Testo integrale con note e bibliografia

1. Introduzione

Comprendere l’impatto dello smart working nella vita di persone e organizzazioni, al di là dei diversi tecnicismi giuridici e organizzativi, significa innanzitutto comprendere il cambiamento in atto, che è ben più macroscopico di quello che si potrebbe intendere affrontandone i singoli elementi pur in profondità.
Ci troviamo infatti all’interno di una grande e generale trasformazione del lavoro, che certamente (ma non solo) vede nella quarta rivoluzione industriale un punto di sviluppo inequivocabile, anzi forse non si può parlare solo di punto di sviluppo, ma di un vero e proprio punto di svolta (Seghezzi, 2017). Uno degli elementi caratterizzanti l’idea e la prassi della industry 4.0 è la smart factory, la fabbrica “intelligente” che da nuovo significato al concetto di automazione industriale (Magone e Mazali, 2016). Si tratta di impianti in grado di generare nuovi modelli di business sostenuti da una connessione totale e tra il dentro e il fuori della produzione, nonché da una forte integrazione con le innumerevoli tecnologie abilitanti che nel frattempo sono state create e implementate. Si tratta anche, per altri versi, del superamento definitivo del taylor-fordismo. La programmazione delle attività produttive non ha più la necessità della mediazione dell’operatore umano, ed è in questa prospettiva che il worker può diventare smart worker, non più vincolato a tempi e spazi, ma connesso con vari device direttamente al centro produttivo.
Certo questo implica non poche conseguenze sulla persona lavoratrice. Che non essendo una macchina, non può semplicemente essere parte della connessione dei vari dispositivi di produzione. Così la questione pare essere diventata fondamentalmente quella della regolazione del lavoro smart, in modo da preservare la specificità dell’agire umano (e la non riduzione a puro meccanismo, seppur “intelligente”) anche sul lavoro. La grande discussione sul cosiddetto “diritto alla disconnessione” trae la sua origine proprio da questa esigenza di fondo. Esigenza certamente rilevante, ma non totalizzante, a meno di inserirla in una più ampia riflessione sul significato del lavoro e sullo spazio che questo possa e debba avere nella vita di donne e uomini in questo nuovo millennio.
Per poter più adeguatamente comprendere le implicazioni psicosociali dello smart working dovremo dunque assumere un approccio olistico, cercando di collocare il fenomeno entro alla più ampia trasformazione in atto. Dato poi che vogliamo anche in questo caso seguire un approccio ecologico, fondato sulla dinamica di relazione tra il soggetto e il suo ambiente, cercheremo al contempo di individuare alcuni elementi chiave di questa trasformazione generale.

 

