Testo integrale con note e bibliografia

1.– Introduzione al tema della disconnessione nel panorama italiano
Negli ultimi anni, seppur a velocità rallentata rispetto a quella con la quale si sono capillarmente diffuse la tecnologia digitale e l’informatizzazione, l’auspicato dialogo tra la legge e il tema della disconnessione - intesa come rimedio a tutela del lavoratore contro gli episodi di overworking e contro il rischio di essere sempre connessi (o always on ) - è proseguito e si è fatto via via sempre più proficuo , ricevendo una significativa accelerazione nell’attuale contesto emergenziale.
Si è preso atto, negli ultimi anni, da un lato degli effetti positivi derivanti dall’innovazione tecnologica, primo tra tutti la possibilità di conciliare vita-lavoro , ma dall’altro non si è trascurata l’opportunità di arginare il fenomeno dell’inevitabile invasione della sfera lavorativa all’interno della vita privata del dipendente e dei suoi tempi di riposo .
Il diritto alla disconnessione, allora, per essere concretamente garantito richiede una gestione strutturata delle risorse umane ed una corretta distribuzione delle ore lavorative in rapporto al carico di lavoro.
Il legislatore italiano ha introdotto per la prima volta il tema della disconnessione con la legge n. 81 del 2017 sul lavoro agile , seppur senza arrivare a inquadrarlo in termini di diritto .
Con riferimento specifico al tema della disconnessione, infatti, l’art. 19, comma 1, della legge n. 81 del 2017 rubricato “Misure (…) volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato” , nel rinviare ad un accordo scritto tra le parti le modalità di ricorso al lavoro agile, stabilisce proprio che “l’accordo individua altresì i tempi di riposo del lavoratore nonché le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro”, in tal modo inserendo espressamente la problematica in oggetto all’interno della disciplina del lavoro agile . Peraltro, il riferimento alle misure organizzative, oltre che tecniche, è rilevante, in quanto implica una distribuzione del carico di lavoro in maniera equa tra i lavoratori .
L’art. 18, comma 1, della legge n. 81 del 2017, poi, precisa che: “La prestazione lavorativa viene eseguita (…) entro i soli limiti di durata massima dell'orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva”, parimenti ancorando il tema alla disciplina dell’orario di lavoro.
Sotto il profilo dell’orario, in dottrina è stato sollevato il quesito se il diritto alla disconnessione sia preordinato a garantire il rispetto del tempo di riposo minimo consecutivo o se, piuttosto, esso implichi il diritto del lavoratore a fruire di specifiche fasce di operatività, contattabilità e di inoperabilità . Quest’ultima soluzione pare preferibile e su questo binario sembrerebbero muoversi anche le parti sociali per il comparto delle funzioni centrali, posta la non coincidenza tra diritto alla disconnessione e diritto al riposo, così riconoscendo al concetto di disconnessione un ruolo maggiormente esteso e più protettivo verso i lavoratori rispetto al primo .
E, ancora, occorre ricordare che il diritto alla disconnessione trova applicazione anche nel pubblico impiego, non solo privatizzato, in forza dell’estensione di tutte le disposizioni in tema di lavoro agile al lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, in quanto compatibili, ai sensi dell’art. 18, comma 3, della legge n. 81 del 2017 .
Con la regolamentazione del 2017 il lavoro agile viene definito attraverso l’elencazione di requisiti caratterizzanti, quali: l’accordo tra le parti (ossia l’autonomia individuale e la consensualità); l’eventuale ricorso a forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi; l’assenza di precisi vincoli di orario, seppur nel limite della durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, così come fissati dalla legge e dalla contrattazione collettiva (ossia la flessibilità organizzativa); l’assenza di precisi vincoli di luogo di lavoro, seppur con l’esecuzione della prestazione lavorativa in parte all’interno dei locali aziendali e in parte all’esterno, in assenza di una postazione fissa (ossia la flessibilità spaziale); il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa; con attribuzione di un’assoluta rilevanza al primo di essi .
Così la disciplina concreta delle “modalità di lavoro agile” viene definita, ai sensi dell’art. 19, comma 1, dall’accordo tra le parti, cui la legge de qua demanda, con grande fiducia, la determinazione dei confini delle modalità concrete di esercizio di esso, disconnessione inclusa. Così, se “L’accordo relativo alla modalità di lavoro agile è stipulato per iscritto ai fini della regolarità amministrativa e della prova” si tratta di contrattazione individuale avente forma scritta ad probationem, ma che, con riferimento alla tematica de qua, finisce per assumere una valenza ad substantiam .
