Testo integrle con note e bibliografia

1.Nel mio intervento vorrei provare a svolgere un ragionamento, provvisorio ed incompleto, sull’attuale situazione normativa in materia di licenziamenti, ricordando, in premessa, con le parole della Corte costituzionale, che questa complessa materia non è – al fondo - che il riflesso di come viene concepita la tutela riconosciuta al lavoro (a tutto il lavoro, cioè il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni, come indicato dall’art. 35 Cost.) in quanto “fondamento dell’ordinamento repubblicano”. Questo bilancio va svolto sotto l’angolo visuale suggerito dal titolo della tavola rotonda e cioè le disarmonie, vale a dire le discrasie normative e valoriali tra i principi di matrice costituzionale, sovranazionale ed internazionale che presiedono in apicibus la materia del licenziamento e le norme che dei principi sono (o dovrebbero essere) la concretizzazione legislativa in vista dell’applicazione giurisprudenziale. Con questa, ulteriore, avvertenza: poiché di principi (e non di semplice “regole”) si tratta, nella dialettica tra questi e le norme l’interprete dovrebbe sempre aver chiaro l’insegnamento di chi, in ambito di teoria generale del diritto, ha chiarito che i principi sono norme che prescrivono che qualcosa (nel nostro caso la tutela del lavoro) sia realizzato nella misura più ampia possibile relativamente alle possibilità fattuali e giuridiche, secondo adeguati bilanciamenti con i principi concorrenti
2. La mia tesi - che avanzo fin d’ora non per anticipare le conclusioni ma perché sia più chiaro il mio punto di vista valutativo, spero il più possibile basato su una ricognizione oggettiva dei dati normativi - è che le disarmonie, che ci sono sempre state nell’evoluzione della materia, sono ancora ben presenti nel sistema e lo sono non solo sotto il profilo dei valori più radicati e invocati dai giuristi - come quello della certezza del diritto, ma anche e soprattutto sotto il profilo del valore personalistico di tutela riconosciuto al diritto al lavoro (art. 4 Cost.) che a sua volta si traduce in ciò che un tempo si chiamava la stabilità del posto di lavoro: concetto che poi ha perso l’originaria pregnanza di senso sino ad essere sostanzialmente screditato, sotto l’influsso di un pensiero critico modernizzante, che ha operato una transvalutazione dei valori del diritto del lavoro. Come dire che anche il diritto del lavoro ha avuto i suoi piccoli Nietzsche, che hanno dissacrato la “morale corrente” - cioè la tutela del posto di lavoro - contrabbandando la flessibilità in uscita come una ineludibile esigenza postmodernista del sistema produttivo in funzione di esigenze nopn solo economiche ma sociali (incremento dell’occupazione); solo che da quella narrazione di matrice neoliberista non è nato il Superuomo, ma solo un lavoratore sempre più fragile e precario.
3. Certo, anche sotto il primo profilo, quello della certezza del diritto, vi sono delle evidenti disarmonie, considerata la frammentazione, da più parti lamentata, di una disciplina che ha ormai ben poco di unitario e di razionale, che produce incessantemente una situazione di incertezza applicativa (basti pensare in materia di GMO al tema del “fatto” e del connesso repechage, su cui tornerò tra breve). Ma ritengo che le disarmonie più interessanti siano quelle che dimorano nella categoria del valore del lavoro in quanto fondamento dell’ordinamento repubblicano, quindi sul piano di un’assiologia interna alla categoria giuridica del lavoro, alla sua “essenza normativa”, o se mi concedete l’uso di un linguaggio più filosofico-giuridico, al suo “essere in sé ideale” del valore inteso deontologicamente.