2. I tratti della nuova trasformazione del lavoro

Tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio degli anni ‘90, alcuni docenti dell’Accademia militare statunitense di West Point iniziarono ad utilizzare l’acronimo V.U.C.A. (volatility, uncertainty, complexity, ambiguity) riferendosi al contesto in cui ci si era venuti a trovare in seguito all’esaurirsi dei presupposti della cosiddetta “guerra fredda”. Più recentemente l’Harvard Business Review (Bennett, Lemoine, 2014) ha recuperato questa nozione, proponendo una riflessione interessante circa le competenze richieste dal vivere in un mondo VUCA. Si tratta di competenze che sono riferibili a una maggiore flessibilità, ad una maggiore capacità di presa di decisione e di accettazione del rischio. In altre parole si tratta di sviluppare resilienza, un termine oggi sempre più attuale, se non addirittura di moda.
Durante la guerra fredda era in fondo semplice comprendere dove stesse il nemico: dall’altra parte. Questo con una relativa certezza e stabilità nel tempo. Ma poi, con l’indebolimento della potenza sovietica, sancito anche simbolicamente dal crollo del muro di Berlino, questo tradizionale paradigma geopolitico andava a perdere di significato. Tutto ciò ha un'enorme rilevanza anche da un punto di vista psicologico: nei nostri processi di conoscenza della realtà siamo costretti sempre di più a utilizzare strategie euristiche, percorsi semplificanti che, pur fornendoci il vantaggio della velocità, spesso aumentano il rischio di sbagliare. Siamo così frequentemente vittima di biases cognitivi e in questo mondo volatile, incerto, complesso e ambiguo non si può più essere certi di nulla: viviamo in una condizione che facilmente si può definire di incertezza strutturale.
Molti sono del resto i contributi che le scienze sociali e umane portano alla descrizione di questa situazione, uno fra tutti quello di Zygmunt Bauman (1992, 2000) sulla postmodernità e la società liquida, o quelli di Ulrich Beck (2000) sulla risk society e sui processi di individualizzazione. Contributi ormai classici che ci aiutano a comprendere come si siano persi dei riferimenti precisi in un tempo segnato dall’imperativo del cambiamento ma anche da una crescente insicurezza sistemica, con inevitabili conseguenze in termini personali.
Abbiamo già detto dell’impatto della cosiddetta quarta rivoluzione industriale. Questa rappresenta per certi versi semplicemente un’evoluzione di quella precedente: la terza rivoluzione industriale era infatti caratterizzata dalla rilevanza dei sistemi automatici di elaborazione delle informazioni all’interno dei processi produttivi e, più in generale, di lavoro. Per altri versi si presenta con un impatto ancora più disruptive rispetto alla precedente per almeno due motivi: la pervasività della connessione nella vita di persone e organizzazioni, che porta sostanzialmente ad un dilatarsi infinito dello spazio-tempo individuale e collettivo; la velocità inedita con cui questa rivoluzione sta avvenendo. Questi due elementi sono certamente intensificati dallo sviluppo della cosiddetta “economia delle piattaforme” (van Dijck, Poell & de Waal, 2019), nata fondamentalmente per sfruttare al meglio i beni (o il tempo) sottoutilizzati si è sempre più trasformata in un nuovo modo di organizzare il lavoro, con realtà immateriali – le piattaforme – che sempre più sostituiscono come datori di lavoro le più tradizionali organizzazioni aziendali (Aloisi e De Stefano, 2020). Anche perché all’originale sharing economy, nata da una visione win-win dell’economia diffusa, si sta sempre più sovrapponendo una differente visione della prestazione di lavoro, collocabile nell’alveo della cosiddetta gig economy (gig sta per lavoretto), secondo cui, in origine, le persone spendevano il proprio tempo residuo in qualche attività lavorativa per incrementare il proprio reddito, ma che oggi sempre più sta assumendo l’aspetto di un modo nuovo di lavorare guidato appunto dalla piattaforme di condivisione.
Così vediamo, del resto, che anche il modo di intendere il lavoro sta cambiando, nell’evoluzione del lavoro da “tipico” (che nel nostro paese è ancora oggi rappresentato in gran parte dal lavoro subordinato a tempo indeterminato) ad “atipico”si affacciano nuove forme di lavoro. Negli ultimi anni, in particolare si è andato affermando il cosiddetto “digitally enabled independent work”. Si tratta di un fenomeno di tutto rispetto: secondo le stime di McKinsey (2016) , tra Stati Uniti ed Europa, la quota di lavoratori indipendenti supera di gran lunga il 20% della forza lavoro. Il lavoratore indipendente ha la facoltà di decidere se e quando fornire un determinato servizio ai propri clienti ed inoltre può instaurare dei rapporti di lavoro con più di un committente contemporaneamente. Come notano Harris e Krueger (2015), tali rapporti possono essere frenetici, occasionali o costanti a seconda delle esigenze e delle disponibilità del lavoratore. Spesso gli Independent Workers operano appunto nel contesto della gig economy, in una sorta di zona grigia, in cui risulta complicato, nell’attuale quadro normativo, definire il loro status occupazionale. Tale difficoltà deriva dal fatto che essi presentano analogie sia con i lavoratori dipendenti, sia con i lavoratori autonomi tradizionali. Secondo quanto descritto, i lavoratori indipendenti non sono lavoratori subordinati, dato che non instaurano rapporti di lavoro definiti con un datore di lavoro e non sono economicamente dipendenti da nessuno. Tali lavoratori, a differenza dei dipendenti, possono decidere come gestire le proprie ore lavorative e la propria giornata in totale autonomia senza quindi dover sottostare a delle regole predefinite. D’altro canto, i lavoratori indipendenti non possono nemmeno essere classificati pienamente all’interno della categoria degli autonomi tradizionali, in quanto alcuni aspetti dei metodi e dei mezzi di lavoro, come ad esempio il prezzo della prestazione lavorativa, sono sotto il controllo dell’attività di un intermediario (Harris, Krueger, 2015).

 