La regolamentazione del lavoro agile, così brevemente riassunta, lascia tuttavia aperti diversi interrogativi, quali ad esempio: le ragioni dell’esclusione dell’intervento della contrattazione collettiva , il ché ha generato le resistente delle tre sigle confederali e, particolarmente, della Cisl, la quale ha richiesto in sede di audizione il riconoscimento di un ruolo prioritario alla contrattazione collettiva e solo in subordine, in assenza essa, ad un accordo individuale ; il rischio di una diversificazione di previsioni, ferma la mancanza di una norma generale che possa fungere da “quadro” per tutti i lavoratori; il dubbio sull’opportunità di ancorare il diritto alla disconnessione alla sola tipologia del lavoro agile, rappresentando all’opposto tale tema un problema condiviso dai più dei lavoratori oggigiorno, così che esso non può certamente essere circoscritto a tale modalità di lavoro .

2. Il ricorso al lavoro agile nel contesto pandemico
Il mutato panorama generato dalla crisi sanitaria iniziata nel febbraio 2020, che ha comportato la drammatica scelta di ricorrere in chiave prevenzionistica alla chiusura di tutte le attività produttive e commerciali non essenziali, ha determinato un massivo ricorso al lavoro agile, fino ad allora strumento a diffusione minima, ed ha attribuito allo stesso la veste di strumento di esperimento diretto sul campo , motivato da un’accelerata presa di coscienza dell’utilità del ricorso ad esso, pur in assenza di delimitati e chiari argini alle intrusioni nella vita privata dei lavoratori .
La pandemia ha amplificato tale processo di trasformazione, del tutto inedito, il quale ha implicato un mutamento non solo in termini quantitativi dell’istituto, divenuto così “una delle modalità ordinarie di svolgimento della prestazione” di lavoro e, quindi, fungibile rispetto al lavoro subordinato in presenza , ma altrettanto in termini qualitativi, identificando il lavoro agile quale strumento di un diritto del lavoro dello sviluppo sostenibile , riducendo le emissioni provocate dagli spostamenti, ma anche i costi e le spese legati alla gestione di enormi ambienti di lavoro.
Tale mutata prospettiva ha avuto ripercussioni nette in tema di disconnessione, dal momento che la normativa sul lavoro agile presuppone “forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro”, così che la traslazione del lavoro dall’ufficio alle abitazioni private dei lavoratori ha comportato un indiscriminato aumento delle ore medie di lavoro giornaliero dei lavoratori agili, anche nei giorni di consueto riposo.
Infatti, al fine di garantire la continuità lavorativa delle imprese, durante la pandemia il legislatore ha consentito ai datori di lavoro di far proseguire l’attività dei lavoratori, ove possibile, in modalità agile, semplificando gli adempimenti e non richiedendo la stipula dell’accordo scritto, quindi legittimando un’attivazione unilaterale dell’istituto in ragione di una finalità di tutela della salute collettiva ed individuale, autorizzata dalla normativa emergenziale .
Tale distorsione ha portato all’aumento del fenomeno dell’iperconnessione del personale agli strumenti aziendali anche oltre l’orario di lavoro; situazione che ha determinato la necessità di porre un argine al fenomeno descritto, in ragione della sua potenziale dannosità per lo stato di salute dei dipendenti, sia sotto il profilo fisico, che mentale, in quanto si è presa coscienza anche della necessità di far comprendere al lavoratore che non deve sentirsi oppresso da sensi di colpa o da patemi d’animo mentre fruisce del proprio tempo libero.
Pertanto, garantire la disconnessione da situazioni di reperibilità costante e di totale assorbimento nel lavoro è diventata sempre più un’esigenza vitale per il lavoratore ed un dovere imprescindibile per il datore di lavoro.
In tale prospettiva e presa di coscienza, si collocano i recenti interventi sia del Garante per la protezione dei dati personali, che del Parlamento europeo.
