TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Introduzione.
Il tema del riparto degli oneri probatori nel processo del lavoro è oltremodo complesso.
Sotto un profilo di ordine generale, il rito lavoro non si sottrae al principio sancito dall’art. 2697 c.c. a mente del quale “Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda” ; la questione, nondimeno, deve esser poi calata nella specialità della disciplina che regola fattispecie e istituti propri della materia e, soprattutto, deve tener conto del peculiare declinarsi della relazione tra obbligazioni, diritti, facoltà e poteri che contraddistingue il rapporto di lavoro.
Sicché, sappiamo che la correttezza dell’esercizio dei poteri e delle facoltà che la legge attribuisce al datore di lavoro deve esser provata da quest’ultimo, ben potendo limitarsi il lavoratore ad allegare l’inadempienza (si pensi al corretto adempimento dell’obbligazione retributiva, all’esercizio del potere disciplinare, allo jus variandi, al licenziamento); così come sappiamo che spetta esclusivamente al prestatore provare la ricorrenza dei presupposti costitutivi dei diritti che intenda azionare (subordinazione, lavoro straordinario, superiore inquadramento, risarcimento del danno, e così via). Tuttavia, al rapporto di lavoro è connaturato un ineliminabile disequilibrio nelle relazioni di forza tra le due parti del vincolo contrattuale che è motore di garanzie sostanziali affatto peculiari che trovano un corrispondente a livello processuale in regole che impattano, inevitabilmente, sul riparto degli oneri della prova; il diritto antidiscriminatorio ne costituisce esempio principe, ma, come si avrà modo di vedere, il tema conosce sviluppi molteplici e differenziati.
Non potrebbe essere altrimenti, come noto, l’effettività delle tutele e dei diritti dipende – anche e soprattutto – dal processo e dalle regole che gli son proprie.
La Corte di Giustizia Europea, d’altronde, rammenta come “l’intento di efficacia che… sottostà alla direttiva de[bba] portare ad interpretare quest’ultima nel senso che comporta adeguamenti alle regole nazionali relative all’onere della prova nelle situazioni specifiche in cui tali adeguamenti sono indispensabili all’attuazione effettiva del principio di parità” , così come che “i lavoratori… non avrebbero modo di far rispettare il principio della parità delle retribuzioni dinanzi al giudice nazionale, se il fornire elementi che consentono di presumere una discriminazione non avesse la conseguenza d’imporre al datore di lavoro l’onere di provare che la disparità salariale non è in realtà discriminatoria”; volgendo lo sguardo al nuovo millennio, a mero titolo esemplificativo, il Trentesimo Considerando Direttiva 2006/54/CE  ricorda che “l’adozione di norme sull’onere della prova contribuisce in modo significativo a che il principio della parità di trattamento possa essere applicato efficacemente…”.

2. Il principio di vicinanza della prova.
L’odierna riflessione non può che muovere dal principio di ricerca della verità materiale e dal correlato esercizio dei poteri officiosi di cui all’art. 421, co. 2, c.p.c., espressione di una “caratteristica precipua del rito del lavoro”, ossia del “contemperamento del principio dispositivo con le esigenze della ricerca della verità materiale di guisa che, allorquando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, il giudice, ove reputi insufficienti le prove già acquisite, non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova, ma ha il potere-dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l’incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti” ( ); come autorevole Dottrina ha avuto modo di sottolineare, i poteri istruttori del giudice del lavoro originano dall’opportunità di supplire alle deficienze della difesa tecnica della parte che, ove si tratti del lavoratore, è economicamente e socialmente più debole ( ).
In questa specifica prospettiva, il primo meccanismo di inversione dell’onere della prova cui deve farsi riferimento è il principio di vicinanza della prova per come circoscritto, in via oltremodo efficace, dal Supremo Collegio: “si rivela quindi conforme all’esigenza di non rendere eccessivamente difficile l’esercizio del diritto del creditore a reagire all’inadempimento, senza peraltro penalizzare il diritto di difesa del debitore adempiente, fare applicazione del principio di riferibilità o di vicinanza della prova, ponendo in ogni caso l’onere della prova a carico del soggetto nella cui sfera si è prodotto l’inadempimento, e che è quindi in possesso degli elementi utili per paralizzare la pretesa del creditore, sia questa diretta all’adempimento, alla risoluzione o al risarcimento del danno, fornendo la prova del fatto estintivo del diritto azionato, costituito dall’adempimento” ( ).
