assolvere le loro funzioni, si servono anche di Facebook, Youtube o Twitter, determinando, in tal modo, l’istituzionalizzazione de facto di soggetti privati, coinvolti in dinamiche di interesse generale .
Le citate società non solo detengono un ruolo di monopolio nei rispettivi mercati, sostanziando delle vere e proprie realtà sociali ad appartenenza irrinunciabile, ma detta funzionalizzazione istituzionale delle attività che svolgono le rende gestori di veri e propri servizi pubblici.
Pertanto, con specifico riguardo a Youtube, s’impone con urgenza l’adozione di una regolamentazione atta a proteggere in modo effettivo i diritti dei cittadini di accesso e d’uso pieno della piattaforma, non potendo essi rimanerne esclusi, né essendo accettabili forme di limitazione di diritti di rango costituzionale.
In circostanze analoghe a quella che ci occupa nella presente trattazione, risultano lesi l’art.23 Cost., per cui nessuna prestazione personale può essere imposta se non in base alla legge, e il diritto al lavoro, di cui agli articoli 4 e 35 Cost., oltre agli artt. 21 e 33 sulla libertà di manifestazione del pensiero e della stampa, che è limitabile solo per legge e non anche dalla volontà della privata Youtube. Infine, pregiudicato appare, altresì, l’art. 41 Cost., nella parte in cui la condotta della piattaforma compromette la libertà di iniziativa economica -e imprenditoriale- del professionista che la usa come sede principale del proprio lavoro in un rapporto di partnership.
Al riguardo, non appare degno di pregio il rilievo concernente la titolarità privata delle reti, cui spesso si riconduce la difesa di Youtube in sede processuale, in quanto trattasi di un carattere che già di per sé non impedisce l’assolvimento di funzioni pubblicistiche e che per giunta si accompagna al fatto che le strutture di cui si servono questi soggetti privati, cioè l’etere, le reti internet, i tralicci elettrici e tutto quanto occorre per raggiungere l’utente finale sono entità pubbliche, spesso consistenti in beni classificabili come comuni o comunque pubblici in senso stretto. Dacché, è evidente, che il loro sfruttamento non pertiene al diritto dei privati, ma anzi, concernendo res, luoghi e interessi pubblici, impone la doverosa limitazione della capacità del privato di adottare sulla piattaforma, ancorché ne sia il titolare, le regole che ritiene più appropriate, non essendo sufficiente che le stesse siano conosciute o conoscibili dagli utenti.
Lo schema del confronto tra potere pubblico e potere privato si ripresenta in concreto nella sua banale semplicità, con la pretesa di Youtube di operare ultra legem, sfruttando a svantaggio dell’utente la propria posizione di monopolio (pur nella forma impropria descritta, rivolta ad attestare una prevalenza politica, anziché economica sullo Stato e sui privati).
Ciò mette in dovere il legislatore nazionale di ricondurre ad armonia il quadro normativo dell’ordinamento, ricollocando nell’egida del potere pubblico rapporti che intercorrono sì tra privati, ma che sfruttano beni pubblici e intercettano servizi e interessi altrettanto pubblici.
Del resto, del rischio tangibile che venga altrimenti sacrificato "il pensiero minoritario e non conforme" si sono ormai accorti tutti -specialmente dopo il roboante caso della censura praticata dalle big tech companies addirittura contro il Presidente degli Stati Uniti d’America .
In termini più generali, quindi, non può escludersi la facoltà di intervento della pubblica autorità, essendo doveroso prendere atto della mutata condizione di potere di questi soggetti nell’ordinamento. Esattamente come avviene per la televisione, il cui servizio è regolamentato da norme di rango pubblicistico, a fare governo del servizio Youtube non può essere sic et simpliciter l’arbitrio del singolo.
Anche la disciplina sul pluralismo dell’informazione, cui è votato il D. Lgs. 8 novembre 2021, n. 208 , pare orientarsi verso un governo pubblico di tali infrastrutture: “sono principi generali del sistema dei servizi di media audiovisivi, della radiofonia e dei servizi di piattaforma per la condivisione di video la garanzia della libertà e del pluralismo dei mezzi di comunicazione radiotelevisiva, la tutela della libertà di espressione di ogni individuo, inclusa la libertà di opinione e quella di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza limiti di frontiere, nel rispetto della dignità umana, del principio di non discriminazione e di contrasto ai discorsi d'odio, l'obiettività, la completezza, la lealtà e l'imparzialità dell'informazione (…) La disciplina del sistema dei servizi di media audiovisivi e radiofonici, a tutela degli utenti, garantisce: a) l'accesso dell'utente, secondo criteri di non discriminazione, ad un'ampia varietà di informazioni e di contenuti offerti da una pluralità di operatori nazionali, locali e di altri Stati membri dell'Unione europea, favorendo a tale fine la fruizione e lo sviluppo, in condizioni di pluralismo e concorrenza leale, delle opportunità offerte dall'evoluzione tecnologica da parte dei soggetti che svolgono o intendono svolgere attività nel sistema delle comunicazioni” (art.4), confermando che la libertà di manifestazione del pensiero e il diritto al pluralismo dell’informazione come strumento per la libera autodeterminazione di sé impedisce ogni atteggiamento prevaricante da parte del privato, ancorché titolare della piattaforma.
