TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Lavoro agile: lezioni dalla pandemia
È ormai osservazione comune che il lavoro agile abbia costituito, durante il periodo pandemico, una sorta di “banco di prova” delle potenzialità di una modalità di svolgimento della prestazione di lavoro in cui le classiche coordinate di tempo e di luogo vengono meno, a favore di una maggiore produttività del lavoro e di migliori possibilità di conciliazione. In effetti, che il periodo emergenziale abbia visto l’esplosione dell’utilizzo del lavoro agile, tanto nel lavoro pubblico quanto nel lavoro privato, a fronte di esperienze precedenti ancora numericamente contenute, è un dato di fatto. Il report dell’OECD mostra come nel periodo di maggiore intensità della prima ondata della pandemia, il tasso di utilizzo del lavoro a distanza sia cresciuto in tutti i Paesi europei, con un calo nel periodo successivo, ma mantenendosi sempre su livelli più elevati di quelli pre-pandemici. L’esperienza, però, da un lato non va sopravvalutata, dal momento che le condizioni di ricorso al lavoro agile sono state molto diverse da quelle che sono richieste in una situazione di normalità organizzativa , dall’altro va attentamente analizzata, perché le ricerche svolte in materia non sono concordi nell’indicare nel lavoro agile uno strumento capace di coniugare le finalità scolpite nell’art. 18 della l. n. 81/2017.
Per quanto riguarda la finalità di conciliazione tra tempi di lavoro e tempi di cura, sulla quale si concentrerà questo contributo, un recente rapporto INAPP dimostra che il divario di genere tra lavoro retribuito e lavoro non retribuito si è esasperato nel periodo pandemico, dal momento che dette attività sono rimaste prevalentemente a carico delle donne, nonostante la compresenza del partner. La situazione è stata aggravata, peraltro, dalla chiusura delle scuole e dalla carenza dei servizi di assistenza domiciliare, tra l’altro, che hanno incrementato oltremisura un carico già elevato. Insomma, ammesso che di conciliazione si possa parlare, la pandemia ha dimostrato che si tratta di un onere che ricade ancora in prevalenza sulle donne , in particolare per la generazione efficacemente definita sandwich, cioè quella fascia di età tra i 35 e i 54 anni “in cui la simultaneità della gestione e cura di bambini e anziani o bisognosi di assistenza, proprio come in un panino, schiaccia la donna in un contesto di doppio lavoro con scarso supporto in termini di welfare locale e di assenza di condivisione da parte del partner, determinandone scelte e vincoli.” . La preoccupazione che il lavoro agile “finisca paradossalmente per favorire il modello tradizionale di divisione dei compiti di cura genitoriale c.d. male-bread-winner/female caregiver” è tutt’altro che peregrina.
È una questione che non può essere sottovalutata nella riforma della disciplina del lavoro agile, prospettata anche dal Governo Draghi e recentemente oggetto di un Protocollo tra le parti sociali, sul quale si tornerà.
2. Lavoro agile e conciliazione: un binomio da non trascurare
La valorizzazione della funzione di conciliazione attribuita dalla legge e contenuta anche nella proposta del gruppo Frecciarossa, dunque, non può trascurare le indicazioni che emergono dall’esperienza appena descritta, che ha avuto come risultato anche una massiccia uscita dal mercato del lavoro delle donne, dovuta alla riduzione della loro capacità di partecipazione al processo produttivo .
In questo senso, del resto, si possono leggere i segnali provenienti dall’UE, in particolare la direttiva 2019/1158/UE relativa all'equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza, che dovrà essere recepita in Italia entro il 2 agosto 2022 e che fornisce alcune indicazioni in merito alla flessibilità del lavoro, includendo anche il lavoro a distanza. Dalla direttiva, come più ampiamente argomentato in altra sede , si possono ricavare alcune indicazioni circa le strategie di regolazione del lavoro agile in funzione di conciliazione, tra le quali primeggia senza dubbio la necessità di separare il tempo di lavoro dal tempo di cura, anche quando al lavoratore agile siano assegnati obiettivi e progetti da realizzare. In caso contrario i rischi di sovrapposizione tra i due tempi segnalati dalla dottrina , proprio sulla scorta dell’esperienza pandemica, si amplificano e possono portare a fenomeni di stress e di overworking .