4. Dobbiamo anzitutto riconoscere che le disarmonie tra i principi e le norme hanno radici nelle scelte di valore compiute nel corso del decennio che abbiamo alle spalle, scelte basate su una precisa concezione del diritto del lavoro (e del suo cuore pulsante rappresentato dalla disciplina dei licenziamenti), il quale avrebbe dovuto trasformarsi in un diritto del mercato del lavoro: quindi, nella migliore delle ipotesi, in un modello regolativo governato dall’idea di flexicurity, con tutele nel mercato piuttosto che nel rapporto, e con una flessibilità in uscita compensata da robuste reti di sicurezza; e, nella peggiore delle ipotesi, in un nuovo paradigma direttamente regolato in base ai principi dell’analisi economica del diritto, con una riduzione secca delle tutele giusta una visione che esalta l’efficienza economica della “rottura” del contratto (secondo la controversia tesi del c.d. effìcient breach teorizzata, appunto, dalla Law and Economics). Sono vicende ben note sulle quali non è il caso che io mi attardi (anche perché in qualche misura riguardanti il recente passato), ma che vanno tenute presenti se non si vuole ridurre il ruolo della dottrina a mera esegesi, certo utile dal punto di vista pratico-applicativa ma del tutto incapace di cogliere, in quelle disarmonie tra principi e norme, il conflitto, acuto e drammatico, direi tirannico, tra i valori ed i principi dell’ordinamento: da una parte il valore economico dell’iniziativa privata che ha in quegli anni egemonizzato lo scenario legislativo puntando al superamento delle tutele tradizionali in quanto eccessivamente rigide e soprattutto non funzionali a un sistema che assicuri all’attore economico gli strumenti giuridici per suggellare il proprio dominio sul lavoro (ad esempio per calcolare in anticipo le conseguenze delle azioni di gestione delle “risorse umane”, come nel caso del licenziamento); dall’altro un diritto che reagisce al nichilismo giuridico pretendendo di non essere ridotto a pura forma, pronto a recepire qualunque contenuto, qualunque comando della volontà di un legislatore mosso principalmente da finalità economiche prevalenti.
5. Cosa ha prodotto questo conflitti di valori, e quali disarmonie? Sappiamo che pur nel compromesso che si è tentato di realizzare, quel conflitto tra valori ha prodotto una serie di distonie frutto dei cedimenti delle norme giuridiche di fronte alla razionalità economica. Ma se cedimento c’è stato (e la legge Fornero e il Jobs Act si collocano sulla stessa linea di faglia), quella stessa frattura ha rilasciato un’energia frenante, un katechon che ha innescato una reazione a catena di tipo sistemico volta a riportare il rapporto tra principi e norme in un ambito di ragionevolezza e di correttezza; e ciò sulla base di una nuova consapevolezza – che il legislatore aveva un po’ perso - circa l’esistenza di vincoli di sistema che la legge non può superare senza subire l’intervento della Corte costituzionale.
6. Ora, un primo elemento di questa reazione, che forse interessa meno in questa sede ma è comunque importante richiamare, ha riguardato lo stesso legislatore, il quale è tornato ad adeguarsi ai principi di tutela del lavoro e a tutelare in via prioritaria l’aspirazione dei lavoratori a condizioni contrattuali più stabili e sicure: mi riferisco al legislatore del 2018, che ha corretto la rotta del Jobs Act con l’innalzamento del tetto dell’indennità dovuta in caso di licenziamento illegittimo a 36 mensilità; al legislatore nel corso della pandemia Covid-19 con il c.d. blocco dei licenziamenti per motivi economici; mi riferisco anche al “legislatore” europeo, certo non tramite direttive o regolamenti, ma con documenti di indirizzo, che segnano un cambio di clima culturale, di superamento di quelle prospettazioni secondo cui le tutele contro i licenziamenti vanno a discapito della crescita dell’occupazione. Basti pensare alle più recenti linee-guida europee per l’occupazione, le quali parlano un nuovo linguaggio informato ai valori della stabilità e della sicurezza del lavoro, tanto che si afferma espressamente la necessità di sostenere un lavoro di qualità e le transazioni verso forme di occupazione stabile (open-endend forms of employment). L’impostazione originaria della flexicurity viene quindi di fatto superata a favore di politiche per un’occupazione sicura e adattabile, nel quadro di un ripensamento complessivo della flessibilità numerica e funzionale che è stata alla base delle riforme italiane della disciplina del licenziamento economico del decennio scorso. In questa nuova luce il licenziamento non è più concepito come una leva di flessibilità numerica, ma come una extrema ratio da evitare mediante l’adattamento interno, la formazione, la riqualificazione dei lavoratori (tutti campi in cui il nostro sistema è però deficitario, anche sotto il profilo strettamente normativo, e su cui sarebbe importante intervenire: pensiamo ad esempio ad obblighi di questo genere legislativamente riconosciuti e posti in connessione con l’obbligazione di repechage, come accade nel sistema francese).
