TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

“Rights for riders!”, “Non siamo schiavi, siamo lavoratori!”, “Non per noi ma per tutti!”, “Mai più consegne senza diritti!”, “Non si muore per un panino!”, “Vogliamo i nostri diritti, vogliamo un vero contratto” sono soltanto alcuni degli slogan che hanno caratterizzato in questi ultimi anni le lotte dei rider, da quando il lavoro delle consegne a domicilio tramite app e piattaforma si è radicato in Italia, principalmente nelle grandi aree urbane, a partire dalla fine del 2015.
Noi rider, così ci hanno ribattezzato le aziende per le quali lavoriamo, siamo i fattorini del food delivery, consegniamo generalmente cibo e a volte altri beni di consumo (quali farmaci, sigarette, piante, grocery) a casa vostra, praticamente ad ogni ora del giorno, sette giorni su sette, per trecentosessantacinque giorni l’anno.
Come si diventa rider? E’ semplice, basta possedere uno smartphone con una connessione a Internet e registrarsi su una piattaforma, completare la propria anagrafica inserendo le proprie coordinate bancarie e indicando se si è in possesso di un mezzo di locomozione, specificando di quale si tratta (bicicletta, e-bike, motorino, automobile), completata la candidatura si procede scaricando l’app rider sul proprio telefonino e si aspetta l’attivazione del proprio profilo.
Una volta attivato dalla piattaforma il proprio ID con un nome-utente e password, si ha accesso all’applicativo e si può iniziare finalmente a lavorare.
Come funziona il servizio? I clienti prenotano, tramite un’app o un sito Internet, un ordine, selezionando il prodotto in vendita di suo interesse da uno degli esercizi commerciali convenzionati con la piattaforma (negozi, supermercati, tabaccherie, ristoranti), dopo essersi registrati e aver creato un profilo con i propri dati hanno immediato accesso all’applicativo.
La piattaforma dal punto di vista del cliente funziona come una sorta di vetrina virtuale che mostra tutti i servizi a disposizione e l’elenco dei vari negozi convenzionati con essa, suddivisi in categorie, in cambio, il cliente paga un sovrapprezzo (una quota variabile che dipende da una serie di fattori: il servizio richiesto, la merce, le offerte commerciali in essere, la convenzione esistente tra il ristorante e la piattaforma) per farsi consegnare il prima possibile l’articolo scelto. L’ordine viene quindi inoltrato al ristorante che inizia la fase di preparazione e confezionamento. Una volta pronto viene imbustato e adibito al trasporto. In base alla tipologia del bene ci sarà un calcolo dei tempi di preparazione stimato da parte della piattaforma.
Il processo di assegnazione dell’ordine ad un rider è ad opera dell’algoritmo, un software proprietario della piattaforma che dovrebbe garantire la massima efficienza in termini di tempi di attesa per il cliente.
Di fatto l’algoritmo ha tutt’altro obiettivo: dall’algoritmo dipende infatti il diritto di ogni fattorino ad ottenere dei turni di lavoro e/o di vedersi assegnate un maggior numero di consegne, quando è online. L’algoritmo sceglie con quale grado di priorità chiamare un rider rispetto ad un altro in base ad un punteggio derivato dalle prestazioni precedenti, che prende il nome di rating, e alla classifica del rider, il ranking. In base ad un proprio sistema di calcolo assegna anche il valore corrisposto per la consegna.
Se il rider assegnatario dell’ordine lo rifiuta o non lo accetta in breve tempo, si innesca un meccanismo “ad asta” in cui lo stesso ordine viene proposto ad altri fattorini, sempre sulla base del ranking. In questo processo il valore dell’ordine può anche aumentare (tipicamente nei giorni con clima particolarmente avverso o in caso di scioperi).
L’algoritmo quindi non è altro che un gestore del personale digitale automatizzato, che, attraverso il processo di assegnazione dei turni e delle consegne, controlla la flotta di rider che fa lavorare sul territorio in un dato momento e il valore delle loro paghe, scaricando di fatto su di essi tutto il rischio d’impresa, particolarmente alto in questo settore di mercato.
