Testo integrale con note e bibliografia

Testo della sentenza del Tribunale di Bologna

Testo della sentenza del Tribunale di Grosseto

Sommario: 1. Le prime due pronunce sul lavoro agile (dell’emergenza); 2. Gli equivoci terminologici della normativa emergenziale; 3. Esiste un diritto al lavoro agile?; 4. La “massimizzazione” del lavoro agile e il bilanciamento degli interessi in gioco.

1. Le due pronunce in commento, un’ordinanza del Tribunale di Grosseto e un decreto del Tribunale di Bologna, emessi all’esito di procedimenti ex art. 700 c.p.c., risultano interessanti sia in quanto sono i primi provvedimenti giurisprudenziali sul lavoro agile durante la pandemia da Covid-19, sia perché sono, a quanto consta, le uniche pronunce giurisprudenziali in materia di lavoro agile dall’approvazione della l. n. 81/2017.
L’ordinanza del Tribunale di Grosseto nasce dal seguente caso. Un impiegato di una società operante nel settore della fornitura di energia elettrica e gas, addetto alla gestione del contenzioso in backoffice, presentava, in piena emergenza pandemica, richiesta alla società datrice di essere collocato in smart working. Tale istanza era motivata non solo dalla persistenza della situazione emergenziale ma anche dalle certificate condizioni di salute del dipendente, il quale era invalido al 60%, perché affetto da una grave patologia polmonare. Avendo la società datrice rigettato la richiesta del lavoratore, prospettandogli invece il ricorso alle ferie “anticipate”, egli ricorreva in via d’urgenza al Giudice del lavoro, al fine di sentir condannare la convenuta ad adibirlo al lavoro agile, deducendo come tutti i propri colleghi di reparto vi fossero stati collocati e come egli, a causa della sua invalidità, avrebbe dovuto godere di priorità nell’adibizione al lavoro da remoto. Si costituiva la società datrice, la quale adduceva l’impossibilità di adibire il ricorrente al lavoro agile per difficoltà organizzative e per i costi di predisposizione dei mezzi per il suo svolgimento. L’azienda, peraltro, eccepiva di non aver potuto porre in smart working il dipendente, atteso che questi, al momento della decisione riguardante il suo reparto, si trovava in malattia. Ebbene, il Giudice accoglie il ricorso del lavoratore, non ritenendo fondate le ragioni della resistente e ravvisando, piuttosto, un trattamento discriminatorio nell’aver la società datrice escluso dal lavoro agile, nel reparto de quo, il solo ricorrente, il quale, peraltro, avrebbe dovuto esservi posto con priorità rispetto ai colleghi a causa delle sue condizioni di salute. Né era possibile chiedere al lavoratore di optare per le ferie, sia in quanto la normativa emergenziale raccomandava di promuovere il lavoro agile, laddove possibile, sia avendo il dipendente, su invito dell’azienda e in ragione dell’emergenza, già consumato le ferie maturate, cosicché goderne di ulteriori avrebbe significato incidere sul loro “monte futuro”.
Meno argomentato è il Decreto ex art. 669-sexies, n. 2, c.p.c. del Tribunale di Bologna. Una impiegata, addetta al settore fiscale, invalida al 60% e convivente con figlia disabile grave, ai sensi dell’art. 3, comma 3, l. n. 104/1992, avanzava richiesta alla società datrice di essere collocata in smart working per il periodo emergenziale, richiesta che, tuttavia, veniva rigettata. A seguito di ricorso ex art. 700 c.p.c., il Tribunale accoglieva la domanda della dipendente, evidenziando non solo come per la normativa emergenziale fosse “raccomandato o imposto” il lavoro agile, ma anche come la lavoratrice avesse un vero e proprio diritto alla remotizzazione, la quale era compatibile con le proprie mansioni.