7. Un secondo elemento di riflessione riguarda la reazione della giurisprudenza. Su questo fronte vorrei richiamare, a mo’ di esempio, l’interpretazione della nozione di “fatto” posto alla base del licenziamento nell’ambito del GMO. Faccio però una premessa: io continuo a ritenere errata dal punto di vista logico-giuridico la grave e strutturale disarmonia sul piano dei principi di tutela del lavoro che il legislatore Fornero ha creato, nel 2012, spezzando l’unità logico-concettuale delle “ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” che ai sensi dell’art. 3 legge 604/66 giustificano il licenziamento, pretendendo di separare, caso unico nelle legislazioni europee, ma probabilmente nel mondo, due distinte fattispecie graduate di giustificatezza riferite però alla stessa causa o ragione economica del recesso: l’una qualificata di insussistenza del fatto e l’altra relativa alla non integrazione degli elementi che costituiscono giusta causa o GMO, cui conseguono rimedi diversi. Questa disarmonia purtroppo permane, ed è palesemente irragionevole ex art. 3 Cost., nella misura in cui distingue regimi di tutela - reintegratoria ed indennitaria - a fronte di una norma valutante (l’art. 3, lò. N. 604/66) che rimane fondata sulla sussistenza o insussistenza di ragioni, le esprimono il medesimo disvalore senza alcuna “graduazione”. Come se, ad esempio, il legislatore francese avesse deciso di distinguere all’interno della cause reelle et serieuse una causa più reale e più seria (l’insussistenza del fatto) da una meno reale e meno seria; o se il legislatore spagnolo che fonda il licenziamento su cause economiche, tecniche, organizzative o di produzione distinguesse all’interno di tali ipotesi l’insussistenza modulata di queste stesse cause; o ancora, se il legislatore tedesco avesse graduato le urgenti esigenze economiche dell’impresa incompatibili con la prosecuzione del rapporto di lavoro che legittimano il licenziamento economico: cosa impossibile perché quelle urgenti esigenze o sussistono o non sussistono, tertium non datur).
8. Ciò detto, e posto che su questa disarmonia di fondo la giurisprudenza non può che adeguarsi al voluto della legge, è invece meritorio il contributo della giurisprudenza sulla questione dell’identificazione del fatto. Sappiamo che vi sono voci molto autorevoli, come quella di Arturo Maresca, che propongono di distinguere il “fatto” come elemento isolato nella nozione di GMO separando quindi tra decisione organizzativa e repechage, tesi per cui quest’ultimo si porrebbe da un punto di vista logico-giuridico a valle della decisone organizzativa. A me pare, invece, che il repechage si collochi a monte o quantomeno contestualmente alla scelta economico-produttiva, perché è solo se il lavoratore non è utilmente impiegabile in altra mansione che la decisione della soppressione del posto si configura come tale nella sua oggettiva (e quindi reale) inevitabilità; e se il licenziamento è una extrema ratio (come da ultimo ha affermato Corte cost. 125/2022) non può che essere questa visione “integrata” del fatto come comprensivo (della prova) del repechage ad essere in armonia con la natura estrema dell’atto datoriale di recesso. Come dire che più che parlare di tre requisiti (le ragioni, il nesso causale e il repechege) bisognerebbe affermare che la categoria del “fatto” posto a base del licenziamento è sostanzialmente unitaria sotto il profilo teorico-dogmatico (vorrei dire ontologico) onde questa unitarietà, non la sua artificiale de-composizione, costituisce il vero presidio a garanzia della effettività e non pretestuosità della scelta imprenditoriale.