3. Smart working: non è solo un problema di regole

Una differente modalità atipica (anche se in un’accezione differente rispetto a quanto abbiamo visto poco fa circa i lavoratori “indipendenti”) è indubbiamente rappresentata dallo smart working, ovvero (sul piano teorico) la possibilità di lavorare quanto, dove, come si vuole introdotta nel nostro Paese anche sul piano normativo con la legge 81/2017 (attuativa di quanto già in precedenza previsto dal cosiddetto Jobs Act). Lasciando a una successiva parte dell’articolo una più ampia discussione sulle caratteristiche di questa forma organizzativa del lavoro, ci preme innanzitutto segnalare come il termine in uso nella lingua italiana e utilizzato dal legislatore per identificare questa modalità di lavorare, ovvero “lavoro agile”, segnala una trasformazione del mondo anche mentale del lavoratore. Se per tutto il XIX e XX secolo il lavoro umano è stato innanzitutto una forma di razionalizzazione delle attività interne all’organizzazione-azienda, connotato da principi di ordine, regolarità e (almeno relativa) prevedibilità all’interno di un sistema di controllo fisico e “visivo”, ora diventa “agile”, cioè (come precisa la norma) privo di precisi vincoli di orario e di luogo. Nondimeno, il lavoratore che attraverso un accordo accetta o ottiene la possibilità di lavorare in forma smart resta a tutti gli effetti un dipendente dell’azienda, introducendo da un lato un necessario salto di qualità nella cultura del management aziendale (dal controllo alla fiducia, si potrebbe semplificare), dall’altro una sfida da innestare nella dinamica delle tradizionali relazioni industriali.
Proprio in questi primi, seppur parziali, spunti troviamo già elementi che evidenziano come il tema dello sviluppo dello smart working non si possa esaurire innanzitutto con la sua regolamentazione. Se da più parti si invoca la necessità di intervenire ulteriormente su di essa, dobbiamo considerare che quelli che dovrebbero essere i principali attori di tale regolamentazione, cioè il legislatore e le organizzazioni di rappresentanza, non paiono allo stato dell’arte sempre allineati sui più generali mutamenti in atto. Non si tratta, beninteso, di un problema relativo al solo ambito lavoristico, quanto legato alla rapidità dei processi trasformativi che confligge con una diffusa resistenza al cambiamento propria degli Enti regolatori e di quanti poi sono chiamati a garantire l’applicazione delle nuove regole.
Da ricercatori sociali non possiamo non segnalare il fatto che la società, in tutti i suoi aspetti, sembra evolvere più velocemente della capacità della norma di governarla. Non fa eccezione in questo l’ambito del lavoro che, preso d’assalto da un lato dalla rivoluzione in atto, dall’altro dall’emergenza sanitaria globale, si è trovato a in pochissimo tempo a dovere fare ricorso a forme di organizzazione che, seppur già in qualche modo contemplate dal nostro sistema regolatorio , non erano certamente così ampiamente diffuse.
Questa accelerazione ha portato, tra l’altro a utilizzare il termine smart working come sinonimo di ogni modalità di lavoro “fuori” dall’azienda, anche se in effetti la gran parte del cambiamento introdotto nell’ultimo anno, dapprima in seguito al lockdown, e, dopo l’estate, per il mantenimento della dimensione emergenziale, non sia effettivamente riconducibile allo smart working in senso proprio, almeno come è stato inteso dal legislatore, ma piuttosto a forme ibride di home working (per di più in larga parte, o in molti momenti temporali, rese obbligatorie). Può quindi essere utile, in questa sede, evidenziare alcuni elementi di differenza tra diversi modi di intendere il lavoro “in remoto”.
La prima modalità ad essere definita in un accordo tra le parti è stata appunto il telelavoro, termine che si riferisce ad un’attività che si svolge con continuità e sistematicità fuori dai locali dell’impresa. E questa delocalizzazione, dunque, ad essere il tratto caratteristico di questa fattispecie, insieme alla tipicità degli strumenti di lavoro che sono rappresentati da tecnologie informatiche e telematiche. Per il resto il telelavoro potrebbe essere svolto allo stesso modo, nei normali spazi produttivi dell’azienda e seguendo le medesime regole organizzative. E questa, nei fatti, la modalità più praticata a fronte dell’emergenza legata al Covid-19: le aziende hanno chiesto (con differenti gradi di cogenza) ai propri dipendenti di stare a casa e da lì continuare a svolgere le medesime attività, che svolgevano in azienda, tendenzialmente secondo le medesime modalità.
Il lavoro agile, come è descritto dalla norma di riferimento, invece, pur restando collocato nell’ambito del lavoro subordinato, non presenta specifici vincoli di orario, né di luogo se non quelli derivanti da un accordo tra le parti. è utile precisare che l’assenza di vincoli implica, da un lato il fatto che il lavoro agile non sia necessariamente localizzato all’esterno dell’azienda, nè preveda necessariamente l’impiego di tecnologie informatiche. Si tratta in effetti - a nostro parere - non tanto della “modernizzazione” congiunturale del lavoro subordinato tradizionale, quanto di un nuovo modo di intendere il lavoro, anche quello subordinato, come caratterizzato da autonomia e responsabilità (Butera, 2020).
Si tratta dunque di una ulteriore rivoluzione, almeno in termini di idea di lavoro, che ad esempio rende quasi un ossimoro il parlare di “posto di lavoro”. L'agilità del lavoro, in questa prospettiva va a impattare sul lavorare organizzato, che non coincide più necessariamente con “andare a lavorare”, cosa che - come vedremo - presenta tra l’altro alcune importanti conseguenze psicosociali.
Come si accennava poc’anzi si ha non di rado l’impressione di una certa inadeguatezza dei diversi attori del mercato del lavoro di fronte a un cambiamento di questa portata, che non va soltanto a toccare la modalità organizzativa (che già sarebbe molto), ma arriva a interessare la rappresentazione stessa del lavoro e, di conseguenza l’identità sociale e personale dei lavoratori. Indizi di questa inadeguatezza possiamo trovarli anche nelle disposizioni che hanno permesso di derogare in questo periodo travagliato dalle modalità ordinarie di lavoro: nei diversi dispositivi introdotti fin dal marzo di quest’anno si fa riferimento più volte a modalità di lavoro agile, inteso però sostanzialmente come “diritto” a lavorare da casa salvo che questo sia incompatibile con la mansione svolta; è facile comprendere come diventi estremamente difficile argomentare in merito a questa incompatibilità.
Non vogliamo né possiamo dire se questa inadeguatezza sia “reale” e tecnica, altri sono qui ben più titolati di noi a esprimere una tale valutazione. noi possiamo però segnalare come sia percepibile una difficoltà a comprendere il più generale cambiamento in atto e ad inserirlo in una politica non esclusivamente emergenziale. Si tratta quindi di capire il cambiamento per potergli stare di fronte in modo efficace. Dal nostro punto di vista ci pare di poter dire, in conclusione di questo paragrafo introduttivo, che si tratti di un cambiamento per molti versi disruptive, non solo per la drammaticità delle circostanze attuali, ma soprattutto perché si colloca in un contesto più ampio e travolgente di cambiamento. Per questo crediamo importante, da un lato evidenziare il rischio - sempre presente in circostanze simili - di affrontare nuovi problemi, in parte già evidenti, ma in parte ancora di là da venire, con vecchie logiche, dall’altro suggerire un approccio che porti a lavorare su ipotesi positive di politiche attive, piuttosto che prevalentemente ricorrendo a conservative strategie di difesa.

