TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Il sistema delle tutele nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo è stato profondamente modificato da diverse sentenze della Corte costituzionale (194/2018; 150/2020; 59/2019; 125/2022; 183/2022) sia in relazione alla disciplina del contratto a tutele crescenti, sia per quanto attiene all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Non mi soffermo sul contenuto di queste decisioni che sono ben note. Rilevo soltanto come queste sentenze abbiano accolto dei profili di legittimità costituzionale che erano stati messi in evidenza da una parte della dottrina, tra cui il sottoscritto. Alcuni interpreti hanno fortemente contestato queste sentenze. Queste critiche secondo me non hanno colto nel segno ma è comunque ormai inutile soffermarsi su di esse.
Analizzerò separatamente gli effetti delle sentenze della Corte costituzionale in relazione all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e al decreto legislativo n. 23/2015 sul contratto a tutele crescenti.

2. Va innanzitutto rilevata la peculiarità della tecnica utilizzata dalla Corte costituzionale. I giudici delle leggi prendono espressamente posizione sul concetto di giustificato motivo oggettivo in piena aderenza a quanto era stato ormai definito dalla Corte di Cassazione nel momento in cui le due sentenze del 2021 e del 2022 sono state emesse.
Dal punto di vista giuridico, è evidente il carattere non vincolante di tali affermazioni, nella misura in cui esse non hanno un rapporto di diretta strumentalità con le argomentazioni utilizzate per affermare la incostituzionalità delle normative esistenti. Tuttavia, esiste un nesso logico inequivocabile tra le caratteristiche che secondo la Corte individuano il concetto di giustificato motivo oggettivo e le ulteriori motivazioni che giungono poi ad affermare il contrasto con la Costituzione di una parte delle regole contenute nell’articolo 18.
Mi sembra indiscutibile, pertanto, la necessaria influenza sugli interpreti (giudici inclusi) delle ragioni addotte dalla Corte in considerazione dell’autorevolezza del soggetto da cui queste affermazioni promanano.
Di questa influenza vi è già traccia nelle pronunce della Cassazione. Infatti, con la decisione 2 dicembre 2022, n. 35496 la Corte, nel richiamare la propria giurisprudenza sul contenuto del giustificato motivo oggettivo che si era formata prima e dopo le sentenze emesse dai giudici delle leggi, afferma come “tale ricostruzione è stata avallata dalla Corte costituzionale” con la decisione numero 125/2022, che viene ampiamente citata al proprio interno (punto 3.4 delle Ragioni della decisione).
Si tratta del primo autorevole esempio che dimostra come queste sentenze debbano necessariamente condizionare la ricostruzione del contenuto del giustificato motivo oggettivo.

3. Dopo queste considerazioni preliminari, è importante individuare quali sono i principi desumibili dalle decisioni della Corte costituzionale e della Cassazione, oggi allineate su conclusioni conformi. Tali principi possono essere così sintetizzati:
a) il fatto che è all’origine del licenziamento per giustificato motivo oggettivo coincide con le ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al suo regolare funzionamento. Vi è quindi, in questo caso, una piena identificazione tra fatto posto a base del recesso e decisione economica organizzativa con la quale il datore di lavoro intende giustificare l’interruzione del contratto di lavoro. Non vi è quindi alcuna possibilità di operare la distinzione, espressa nell’ambito del recesso disciplinare e a mio giudizio ormai superata, tra fatto materiale e fatto giuridico (tornerò su tale aspetto, perché su tale questione è stata espressa una differente opinione);

b) il giustificato motivo oggettivo è composto da tre elementi fondamentali:
- la soppressione del posto di lavoro;
- il nesso causale tra la soppressione del posto e il lavoratore licenziato;
- la dimostrazione, a carico del datore di lavoro, della impossibilità del repechage, e cioè di una proficua riutilizzazione del lavoratore in mansioni corrispondenti al proprio livello di inquadramento contrattuale o anche a mansioni inferiori tenendo in considerazione, peraltro, non tutti compiti astrattamente attribuibili al dipendente ma solo quelli coerenti con il proprio bagaglio tecnico professionale;

c) la carenza di soltanto uno di questi elementi (o di più di uno) determina la insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e comporta la disciplina della reintegra attenuata prevista dall’articolo 18, commi 4 e 7, della legge 300/1970;

d) sempre in coerenza con quanto stabilito dalla Corte costituzionale, la tutela indennitaria prevista dall’articolo 18 e relativa alle “altre ipotesi” contemplate da questa disposizione potrà applicarsi in casi diversi da quelli sopra descritti ed in relazione alla violazione dei criteri di correttezza e buona fede nella selezione del lavoratore da licenziare qualora il recesso debba operare nei confronti di più posizioni lavorative tra loro professionalmente fungibili.