Che cosa succede mentre l’ordine è in preparazione al ristorante?
L’ordine viene proposto attraverso l’app rider ad un corriere online e in turno, che si trovi nei pressi della zona di ritiro dell’esercizio selezionato. A quel punto, se il rider accetta la consegna, sul proprio smartphone riceverà tutte le coordinate utili per effettuare il ritiro, con l’indirizzo del ristorante al quale recarsi, e l’indirizzo del domicilio del cliente presso il quale completare successivamente la consegna, una volta ritirato il pacco.
Le consegne non sono mai tutte uguali: spesso i clienti hanno delle richieste personali, ci sono consegne veloci con i clienti che ti aspettano sul portone e clienti che hanno esigenze dettagliate, clienti scrupolosi e clienti distratti che dimenticano numeri civici o sbagliano indirizzo di consegna. Per ogni problema riscontrato durante la consegna si ha la possibilità di parlare con un servizio di supporto rider (spesso latitante e inefficace) o di telefonare tramite l’app, senza visualizzare il proprio numero di telefono, ai ristoratori e ai clienti, per parlare con loro direttamente.
Ogni consegna viene pagata come singola corsa, il tempo di attesa di una chiamata durante il turno e il tempo di attesa di fronte al ristorante o al cliente non viene pagato, le aziende stimano solamente il tempo di percorrenza e la preparazione, tutti gli imprevisti o le variabili che incidono sul servizio ricadono sul lavoratore, a scapito dei suoi guadagni, che non sono in nessun modo garantiti ancora da una paga minima o da un monte ore garantito.

Noi rider che oggi veniamo considerati una figura paradigmatica del mondo del lavoro e un simbolo nella lotta per la conquista dei diritti dei lavoratori, non siamo sempre stati considerati tali.
Inizialmente nessuno si curava di noi ed eravamo una categoria invisibile agli occhi dei più, neppure le sigle sindacali tradizionali erano attrezzate per comprendere a pieno un fenomeno economico articolato come quello del lavoro tramite piattaforma e gli strumenti e le categorie classiche che ci venivano proposte per affrontarlo, ci apparivano desuete e inadatte rispetto alla sua complessità, per queste ragioni e anche per una certa distanza culturale e generazionale, in alcuni territori, in maniera particolare a Torino, Milano e Bologna (e poi via via a Roma, Firenze, Napoli e a Catania) si è scelto di percorrere la strada dell’autorganizzazione.
Gruppi indipendenti di lavoratori, prima composti da soli rider, come a Torino, e poi da rider e attivisti precari, in qualità di solidali, a Milano e a Bologna, hanno dato vita a formazioni sindacali informali che hanno poi assunto il nome di “Union”, rappresentanze autonome dei lavoratori, organizzate su base metropolitana, in rete fra loro.
Le Union hanno giocato fin dalla fase embrionale del movimento rider un ruolo fondamentale nel processo di organizzazione politica e di sindacalizzazione dei lavoratori del food delivery.
Ci siamo spesso appoggiati per quanto riguarda la logistica a spazi autogestiti e associazioni culturali giovanili, mettendo in atto sperimentazioni pratiche di cooperazione e riproduzione sociale, a volte inedite, altre volte storiche, mutuandole ad hoc: abbiamo istituito assemblee di lavoratori autoconvocati, divenuti poi dei veri e propri sindacati metropolitani di categoria; abbiamo avviato sportelli informativi garantendo assistenza legale gratuita per i lavoratori; abbiamo aperto ciclofficine autogestite e messo in rete spazi di mutuo soccorso già presenti sul nostro territorio, promosso campagne di crowdfunding a sostegno di lavoratori vittime di infortunio sul lavoro e feste di autofinanziamento per i nostri progetti, avviando un “dopolavoro rider”; abbiamo organizzato assemblee territoriali nelle piazze e sportelli di strada itineranti; ci siamo dotati di un coordinamento nazionale (Rider X i Diritti, n.d.a.) e di un coordinamento transnazionale (Alliance Unidxs World Action) per mettere a fattor comune le nostre esperienze e creare archivi globali, coagulando professionalità e competenze.