Il principio è precipitato dell’art. 24 Costituzione.
La vicinanza della prova ha lo scopo di evitare di rendere troppo difficile l’azione e/o la difesa della parte onerata della prova, favorendo l’acquisizione al giudizio della verità sostanziale: “la ripartizione dell’onere della prova deve tenere conto, oltre che della distinzione tra fatti costitutivi e fatti estintivi od impeditivi del diritto, anche del principio – riconducibile all’art. 24 Cost. ed al divieto di interpretare la legge in modo da rendere impossibile o troppo difficile l’esercizio dell’agire in giudizio – della riferibilità o vicinanza o disponibilità dei mezzi di prova” ( ).
Nell’ambito del diritto del lavoro, il principio di vicinanza della prova è stato motore del revirement della Corte di Cassazione in materia di accesso alla tutela reale per il caso di licenziamento illegittimo.
Con sentenza 4 marzo 1988, n. 2249, le Sezioni Unite Civili avevano affermato che – quale elemento costitutivo del diritto alla reintegrazione – la consistenza numerica aziendale doveva essere dimostrata dal lavoratore che avesse invocato il diritto alla tutela reale; con la successiva pronunzia del 22 gennaio 1999, n. 613, il Supremo Collegio ha affermato che è onere del datore di lavoro eccepire e provare l’inesistenza del requisito occupazionale, evidenziando come ciò risulti “conforme ai criteri di facilità e vicinanza della prova, tanto più evidenti in relazione agli specifici obblighi di documentazione imposti dalla legge al datore di lavoro in merito al personale alle sue dipendenze”.
In epoca successiva, commentando quest’ultimo arresto, il Giudice di Legittimità ha sottolineato come “per questa decisione “tale presupposto, concernendo le dimensioni occupazionali dell’impresa – anche con riferimento alle sue eventuali articolazioni organizzative o alla distribuzione su territori diversi – riguarda connotazioni proprie dell’impresa e perciò sicuramente rientranti nella sua consapevolezza, ma non altrettanto sicuramente conosciute o percepibili dal lavoratore dipendente”. Tra l’altro, l’onere di provare l’effettiva consistenza dell’impresa, ai fini della scelta del regime sanzionatorio, grava naturalmente sul datore di lavoro, in quanto più agevolato nella dimostrazione della entità numerica della propria impresa (la decisione di questa Corte fa riferimento ai criteri empirici della vicinanza della prova e della sua disponibilità)”; nell’aderire al nuovo orientamento, peraltro, la Corte di Cassazione ha rimarcato come “…addossare al datore di lavoro l’onere della prova in materia appa[ia] giustificato, oltre che dalle considerazioni sistematiche sopra accennate, anche dal rilievo che la circostanza da provare consiste in un dato di fatto ben noto al datore di lavoro e che risulta addirittura da libri, la cui tenuta è obbligatoria per legge” ( ).
In epoca ben più recente, il principio di vicinanza della prova è stato invocato in un altro importante revirement della giurisprudenza di legittimità, quello concernente l’obbligo di repêchage e i correlati oneri di allegazione e prova.
Riconducendo al datore di lavoro, non solo l’onere di provare l’insussistenza di posti di lavoro utili a un eventuale ripescaggio, ma anche il prodromico onere di allegazione, la Suprema Corte osserva: “…il creditore attore (lavoratore impugnante il licenziamento come illegittimo) è onerato della (allegazione e) prova della fonte negoziale (o legale) del proprio diritto (rapporto di lavoro a tempo indeterminato) e dell’allegazione dell’inadempimento della controparte (illegittimo esercizio del diritto di recesso per giustificato motivo oggettivo), mentre il debitore convenuto (datore di lavoro) è onerato della prova del fatto estintivo (legittimo esercizio del diritto di recesso per giustificato motivo oggettivo nella ricorrenza dei suoi presupposti, tra i quali, come detto, anche l’impossibilità di repêchage): in coerenza con i principi di persistenza del diritto (art. 2697 c.c.) e di riferibilità o vicinanza della prova… E tale principio di riferibilità o vicinanza della prova, conforme all’esigenza di non rendere eccessivamente difficile l’esercizio del diritto del creditore a reagire all’inadempimento, senza peraltro penalizzare il diritto di difesa del debitore, in quanto nella migliore disponibilità degli elementi per dimostrare le ragioni del proprio comportamento, ormai di consolidata applicazione…, trova coerente riscontro anche nel caso di specie: per la maggiore vicinanza di allegazione e prova dell’impossibilità di repêchage al datore di lavoro, non disponendo il lavoratore, al contrario del primo, della completezza di informazione delle condizioni dell’impresa, tanto più in una condizione di crisi, in cui esse mutano continuamente a misura della sua evoluzione e degli interventi imprenditoriali per rimediarvi o comunque indirizzarne gli sbocchi. Ciò che, d’altro canto, da tempo è stato ben presente a questa Corte, avendo in particolare essa osservato: “non si vede in realtà come sia esigibile un’indicazione del genere” (ossia dei posti assegnabili) “da parte del lavoratore licenziato, che è estraneo all’organizzazione aziendale”…” ( ).