4. Senza dubbio la disciplina prima descritta presenta delle peculiarità rispetto alla originaria intenzione del legislatore che, in rapporto al giustificato motivo oggettivo, voleva attribuire alla reintegrazione il valore di tutela residuale rispetto all’applicazione ordinaria della sanzione indennitaria.
Questa situazione, peraltro, scaturisce dalla eliminazione sia del requisito della insussistenza manifesta sia della facoltatività della reintegrazione. L’intento originario del legislatore è stato completamente stravolto dalla cancellazione proprio di queste parti della disposizione che erano quelle direttamente finalizzate a marginalizzare la tutela ripristinatoria.
Queste modifiche hanno ovviamente alterato l’intero impianto normativo anche in relazione alle “altre ipotesi”. Ma non credo che, alla luce dell’intervento manipolativo dei giudici costituzionali sia possibile correggere l’assetto attuale. Tornerò su tale aspetto.

5. La disciplina descritta sia in relazione agli elementi costitutivi del gmo, sia all’applicazione della reintegrazione quando venga a mancare uno o più di tali elementi che lo compongono, è anche l’effetto della qualificazione del licenziamento individuale per ragioni economiche come extrema ratio, secondo un orientamento della dottrina e della giurisprudenza che, seppure sulla base di argomentazioni diverse, ha ormai una storia di 53 anni.
Il licenziamento per gmo quale “ragione ultima” trova fondamento in una complessa ricostruzione teorica. Non va dimenticato, infatti, che la formulazione letterale dell’art. 3 della l. n. 604/1966 non richiede né la soppressione del posto né la prova della impossibilità del repechage. Una ragione organizzativa giustificativa del recesso potrebbe essere anche costituita dalla sostituzione di un lavoratore più costoso con uno meno costoso (senza alcuna soppressione del posto) o dalla esistenza di condizioni di difficoltà economiche dell’impresa che non fossero comunque tali da richiedere la eliminazione di una figura professionale dall’organico del datore di lavoro.
Nella misura in cui si accede alla tesi secondo cui il recesso necessariamente richiede che il posto di lavoro venga soppresso, tale scelta, a parte l’inevitabile sussistenza del nesso di causalità con il lavoratore selezionato, comporta ineluttabilmente anche la prova della impossibilità del ripescaggio. Se infatti il lavoratore potesse essere adibito ad altre attività corrispondenti al suo livello di inquadramento o ad un livello di inquadramento inferiore, in tal caso non vi sarebbe stata la soppressione del posto ma soltanto la eliminazione delle mansioni a cui era in precedenza adibito, con la possibilità di una sua utilizzazione residuale in altri compiti all’interno della struttura aziendale.

6. La qualificazione del recesso come extrema ratio trova fondamento in diversi elementi.
In primo luogo, essa corrisponde alla realtà degli ordinamenti di alcuni paesi europei di grande tradizione giuridica. Tra questi, ad esempi, la Francia (dove il recesso economico deve essere basato su una ragione organizzativa “reale e seria” e non su qualunque esigenza dell’impresa e richiede comunque la dimostrazione della impossibilità del repechage) o la Germania, dove questo tipo di recesso deve essere “socialmente giustificato” (presupposto che, ad es., manca nel caso in cui il dipendente possa comunque essere impiegato in un altro posto di lavoro all’interno dell’impresa). Inoltre, in quest’ultimo paese, il datore di lavoro ha comunque l’obbligo di consultare il Consiglio aziendale, con un parere che non è vincolante ma che, se negativo, ha un notevole peso in sede giudiziaria se il licenziamento è impugnato.
Tale qualificazione, inoltre, è coerente con una interpretazione del bilanciamento tra tutela del lavoro e dell’impresa nella Costituzione. Da questo punto di vista le sentenze della Corte costituzionale in materia di licenziamento emesse tra il 2018 e il 2022 hanno offerto una lettura della nostra legge fondamentale che richiama il “principio lavorista” di Costantino Mortati. In base alla interpretazione accolta dai giudici delle leggi la tutela del lavoro nella Costituzione è un diritto fondamentale e strumentale alla realizzazione della personalità umana a “cui il legislatore deve guardare per apprestare specifiche tutele”. Si tratta di un approccio che si pone in radicale contraddizione con una visione prevalentemente economicistica del contratto di lavoro che ha caratterizzato gli ultimi 30 anni e “dimostra l’elevato grado di razionalizzazione del progetto costituzionale di affermazione della dignità e degli interessi delle persone che lavorano” .
Questa valorizzazione del lavoro nella legge fondamentale trova conferma anche nella recente riforma della Costituzione relativa agli articoli 9 e 41 nella misura in cui si è inserita la tutela dell’ambiente tra i principi fondamentali (sottratti alla revisione costituzionale ordinaria) e si è previsto che l’ambiente costituisca un limite anche all’iniziativa economica privata, che si aggiunge a quelli già esistenti (utilità sociale, sicurezza, libertà e dignità umana). Se si considera che, a livello internazionale ed europeo, nelle strategie perseguite per la protezione dell’habitat e nell’ambito dello sviluppo sostenibile, la nozione di ambiente non va riferita soltanto all’ecosistema ma anche ai profili economici e sociali nel cui contesto si svolge la produzione di beni e di servizi, si comprende facilmente come tale concetto includa anche le tutele dei lavoratori. E non è un caso che, nella nuova frontiera dell’impresa sostenibile, i lavoratori siano tra gli stakeholders, tra i soggetti cioè che devono essere presi in considerazione e protetti nell’esercizio ordinario dell’attività imprenditoriale.
L’extrema ratio del gmo è anche conforme ai principi che la Corte costituzionale ha messo in rilievo proprio in relazione al licenziamento individuale. In tale ambito, infatti, i giudici delle leggi hanno affermato che il recesso è un evento «in sé sempre traumatico», costituisce un «disvalore» tale da imporre, oltre alla «necessaria giustificazione del recesso», la possibilità di tecniche di tutela non necessariamente ripristinatorie ma «anche in chiave esclusivamente monetaria». Inoltre, la disciplina in materia, sia nei suoi profili sostanziali sia in quelli formali e procedurali, tutela «l’interesse del lavoratore alla stabilità dell’occupazione», comporta il «forte coinvolgimento della persona umana», deve proteggere «la (sua) dignità», correggere «un disequilibrio di fatto esistente nel contratto di lavoro» e garantire l’esercizio di diritti fondamentali del lavoratore «di libertà sindacale politica e religiosa» . In tale ambito, la tutela economica, se realizzata con meccanismi risarcitori, deve essere adeguata, con un criterio che riguarda innanzitutto il quantum . La rilevanza degli interessi coinvolti, d’altra parte, impone una polifunzionalità del danno, dove, accanto alla funzione riparatoria, si affianca quella dissuasiva e sanzionatoria, con profili che, ancora una volta, devono incidere sull’entità della indennità . Si è molto lontani, come si vede da una lettura della disciplina del licenziamento in chiave di firing cost e di esatta predeterminazione del danno prevedibile a carico del datore di lavoro in caso di recesso ingiustificato .
Il valore che, secondo la Corte, assume la protezione contro il licenziamento ingiustificato e i “beni” e gli interessi tutelati sono tali da confermare che il recesso economico possa essere esercitato solo in presenza di ragioni stringenti e in un’ottica di forte tutela della posizione del lavoratore.
La qualificazione del gmo come extrema ratio trova poi conferma nelle due sentenze della Corte (59/2021 e 125/2022), nelle quali, come si è già detto, i giudici delle leggi confermano espressamente la qualificazione del recesso per gmo come “ultima ragione” e ne individuano i tre elementi costitutivi già descritti.