2. Il legislatore dell’emergenza ha fortemente insistito sulla promozione del lavoro da remoto quale strumento idoneo a bilanciare le esigenze di tutela della salute pubblica e dei lavoratori con quelle di produttività delle imprese e del Paese. Molteplici sono state le disposizioni del periodo emergenziale, tanto nei D.L., quanto nei D.P.C.M., dedicate al lavoro agile, inizialmente riferite alla “zona rossa” e, successivamente, rivolte a tutto il territorio nazionale . Tali disposizioni hanno dapprima promosso o favorito il lavoro agile, semplificandone l’accesso al datore di lavoro, con suo atto unilaterale e mediante comunicazione telematica al Ministero del lavoro , per poi raccomandarne l’adozione con sempre maggiore insistenza, sino a definirlo come ‹‹modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa›› nel settore pubblico e quale misura prevenzionistica generalizzata per le attività “remotizzabili” . La decisa virata del legislatore verso il lavoro agile, accompagnata dalla crescita nella sua adozione da parte delle imprese nell’era del Covid-19 , ha suscitato un improvviso entusiasmo rispetto a un tema che, fino alla pandemia, era rimasto confinato alle discussioni accademiche e alla contrattazione collettiva delle grandi imprese . A divenire popolare, però, non è stato il lavoro agile di cui alla l. n. 81/2017, né tantomeno il fenomeno con cui il lavoro da remoto del periodo dell’emergenza è stato denominato dai mass media e dal Ministero del lavoro sui suoi canali di comunicazione , ossia lo smart working. Nonostante, infatti, spesso si utilizzino le due espressioni quali sinonimi , esse non identificano la stessa fattispecie.
Lo smart working è un approccio innovativo all’organizzazione del lavoro mediante il quale si restituiscono al lavoratore autonomia e flessibilità riguardo ai luoghi, ai tempi e agli strumenti di lavoro, responsabilizzandolo rispetto ai risultati, a cui viene parametrata la retribuzione , e superando, così, il management tradizionale, fondato sul “presenzialismo” e sul controllo degli adempimenti . Sebbene le tecnologie digitali facilitino e rendano possibile adottare lo smart working , esse non ne costituiscono un elemento essenziale , potendosi attivare lo smart working mediante molteplici iniziative, quali un’organizzazione dei tempi, degli spazi e degli strumenti di lavoro più flessibile, nonché una modifica dei comportamenti dei lavoratori e degli stili di leadership, ossia della cultura del lavoro . Lo smart working, così inteso, non ha trovato spazio in alcuna normativa, se si esclude qualche contratto collettivo, prevalentemente aziendale .
L’espressione “lavoro agile” è invece di conio italiano e, attesa l’esistenza di una specifica disciplina organica in materia, ossia gli artt. 18-23 l. n. 81/2017, è in essa che va cercata la sua definizione. Ai sensi dell’art. 18 della legge citata, per lavoro agile deve intendersi quella ‹‹modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa››, nella quale ‹‹La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva››, con lo scopo dichiarato di ‹‹incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro››. Quindi, il lavoro agile, lungi dall’essere una tipologia contrattuale, costituisce una forma organizzativa nella quale il dipendente gode di flessibilità spazio-temporale, da decidersi di accordo con il datore e da formalizzare, anche riguardo all’esercizio dei poteri datoriali, in un patto parallelo al contratto, il c.d. patto di lavoro agile. Tale flessibilità, che porta il lavoratore ad essere maggiormente responsabilizzato e “autonomo”, rende difficile parametrare la prestazione al tempo di lavoro, da cui la possibilità di organizzare la prestazione per “fasi, cicli e obiettivi”. Anche qui, l’uso della tecnologia è solo “possibile” ma, facilitando la flessibilità spazio-temporale, essa viene spesso utilizzata, tanto da far combaciare il lavoro agile con il telelavoro c.d. alternato.
Osservando, allora, il lavoro agile promosso dal legislatore dell’emergenza, può notarsi come esso non corrisponda né allo smart working né al lavoro agile di cui alla l. n. 81/2017 , nonostante quest’ultima venga espressamente richiamata dalle disposizioni “pandemiche”. Nel lavoro agile dell’emergenza, infatti, non è ravvisabile alcuna flessibilità spazio-temporale, attesa la quarantena e la limitazione degli accessi alle aziende. Il luogo di lavoro ha sempre finito per coincidere con il domicilio del lavoratore e neppure è stato possibile programmare rientri in azienda, così da realizzare l’alternanza del lavoro agile. Quanto all’orario di lavoro, il lavoro agile della pandemia ‹‹mima in tutto la scansione del lavoro in ufficio›› , poiché nella maggior parte delle esperienze è stato osservato l’orario aziendale, dovendosi anzi segnalare come spesso sia stata lamentata la permanente reperibilità dei lavoratori “remotizzati”. Ancora, la tecnologia digitale, diversamente da quanto disposto dalla l. n. 81/2017, costituisce un elemento “genetico” del lavoro agile “da Covid-19”. Ma soprattutto, in questa fase emergenziale, il lavoro agile ha subito una mutazione funzionale : da strumento di incremento della competitività e di conciliazione vita-lavoro si è trasformato in presidio prevenzionistico e di “difesa” della produttività , sebbene l’art. 90, comma 1, del Decreto “rilancio”, nel conferire ai genitori lavoratori dipendenti, che siano gli unici in famiglia a prendersi cura di figli minori di 14 anni, il diritto di rimanere in lavoro agile sino alla cessazione dello stato di emergenza, rievochi finalità conciliative .