Il primo, nel corso di un’audizione alla Commissione lavoro del Senato del 13 maggio 2020 sulle ricadute occupazionali dell’epidemia da Covid-19, ha posto l’accento sulla necessità di assicurare il diritto alla disconnessione “in modo più netto di quanto già previsto”, in quanto in assenza di esso “si rischia di vanificare la necessaria distinzione tra spazi di vita privata e attività lavorativa, annullando così alcune tra le più antiche conquiste raggiunte per il lavoro tradizionale”.
Inoltre, il Garante ha affermato l’importanza di prevenire gli eccessi di un “monitoraggio sistematico e ubiquitario del lavoratore”, in quanto il controllo dei lavoratori per il tramite delle nuove tecnologie deve avvenire nel rispetto delle garanzie sancite dallo Statuto dei lavoratori e, in particolare, con la garanzia di un’adeguata formazione e informazione degli stessi in ordine al trattamento dei dati raccolti.
A sua volta il Parlamento europeo, che è recentemente intervenuto in argomento per sottolineare come la digitalizzazione del lavoro implichi “l’intensificazione del lavoro e l’estensione dell’orario di lavoro, rendendo così meno netti i confini tra attività lavorativa e vita privata”, con conseguenti effetti sulla salute e sul benessere del lavoratore, quali ad esempio: disturbi muscolo scheletrici, ansia, esaurimento emotivo e burnout, il 21 gennaio 2021 ha approvato la Risoluzione recante “Raccomandazioni alla Commissione sul diritto alla disconnessione”.
In sostanza, il Parlamento europeo ha chiesto alla Commissione europea di elaborare una normativa che riconosca la disconnessione, quale diritto fondamentale, stabilendo gli standards e le misure di base da rispettare per il lavoro da remoto .

3. Il lavoro agile e il diritto alla disconnessione: la legge 6 maggio 2021, n. 61
La legge 6 maggio 2021, n. 61, di conversione del decreto legge 13 marzo 2021, n. 30 recante “Misure urgenti per fronteggiare la diffusione del Covid-19 e interventi di sostegno per lavoratori con figli minori in didattica a distanza o in quarantena”, entrata in vigore il 13 maggio 2021, è stata accolta da diversi commentatori come il primo riconoscimento nel panorama normativo italiano dello “status” di diritto alla disconnessione, con ciò indentificandolo quale diritto del dipendente che lavora in modalità agile di disconnettersi dalle strumentazioni tecnologiche e dalle piattaforme informatiche utilizzate per svolgere la prestazione lavorativa.
L’art. 2, comma 1-ter, della legge citata, infatti, così recita: “Ferma restando, per il pubblico impiego, la disciplina degli istituti del lavoro agile stabilita dai contratti collettivi nazionali, è riconosciuto al lavoratore che svolge l’attività in modalità agile il diritto alla disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche e dalle piattaforme informatiche, nel rispetto degli eventuali accordi sottoscritti dalle parti e fatti salvi eventuali periodi di reperibilità concordati. L’esercizio del diritto alla disconnessione, necessario per tutelare i tempi di riposo e la salute del lavoratore, non può avere ripercussioni sul rapporto di lavoro o sui trattamenti retributivi”.
Tale previsione risulta di interesse sotto diversi profili.
In primo luogo, la formulazione normativa espressamente riconosce alla disconnessione la natura di diritto, con ciò superando i dubbi precedentemente espressi sul punto, basti pensare al fatto che finora era stata solo la contrattazione collettiva a qualificarlo in tali termini .
Il diritto in parola, poi, viene descritto in relazione agli oggetti e strumenti dai quali il lavoratore può disconnettersi, ossia esso si concretizza nell’attività di scollegarsi “dalle strumentazioni tecnologiche e dalle piattaforme informatiche”. Ciò significa che la disconnessione, all’atto pratico, può realizzarsi spegnendo il telefono aziendale nei periodi di non lavoro, nel non ricontattare i colleghi al di fuori delle suddette fasce orarie o, ancora, nell’impostare i propri devices in modalità off-line, ma anche nel non connettersi a piattaforme informatiche, non dare seguito alle notifiche ricevute, porre dei freni alle notifiche stesse, ecc., in modo da segnalare la propria “non contattabilità”.
In sostanza il diritto de quo delinea un distacco del lavoratore da tutte le forme di strumentazioni, che ora si estendono anche alle piattaforme informatiche, le quali, in senso lato, possono consentire un collegamento tra il dipendente e il datore di lavoro e/o i colleghi e/o il contesto aziendale e, pertanto, dalle email, dagli smartphones, dalle chat aziendali, dai programmi e dalle applicazioni aziendali, ecc.