7. Nel contesto del licenziamento quale extrema ratio e in critica alla sentenza della Cassazione 7 dicembre 2016, n. 25201, ho cercato di argomentare che la crisi di impresa e le difficoltà economiche dell’azienda costituiscono un elemento fondamentale del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in base ad una lettura dei principi costituzionali e delle fonti europee (tra cui l’art. 24 della Carta Sociale Europea) . La Cassazione, tuttavia, ha confermato il suo nuovo orientamento e ritiene che la crisi di impresa (che è a monte della soppressione del posto di lavoro e che ne dovrebbe giustificare l’esistenza) non è più un requisito indispensabile del recesso individuale per gmo (a meno che esso non venga dal datore di lavoro motivato proprio alla luce della sussistenza di difficoltà economiche).
La giurisprudenza della Suprema Corte, comunque, pur non accogliendo le mie critiche, configura sempre il gmo come “ragione ultima” di giustificazione del recesso, come si è già analizzato in precedenza.

8. Una parte della dottrina propone un’ipotesi interpretativa secondo la quale, in caso di mancato assolvimento da parte del datore di lavoro dell’onere probatorio relativo alla impossibilità del “ripescaggio”, dovrebbe essere applicata la tutela indennitaria e non quella ripristinatoria.
Questa interpretazione viene basata in primo luogo sul fatto che, in conseguenza dell’intervento manipolatorio dei giudici delle leggi, si è rovesciato l’assetto originariamente voluto dal legislatore, che intendeva limitare la reintegra a disciplina residuale e non fondamentale del licenziamento economico ingiustificato. Con la conseguenza che ricondurre il repechage nell’ambito del risarcimento del danno servirebbe a riequilibrare l’assetto della disposizione, riportandola ad una lettura più vicina all’intento originario del legislatore.
A questa tesi si possono opporre alcune argomentazioni a mio parere decisive.
La prima è che la residualità della reintegrazione si basava su due parole (“può” e “manifesta”) che sono state completamente eliminate dal testo normativo. Come già detto in precedenza, la formulazione attuale della disposizione impedisce di considerare la reintegra come tutela residuale e pone un rapporto di piena simmetria tra sanzione ripristinatoria nel licenziamento disciplinare e reintegrazione nel gmo. Pertanto, a mio parere, sia il contenuto letterale della norma, sia la simmetria tra le due forme di licenziamento oggi conseguente alle pronunce della Corte (ed espressamente ribadita dai giudici delle leggi che su tale elemento hanno basato la illegittimità di una differenziazione come quella delineata nell’art. 18 dopo la riforma Fornero) impediscono di dare rilievo alla intenzione originaria del legislatore, che di fatto è stata completamente rovesciata. Soltanto un intervento normativo di modifica della disposizione potrebbe di attribuire alla reintegrazione quella residualità che costituiva l’originario disegno della riforma del 2012.
Un secondo argomento a confutazione della tesi qui criticata sta nel fatto che la giurisprudenza della Cassazione, anche quando la insussistenza del giustificato motivo oggettivo doveva essere “manifesta”, aveva delineato la interpretazione prima descritta (giustificato motivo oggettivo composto dai tre elementi descritti e, in mancanza di uno di essi, necessità della reintegra, inclusa l’ipotesi della mancata prova del repechage). Tale ricostruzione ha trovato fondamento nella riconduzione del concetto di insussistenza manifesta al piano probatorio e nella qualificazione del giustificato motivo oggettivo come “ragione ultima”. Dunque, la formulazione originaria dell’articolo 18 non consentiva ugualmente di giungere alla conclusione secondo cui la mancata prova del ripescaggio dovrebbe essere ricondotta nell’ambito della tutela indennitaria. Mi sembra un argomento molto importante che toglie valore alla interpretazione da me non condivisa.
L’esclusione dalla tutela reintegratoria della mancata dimostrazione della impossibilità del ripescaggio è stata anche motivata in base a diverse argomentazioni. Esse sono state sviluppate in critica alla sentenza della Cassazione 2 dicembre 2022, n. 35496 esaminata in precedenza. La decisione che, come si è detto, afferma che la Corte costituzionale ha avallato la giurisprudenza della Suprema Corte sul gmo quale extrema ratio e la reintegrazione quale sanzione necessaria qualora non vi sia la prova della irrealizzabilità del repechage.
Il primo argomento utilizzato è quello secondo cui i giudici delle leggi, con le due sentenze 59/2021 e 125/2022, volevano soltanto mettere in rilievo le incongruenze della formulazione originaria dell’articolo 18 ma non intendevano attribuire alla reintegrazione una tutela espansiva.
Qui è facile replicare che, come sottolineato dalla decisione della Cassazione 35496/2022, la Corte costituzionale in realtà prende espressamente posizione proprio sugli elementi costitutivi del giustificato motivo oggettivo e riconduce il repechage tra essi, sottolineando come la mancanza della prova del ripescaggio richieda la reintegra. Inoltre, l’espansione della reintegrazione è frutto della formulazione attuale della disposizione e della nozione di gmo quale extrema ratio.