9. Di conseguenza il repechge non è estraneo ai fini dell’accertamento della insussistenza del fatto ma è - per così dire - elemento costitutivo e consustanziale nel percorso logico-conoscitivo della ragione (ex art. 3, l. n. 604/66) che fonda il licenziamento, come del resto avviene in Francia ove l’obbligo di reclassement (peraltro assai più strutturato rispetto al nostro repechage, perché comprende obblighi di formazione e di adattamento, cioè di riqualificazione professionale sui posti di lavoro disponibili) è conditio sine qua non del licenziamento: la formulazione della norma è che il licenziamento per motivo economico “ne peut intervenir que lorque tous les efforts de formation et d’adaptation onte etè realisés et que le reclassement de l’interessé ne peut etre operé sur les emplois disponibles” .
La disarmonia in questo caso è puramente interpretativa, anche a prescindere dal venir meno ad opera dell’intervento della Corte costituzionale 59/2021 della “manifesta” insussistenza del fatto, con conseguente eliminazione del carattere facoltativo della reintegrazione in caso appunto di insussistenza del fatto: norma che, secondo una corrente della giurisprudenza, doveva intendersi nel senso di una “chiara, evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti di legittimità del recesso” onde, nel caso in cui il datore fornisse una prova insufficiente della impossibilità di impiegare il dipendente in diverse mansioni, non potrebbe parlarsi di “manifesta insussistenza” del fatto, con la conseguenza che va applicata la sola tutela risarcitoria; laddove invece, a mio avviso, la questione della “manifesta” era da ritenersi del tutto neutra rispetto alla questione teorica che sta alla base del problema, e cioè la nozione unitaria di “fatto” in relazione alle ragioni ex art. 3 l. n. 604/66, ricostruzione che oggi consente di attuare una sorta di “tendenza espansiva” della reintegrazione (cfr. Cass. n. 34049 del 18.11.2022).

10. Infine, ma non per ordine di importanza, perché al contrario si tratta forse del fattore più importante, v’è il katechon rappresentato dall’attività della Corte costituzionale, già richiamata dal Presidente Raimondi nella sua introduzione. Cosa ha fatto la Corte costituzionale a partire dalla sentenza 194/2018? Ha forse invertito il senso della storia recente, che ci consegna un sistema normativo in materia di licenziamento del tutto “disincantato”, in cui la razionalità formale e l’esigenza di calcolabilità del diritto ha, in fondo, prevalso sull’idea di giustizia sociale che una norma come l’originario art. 18 St. lav. ha per molti anni simbolicamente rappresentato? Certamente no.
Però la Corte, entro quelle che potremmo definire coordinate di compatibilità sistemica, ha mobilitato alcuni valori fondamentali del nostro ordinamento e dell’ordinamento sovranazionale (art. 30 Carta dei diritti fondamentali) ed internazionale (art. 24 Carta sociale europea) per realizzare una costante riconduzione della legislazione più recente, il Jobs Act ma in parte anche la legge Fornero, a quei valori di tutela del lavoro sanciti dalle fonti di grado superiore, sanando alcune delle più vistose disarmonie che il legislatore aveva in questi anni prodotto. La Corte ha fatto ciò ricordandoci che, fuori dalle semplificazioni di un certo positivismo giuridico avvezzo a considerare le norme costituzionali e sovranazionali come principi politici più che giuridici, che i principi della Costituzione sono norme giuridiche, e che se talvolta la Costituzione necessita della legge ordinaria per imporsi, la legge ordinaria deve sempre conformarsi ai valori della Costituzione. E in questa opera di conformazione un ruolo essenziale è stato giocato dal principio lavorista di cui agli artt. 4 e 35 Cost. in collegamento con l’art. 3 Cost., che ha di fatto consentito alla Corte di aprire un dialogo con il legislatore sui contenuti della legge, e con i giudici sull’interpretazione della legge.

11. Non è stato invece valorizzato fino in fondo, tuttavia, il ruolo di fonti sovranazionali ed internazionali, in particolare l’art. 24 della Carta sociale europea e la sua interpretazione ad opera del Comitato europeo dei diritti sociali, di cui la Corte italiana riconosce l’autorevolezza ma non l’obbligatorietà delle relative pronunce. Sappiamo ad esempio che il Comitato ha ripetutamente statuito nella sua “giurisprudenza” che il congruo indennizzo non tollera limiti o tetti precostituiti (lo ha detto, da ultimo, il Comitato a proposito della legislazione francese che ha introdotto il sistema delle baremes). Pur in questa prospettiva di “valorizzazione mite” di queste fonti la Corte ha richiamato l’art. 24 in una prospettiva significativamente qualificata “di integrazione delle garanzie e della loro massima espansione”.