3. La funzionalizzazione del lavoro agile al contenimento del contagio e alla tutela della salute dei lavoratori costituisce il nucleo delle decisioni in commento. Nei casi di specie, infatti, i Giudici aditi sono stati chiamati, sostanzialmente, a rispondere al seguente quesito: è configurabile un diritto al lavoro agile ai tempi del Coronavirus? Un simile diritto non è previsto per il lavoro agile in generale, atteso che, ai sensi della l. n. 81/2017, è possibile accedere al lavoro agile solamente mediante accordo tra le parti. Un diritto al lavoro agile non è stato riconosciuto espressamente per tutti i dipendenti neppure dalla normativa emergenziale, la quale, prevedendo che la collocazione in lavoro agile possa avvenire mediante atto unilaterale del datore , ha attratto la scelta del lavoro agile integralmente nel perimetro del potere organizzativo del datore.
Ora, è noto come sia il legislatore ad attribuire i poteri necessari al perseguimento degli interessi datoriali, andando a definire i limiti esterni dell’azione del datore di lavoro mediante un bilanciamento tra le esigenze dell’impresa e quelle dei lavoratori . Ebbene, durante la pandemia, i principali interessi costituzionali che il legislatore è stato chiamato a bilanciare nel mondo del lavoro sono stati il diritto alla salute (dei lavoratori e della collettività), di cui all’art. 32, comma 1, Cost., da una parte, e il diritto al lavoro, ex art. 4, comma 1, Cost. , insieme alla libertà di iniziativa economica privata, ex art. 41, comma 1, Cost., dall’altra. Come chiarito dalla Corte costituzionale, tale bilanciamento non deve comportare un’illimitata espansione di un diritto a danni di un altro, che così diverrebbe “tiranno” rispetto ad altri interessi costituzionalmente protetti, ma deve, piuttosto, rispondere a criteri di proporzionalità e ragionevolezza . Va peraltro osservato come la stessa Consulta abbia finito per dare prevalenza, nel predetto bilanciamento con il diritto al lavoro e con la libertà di impresa, al diritto alla salute, limitando l’art. 41 Cost. l’iniziativa economica privata quando essa metta a rischio la “salute” del lavoratore e avendo un senso il diritto al lavoro solo come “diritto al lavoro sicuro” .
Guardando, dunque, alla normativa emergenziale, con l’art. 39 del Decreto “cura Italia”, il legislatore ha conferito, fino alla cessazione dello stato di emergenza, un diritto potestativo all’accesso al lavoro agile - risolvendo così il predetto bilanciamento a favore del diritto alla salute - ai dipendenti disabili nelle condizioni di cui all’art. 3, comma 3, l. n. 104/1992 o a quei lavoratori che abbiano nel proprio nucleo familiare un disabile nelle medesime condizioni, purché la loro prestazione sia compatibile con il lavoro agile. In questi casi, il datore di lavoro, verificata la “fattibilità” del lavoro agile in relazione alla prestazione del lavoratore, deve darvi corso . Proprio in base a questa disposizione il Tribunale bolognese ravvisa il fumus boni iuris, atteso che la lavoratrice ricorrente era convivente con la figlia, disabile grave.

 