Il secondo argomento della tesi qui criticata è quello secondo il quale esiste una simmetria tra il “fatto contestato” e il “fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”. Il primo non coincide con la giusta causa o il giustificato motivo soggettivo. Lo stesso deve dirsi per il gmo, dove il fatto è la decisione organizzativa che determina la soppressione del posto, mentre il ripescaggio si colloca a valle della decisione organizzativa ed è un elemento esterno alla fattispecie.
In realtà, come già accennato in precedenza, questa assimilazione è assolutamente improponibile. Nel licenziamento disciplinare si può forse distinguere il “fatto” (inteso come comportamento del dipendente comprensivo della azione/omissione, dell’elemento soggettivo e dell’evento) dalla giusta causa o giustificato motivo soggettivo. Quest’ultima non sussisterebbe (con conseguente illegittimità del recesso) quando il “fatto”, pur esistente, non costituirebbe una “grave negazione” del vincolo fiduciario richiesta dalla legge e vi sarebbe quindi una sproporzione tra il comportamento del lavoratore e le fattispecie previste dalla legge (con applicazione della tutela indennitaria) .
Nel licenziamento economico, il fatto coincide con la decisione organizzativa del datore di lavoro e non è possibile operare quella scissione tra elementi fattuali ed elementi giuridicamente rilevanti propria del recesso disciplinare. Ora, anche per la teoria qui criticata, la decisione organizzativa coincide con la soppressione del posto. Ma, come si è già spiegato in precedenza, la soppressione presuppone la dimostrazione dell’impossibilità di riutilizzazione del lavoratore in altre mansioni. In caso contrario vi sarebbe soltanto la soppressione di alcune attività e non del posto di lavoro. Il ripescaggio, quindi, è elemento coessenziale all’esistenza della soppressione del posto, ad essa inscindibilmente connesso, perché se il “ripescaggio” è possibile, il posto non è stato realmente eliminato .
L’unica strada per escludere il repechage dalla tutela reintegratoria è quella di non ritenere la soppressione del posto come elemento costitutivo della fattispecie. Una possibilità che, in astratto, come si è visto, è certamente ipotizzabile. Ma questo implica la esclusione del giustificato motivo oggettivo come extrema ratio, secondo quanto già spiegato in precedenza. Una conclusione che, come già detto, non mi sembra coerente con tutti gli argomenti giuridici in precedenza messi in evidenza e alla luce anche quanto affermato dalla Corte costituzionale.
Vi è poi un terzo argomento a sostegno della interpretazione qui non accolta. Si afferma che il datore di lavoro, quando licenzia un lavoratore, elimina il “posto” a cui è adibito e pertanto la soppressione, in questo caso, è stata effettivamente realizzata. Il mancato assolvimento della prova della impossibilità del repechage è quindi un elemento esterno alla decisione organizzativa che determina tale conseguenza. La possibile riutilizzazione del lavoratore in altre mansioni del medesimo livello di inquadramento o anche inferiori significa che il dipendente può essere assegnato ad un diverso posto di lavoro, non coincidente con quello ormai eliminato e non più esistente. Non avrebbe quindi senso sottoporre al medesimo regime sanzionatorio (la reintegrazione) un fatto che attiene ad un aspetto differente.
Questa interpretazione confonde il “posto” come luogo fisico in cui il prestatore svolge i suoi compiti o come insieme di mansioni a lui attribuite, dal “posto” come posizione che il lavoratore occupa nell’organico aziendale. Se un’azienda ha 50 dipendenti e trasferisce un lavoratore da un’unità produttiva ad un'altra, ha eliminato il “posto” come luogo fisico in cui il prestatore operava nella prima unità produttiva, creandone uno nuovo nella diversa sede aziendale. Tuttavia, l’azienda è composta sempre da 50 lavoratori, senza alcuna modifica della dimensione dell’impresa. Lo stesso accade quando il datore di lavoro cambia le mansioni del dipendente. In questo caso il “posto”, inteso come complesso di attività in precedenza effettuate, non c’è più ed è stato sostituito da uno nuovo. Ma l’organico aziendale è rimasto immutato.
Non vi è dubbio che il licenziamento per gmo presuppone una riduzione del numero dei dipendenti occupati. In questo caso, dunque, l’eliminazione del “posto” coincide con un minor numero di addetti. Ne deriva che, se posso attribuire a quel lavoratore compiti diversi, ho soppresso le sue mansioni ma non la sua posizione organizzativa. Pertanto, la soppressione non è stata effettivamente realizzata, con il conseguente nesso ineludibile tra posto eliminato e mancata prova della impossibilità del repechage.
Mi sembra, dunque, che si possa affermare che l’interpretazione che cerca di applicare la tutela indennitaria in caso di mancato assolvimento dell’onere probatorio sulla impossibilità del “ripescaggio” si presta ad obiezioni molto consistenti.