12. La prima disarmonia è stata eliminata con la 194/2018 grazie al controllo di ragionevolezza della legge sul contratto a tutele crescenti; qui il trattamento uguale di situazioni diverse, in ragione del criterio di anzianità quale unico parametro di graduazione delle tutele, si è palesato in tutta la sua arbitrarietà, e con esso la limitazione delle prerogative discrezionali del giudice nell’identificare il quantum dell’indennità. Non tutte le disarmonie di quel testo normativo, però, sono state eliminate. Rimane, tuttavia, il dubbio che la disarmonia più importante e più vistosa, consistente del duplice regime instaurato dal Jobs Act in base alla data di assunzione del lavoratore, sia stata per così dire “risparmiata” grazie alla giustificazione, invero assai poco convincente in questa specifica circostanza, del fluire del tempo.
13. Un’altra disarmonia che è stata eliminata è quella affrontata dalla sentenza 59/2021, che la Corte qualifica espressamente come una disarmonia interna al sistema delineato dalla legge 92/2012. Molte sono state le osservazioni su questa sentenza; vorrei ricordare quella di un giudice molto valoroso, Francesco Perrone, il quale (in un pregevole articolo pubblicato sulla RIDL) ha fatto notare che c’è una differenza ontologica tra fatto soggettivo ed oggettivo, e che tale differenza ontologica, di per sé, non avrebbe consentito alla Corte di stabilire un nesso di corrispondenza tra GMS e GMO come norme suscettibili di eguale trattamento nella valutazione comparativa ex art 3 Cost. In questa prospettiva il fatto materiale nei due casi sarebbe talmente diverso sotto il profilo ontologico-naturalistico, da impedire ogni assimilazione tra le due fattispecie astratte, di guisa che solo grazie al principio lavorista, quindi al valore del lavoro e alla sua lesione traumatica causata dal licenziamento, è stato possibile un giudizio di ragionevolezza circa la irragionevolezza delle soluzioni difformi: a conferma della centralità in questa materia ma dei valori – in primis la tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni - e non solo (kelsenianamente) della mera esigenza logica espressa dal principio di eguaglianza.
14. Ma che altre disarmonie siano da affrontare, lo riconosce la stessa Corte costituzionale, ad esempio nella sentenza 150/20 (punto 17) laddove afferma che “spetta alla responsabilità del legislatore, anche alla luce delle indicazioni enunciate in più occasioni da questa Corte, ricomporre secondo linee coerenti una normativa di importanza essenziale, che vede concorrere discipline eterogenee, frutto dell’avvicendarsi di interventi frammentari”. Come ha scritto bene Lorenzo Zoppoli c’è in queste parole la chiara consapevolezza della fragilità del sistema normativo in una materia così delicata, soprattutto quanto a coerente fondamento sui principi costituzionali.
15. La Corte è poi tornata sulle disarmonie con la sentenza 183/2022 sulla adeguatezza della normativa applicabile alle piccole imprese. Come sappiamo, nel dichiarare l’inammissibilità della questione di legittimità sollevata, la Corte ha affermato che il protrarsi dell’inerzia legislativa in questa materia “non sarebbe tollerabile” e la indurrebbe, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente, nonostante le difficoltà di una simile scelta. Potrà il legislatore ignorare, o non rispondere a questo “appello solenne”, come lo ha chiamato oggi il presidente Bronzini? La Corte ha già annunciato che, in mancanza di un riordino legislativo, si troverà in difficoltà a garantire la conservazione di un tessuto regolativo che appare largamente insoddisfacente, e non su aspetti di dettaglio, e dovrà essa stessa intervenire. Sarebbe quindi auspicabile, se ve ne fossero le condizioni politico-istituzionali, un intervento del legislatore, volto a mettere ordine in una materia così disordinata e così centrale per il diritto del lavoro, questa volta nella prospettiva – purtroppo disattesa dalla legge Fornero e dal Jobs Act - che sappia coniugare rigore metodologico e correttezza nel bilanciamento tra principi.

 

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