Alla luce delle considerazioni appena esposte, la lettura della proposta di riforma del gruppo Frecciarossa sembra evidenziare una lacuna proprio nella prospettiva della valorizzazione delle istanze di conciliazione tempi di lavoro-tempi di vita.
Premesso che nella valutazione delle potenzialità del lavoro agile post-pandemico ci si colloca nella categoria dei “costruttori realisti”, adottata dagli stessi estensori nella presentazione della proposta, occorre dire anche che rispetto a questi la fiducia nelle capacità del lavoro agile di rispondere a tutte le esigenze indicate nell’art. 1 del testo è un po’ meno granitica. Secondo gli Autori, in particolare, occorre valorizzare la funzione organizzativa e di incremento della produttività del lavoro agile, sicché “la ratio originaria del lavoro agile (conciliazione dei tempi e aumento della competitività) risulterà riduttiva a fronte delle potenzialità di questa “new way of working”.
Il punto di partenza è senza dubbio l’idea secondo la quale il lavoro agile “rinvia a pratiche di innovazione produttiva e tecnologica, ma anche organizzativa e culturale, inserendosi nel capitolo del lavoro professionalmente cognitivo come risorsa centrale dell’azienda” .
La prospettiva è sicuramente apprezzabile, nell’ottica del miglioramento della professionalità e della partecipazione al processo produttivo, ma deve essere valutata guardando anche alle altre finalità cui il lavoro agile è rivolto, prima fra tutte quella della conciliazione/condivisione delle responsabilità di cura, che non può essere trascurata sia perché la legge la prevede espressamente, sia perché nei fatti, tanto nel periodo più duro della pandemia, quanto in quello immediatamente successivo, l’approccio al questa modalità di lavoro ha cercato di combinare i due profili.
Una lettura simile a quella della Proposta del gruppo Frecciarossa si ritrova, mutatis mutandi, anche nel report dell’Osservatorio sullo Smart Working del Politecnico di Milano che, pur riconoscendo il fatto che “il difficile work-life balance è stata anche la prima barriera da superare per le grandi imprese”, immagina uno sviluppo del lavoro agile post-pandemia come un nuovo approccio al lavoro, dal punto di vista organizzativo e della partecipazione dei lavoratori .
Una revisione della disciplina del lavoro agile nell’ottica della garanzia del bilanciamento tra lavoro ed esigenze di vita avrebbe richiesto una maggiore attenzione alla tematica, già accennata sopra, delle modalità di determinazione dell’orario di lavoro anche (anzi, soprattutto) quando la valutazione della prestazione viene effettuata non sulla base del rispetto di un orario di lavoro predeterminato, ma sulla base della fissazione di obiettivi e progetti, che pare essere quella privilegiata dalla proposta in commento. In questa ipotesi, occorre introdurre “altri criteri che individuino i confini dell’attività dedotta in contratto” , anche ai fini della determinazione della retribuzione. In altre parole, il diritto alla disconnessione non basta, essendo collegato ai soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro e, dunque, al solo diritto al riposo giornaliero di 11 ore . Non si intende qui sostenere che sia necessaria la fissazione dell’orario in maniera rigida, al contrario; ciò che si vuole dire è che la determinazione di obiettivi e progetti non può prescindere dalla considerazione dell’impegno temporale richiesto, che deve essere tale da lasciare spazi di libertà e di autodeterminazione al lavoratore.
Nella prospettiva della conciliazione, inoltre, assumono rilievo in primo luogo il ritorno alla consensualità dell’adibizione al lavoro agile e il riconoscimento del diritto di priorità (art. 6 della proposta Frecciarossa) per le richieste formulate da uno dei genitori nei tre anni successivi alla conclusione del congedo.
Su quest’ultimo punto, tuttavia, è opportuno svolgere alcune osservazioni. In primo luogo, il confronto con le previsioni della direttiva 2019/1158/CE fa emergere alcune differenze. L’art. 9 della direttiva prevede che i genitori con figli fino a una certa età (non inferiore a 8 anni) e dei prestatori di assistenza abbiano il diritto di chiedere modalità di lavoro flessibili (tra le quali la direttiva ricomprende anche il lavoro a distanza), diritto al quale corrisponde l’obbligo del datore di lavoro di “prendere in considerazione” tali richieste e di motivare l’eventuale rifiuto o il differimento della richiesta. Da un lato, dunque, il periodo di possibile esercizio del diritto è più lungo, dall’altro detto diritto è riconosciuto a entrambi i genitori.