9. In relazione al d.lgs. n. 23/2015, le sentenze della Corte cost. in materia (194/2018 e 150/2020), oltre a dichiarare la incostituzionalità del meccanismo che graduava l’indennità risarcitoria tra il minimo di sei ed il massimo di 36 mesi di retribuzione sulla base della sola anzianità di servizio e con mensilità crescenti, hanno individuato anche i criteri attraverso i quali il giudice deve procedere alla liquidazione del risarcimento tra il minimo e massimo previsti dalla legge.
Prima di esaminare tali profili, vorrei però soffermarmi su un aspetto che scaturisce in particolare dalla sentenza della Corte n. 59/2021 e che potrebbe avere un riflesso anche sulla disciplina attualmente esistente per il licenziamento economico nel contratto a tutele crescenti.
Questa sentenza della Corte, infatti, ha chiaramente lasciato intendere come il licenziamento disciplinare e quello individuale economico, pur se hanno delle differenze, hanno anche elementi comuni. Poiché il legislatore ha deciso di sanzionare l’insussistenza del fatto contestato nel licenziamento disciplinare con la reintegrazione, tale comunanza rende improponibile la possibilità di introdurre, nel recesso per gmo, sia un concetto di insussistenza più forte (quella “manifesta”), sia la facoltatività della reintegrazione stessa .
Questi principi sollecitano una possibile riflessione: nella misura in cui le due forme di licenziamento (disciplinare ed economico) hanno tali elementi comuni, la scelta del legislatore nei regimi sanzionatori previsti per le due forme di recesso non può essere totalmente alternativa, venendo altrimenti a presentare forme di irrazionalità intrinseca in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione.
Ritengo che se nel contratto a tutele crescenti è prevista la reintegra nella ipotesi di più grave mancanza della giustificazione del licenziamento disciplinare (quando vi è l’insussistenza del fatto materiale, ormai da considerarsi in realtà come giuridico, e cioè del comportamento del lavoratore nei tre elementi prima descritti di azione/omissione, di elemento soggettivo e di evento), non è plausibile escludere totalmente la reintegrazione nei casi di carenza più evidente dei presupposti giustificativi del recesso economico e quindi nelle ipotesi più rilevanti di assenza del gmo.
A me sembra che, alla luce di quanto affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza 59/2021, la totale esclusione della tutela ripristinatoria nel licenziamento economico ingiustificato configuri una forma di irrazionalità intrinseca rispetto alla diversa regolazione del recesso disciplinare messa in evidenza dai giudici delle leggi.