 

4. Lavorare smart: alcune evidenze nazionali e internazionali
L’analisi delle conseguenze che queste modalità di lavoro da remoto hanno nell’ambito della vita professionale rappresenta, per quanto riguarda il nostro Paese, un terreno sostanzialmente vergine. E’ noto infatti che prima della pandemia da covid-19 fosse molto bassa la quota di lavoratori a cui fosse possibile svolgere il proprio lavoro in modalità “agile”. Un’analisi di ISTAT (2020) basata su un campione di 90.000 imprese con tre addetti o più rappresentative di un universo che impiega oltre il 75% degli addetti (pari a quasi 13 milioni di persone), ha stimato che questa condizione fosse vissuta dall’1,2% dei lavoratori, cresciuti nei mesi del lockdown di marzo e aprile fino all’8,8% per poi assestarsi poco oltre il 5%. Queste dimensioni del fenomeno sono per altro molto diffuse nelle imprese di maggiori dimensioni e presenta variazioni molto significative, con settori produttivi come l’ICT, l’istruzione e il ramo energia in cui l’incidenza si è rivelata decisamente più elevata. Anche l’emergenza, nonostante le narrazioni prevalenti in questo periodo avessero dato un’impressione molto differente, conferma dunque l’esistenza di un sistema produttivo che resta lontano dalle percentuali di telework presenti in altre aree del Continente, con paesi come l’Olanda in cui si sfiora il 40% di lavoratori che sperimentano in modo non sporadico la possibilità di lavorare da remoto (Eurostat, 2020). Se è vero dunque che sono stati tra i 4 e gli 8 milioni i lavoratori remotizzati al picco della pandemia (il valore più alto è stato stimato da Fondazione Di Vittorio, 2020), le pur frammentate analisi di questi mesi sembrerebbero convergere su due punti centrali: da un lato non oltre il 30% delle occupazioni sarebbero effettivamente convertibili in modalità agile, dall’altro sembra esservi una resistenza culturale e organizzativa che non pare possa permettere una transizione “di massa” in breve tempo.
Siamo insomma di fronte a un evidente disallineamento tra desiderio e realtà, tra rappresentazioni ed evidenze empiriche. Ciò non aiuta quando si renda necessario provare a valutare con la dovuta distanza critica la realtà di cui stiamo parlando. Molta parte della smart working euphoria (Pesenti, Scansani, 2020) narrata (più che sperimentata) in questi mesi fa riferimento insomma a una condizione che risultava e risulta ancora relativa a una minoranza (seppur ampia) dei lavoratori italiani. E soprattutto non presentava (e in massima parte non presenta neppure oggi) le caratteristiche di libertà, autonomia, organizzazione che un autentico lavoro agile richiederebbe.
Proprio questo secondo elemento caratterizzante un autentico smart working appare in realtà centrale nel momento in cui ci si voglia orientare all’analisi degli effetti raggiunti da queste modalità organizzative, tanto a livello aziendale quanto a livello individuale. Molta enfasi è stata data in questi mesi in particolare agli aspetti positivi correlati al lavoro agile, pur in presenza di evidenze di ricerca che hanno al contrario segnalato l’esistenza di effetti “stressogeni” particolarmente rilevanti, tali da comportare un aumento negli indicatori di conflitto tra famiglia e lavoro (Pesenti, Mazzucchelli, Bosoni e Reverberi, in corso di pubblicazione). Sarà tuttavia lunga l’attesa di evidenze più robuste, ragion per cui risulta necessario rivolgersi alla ben più solida letteratura internazionale in argomento per enucleare non meno di tre macro-aree di impatto su cui orientare l’analisi: individuali, aziendali e sociali. Ci concentreremo in questa sede sulle prime due dimensioni, benchè le potenziali ricadute sociali (in termini ambientali e di sostenibilità) non debbano essere sottovalutate (Pesenti, 2019).