Ancora, il riconoscimento di tale diritto nasce con una finalità espressa, ossia “tutelare i tempi di riposo e la salute del lavoratore”, in tal modo confermando che l’istituto si ricollega sia al tema dell’orario di lavoro (e quindi all’art. 36 Cost.), sia al tema della tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori (e, quindi, all’art. 32 Cost.) , ponendosi “essenziale quantomeno per garantirne la fruizione” .
Viene poi espressamente sancito che chi si disconnette, poiché esercita un diritto, non deve subire “ripercussioni sul rapporto di lavoro o sui trattamenti retributivi”. Ciò significa, ad esempio, che la nuova disposizione di legge non vieta ai datori di lavoro di inviare ai propri dipendenti un’email al di fuori dell’orario di lavoro e dell’eventuale reperibilità, ma riconosce in capo al lavoratore il diritto di non aprirla durante le ore di disconnessione, senza con ciò incorrere in sanzioni disciplinari o in altre misure di ritorsione.
La norma citata precisa che il diritto alla disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche e dalle piattaforme informatiche si muove all’interno dei binari tracciati da “eventuali accordi sottoscritti dalle parti e fatti salvi eventuali periodi di reperibilità concordati”.
Questo significa che il diritto alla disconnessione dal lavoro agile può essere oggetto di un accordo individuale tra datore di lavoro e lavoratore. Tali accordi possono contemplare il diritto citato, ma possono anche non esistere o non prevederlo, conclusione cui si perviene argomentando dall’utilizzo del termine “eventuali”.
Così, ove gli accordi individuali tra le parti già contemplino il diritto alla disconnessione e le eventuali fasce di reperibilità, l’entrata in vigore della norma citata non potrà revocare o modificare accordi già raggiunti tra le parti.
Diversamente, invece, ove tali accordi non vi siano o non contemplino il diritto alla disconnessione, quest’ultimo dovrà comunque essere garantito. Infatti, il diritto alla disconnessione dovrà essere riconosciuto anche nell’ipotesi in cui il lavoro in modalità agile venga attivato unilateralmente dal datore di lavoro al fine di fronteggiare l’emergenza sanitaria .
In altre parole, nel vigore dell’attuale disciplina emergenziale il legislatore permette di prescindere dagli accordi tra le parti, salvo gli obblighi informativi di cui all’art. 22 della legge n. 81 del 2017 ai fini della sicurezza, che possono essere assolti anche in via telematica, al fine di garantire il diritto alla disconnessione e le conseguenti fasce di non contattabilità del lavoratore, ma non consente di eliminare le tutele che già siano state oggetto di accordo tra le stesse.
Si tratta di una previsione normativa la quale, inserita all’interno di una regolamentazione emergenziale dalla rubrica stessa della legge citata, si presenta come funzionale all’obiettivo di “fronteggiare la diffusione del Covid-19” attraverso il ricorso al lavoro agile.
Tuttavia, proprio con riferimento all’art. 2, comma 1-ter, occorre evidenziare come tale previsione possa trovare applicazione fino al termine dello stato di emergenza, a differenza delle altre previsioni contenute nello stesso art. 2. Infatti, ai sensi dell’art. 2, comma 10, del D.l. n. 30 del 2021: “Le misure di cui ai commi 1, 2, 3, 5, 6 e 7 si applica(va)no fino al 30 giugno 2021”, termine che non è stato toccato con riferimento al comma 2-ter, in quanto l’Allegato recante “Modificazioni apportate in sede di conversione al decreto-legge 13 marzo 2021, n. 30 – Articolo 2” si limita a stabilire che “al comma 10, le parole: <<commi 1, 2, 3>> sono sostituite dalle seguenti: <<commi 1, 1-bis, 2, 3>>.
Pertanto, poiché il D.l. 23 luglio 2021, n. 105 convertito nella legge 16 settembre 2021, n. 126, all’art. 1 prevede il termine dello stato di emergenza al 31 dicembre 2021, questa sarà la data ultima di applicazione della norma in commento, fatte salve eventuali proroghe al termine indicato, ove la situazione emergenziale dovesse aggravarsi nuovamente.