10. Vi è poi un altro profilo non esaminato dalle sentenze della Corte costituzionale in relazione alla indennità prevista dall’art. 3 del d.lgs. n. 23/2015.
La legge, come è noto, prevede un minimo risarcitorio di sei mesi, con un importo di poco superiore al periodo di preavviso previsto dai contratti collettivi per le qualifiche impiegatizie più elevate (corrispondente a tre, quattro o cinque mesi e a volte coincidente con quanto previsto dall’art. 3). In questo modo, la disciplina del d.lgs. 23/2015 rende il licenziamento molto simile a quello effettuato ai sensi dell’art. 2118 c.c. La Corte costituzionale si è espressa più volte sul principio della «necessaria giustificazione del recesso» e sul divieto del licenziamento ad nutum quale espressione della tutela della «continuità del lavoro» . Tali principi impongono una indennità risarcitoria che abbia un contenuto che determini una evidente discontinuità con la disciplina dell’art. 2118 c.c. Con la conseguenza che la sanzione economica deve essere nettamente superiore a quanto dovuto a titolo di preavviso. In caso contrario, infatti, una differenza molto ridotta non sarebbe in grado di esprimere la necessaria intensità della tutela, alla luce dei principi costituzionali coinvolti e della necessità di superare definitivamente la regola del libero recesso.
D’altra parte, i 6 mesi sono incompatibili sia con la funzione risarcitoria dell’indennità, sia con quella sanzionatoria e dissuasiva. L’esiguità degli importi spettanti al lavoratore depone nettamente in tal senso. Inoltre, in questo ambito, la recente sentenza n. 150 del 2020 offre un preciso riferimento. La Corte, infatti, analizzando l’indennità dovuta nel caso di vizi formali e procedurali, afferma che «nei casi di anzianità modesta (…) si riducono in modo apprezzabile sia la funzione compensativa sia l’efficacia deterrente della tutela indennitaria. Né all’inadeguatezza del ristoro riconosciuto dalla legge può sempre porre rimedio la misura minima dell’indennità» . Ora, in base al meccanismo dei due mesi per ogni anno di anzianità (da aggiungere al minimo), i 6 mesi sicuramente configurano proprio un’ipotesi di un lavoratore con «anzianità modesta», non superiore a tre anni se ai due mesi di soglia se ne aggiungono altri due per ogni anno. Il che rende il limite indicato, a giudizio della Corte, sicuramente inadeguato, con un’argomentazione estensibile alle disposizioni che fissano in sei mesi la soglia massima risarcibile.
La sentenza della Corte n. 183 del 2022 conferma questa interpretazione. I giudici delle leggi, infatti, hanno censurato l’esiguo divario tra tre e sei mesi di indennità nelle piccole imprese previsto dal d.lgs. 23/2015, rilevando come questi importi vanificano l’esigenza di adeguare il risarcimento ad ogni singola vicenda, in modo tale da configurare un congruo ristoro e una efficace deterrenza nel caso di licenziamento.
Queste conclusioni sono rafforzate dalla previsione contenuta nell’art. 24 della Carta sociale europea. La Corte costituzionale ha già affermato «l’idoneità della Carta […] a integrare il parametro dell’art. 117, c. 1, Cost.», cioè quale disposizione per valutare se lo Stato italiano, nella sua legislazione, rispetta i «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario» . Essa inoltre ha valorizzato «l’autorevolezza delle decisioni del Comitato» europeo dei diritti sociali, «ancorché non vincolanti per i giudici nazionali (sentenza n. 120 del 2018)» . Queste pronunce hanno messo in rilievo che il «congruo indennizzo» previsto dall’art. 24 impone un sistema risarcitorio che sia «dissuasivo e, al tempo stesso, congruo rispetto al danno subito» . Il Comitato in verità ha anche fornito parametri assai precisi in relazione alla congruità dell’indennizzo. In tale ambito, la recente decisione dell’11.9.2019 a seguito del ricorso della Cgil (n. 158/17), riconfermando altri precedenti in materia, ha censurato il d.lgs. 23/15 in quanto prevede limiti massimi al risarcimento, ritenendo che essi non siano coerenti con l’art. 24 . Ed è importante osservare come tale opinione sia stata espressa anche prendendo in considerazione la sentenza della Corte n. 194/2018, a riprova di come tale orientamento sia consolidato e dell’esistenza di una difformità di vedute, sul punto, rispetto ai nostri giudici costituzionali. Se i limiti massimi al risarcimento non rispecchiano il contenuto dell’art. 24, a maggior ragione queste conclusioni sono estensibili al tetto minimo dei sei mesi.
D’altra parte, è la stessa formulazione di questa disposizione della Carta che suggerisce tale esito interpretativo. L’art. 24, con la disgiuntiva «o» fa chiaramente intendere che l’indennizzo è un equivalente funzionale di «altra adeguata riparazione». In tutti gli ordinamenti giuridici europei le sanzioni in caso di licenziamento illegittimo si fondano o su forme di risarcimento del danno o su tecniche di tipo ripristinatorio (riassunzione/reintegra). E questo spiega perché la Carta sociale, in coerenza con tale realtà giuridica, li preveda in via alternativa. In questo contesto il «congruo indennizzo» deve svolgere una funzione se non identica quantomeno analoga alle forme diverse di «riparazione». Ne deriva che esso debba avere una elevata consistenza economica tale da consentirne l’accostamento alla reintegra/riassunzione, al fine di svolgere la medesima finalità deterrente e risarcitoria. La giurisprudenza del Comitato si basa anche su tale equivalenza . È evidente che i 6 mesi non sono coerenti con tali argomentazioni anche si volesse assumere, quale parametro della reintegrazione, l’indennità sostitutiva di 15 mesi.
Mi sembra, dunque, che, alla luce dei principi enucleati dalla Corte costituzionale e rinvenibili in altre fonti normative sovranazionali, vi sono molti elementi favorevoli a qualificare i sei mesi previsti dall’art. 3, c. 1, del d.lgs. n. 23/2015 come una misura indennitaria minima del tutto insufficiente .