Per entrare nel merito del “lavorare smart” è comunque necessario accordarsi preventivamente su una definizione che sia universalmente riconosciuta: per motivi che non indagheremo in questa sede (e che appaiono per taluni tratti anche misteriosi) l’utilizzo del termine smart working è infatti del tutto peculiare alla realtà italiana. A livello internazionale si predilige l’utilizzo di un più generico (e meno positivamente connotato) concetto di telework (Nilles, 1997) o a un ancora più generico remote work (Olson, 1983), ovvero a una modalità di lavoro svolgibile in luoghi differenti rispetto al tradizionale ufficio (ad esempio a casa working from home) ma anche altrove - grazie alla disponibilità di risorse ICT (information and communication technologies).
Riferendosi dunque a questa specifica (e dunque particolarmente ampia) definizione, a livello individuale lo smart working viene associato soprattutto alla opportunità di aumentare gli spazi di autonomia personale grazie alla possibilità di una maggiore libertà nella pianificazione dei tempi di lavoro (Harpaz, 2002; Morgan, 2004) , con la conseguente crescita dei livelli di soddisfazione e la diminuzione dei livelli di stress lavoro-correlato. Sempre a livello individuale, lo smart working si associa positivamente con la riduzione dei costi legati al pendolarismo (viaggi, costi per l’alimentazione extra domestica), benché non sempre questa dimensione appaia tra quelle principali (Bailey & Kurland, 2002); soprattutto tra le donne è invece associato ad un miglioramento nella possibilità di conciliare lavoro, compiti di cura e tempo libero, con la conseguente crescita delle opportunità lavorative (Morgan, 2004) e di carriera (Schreiber, 1999).
Se ci si sposta invece dalla dimensione individuale a quella aziendale, lo smart working sembra essere associato (anche se le evidenze di ricerca non sono sempre convergenti su questo punto) con un aumento della produttività, determinata innanzitutto dalla possibilità per i lavoratori e le lavoratrici di concentrare la propria attività negli slot orari di maggior produttività personale (Golden, Veiga, 2008). Si tratta tuttavia di un’evidenza più robusta nel caso di occupazioni a più elevato tasso di creatività, mentre risulterebbe addirittura un effetto negativo nel caso di lavori noiosi e ripetitivi (Dutcher, 2012). Più univoco sembra invece essere il legame con la riduzione di alcuni costi fissi, legati in specifico alla possibilità di razionalizzazione delle sedi fisiche (Madsen, 2003).
A fronte di questo set di elementi potenzialmente vantaggiosi, la letteratura ci restituisce anche una serie di elementi problematici, che appaiono invece scarsamente evidenziati nell’attuale dibattito pubblico sviluppatosi nel nostro Paese. Le analisi quantitative hanno ad esempio mostrato come lo smart working sia meglio percepito (e più richiesto) soprattutto da lavoratori e lavoratrici che appoggiano maggiormente la propria dimensione esistenziale sulla famiglia, e che dunque non investono eccessivamente nelle opportunità di carriera (Madsen, 2003). La letteratura registra anche il rischio del venir meno dei confini tra famiglia e lavoro, a causa della perdita di significato della distinzione spazio-temporale tra queste due dimensioni introdotta dalla modernità. Ciò comporta il rischio di un aumento di tensione a carico delle relazioni familiari, che contrasta paradossalmente con i benefici potenziali sul fronte della conciliazione tra compiti di cura e lavoro precedentemente osservata (Halford, 2006). L’ipotesi di un’associazione positiva con la produttività è invece messa in discussione da evidenze che mostrano un crescente rischio di frammentazione dell’esperienza lavorativa (Nakrošienė, Bučiūnienė, Goštautaitė, 2019), determinata da possibili “rumori di fondo” presenti nel contesto domestico (rischi di distrazione, presenza di familiari, mancanza di spazi adeguati). C’è infine un ultimo tema, rispetto al quale riteniamo utile aprire un capitolo di analisi specifico: quello del problema della ridefinizione del rapporto esistente tra l’uomo (il lavoratore, la lavoratrice) e il suo ambiente di lavoro. Un angolo della nostra visuale particolarmente rilevante, poiché potenzialmente capace di rimettere in discussione (e dunque di ri-definire) la tradizionale distinzione tra spazio pubblico e spazio privato anche al livello della personale biografia professionale.