Come sindacati metropolitani siamo stati tra i principali promotori di scioperi, proteste, presidi, vertenze legali e siamo stati protagonisti del movimento rider che abbiamo contribuito a formare, offrendo una rappresentanza politica a tutti quei lavoratori che sposavano la nostra causa, prima che ne esistesse una formalmente sindacale, dando voce ai corrieri di tutta la categoria e alla loro richiesta di diritti, siamo riusciti ad attirare l’attenzione di amministratori pubblici, locali e nazionali, ottenendo il riconoscimento delle istituzioni come soggetti autorevoli e rappresentativi nel food delivery, fino ad ottenere con le nostre lotte la presenza al “Tavolo riders” convocato dal Ministero del Lavoro, in qualità di rappresentanti nazionali dei lavoratori, e la promulgazione di un provvedimento normativo che iniziasse a disciplinare il settore attraverso un decreto prima, voluto dall’allora Ministro del Lavoro, Luigi Di Mario, convertito poi dalla Ministra del Lavoro Nunzia Catalfo nella legge 128/2019 durante il Governo Conte bis.

 

A Milano verso la fine del 2016 dopo i primi scioperi spontanei di Torino che coinvolsero alcuni lavoratori di una multinazionale tedesca (vicenda conclusasi pochi mesi dopo con il licenziamento dei fattorini coinvolti più attivamente nelle proteste e il ricorso di cinque di loro che diede il via all’epopea giudiziaria culminata con la storica sentenza della Corte di Cassazione sul caso Foodora, che ha riconosciuto a noi rider, in qualità di lavoratori etero organizzati l’applicazione della disciplina della subordinazione, come previsto dalla legge 81/2015), nasce Deliverance Milano, un sindacato sociale che si propone come rete di supporto ai rider e di sostegno a tutte le categorie di lavoratori delle piattaforme digitali.
Creiamo un gruppo misto di attivisti e lavoratori che si incontra una volta a settimana in un’assemblea, generalmente alla fine del turno serale, dopo le 22, momento in cui ci troviamo per fare aggregazione sociale e a discutere delle nostre condizioni lavorative.
Così facendo iniziamo a informare i colleghi su quali diritti ci spettano e iniziamo a progettare iniziative da organizzare per provare a sensibilizzare l’opinione pubblica e i clienti sull’assenza di tutele e di diritti che ci colpisce, cercando di aprire un canale di comunicazione con le società del delivery per le quali lavoriamo.
Quando abbiamo iniziato, le piattaforme rifiutavano qualsiasi tipo di contatto con i lavoratori che fosse ascrivibile ad una dimensione di rappresentanza collettiva: ci si poteva rivolgere a loro per reclami o rimborsi, esclusivamente per via telematica, via email o al telefono, attraverso l’ausilio di sistemi di messaggeria istantanea (gruppi Whatsapp e Telegram) o di persona all’orario di sportello (soltanto in quelle poche città, come Milano, in cui era presente una sede fisica dell’azienda) presentandosi a titolo esclusivamente individuale e personale.
In questo modo la Società poteva archiviare facilmente la quasi totalità delle pratiche in maniera discrezionale, di tanto in tanto optando per soluzioni temporanee fatte ad personam.
Nel 2016, quando abbiamo iniziato ad organizzarci, la maggior parte dei lavoratori non sapevano che tipo di contratto avessero sottoscritto o se godevano di una copertura assicurativa o meno, di fatto risultavamo come lavoratori autonomi, e in quanto tali non avevamo alcaun diritto se non quello di “scegliere” (ma solo sulla carta) di non metterci a disposizione, perché le aziende ci contrattualizzavano in qualità di collaboratori, nella migliore delle ipotesi come parasubordinati: Foodora, Glovo e Just Eat - quest’ultima tramite un consorzio di cooperative a cui si appoggiava - ci sottoponevano dei co.co.co., mentre Deliveroo e Uber Eats ci facevano firmare contratti di prestazione occasionale fino allo sforamento della soglia dei 5.000 euro, di fronte alla quale eravamo costretti a scegliere se smettere di lavorare o se aprire una Partita Iva.