Il riconoscimento della priorità di accesso al lavoro agile crea in capo al lavoratore, senza dubbio, una posizione giuridica più debole, come è dimostrato dalla (scarsa) giurisprudenza in materia di diritto di precedenza dei lavoratori a tempo determinato ; inoltre, l’attribuzione della priorità solo a uno dei due genitori, peraltro, potrebbe portare a far ricadere la scelta, di nuovo, sulla donna , mentre la direttiva 2019/1158/UE sottolinea più volte come gli Stati membri siano tenuti a incentivare una migliore ripartizione delle responsabilità di cura tra uomini e donne .
Dalla direttiva, inoltre, si ricava che il diritto alla scelta di modalità di lavoro flessibili va certamente contemperato con le esigenze dell’impresa, ma richiede il diniego o il differimento da parte del datore di lavoro debba essere motivato sulla base di circostanze oggettive . La sola priorità nell’accesso al lavoro agile non pare, insomma, rispondere alle indicazioni europee. Così come la previsione sul recesso dall’accordo, in questo caso invariata rispetto alla disciplina di cui alla L. 81/2017, non sembra tener conto del diritto alla reversibilità, cioè al ritorno “all’organizzazione originaria della vita professionale” che la direttiva riconosce al lavoratore “ogniqualvolta un cambiamento di circostanze lo giustifichi”.
Del resto, che la direttiva 2019/1158/UE debba costituire il punto di riferimento della revisione della disciplina del lavoro agile lo conferma anche il recente Protocollo Nazionale sul lavoro in modalità agile, specie là dove le parti sociali “nella logica di favorire la condivisione delle responsabilità genitoriali e accrescere in termini più generali la conciliazione tra i tempi di vita e di lavoro (…) si impegnano a rafforzare i servizi e le misure di equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza”. La previsione, pur non richiamandone espressamente gli estremi, ricalca l’intitolazione della direttiva citata. Si tratta certamente di un passo significativo nella direzione indicata in queste pagine, che deve però essere accompagnato dall’introduzione effettiva nella contrattazione collettiva di strumenti e misure adeguati. Sul punto la contrattazione collettiva non ha dato finora grande prova di sé , è vero, ma è altrettanto vero che la stessa legislazione non ha favorito in nessun modo un approccio più attento alla prospettiva di genere, neppure nella disciplina dei congedi . La strada da percorrere, dunque, è ancora lunga.

3. Il lavoro agile come nuovo part-time e i rischi della disparità di trattamento
La proposta in esame affida la regolazione del lavoro agile alla contrattazione collettiva, sia pure in un quadro nel quale, come si legge nella relazione di accompagnamento, “il contratto individuale rappresenta il principale strumento regolativo”. In effetti, l’assenza di rinvio alla contrattazione collettiva è stata segnalata dalla dottrina come uno dei punti di debolezza della disciplina introdotta con la L. n. 81/2017 , che affida all’accordo individuale (non assistito) la regolazione delle modalità di svolgimento dell’attività e finanche dell’esercizio dei poteri datoriali.
L’art. 8 della proposta stabilisce, invece, che l’accordo individuale debba conformarsi a quanto “eventualmente previsto dai contratti collettivi”, individuando le materie che devono necessariamente essere contenute nell’accordo stesso. La prima osservazione riguarda proprio l’individuazione dei contratti collettivi senza ulteriori specificazioni. Da un lato, non c’è dubbio che la disposizione possa essere riferita tanto ai contratti nazionali quanto a quelli di secondo livello; sotto questo profilo il rinvio non crea problemi particolari, dato che è stata proprio la contrattazione aziendale, soprattutto nelle grandi imprese, a regolamentare il lavoro agile ben prima dell’intervento legislativo . Dall’altro, però, il rinvio sans phrase rischia di abilitare qualunque contratto collettivo, anche stipulato da soggetti di scarsa o nulla rappresentanza, a intervenire nella disciplina del lavoro agile, finanche in tema di retribuzione, come prevede l’art. 7, sul quale si tornerà a breve. È dunque opportuna la precisazione contenuta nella relazione di accompagnamento, secondo la quale il riferimento è ai contratti collettivi stipulati dai soggetti comparativamente più rappresentativi, ex art. 51 d. lgs. n. 81/2015.