Nel pubblico impiego privatizzato, peraltro, fino al 31 dicembre 2021 il regime principale prevede il ricorso al lavoro agile in forza di contratti collettivi nazionali in corso di stipulazione nel rispetto dei precetti della legge n. 81 del 2017, i quali prevalgono sulla disciplina legale emergenziale, così come risulta dalla formula che la norma adotta al suo esordio. Solo in via sussidiaria, ossia in assenza di contratti collettivi nazionali che regolamentino tale istituto, le pubbliche amministrazioni potranno attivare il lavoro agile unilateralmente e con misure semplificate, che prescindono dagli artt. 18 e ss. della legge n. 81 del 2017, ma in forza della previsione della legge n. 61 del 2021 dovranno comunque garantire ai lavoratori il diritto alla disconnessione.

4. Conclusioni
L’art. 2, comma 1-ter, della legge n. 61 del 2021 garantisce il diritto alla disconnessione, ma lo inserisce all’interno della legislazione emergenziale, il ché non soddisfa l’esigenza di una disciplina organica della materia, in linea con una richiesta che si è fatta ormai forte anche in ambito europeo , in considerazione della massiva digitalizzazione del lavoro contemporaneo.
Pertanto, i risultati raggiunti non sono finora così rivoluzionari come invece annunciati, in quanto, benché definito come “diritto” dalla legislazione emergenziale, la disconnessione tornerà ad essere oggetto di un accordo negoziale tra il datore di lavoro e il lavoratore. Esso, quindi, continuerà ad essere motivo di “scontro” tra soggetti che sono, inevitabilmente, portatori di interessi contrapposti, in quanto il lavoratore mira a beneficiare della disconnessione, mentre il datore di lavoro ha l’obiettivo di ottenere la garanzia di reperibilità del lavoratore, con la conseguenza, quindi, che la disconnessione non beneficia di un’applicazione automatica.
Ancora, il diritto in parola viene riconosciuto nell’ambito del lavoro agile, ma è indubbio che esso dovrebbe invece essere esteso in modo fattivo. Infatti le norme, così congeniate, parrebbero far propendere per una esclusione dei lavoratori non agili dal diritto alla disconnessione, anche ove essi operino avvalendosi delle nuove tecnologie.
Opportuno sarebbe, allora, valorizzare il ruolo sussidiario della contrattazione collettiva rispetto alla legge, allo scopo di realizzare un bilanciamento di interessi che si può definire più dinamico. Solo con un intervento concreto da parte della contrattazione collettiva, infatti, si potrà assicurare al diritto alla disconnessione quella operatività concreta cui esso mira, prevedendo ad esempio procedure tecniche di connessione da remoto, fasce di reperibilità, una relazione tra trattamento economico e risultato, anziché puntare l’attenzione sul fattore tempo e sull’orario di lavoro, screening periodici e counseling psicologici, ecc., al fine di assicurare così la tutela in oggetto anche ai lavoratori in presenza, parimenti esposti al rischio di un’iperconessione.
Infine, occorre rilevare che oltre alle previsioni di legge ciò che deve mutare, affinché il diritto alla disconnessione svolga efficacemente il ruolo per il quale è nato, è anche la stessa mentalità dei lavoratori, siano essi manager o semplici colleghi di lavoro, affinché essi non identifichino la disconnessione in un mero obbligo di legge, quanto piuttosto in una vera necessità per la tutela della propria e dell’altrui salute e in una garanzia di rendimento complessivo dell’azienda. Ma questo è un percorso a lento assorbimento, che richiederà tempo e che dovrà basarsi su di un’operazione di educazione e di sensibilizzazione profonda, che deve partire da un’analisi delle abitudini del personale, per poi superare le pressioni percepite da esso, la paura di perdere conversazioni importanti e il timore che il non rispondere immediatamente a email ricevute dopo l’orario di lavoro o nel fine settimana sia percepito come una mancanza di impegno, influendo negativamente sul proprio avanzamento di carriera, ecc..
Un’operazione, quindi, che analizzi le fondamenta di tali errate, quanto radicate, abitudini, al fine di minarne le basi, per poi ricostruire il contesto lavorativo basandolo sul peso e sul ruolo che davvero meriterebbe il diritto alla disconnessione, attraverso quel change management volto a sviluppare una nuova cultura organizzativa, in cui la prestazione lavorativa non è più basata sul tempo e sul controllo del lavoratore, ma sui risultati, sulla produttività e sulla fiducia .

 

 

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