Attualmente il modello si è uniformato in tutto il settore e tutti i player principali adottano contratti di collaborazione occasionale, in ritenuta d’acconto o in Partita Iva.

Il 15 luglio 2017 a Milano come Deliverance Milano abbiamo organizzato insieme ad un gruppo di lavoratori di Deliveroo il primo sciopero territoriale, quello che poi è divenuto il primo sciopero multipiattaforma del nostro Paese, che ha coinvolto circa una cinquantina di corrieri di tutte le compagnie presenti allora in città.
Tutti insieme scendemmo in Piazza XXIV Maggio, una piazza profondamente simbolica perché era uno dei punti di ritrovo maggiormente frequentata da noi rider per chiedere il superamento della Partite Iva con forme contrattuali più stabili, il riconoscimento di un rimborso per l’utilizzo di mezzi propri a carico di noi lavoratori (smartphone e bicicletta o motorino), un monte ore minimo garantito, una paga oraria base, un’indennità meteorologica in caso di condizioni climatiche avverse e soprattutto una copertura assicurativa contro gli infortuni, oltre al riconoscimento dei diritti sindacali.
Tra i problemi principali, e più sentiti dalla nostra categoria, c’è sempre stata la questione della sicurezza sul lavoro, infatti stando in giro nel traffico, consegnando a pranzo e a cena, spesso negli orari di punta, anche il fine settimana, abbiamo sempre avuto la consapevolezza di essere soggetti esposti agli infortuni, soprattutto per via del fatto che operiamo in qualsiasi condizione atmosferica, in una città in cui non mancano tra binari del tram e imperfezioni del manto stradale occasioni per cadere e farsi del male, soprattutto in caso di pioggia.
A questo punto le piattaforme attivarono polizze private di copertura assicurativa, forme di welfare aziendale, che ci lasciavano però ancora insoddisfatti, perché erano difficilmente godibili e con un premio minimo che non garantiva una copertura sufficiente nemmeno per le spese mediche dovute nella stragrande maggioranza degli infortuni.
Questo è stato sicuramente un tema chiave, sul quale abbiamo costruito più coesione tra noi lavoratori: la mancanza di tutele e diritti contrapposta alla retorica aziendale che ci dipingeva alla stregua di “hobbisti” che lavoravano quando volevano per “arrotondare” non era in grado di giustificare l’assenza di protezione sociale in cui ci trovavamo, visto il tipo di mansione, la frequenza con la quale si verificano incidenti per strada e il numero di infortuni mai rimborsati dalle imprese.
Il tutto aggravato dal fatto che nel corso degli anni tutte le piattaforme hanno applicato un sistema di pagamento dinamico basato esclusivamente sul cottimo, allo solo scopo di innalzare i propri margini di profitto, riducendo in maniera del tutto asimmetrica i nostri guadagni, cercando di convincere i lavoratori che il sistema del cottimo fosse un metodo meritocratico.
In realtà, come abbiamo avuto modo di verificare, ha esposto tutti, in maniera massiva, ad un processo di impoverimento generale, e siamo stati costretti a correre sempre più velocemente, sotto l’egida della precarietà lavorativa.

Da una nostra ricerca su un campione volontario di oltre cinquecento lavoratori provenienti da tutta Italia, abbiamo potuto stimare come mediamente una consegna venisse pagata 4,5 euro lorde circa, o almeno così era fino al 3 novembre 2020, data dell’entrata in vigore dell’accordo capestro firmato da UGL (un sindacato minoritario nel settore) e Assodelivery (l’associazione datoriale che riunisce i maggior player del food delivery - Glovo, Deliveroo, Uber Eats e Socialfood - ad esclusione di Just Eat che ha deciso recentemente di uscire dall’associazione datoriale per imprimere una svolta etica alla propria policy societaria, in materia di risorse umane, dichiarando che avrebbe assunto i suoi fattorini, applicando un nuovo modello organizzativo), un accordo attraverso il quale le aziende hanno tagliato letteralmente i compensi di tutti i lavoratori fino al 50% su una singola consegna, e hanno derogato alla legge 128, che individuava i rider in riferimento alla sentenza della Corte di Cassazione come lavoratori etero-organizzati ai quali applicare la disciplina della subordinazione in tutti quei casi in cui si accerti il regime di continuità nel rapporto di lavoro.