Sempre restando al testo dell’art. 8, qualche perplessità solleva la previsione della lett. f), secondo la quale l’accordo disciplina “l’attività formativa eventualmente necessaria per lo svolgimento della prestazione di lavoro in modalità agile e le eventuali modalità di certificazione delle competenze”. In un’ottica quale quella adottata dalla proposta, avrebbe dovuto prevedersi un più pregnante diritto alla formazione e alla periodica certificazione delle competenze, come peraltro si sostiene nella relazione di accompagnamento. La previsione, che ricalca peraltro quella dell’art. 20 della L. n. 81/2017, da un lato si pone in contrasto con l’art. 2103 c.c., che riconosce al lavoratore il diritto alla formazione in ogni ipotesi di modifica delle mansioni , dall’altro rischia nuovamente di incidere in maniera più significativa sul lavoro femminile. In primo luogo, se il lavoro agile deve essere considerato “un device in grado di coniugare funzioni diverse, tenute insieme dalla filosofia di innovazione sociale e organizzativa che innerva le plurime pratiche che lo realizzano” (pag. 4 della Relazione di accompagnamento), allora la formazione continua ne dovrebbe essere una caratteristica distintiva. Non si tratta, in questo caso, solo di una formazione tecnica allo svolgimento delle mansioni, ma una formazione più ampia, rivolta a migliorare anche le competenze trasversali del lavoratore . In secondo luogo, è noto che il digital divide colpisce in maniera più consistente le donne ; proprio per questa ragione, la previsione di interventi di formazione rivolti al miglioramento delle competenze digitali e trasversali dovrebbero considerarsi utili ai fini dell’incremento della produttività, da un lato, e della soddisfazione sul lavoro, dall’altro. Anche il Protocollo nazionale sul lavoro agile adotta medesima formulazione della previsione in materia di contenuto dell’accordo di agilità: formazione solo eventuale, ove si dimostri necessaria per lo svolgimento della prestazione. Nell’art. 14, tuttavia, si stabilisce che “per garantire a tutti i fruitori del lavoro agile pari opportunità nell’utilizzo degli strumenti di lavoro e nell’arricchimento del proprio bagaglio professionale, nonché al fine di diffondere una cultura aziendale orientata alla responsabilizzazione e partecipazione dei lavoratori, le Parti sociali ritengono necessario prevedere percorsi formativi, finalizzati a incrementare specifiche competenze tecniche, organizzative, digitali…”. Si tratta di una previsione di grande rilievo, dal momento che il ruolo della contrattazione collettiva, in definitiva, dovrebbe essere quello di accompagnare le trasformazioni, ormai inarrestabili, dei modi e dei tempi di lavoro, attraverso la valorizzazione delle potenzialità del lavoro agile e, al tempo stesso, la garanzia che esso non si trasformi in un vettore di possibili svalutazioni, se non addirittura discriminazioni, nei confronti del lavoro femminile.
La finalità di conciliazione sottesa alla disciplina legale e alla proposta del gruppo Frecciarossa, sia pure con le precisazioni fatte finora, non deve dunque portare alla sottovalutazione del lavoro svolto da remoto. Il rischio che il lavoro agile si trasformi in un part-time rivisitato , dal punto di vista dell’accesso ad esso da parte delle lavoratrici con carichi familiari, è in agguato, stando a quanto risulta dall’esperienza della pandemia . E che il part-time sia uno strumento pressoché inutilizzabile nella prospettiva dell’eguaglianza tra uomini e donne è ormai assodato .
In questo quadro, l’aspetto forse più critico della proposta in esame è la cancellazione del principio di parità di trattamento e il rinvio alla contrattazione collettiva (anche aziendale) per la determinazione del trattamento economico e normativo del lavoratore agile. Nell’ottica dei proponenti, l’eliminazione del principio anzidetto consentirebbe al contratto collettivo di “ridefinire il trattamento economico individuando modalità più legate al risultato e a specifici progetto piuttosto che al tempo con regolazione di aspetti importanti dell’orario di lavoro, diversi rispetto al classico orario in presenza” (p. 7).