Va soggiunto, infine, che già de iure condito sarebbe possibile limitare e conformare la capacità potestativa dell’operatore privato, in modo da evitare forme di compressione o lesione di diritti costituzionali.
La legge 31 luglio 1997, n. 249, infatti, ha istituito l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e norme sui sistemi delle telecomunicazioni e radiotelevisivo, affidandole una competenza specificamente volta ad accertare l’effettiva sussistenza di posizioni dominanti nel settore radiotelevisivo, vietate ai sensi della medesima legge, e consentendo l’adozione dei provvedimenti conseguenti.
Orbene, il settore audiovisivo è identificato, nella sua accezione più ampia, con l'insieme di tutte le filiere specializzate nella produzione di contenuti narrativi audio e video associati, distribuiti su varie piattaforme e fruiti tramite svariati dispositivi. L’ampliamento delle competenze intervenuta nei primi anni duemila ha poi esteso le prerogative dell’Authority anche al settore web e perciò è proprio l’Autorità di regolazione delle radio-telecomunicazioni-web l’organo preposto a intervenire alle indicate finalità , sebbene tuttavia non abbia ancora dato corso a tale sua competenza.

CONCLUSIONI
In conclusione, il professionista utente aziendale, che svolge la propria attività prevalente nella piattaforma Youtube, non può operare in modo libero, pieno e sereno, essendo posto nella condizione di non trattare liberamente i contenuti da divulgare e ciò ben al di là dei limiti di legge. Youtube esercita una intrusione profonda, configurante una etero-direzione sia nell’an della prestazione lavorativa (con il dovere di mantenere attivo il canale, caricandovi contenuti ai ritmi indicati dalla stessa Società) sia nel quomodo (imponendo la propria forza contrattuale abusivamente, in maniera tale da incidere discrezionalmente sull’esercizio di diritti costituzionalmente riconosciuti).
Da tanto discende un vulnus al diritto al lavoro del professionista, che legittimamente e in base al contratto svolge la sua attività prevalente nella piattaforma, nonché alla sua dignità professionale e, non meno, un pregiudizio economico legato alla perdita di monetizzazione, oltre al pregiudizio generale in cui si sostanzia un’attività di censura privata, atta a minare il pluralismo dell’informazione e la possibilità di esprimere e formare la propria identità personale in modo libero e non condizionato, ai sensi dell’art.2 Cost.
Visto però che il rapporto con Youtube può definirsi di collaborazione, stante il collegamento funzionale dell’attività del giornalista con quella della piattaforma e con le finalità perseguite (il lucro ricavato dalla monetizzazione e il rapporto trilaterale che coinvolge il professionista, Google-Youtube e altri soggetti commerciali); dato che può avere i caratteri della personalità, essendo prevalente la natura personale dell’apporto lavorativo, della continuità, poiché la prestazione non è occasionale e saltuaria, ma continuativa e perdurante nel tempo; rilevato che, pur essendo privo di vincoli di subordinazione, il gestore esige comunque una certa produttività, coordinando l’operato del professionista, se ne ricava la possibilità di attrarre il rapporto entro la materia lavoristica.
Nel contenzioso, la tutela del lavoratore implica l’applicazione di regole processuali diverse rispetto alla disciplina ordinaria, da cui si differenzia sotto plurimi aspetti proprio per esigenze di garanzia e tutela effettiva, in virtù della natura degli interessi coinvolti e della debolezza economica e negoziale che connota una delle parti del rapporto. Si può dire, in altri termini, che se già di per sé il processo è strumentale alla tutela dei diritti, l’assunto vale maggiormente con riguardo al rito lavoro, la cui natura spiccatamente di favore verso il lavoratore è degna di preminenza su ogni formalismo .
Occorre, perciò, guardare alla sostanza del rapporto per individuare la corretta tutela da offrire alle posizioni giuridiche soggettive coinvolte e alla luce della sperequazione tra le parti non pare ragionevolmente possibile non avvedersi della etero-direzione che la società determina nell’esercizio del lavoro di giornalista svolto nella piattaforma in assenza di reali alternative di mercato e sociali. Come visto, infatti, eliminata de facto l’opzione di non usufruire dei servizi resi da Youtube, integrando tale scelta un opt out inesigibile in concreto, in ragione sia del monopolio detenuto nel mercato dei servizi di informazione on-line, sia del ruolo di agorà pubblica che oggi riveste, è necessario un nuovo passo interpretativo, che riconosca la giurisdizione lavoristica, in modo da garantire una tutela effettiva al diritto al lavoro del professionista .

Questo sito utilizza cookie necessari al funzionamento e per migliorarne la fruizione.
Proseguendo nella navigazione acconsenti all’uso dei cookie.