11. La Corte costituzionale, con le due sentenza n. 194/2018 e 150/2020, ha individuato i criteri per determinare l’indennità risarcitoria prevista dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015.
Nei limiti inderogabili minimo dei sei mesi (sulla cui inadeguatezza ho già detto) e massimo di 36 mesi, il giudice, ai fini della quantificazione, deve utilizzare come base di calcolo l’anzianità convenzionale, con la possibilità di correggere l’importo in relazione alla gravità delle violazioni, al numero degli occupati dell’impresa, alle dimensioni del datore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti.
Nel dibattito che si è sviluppato sulla sentenza n. 194/2018, si è discusso sul carattere vincolante o meno di questi criteri, che, secondo alcuni autori, non sono ricompresi nel dispositivo, ma solo nella motivazione e per tale ragione non sono giuridicamente obbligatori. Avevo espresso, con altri, l’opinione contraria. La questione, dal punto di vista giuridico, è assai complessa, ed è connessa alle caratteristiche delle sentenze di accoglimento parziale della incostituzionalità, in relazione al loro carattere additivo, manipolativo o ablativo. Tale complessità ne impedisce una trattazione esauriente in questa sede. Tuttavia, sul piano pratico, la questione perde rilievo. Si era già sottolineato, infatti, che difficilmente i giudici non si sarebbero attenuti ai criteri della Corte. E questo è quanto si è puntualmente verificato. In una raccolta di sentenze in materia di licenziamento successive alla decisione della Corte costituzionale del 2018, aggiornata al 2019, la lettura delle motivazioni dimostra che i giudici di merito hanno sempre fatto riferimento alla Corte costituzionale e ai criteri da essa enucleati. D’altra parte, avrebbe stupito il contrario. L’autorevolezza della fonte e il grado di specificità della motivazione rende assai difficile non tenerne conto, con un effetto analogo a quanto si verifica per le sentenze «monito» della Corte costituzionale. Un monito qui rivolto non solo al legislatore, ma anche ai giudici. Non penso, dunque, che sia possibile utilizzare criteri diversi da quelli indicati dai giudici costituzionali.
La giurisprudenza di merito successiva al 2019 ha confermato tale orientamento. Essa utilizza in genere l’anzianità di servizio come base di partenza, per poi eventualmente incrementare l’importo, con misure assai diverse. In linea generale, analizzando le sentenze, si può dire che il risarcimento è più elevato di quello che spetterebbe in applicazione del criterio definito come incostituzionale, partendo dal minimo e moltiplicando i due mesi per gli anni di servizio. Vi sono però anche significative eccezioni a questo principio.