La scomparsa del principio paritario, tuttavia, comporterebbe alcune rilevanti conseguenze, che non si possono trascurare. In primo luogo, occorre ricordare che tutte le direttive europee in materia di lavoro atipico hanno fatto del principio di parità di trattamento il nucleo centrale della loro regolazione, sul presupposto che lavorare con modalità diverse da quelle “ordinarie” non possa costituire una giustificazione per riconoscere al lavoratore un trattamento economico e normativo inferiore rispetto ai lavoratori comparabili, cioè coloro che svolgono la medesima attività secondo modalità standard. Nell’elaborazione che ne ha fatto la Corte di giustizia, peraltro, il principio di parità di trattamento dei lavoratori atipici è considerato un principio di diritto sociale particolarmente importante, espressione specifica del principio di uguaglianza .
Nella formulazione dell’art. 20 della L. 81/2017, al principio in parola è stata correttamente attribuita la funzione di evitare che il motivo del ricorso al lavoro agile possa essere ricondotto alla riduzione del costo del lavoro, così come avviene per le tipologie atipiche di lavoro . L’esperienza maturata durante la pandemia ha dimostrato, peraltro, che al lavoro agile possono essere connessi considerevoli risparmi, ad esempio sui c.d. buoni pasto, la cui mancata erogazione è stata avallata anche dalla giurisprudenza , oltre che sul lavoro straordinario, come prevede ora lo stesso Protocollo nazionale. Del resto, che il ricorso al lavoro agile possa comportare considerevoli risparmi di costi per il datore di lavoro, in relazione ad esempio alla riduzione degli spazi di lavoro, è confermato dalle prime applicazioni della nuova modalità di organizzazione del lavoro avviate prima dell’intervento della legge. Il lavoro agile consente anche al lavoratore di risparmiare i costi di trasporto , ad esempio, ma non quelli legati al lavoro presso la propria abitazione, come riscaldamento, elettricità, costi di connessione etc.
La preoccupazione per cui la contrattazione collettiva, in presenza del principio di parità di trattamento, non sarebbe libera di dispiegare tutta la sua capacità creativa, prevedendo incentivi ed elementi retributivi legati ai risultati della prestazione, non sembra fondata. Il principio di parità di trattamento non impedisce la differenziazione dei trattamenti (retributivi e normativi) dei lavoratori, ma richiede che tale differenziazione sia giustificata sulla base di elementi oggettivi. In altre parole, è corretto dire che “quando parliamo di parificazione dobbiamo intrinsecamente comprendervi (…) un’istanza di differenziazione di ciò che merita di essere trattato in modo differenziato” .
Nel caso del lavoro agile, peraltro, l’affermazione del principio paritario ha lo stesso significato dell’analoga previsione contenuta nella disciplina del lavoro a tempo parziale, cioè l’evitare che un trattamento differenziato dei lavoratori agili si traduca in una discriminazione indiretta a danno delle donne qualora, come è avvenuto nel periodo pandemico, il numero complessivo delle lavoratrici impegnate nel lavoro a distanza superi significativamente il numero degli uomini. Di una simile eventualità sembrano essersi accorte le stesse parti sociali nel Protocollo più volte citato: l’art. 9, infatti, oltre a stabilire che il lavoratore agile ha diritto allo stesso trattamento economico e normativo dei lavoratori “standard”, anche rispetto ai premi di risultato stabiliti dalla contrattazione di secondo livello, nonché alle stesse opportunità rispetto ai percorsi di carriera, di iniziative formative e di ogni altra opportunità di specializzazione e progressione della propria professionalità”.
La previsione è quanto mai opportuna. Uno dei fattori di debolezza del part-time, che ne ha impedito una diffusione paritaria, risiede proprio nel fatto che il lavoro a orario ridotto non offre le stesse prospettive di carriera del lavoro a tempo pieno. Una simile sorte potrebbe toccare anche al lavoro agile, in assenza di meccanismi di bilanciamento, come il principio di parità di trattamento.

 

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