La norma oltre ad avere il merito di individuare le piattaforme come datori di lavoro, impone finalmente una copertura INAIL indipendentemente dalla qualifica del rapporto, prevedendo anche l’introduzione di una paga oraria in linea con i minimi tabellari di un CCNL di un settore affine, qualora non si fosse trovata un’intesa condivisa tra le parti sociali comparativamente maggiormente rappresentative.

Quello che molti non sanno però è che dal Primo Maggio 2020 Deliverance Milano si è fatta promotrice della costituzione della rete nazionale “Rider x i Diritti” un coordinamento nazionale in cui si sono riunite tutte le esperienze sindacali dei rider attivi nei territori, unendo all’interno dello stesso ambito di discussione, rappresentanti dei sindacati autonomi insieme a rappresentanti dei sindacati confederali.
Questa scelta, di costruzione di un asse unitario sul fronte delle rappresentanze dei lavoratori, ha destato grande preoccupazione tra le fila di Assodelivery, che già all’epoca dell’approvazione del decreto stava architettando delle contromosse.
Direttamente negli uffici di Glovo vi fu la gestazione di un sindacato di comodo, che prese il nome di ANAR: un’associazione di lavoratori che si dichiara pro cottimo e favorevole (guarda caso esattamente come le piattaforme) al mantenimento dello status quo.
In un primo momento le aziende e i cottimisti hanno cercato in tutti i modi di bloccare il decreto, poi hanno provato a far approvare degli emendamenti peggiorativi rispetto al testo iniziale per assicurarsi di poter mantenere il pagamento a cottimo e per scongiurare la trasformazione del rapporto di lavoro in subordinato.
Una volta approvata la legge, dopo la presentazione della nostra rete nazionale “Rider X i Diritti”, Anar scelse UGL come propria organizzazione sindacale di riferimento, portando le istanze dell’associazione all’interno di quella struttura, fino ad arrivare alla contrattazione dell’impropriamente detto “CCNL Rider” (avvenuta a latere del Tavolo riders al Ministero del Lavoro all’insaputa delle altre parti sociali e del Ministro stesso).
Questo accordo peggiorativo viene delegittimato il giorno dopo dallo stesso ufficio legislativo del Ministero del Lavoro denunciandone le irregolarità con una Circolare ministeriale in cui vengono presentate una serie di obiezioni tecniche che vanno dal mantenimento del cottimo, di cui era previsto il superamento, sino alla presunzione della maggiore rappresentatività della compagine sindacale scelta da Assodelivery, mai dimostrata, soprattutto se si tiene conto che tutte le altre rappresentanze (autonome e confederali) stanno nel medesimo coordinamento nazionale, con posizioni unitarie diametralmente opposte rispetto ad ANAR/UGL.

Il 30 Ottobre, poco prima dell’entrata in vigore dell’accordo capestro, Rider X i Diritti proclama il primo sciopero nazionale di categoria, vedendo la partecipazione in più di ventitré città, da Nord a Sud, di diverse migliaia di lavoratori che si mobilitano per tutta Italia per la prima volta a causa dell’imminente cambio di contratto, ravvisato come peggiorativo rispetto a quanto previsto dalla legge 81/2015 e dalla legge 128/2019 oltre che dalla sentenza della Corte di Cassazione che invece indicavano un perimetro giuridico che riconosceva a noi fattorini tutti i diritti della subordinazione (arriverà poi la sentenza di primo grado del Tribunale di Palermo che dichiarerà che un rider di Glovo, dopo essere stato “sloggato” dalla piattaforma deve essere reintegrato e assunto dalla compagnia come lavoratore subordinato).