12. A parte gli aspetti esaminati, che tengono conto della casistica giurisprudenziale sino ad oggi esistente, sono possibili alcune considerazioni ulteriori sulla predeterminazione del risarcimento del danno in caso di assenza del gmo.
In relazione al danno patrimoniale, non credo si possa prescindere dal riferimento alla retribuzione, che, pur eliminata dalle parole espunte dagli artt. 3 e 4 del d.lgs. 23/2015, è implicitamente richiamata nella parte restante delle disposizioni quando disciplinano le soglie minime e massime .
L’anzianità di servizio è il primo parametro da prendere in considerazione e gli altri hanno una funzione integrativa. Tuttavia, si tratta soltanto di un punto di partenza e non necessariamente di una conclusione obbligata. Infatti, è sempre necessario che l’indennità sia adattata «alla particolarità del caso concreto» e svolga la triplice funzione risarcitoria, dissuasiva e sanzionatoria già analizzata. Con la conseguenza che, in molte situazioni, il solo computo dell’anzianità potrebbe essere insufficiente a raggiungere tale obiettivo. La Corte lo dice chiaramente nel caso di «anzianità modesta» rispetto alla quale l’inadeguatezza intrinseca della indennità non può essere compensata dalla sua «misura minima […], fissata in due mesi» . Ma tale conclusione vale anche quando, pur in presenza di una storia lavorativa più prolungata, la considerazione delle vicende specifiche oggetto di giudizio rende in ogni caso l’anzianità insufficiente a svolgere le tre funzioni sopra descritte. Mi sembra, dunque, che la precisazione effettuata dalla Corte con la sentenza n. 150/2020 individui un percorso da seguire nel calcolo, specificato ulteriormente rispetto alla decisione n. 194/2018, ma non comporti necessariamente l’introduzione di un criterio gerarchico, che attribuisca alla anzianità un valore predominate sugli altri parametri.
Inoltre, nella individuazione della indennità correlata all’anzianità, il magistrato non è più necessariamente vincolato al limite dei due mesi (o di uno) per ogni anno di servizio. Infatti, l’effetto ablativo connesso al dispositivo della sentenza ha eliminato tale riferimento, che tra l’altro costitutiva un automatismo che impediva la individualizzazione del pregiudizio (in senso opposto a quanto affermato dalla Corte). Con la conseguenza che, anche da questo punto di vista, il Tribunale potrà attribuire un peso maggiore o minore all’anzianità sempre con riferimento alla retribuzione . Il giudice, tuttavia, anche se non obbligato, per l’anzianità di servizio potrebbe utilizzare come parametri i due (o sei) mesi moltiplicati per la durata del rapporto. In questo caso, peraltro, egli non potrebbe applicare gli altri criteri solo per innalzare il quantum dell’indennità, che costituirebbe una soglia minima inderogabile . In questo modo, oltre a rendere nuovamente cogente un parametro ormai espunto dalle norme, si darebbe spazio ad un automatismo ormai incostituzionale.
I criteri enucleati dalla Corte, già espressi nella sentenza n. 303/2011, conferiscono dunque al giudice un’ampia discrezionalità. Alcuni hanno un carattere più specificatamente sanzionatorio (come il comportamento del datore di lavoro o la gravità della violazione formale o procedurale). Altri sono più diretti a reintegrare il pregiudizio subito (come le «condizioni delle parti»). Mentre il numero dei dipendenti e la dimensione dell’attività economica richiamano la capacità del datore di lavoro di subire una più o meno elevata entità del risarcimento. Tale discrezionalità verrà esercitata in coerenza con la giurisprudenza che si è formata in rapporto alle norme utilizzate dalle sentenze della Corte, consentendo al giudice di «privilegiar[e] alcuni [criteri] a scapito degli altri, per adeguare la misura del risarcimento alla concreta situazione posta al suo esame» . E, poiché i parametri sono ormai parte del contenuto della legge, nella misura in cui la loro applicazione non rispecchi i principi indicati nella giurisprudenza costituzionale, la sentenza di merito sarà censurabile in Cassazione per violazione e falsa applicazione di legge.
La nuova formulazione degli artt. 3, c. 1 e 4 del d.lgs. n. 23/2015 conseguente alla sentenza della Corte fa chiaramente intendere che spetta al giudice applicare d’ufficio i criteri di liquidazione del danno, come accadeva in precedenza anche in relazione alla sola anzianità di servizio. Si è giustamente osservato che, in questo caso, non ha senso parlare di oneri probatori e il magistrato dovrà basarsi «sugli elementi di fatto che emergono dal materiale probatorio comunque introdotto nel processo», oltre alla possibile utilizzazione, da parte del giudice, dei poteri istruttori d’ufficio .
La discrezionalità del giudice, tuttavia, incontra limiti precisi. La prima è quella della soglia minima, al di sotto della quale non si potrà andare. Lo stesso dovrà dirsi per la soglia massima, almeno sino a quando la Corte costituzionale non segua il diverso indirizzo interpretativo che ho già analizzato. Inoltre, l’anzianità di servizio non potrà mai essere il criterio esclusivo nei casi di «anzianità modesta», come si è già detto. Infine, mi sembra evidente che le somme da riconoscere al lavoratore debbano avere una consistenza di gran lunga superiore ai minimi. In questo caso, vi è in primo luogo la necessaria discontinuità con il recesso ad nutum, che ho già analizzato in precedenza e che impone di incrementare in modo rilevante i due, quattro o sei mesi. Inoltre, a giudizio della Corte, gli interessi del lavoratore costituzionalmente protetti coinvolti nel licenziamento sono molteplici (stabilità dell’occupazione, coinvolgimento della persona umana, dignità, correzione dello squilibrio di poteri nel contratto di lavoro, esercizio di diritti fondamentali diversi dalla protezione contro il licenziamento illegittimo). Il rilievo di tali «beni» impone di per sé la liquidazione di somme lontane dalla soglia minima, oltre che per soddisfare le esigenze di adeguatezza dell’indennità sotto i profili risarcitorio, sanzionatorio e dissuasivo già descritti. E tale conclusione è rafforzata dalla valorizzazione dell’orientamento del Comitato europeo dei diritti sociali, secondo cui la «congruità» dell’art. 24 richiede importi tali da determinare un effetto analogo alla tutela ripristinatoria. La capacità economica del datore di lavoro avrà un effetto solo «mitigativo» dell’ammontare dell’indennità e quale espressione del bilanciamento con l’interesse dell’impresa, senza peraltro diventare il criterio prevalente, alla luce della stessa graduazione dei «beni costituzionali» effettuata dai giudici costituzionali.
Avevo già espresso in precedenza queste mie considerazioni dopo la sentenza n. 194/2018 . La giurisprudenza di merito, come si è detto, oltre a confermare l’utilizzazione dei criteri enucleati dalla Corte costituzionale, si è a volte espressa con decisioni che hanno aumentato in modo consistente le indennità che sarebbero spettate in base al solo criterio dell’anzianità di servizio. A me sembra che questo orientamento, che, peraltro vede significative eccezioni, sia quello più coerente alla luce dei valori in gioco e delle stesse funzioni esercitate dall’indennità. Mentre va anche rilevato che in molte decisioni, in contrasto con quanto previsto dalla Corte costituzionale sulla necessità di un preciso obbligo di motivazione, la liquidazione dell’indennità avviene in assenza totale di spiegazioni o con argomentazioni molto succinte. Si tratta di situazioni che certamente rendono meno trasparente l’iter decisionale e più complessa la contestazione del quantum risarcitorio per la parte insoddisfatta dalla decisione.

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