5. La relazione tra l’uomo e il suo (ambiente di) lavoro: una riflessione urgente
Abbiamo visto come, almeno in queste circostanze emergenziali ci sia stato un abuso del termine smart working o “lavoro agile”, utilizzando in modo indifferenziato questi due termini per indicare ogni modalità di lavoro da casa dettate dalla necessità, come esplicitato anche dal Decreto Legge 18/2020, il cosiddetto “Cura Italia”, di ridurre il rischio di contagio e consentire al tempo stesso una migliore conciliazione tra vita lavorativa e familiare. Conciliazione che in effetti ha riguardato nella gran parte dei casi la necessità di garantire la vigilanza nei confronti di figli obbligati allo home schooling dalla chiusura degli Istituti scolastici, e che dunque sommava le responsabilità del lavoro a quelle delle cura dei figli, dato che gli orari dell’impegno richiesto erano in gran parte sovrapposti. L’agilità sottesa era dunque quella delle lavoratrici (per lo più) e dei lavoratori che dovevano tenere insieme contemporaneamente due responsabilità diverse, con conseguenti diverse attività. Non a caso l’evidenza empirica segnala che soprattutto in presenza di più figli il periodo di “lavoro forzato da remoto” vissuto da molti tra marzo e aprile non soltanto non ha determinato alcun aumento di achievement tra lavoro e famiglia, ma anzi ne ha accresciuto il potenziale conflitto (Pesenti, Mazzucchelli, Bosoni e Reverberi, in corso di pubblicazione).
Non sono state poche in tal senso le testimonianze offerte da personaggi diversamente autorevoli che hanno messo in dubbio la reale possibilità di gestire efficacemente tali differenti responsabilità, sottolineando come - di fronte a tali difficoltà - fosse il lavoro ad essere sacrificato. Ricordiamo certamente le esternazioni sui media del Sindaco di Milano circa il rischio di un “effetto grotta” cui rispondere con la necessità di “tornare” a lavorare, con l’implicita considerazione che quindi a casa non si lavorasse, ma anche le prese di posizione di illustri esperti di diritto del lavoro che hanno in diverse occasioni manifestato la convinzione che per molti lavoratori, soprattutto nel comparto pubblico, il lavoro da casa coincidesse con un’astensione dal lavoro de facto ).
Certamente però sono state registrate anche testimonianze circa l’apprezzamento da parte dei lavoratori circa la possibilità di svolgere il proprio lavoro da casa, sia in termini di produttività aumentata (almeno in termini self-reported), sia in termini di conciliazione, uno degli obiettivi dichiarati dal legislatore nel proprio testo di Legge: “Le disposizioni del presente capo, allo scopo di incrementare la competitività' e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro,...” così recita l’incipit dell’Art. 18 della già citata L. 81/2017.
Se da ciò deriva che - almeno nelle intenzioni del legislatore - non ci debba essere necessariamente conflitto tra le esigenze legate alla produzione e quelle derivanti dall’avere responsabilità familiari (anche se sarebbe riduttivo pensare alla conciliazione esclusivamente in termini di necessità di cure familiari), dobbiamo però chiederci se l’attuale assetto delle realtà produttive e delle famiglie sia effettivamente compatibile con le pur meritevoli intenzioni. Proprio su questa rivista abbiamo recentemente messo in evidenza come la partecipazione al mercato del lavoro resta nel nostro paese fortemente influenzata dal ruolo ricoperto dalle donne in famiglia e dal numero di figli. Influenza peraltro speculare per gli uomini, dato che questi con l’assunzione di responsabilità familiare e la crescita del numero di figli vedono invece aumentare i loro tassi di partecipazione, giacché l’aspettativa di essere la principale fonte di sostegno economico per la famiglia riguarda soprattutto loro (Zanfrini, Gheno, 2019). Il rischio quindi che essere “costrette” ad un lavoro da casa possa ulteriormente approfondire il solco del gender gap è tutt’altro che remoto.
Anche per quanti (o meglio quante) non si trovano nella necessità di una conciliazione “forzata” tra compiti conflittuali, non sono per altro assenti rischi di natura psicosociale. Tra questi, come già segnalato in precedenza, possiamo certamente annoverare quello legato ad un vissuto di isolamento, conseguente alla permanenza obbligata a casa, che porta tra l’altro con sé uno smarrimento dei “confini” tra lo spazio pubblico e quello privato, tra il tempo del lavoro e il tempo libero. Oltre che, naturalmente, uno smarrimento delle dinamiche relazionali “normali”. Riguardo a ciò, richiamando la classica intuizione di Mark Granovetter (1973), è bene allora ricordare che lo smart working può rischiare di associarsi (per chi ne fa un utilizzo non episodico, e in particolare per i lavoratori più giovani) ad un indebolimento dei cosiddetti “legami deboli”, ovvero le relazioni interpersonali che si costruiscono durante una carriera lavorativa e che aiutano ad allocare anche risorse posizionali ad elevato contenuto professionale. Tale rischio è non a caso presentato in letteratura come il principale elemento di svantaggio del telework, con potenziali conseguenze collegate al rischio di isolamento sociale, con conseguenti aumenti del rischio di burn out, depressioni, ansia, ma anche (e più in generale) con la tendenza a una diminuzione dell’identificazione del lavoratore con i valori, la mission, gli obiettivi dell’organizzazione (Ammons & Markham, 2004). Molto smart working può insomma determinare un indebolimento relazionale, che se non adeguatamente controbilanciato da un’attenzione specifica da parte dei supervisors potrà nuocere da un lato allo sviluppo delle carriere interne (per mancanza di visibilità nei confronti del management), dall’altro alle traiettorie di percorso professionale (Nakrošienė, Bučiūnienė, Goštautaitė, 2019).