A tutti i lavoratori, dal 3 novembre sono subito chiari gli effetti devastanti del nuovo contratto, perché con la rivoluzione del sistema di calcolo delle tariffe basato sulle stime del tempo di percorrenza delle corse anziché le distanze, le paghe vengono pesantemente abbassate. Nelle piazze più organizzate i lavoratori si trovano a rispondere immediatamente al taglio dei compensi imposto: a Milano vengono convocate 5 giornate di sciopero con il blocco pressoché totale del servizio.
L’effetto a catena si diffonde anche in altre città italiane nelle quali i lavoratori decidono in maniera diffusa e più o meno organizzata di rifiutare gli ordini, di picchettare i ristoranti, in una dinamica in cui la tensione sociale creata dalle piattaforme si traduce in conflitto sociale reale, spesso circoscritto e localizzato davanti ad alcuni ristoranti, a volte invece assume altri connotati, trasformandosi in un vero e proprio sciopero della città, uno sciopero metropolitano in cui i lavoratori delle piattaforme, come gli operai della fabbrica, bloccano la loro catena di montaggio, agendo all’interno dello spazio urbano per interrompere i flussi, bloccando i colleghi per strada mentre consegnano e il traffico con biciclettate spontanee diffuse, perché la città viene individuata da noi rider come il luogo di lavoro e l’anello di congiunzione tra il posto in cui essere (“the place to be”, come suggeriscono certe campagne comunicative di guerrilla marketing, per raccontarsi e autorappresentarsi in esso come elemento di valorizzazione sociale) e il cuore pulsante della vita economica e della creazione del profitto, in cui si concentrano interessi soggettivi e capitali di interessi, materiali e immateriali.
La città in quel momento è divenuta il principale teatro dello scontro quando invece avremmo preferito viverla come agorà, luogo dell’incontro e del riconoscimento nel confronto.
Dopo quei giorni convulsi di protesta si è riaperto il “Tavolo riders” di contrattazione tra le parti al Ministero. Mentre cerchiamo di dare impulso ad una discussione che ci appare sempre come affannata e faticosa, continuiamo ad organizzarci su vari livelli, a partire dai territori fino ad arrivare al piano nazionale e transnazionale, perché una cosa è certa, proprio ora che come rider siamo stati riconosciuti come lavoratori subordinati (con tutto ciò che ne consegue in termini di tutele e diritti) vogliamo che questo venga riconosciuto collettivamente nella nostra categoria, attraverso un contratto di lavoro in riferimento ad un CCNL di settore affine (Trasporto o Terziario), in modo tale che nessuno più debba trovarsi nella nostra stessa situazione, ad essere equiparati a lavoratori di un servizio essenziale (come avvenuto dall’inizio della pandemia Covid-19), senza però godere di alcuna tutela o diritto, perché precari tra i precari. In quanto lavoratori essenziali, riteniamo essenziali i nostri diritti.
La lotta di noi fattorini non riguarda però soltanto un solo settore, come il delivery, ma in generale ha a che fare con un nuovo modello di organizzazione nel mondo del lavoro attraverso il quale le imprese decidono di automatizzare e digitalizzare alcuni processi di produzione che restano comunque nelle loro mani. Il potere direttivo e di controllo sul lavoratore, benché virtualizzato e a distanza (tramite app e GPS) resta esclusiva e a totale appannaggio delle piattaforme, alle quali bisognerà far corrispondere la figura del datore di lavoro che dispone funzioni, tempi e modalità di esecuzione dell'opera al lavoratore che si trova in dipendenza dalla società per quanto riguarda lo svolgimento delle proprie mansioni, tanto da essere un lavoratore al quale è stata riconosciuta la subordinazione (in sede giudiziaria), una subordinazione per certi aspetti nuova che andrebbe aggiornata +negli indici) tenendo conto delle trasformazioni in corso nel mondo del lavoro, e non fatta aderire tour court ad un modello fordista novecentesco, pur essendo la figura del "fattorino" una categoria classica e non inedita (ma nei fatti organizzata diversamente) già presente in molti CCN di settore, a differenza di quanto vorrebbero farci credere le aziende che dietro numerosi anglicismi e una patina di nuovismo, intendono pagare "il lavoro" il meno possibile, a scapito dei lavoratori.

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