Al netto di quanto sin qui osservato, il principio di vicinanza della prova è potenzialmente destinato a operare in molteplici fattispecie; senz’altro, ogniqualvolta il diritto invocato dal lavoratore dipenda dalla dimostrazione dell’esistenza di un particolare rapporto contrattuale tra il datore di lavoro e parti terze (si pensi all’esercizio dei diritti di cui all’art. 29, co. 2, D. Lgs. 276/2003 o all’art. 1676 c.c. ovvero, ancora, alle ipotesi riconducibili all’art. 2112 c.c., e così via): situazioni nelle quali, stante l’oggettiva indisponibilità della prova, il lavoratore – estraneo al rapporto commerciale – non avrebbe modo di soddisfare gli oneri posti a suo carico in ragione dell’applicazione degli ordinari principi di cui all’art. 2697 c.c. In queste ipotesi, il principio di vicinanza della prova può legittimamente venire in soccorso ( ), soprattutto ove il prestatore di lavoro abbia allegato, dedotto e provato circostanze utili a far presumere l’effettiva esistenza del contratto terzo invocato, e può trovar attuazione nello strumento di cui all’art. 210 c.p.c. ( ) che – come noto – è stato rafforzato dalla recente riforma del Codice di Rito ( ).
Ciò posto, una parte della Dottrina opportunamente osserva che “il principio di vicinanza… non interviene in tutti i casi in cui risulti dubbia la qualificazione dei fatti da provare. Esso ingloba in sé la funzione di risolvere l’incertezza sull’attribuzione dell’onere e, soprattutto, il compito di correttivo dell’asimmetria informativa ed economica tra le parti del rapporto dedotto in giudizio. Il che vuol dire che non è principio impiegabile per interpretare la disciplina sostanziale al fine di qualificare il fatto, operando invece quale meccanismo volto a riequilibrare all’interno del processo lo squilibrio socio-economico dei litiganti. Ne deriva quindi che è possibile ricorrere alla vicinanza solo quando nel rapporto dedotto in giudizio vi sia una ontologica disparità sostanziale tra le parti” ( ).
La funzione da attribuirsi al principio in parola è, allora, esclusivamente processuale ( ).
Esso opera al fine di evitare che il rischio della mancata soddisfazione dell’onere probatorio ricada sulla parte che non ha la disponibilità della prova, onerando la parte che ne può invece liberamente disporre ( ): è un principio strettamente correlato al diritto di difesa ( ) che assume rilievo senz’altro peculiare nell’ambito del processo del lavoro; e, d’altronde, al momento dell’entrata in vigore del nuovo rito, si era giustamente rammentato che il “processo… non è un bene in se stesso, ma è uno strumento per l’attuazione del diritto, e quindi per il raggiungimento degli scopi che un dato ordinamento giuridico ripropone… L’assistenza a favore della parte socialmente più debole viene dunque assicurata affinché non sia resa inoperante, attraverso l’inefficienza dello strumento processuale, la tutela degli interessi che viene riconosciuta sul piano sostanziale” ( ).
Dalle considerazioni che precedono si coglie, tuttavia, anche un imperativo di prudenza.
Il sistema processuale delineato dalla Legge 11 agosto 1973, n. 533, tiene già conto – nelle regole e nei meccanismi che gli son propri – della diseguaglianza economica delle parti della relazione lavorativa e di come la stessa possa riflettersi sullo svolgimento del processo: i principi di immediatezza, concentrazione e oralità muovono da questo specifico presupposto e sono posti a presidio della parte più debole ( ).