 

6. Accompagnare lo smart working

Quanto detto ci porta a ritenere che lo smart working (quello vero, naturalmente) possa rappresentare un’evoluzione positiva nel contesto del lavoro a patto di considerarne e depotenziarne i rischi, che riguardano la sfera del work-life balance, quella del benessere personale legata all’isolamento e all’indebolirsi della dimensione relazionale, quella della capacità del lavoratore di “vivere” l’identità aziendale e al contempo di assumere dal luogo di lavoro una parte della propria identità. Si dovrà quindi pensare attivamente a come accompagnare organizzazioni e lavoratori in un percorso che renda davvero funzionalmente agile il lavoro, rendendo possibile al contempo il recupero di una dimensione di umanizzazione e di dignità della persona attraverso il lavoro e l’utilizzazione della tecnologia come fattore abilitante e capacitante nella ridefinizione del senso e significato del lavoro stesso (Lodigiani, 2018). Il rischio contrario è invece quello di rendere lo smart working un tassello di una tendenza post-umana della società del futuro, estremo approdo dell’individualizzazione e della spersonsalizzazione funzionalista (Aloisi e De Stefano, 2020).

Molta enfasi, anche relativamente ad una implementazione dello smart working, viene posta sul digital divide che ancora oggi permane - per cause diverse - nel nostro paese. Pur ricordando che non esiste una soluzione tecnologica a problemi che sono innanzitutto organizzativi e culturali, risulta evidente che molto dell’odierno technostress risulta legato a malfunzionamenti dell’infrastruttura internet, nonché da una ancora diversificata dimestichezza con l’uso di tecnologie informatiche. Da qui una spinta a lavorare con forza sul versante della tecnologia, potenziando la connettività e sviluppando le competenze d’uso dei device disponibili per lavorare con modalità agile. Certamente la possibilità di training e assistenza rispetto all’utilizzo delle nuove ICT, in particolare in un momento attuale in cui le circostanze impongono un lavoro a distanza anche a quanti non l’abbiano scelto con piena consapevolezza, può aiutare a ridurre il technostress (Nisafani, Kiely, & Mahony, 2020), oltre a questo può essere d’aiuto coinvolgere i lavoratori durante le fasi di implementazione e pianificazione delle nuove modalità e dell’avvio dei processi che utilizzeranno le nuove tecnologie (Zainun, Johari, Adnan, 2020), è però indispensabile lavorare anche nella direzione di un potenziamento dell’autoefficacia “tecnologica”. E’ nota da tempo l'influenza che il sentimento di autoefficacia esercita nell’apprendimento lavorativo: più si scelgono compiti adatti alle proprie competenze, più aumenta l’autoefficacia percepita, maggiore sarà la spinta a misurarsi con dei compiti complessi. L’intreccio è dunque tra competenze “cognitive” di natura tecnica e competenze “non-cognitive” legate all’uso personale delle prime. Queste ultime sono oggetto di riflessione ormai da diversi anni, in particolare per il ruolo che giocano nella employability delle persone (concetto che, ricordiamo, non riguarda solo l’inserimento efficace nel mercato del lavoro, ma anche una efficace manutenzione delle proprie personali prospettive di lavoro).
Anche il recente report “The Future of Jobs 2020” del World Economic Forum nell’evidenziare la rilevanza che ha e che avrà in futuro il lavoro in remoto segnala tra le competenze trasversali che saranno in prospettiva più necessarie la resilienza, che come sappiamo, rappresenta la capacità di mantenere la propria “forma” e la propria performance anche a fronte di accadimenti particolarmente faticosi. Si tratterà quindi, per accompagnare le persone collocate in smart working di adottare specifici dispositivi organizzativi che consentano:
● di colmare di digital divide, potenziando le competenze relative all’uso delle tecnologie di connessione (Ramsetty, Adams, 2020).;
● di ristrutturare la propria immagine di sé lavoratore, sia nella direzione di una rinnovata autoefficacia digitale, sia di una ricollocazione all’interno di un mondo del lavoro in profonda trasformazione (Mosso e Ghio,2020);
● infine, di sviluppare le competenze di coping nei confronti del technostress e di promuovere le competenze di resilienza degli smartworker (Tarafdar, Pirkkalainen, Salo & Makkonen, 2020).

Quanto appena detto, ci porta a considerare un ulteriore aspetto inerente all’accompagnamento delle persone in smart working, quello relativo alla loro gestione. Un conto è, infatti, prendersi cura di persone “fisicamente” contigue: nelle organizzazioni si mettono in atto continui dispositivi informali di input, monitoraggio, valutazione, correzione proprio grazie alla presenza in sito. nel momento in cui il lavoratore è collocato al di fuori dello spazio-tempo “normale” questi dispositivi andranno rivisti e, probabilmente, in gran parte riorganizzati. Lo smart worker è un lavoratore che esprime necessariamente un grado più elevato di autonomia rispetto a chi lavora “in presenza”, tale caratteristica ha a che fare sia con le competenze del lavoratore stesso, sia del suo manager.
Dovremo quindi immaginare una nuova leadership, in grado di gestire le risorse umane in condizioni di ridotto controllo, che lavori quindi principalmente su due direttrici:
● quella dello sviluppo della responsabilizzazione e dell’empowerment dei collaboratori, anche nella prospettiva dello sviluppo e della manutenzione di team virtuali (Iannotta, Meret, Marchetti, 2020);
● quella del sostegno alla fatica psicologica legata alla remotizzazione del lavoro e delle sue relazioni (Podgorski, Majchrzycka, Dąbrowska, Gralewicz, Okrasa, 2017).