4. Di diritti al lavoro agile, invece, non si può parlare a stretto rigore con riferimento alle altre disposizioni emergenziali. Si osserva come il legislatore, nel settore privato, abbia “raccomandato” “il massimo utilizzo” da parte delle imprese del lavoro agile per le attività con esso compatibili , raccomandando, però, allo stesso tempo, che vengano ‹‹incentivate le ferie e i congedi retribuiti per i dipendenti nonché gli altri strumenti previsti dalla contrattazione collettiva›› . Tuttavia, la scelta del datore tra il lavoro agile e gli altri istituti non è del tutto libera, sia perché, con riferimento al lavoro agile, si parla di “massimo utilizzo” sia in quanto l’uso di ferie, congedi o altri istituti è consentito, ferma restando la possibilità di proseguire l’attività lavorativa in modalità agile . In altre parole, il legislatore esprime una chiara preferenza per il lavoro agile, laddove possibile nel caso concreto, rispetto ad altri istituti, in quanto strumento idoneo a coniugare l’interesse datoriale alla produttività con quello al lavoro del dipendente e con quello più generale alla salute, così tracciando le coordinate per il bilanciamento di interessi che dovrà effettuare, in prima battuta, il datore di lavoro e, in seconda, il Giudice. Va ricordato che, ex art. 30, comma 1, l. n. 183/2010, il controllo giudiziale delle scelte datoriali è limitato a un sindacato di legittimità e non di merito, cosicché le scelte datoriali sono libere fino a che si muovono nel perimetro dei “limiti esterni” tracciati dal legislatore e dalla Costituzione e, come tali, sono proporzionate e ragionevoli. Con riferimento al lavoro agile dell’emergenza, allora, tale giudizio di legittimità non investe tanto la sussistenza di un generale diritto del lavoratore ad esservi adibito, quanto, piuttosto, la pretesa del datore verso il dipendente di continuare a svolgere la prestazione in modalità “tradizionale”. Sulla scorta delle richiamate disposizioni emergenziali, tale scelta può dirsi legittima, in quanto proporzionata, quando ricorrono congiuntamente due condizioni: a) le mansioni del lavoratore, per loro natura, possono essere svolte solamente presso la sede aziendale; b) le mansioni del lavoratore risultano essenziali affinché l’attività produttiva possa proseguire durante lo stato di emergenza . Laddove, dunque, nonostante l’assenza delle due condizioni esposte, il datore rigetti la richiesta del lavoratore di essere collocato in modalità agile, opponendo di non potergli fornire una strumentazione tecnologica adeguata, il Giudice dovrà verificare se tale rigetto sia sorretto da una reale giustificazione - il che vincolerebbe il datore a porre in congedo o in ferie il dipendente -, configurandosi al contrario un rifiuto illegittimo, non solo in violazione del limite esterno del diritto alla salute, se si pretenda che il lavoratore continui a recarsi in azienda , ma anche in violazione di altri diritti costituzionalmente garantiti, quali il diritto alle ferie o quello al lavoro, nel caso in cui si imponga ingiustificatamente al dipendente di optarvi. È quindi in tale evenienza che può configurarsi un diritto al lavoro agile, in applicazione dell’art. 2087 c.c., il quale costituisce la “norma di chiusura” del sistema prevenzionistico e che impone al datore di adottare non solo le particolari misure tassativamente imposte dalla legge in relazione al tipo di attività esercitata ma anche tutte le altre misure che in concreto siano richieste dalla specificità del rischio . Se, infatti, il lavoro agile emergenziale è funzionalizzato a preservare la salute del lavoratore, esso assurge a una “misura” che ‹‹secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica›› è necessaria ‹‹a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro›› e che, pertanto, deve essere adottata dal datore allo scopo di salvaguardare i dipendenti dal rischio del contagio da Covid-19. Deve peraltro aggiungersi che, laddove l’opzione per il lavoro agile sia possibile, la priorità deve essere accordata ai lavoratori ‹‹affetti da gravi e comprovate patologie con ridotta capacità lavorativa›› , dovendosi così risolvere il bilanciamento di interessi tra i dipendenti a favore di chi corra maggiori rischi per la propria salute, atteso che il Covid-19 può essere letale per chi soffra di patologie pregresse.
Il Tribunale di Grosseto, dunque, ha accolto la domanda del lavoratore proprio sulla base dei principi da ultimo enucleati. Più che parlare apertamente di un “diritto” al lavoro agile, il Giudice effettua un controllo di legittimità sull’atto datoriale dell’adibizione del ricorrente alla prestazione “tradizionale”, ravvisandone l’illiceità perché non rispettoso del bilanciamento di interessi prefigurato dal legislatore dell’emergenza. E infatti, nel caso di specie, il datore di lavoro non aveva provato di non poter dar seguito alla “massimizzazione” del lavoro agile, che avrebbe dovuto porre in essere sia in ragione della non essenzialità delle mansioni del dipendente per la prosecuzione dell’attività produttiva, come provato dal fatto che il datore aveva invitato il lavoratore a porsi in ferie, sia in quanto quelle prestazioni potevano avvenire in modalità telematica, trattandosi di mansioni di backoffice. Del resto, la società datrice aveva le risorse per poter adibire il ricorrente al lavoro agile ma, soprattutto, aveva adottato tale soluzione organizzativa per tutti i colleghi di reparto, così rendendo manifesta l’irragionevolezza del rigetto dell’istanza. Diversamente, essendo il lavoratore affetto da una grave patologia polmonare e invalido al 60%, il datore di lavoro avrebbe dovuto, ex art. 39, comma 2, Decreto “cura Italia”, bilanciare i suoi interessi con quelli dei colleghi e, all’esito, dare priorità al collocamento del ricorrente in modalità agile, perché soggetto più a rischio degli altri . Peraltro, la prospettazione datoriale del ricorso alle ferie “anticipate”, in presenza delle condizioni per il lavoro agile, era lesiva del diritto alle ferie, ex art. 36, comma 3, Cost., perché contraria alla funzione delle ferie di consentire al lavoratore di recuperare le energie psico-fisiche e di dedicare quel tempo alle proprie esigenze ricreative e culturali, essendo inoltre carenti le “esigenze dell’impresa” richieste ai sensi dell’art. 2109, comma 2, c.c., non potendosi esse sostanziare nell’impossibilità di collocare il dipendente in lavoro agile.

 

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