Infine, un’ultima frontiera è quella correlata alla diffusione delle pratiche di welfare aziendale, che come noto hanno visto un robusto sviluppo a partire dal 2016 e che oggi si pongono come uno degli avamposti della modernizzazione della cultura organizzativa delle imprese più evolute (Pesenti, 2019). Come noto, almeno in parte questa welfare innovation è stata edificata sul presupposto di un necessario sostegno nell’area della conciliazione famiglia-lavoro, area del tutto scoperta nel nostro Paese dal punto di vista delle politiche pubbliche. Servizi come l’asilo aziendale o i campi estivi, forme rimborsuali per servizi di cura ai figli, ma anche modalità più complesse come il maggiordomo aziendale e altri servizi time saving all’interno dell’azienda sono stati evidentemente pensati ricalcando il modello tradizionale del dipendente impegnato in ufficio. L’evoluzione dello smart working rappresenta ovviamente una sfida a questo modello, ed è anche attraverso la capacità di innovazione dei piani di welfare (e dei servizi predisposti dai provider fornitori delle aziende) che si potrà adeguatamente accompagnare il processo organizzativo di remotizzazione del lavoro. Una più ampia ricerca già in precedenza richiamata (Pesenti, Mazzucchelli, Bosoni e Reverberi, in corso di pubblicazione) suggerisce come nella fase più difficile del lockdown di marzo e aprile uno degli elementi capaci di generare enrichment tra famiglia lavoro era rintracciabile proprio nella presenza in azienda di piani di welfare ampi e articolati. Si tratta di un suggerimento prezioso, che richiede evidente un adeguamento per il futuro.
Sempre di più la dimensione del benessere organizzativo dovrà contabilizzare la necessità di “seguire” con opportuni servizi il dipendente: nei futuri piani di welfare potrebbero così trovare posto, accanto ai servizi e benefit tradizionali, nuovi elementi alleati del lavoro agile. Si è molto discusso in questi mesi della possibilità di sottrazione dal paniere dei benefit dei buoni pasto per i dipendenti impegnati in lavoro da remoto. Molto meno si è ragionato invece sul lato delle possibili aggiunte. In futuro potrebbe ad esempio essere prevista una quota rimborsuale per il pagamento dell’affitto di eventuali spazi di co-working, così come potranno rientrare nei panieri fruibili elementi come le sedute ergonomiche. Ancora, la formazione (sempre più ascrivibile all’area dei diritti individuali legati al lavoro) dovrà cambiare volto, adattandosi al mutato contesto ed assumendo forme imprevedibili.
Si tratta di alcuni, necessariamente provvisori, elementi di riflessione, che si potranno adeguatamente aggiungere alle necessarie trasformazioni (implicite nell’idea stessa del lavoro agile) sul fronte della radicale flessibilizzazione degli orari di lavoro: un fronte che in prima battuta sarà ascrivibile al campo del “benessere”.

 

7. Conclusioni

Anche nel nostro paese, dunque, assistiamo a mutamenti estremamente rilevanti nel lavoro umano, mutamenti che ci paiono sostenibili solo potenziando la capacità umanistica di “leggere” la trasformazione per ricondurla in una dimensione di senso autenticamente umano, anche utilizzando strumenti di protezione e di garanzia molto rilevanti. Non è dunque strano avvertire un diffuso senso di timore di fronte ai cambiamenti in atto: la grande trasformazione del lavoro e della società a cui stiamo assistendo porterà a conseguenze gravi nella vita quotidiana delle persone? Di fronte al timore per la possibile risposta affermativa possiamo individuare due diverse strategie “difensive”, la prima è rappresentata dall’illusione, che è un antidoto a quella realtà portatrice di incertezza e paura che ci troviamo a vivere quotidianamente in questo mondo dove l’incertezza appare strutturale. Un’illusione che appare oggi polarizzata tra ingenui cantori di una nuova civiltà del lavoro smart e terrifiche previsioni di futuri distopici.
La seconda strategia riguarda la possibilità di ricostruire alcune “certezze”. Un tempo volendo descrivere la terra incognita era usata la formula “hic sunt leones”, indicava un territorio da cui tenersi alla larga. D’altra parte in ogni epoca ci sono state persone che non hanno avuto il timore di esplorare la terra incognita.
Quindi di fronte al cambiamento non c’è solo la possibilità della paura o di un ingenuo entusiasmo. È anche possibile vivere il cambiamento come opportunità, in questo troviamo l’ipotesi che l’incontro con un imprevisto porti a qualcosa di positivo. Non si troveranno quindi solo le belve delle antiche mappe, ma anche qualcosa che non conosciuto potrà produrre un bene possibile .

 

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