L’inserimento, in un sistema così strutturato, di una regola non scritta volta a operare un ulteriore e differente riequilibrio di questi rapporti impone un’attenta ponderazione di tutti gli interessi e i principi in gioco e, in primis, del principio del contraddittorio e di quello di certezza del diritto: l’applicazione del principio di vicinanza della prova, inevitabilmente frutto di una valutazione operata nell’ambito del singolo giudizio, in funzione degli elementi che connotano il caso specifico, impedisce alle parti di predisporre ex ante apposite difese, così come di valutare a priori i potenziali effetti sull’esito del processo ( ). Il tema della vicinanza della prova, dunque, deve necessariamente conoscere precipui controlimiti che ne garantiscano l’effettivo contemperamento con i caratteri propri di un processo – quello del lavoro – che resta improntato al principio dispositivo; sicché, seppur calato nel rito lavoro, il principio sarà comunque di stretta interpretazione quale deroga alla regola generale di cui all’art. 2697 c.c. rispetto al quale si porrà necessariamente in una prospettiva di discontinuità logica, così che il suo ingresso nel processo non può che avere quale referente normativo lo stesso art. 421, co. 2, c.p.c. con i limiti che gli son propri.
Se è vero, infatti, che “il giudice del lavoro non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale del giudizio fondata sull’onere della prova” ( ), è parimenti vero che “l’attivazione dei poteri istruttori d’ufficio del giudice non può mai essere volta a superare gli effetti derivanti da una tardiva richiesta istruttoria delle parti o a supplire ad una carenza probatoria totale, in funzione sostitutiva degli oneri di parte, in quanto l’art. 421 c.p.c., in chiave di contemperamento del principio dispositivo con le esigenze di ricerca della verità materiale – quale caratteristica precipua del rito speciale – consente l’esercizio dei poteri ufficiosi allorquando le risultanze di causa offrano già significativi dati di indagine, al fine di superare lo stato di incertezza dei fatti costitutivi dei diritti di cui si controverte” ( ).
Ne consegue che l’applicazione del principio della vicinanza della prova non può tramutarsi in una mera e automatica inversione dell’onere della prova rispetto ai presupposti costitutivi del diritto azionato in giudizio, pena il rischio di un inemendabile cortocircuito con i principi, anche costituzionali, posti a fondamento del processo.

3. Il diritto antidiscriminatorio.
Nelle controversie in materia di discriminazione, anche quando la domanda ha per oggetto l’impugnativa del licenziamento, il sistema di tutele e di garanzie sostanziali trova un suo corrispondente a livello processuale nella parte in cui si prevede un peculiare – e duplice – meccanismo di attenuazione degli oneri probatori.
Il regime dell’onere della prova previsto dalla disciplina antidiscriminatoria è direttamente correlato all’esigenza di garantire piena efficacia alle tutele previste per i casi di discriminazione: principio reiteratamente ribadito dall’ordinamento dell’Unione Europea ( ) e trasfuso nella disciplina nazionale.
L’art. 40 D. Lgs. 198/2006 – Codice delle pari opportunità tra uomo e donna – stabilisce che “quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l’onere della prova sull’insussistenza della discriminazione”; l’art. 28 D. Lgs. 150/2011 – che regola le controversie in materia di discriminazione – analogamente prevede che, “quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione. I dati di carattere statistico possono essere relativi anche alle assunzioni, ai regimi contributivi, all’assegnazione delle mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti dell’azienda interessata”.
Ovviamente, questo particolare regime probatorio si applica sia al rito speciale che all’azione promossa con le forme ordinarie: “in tema di comportamenti datoriali discriminatori, l’art. 40 del d.lgs. n. 198 del 2006 – nel fissare un principio applicabile sia nei casi di procedimento speciale antidiscriminatorio che di azione ordinaria, promossi dal lavoratore ovvero dal consigliere di parità – non stabilisce un’inversione dell’onere probatorio, ma solo un’attenuazione del regime probatorio ordinario in favore del ricorrente, prevedendo a carico del datore di lavoro, in linea con quanto disposto dall’art. 19 della Direttiva CE n. 2006/54 (come interpretato da Corte di Giustizia Ue 21 luglio 2011, C-104/10), l’onere di fornire la prova dell’inesistenza della discriminazione, ma a condizione che il ricorrente abbia previamente fornito al giudice elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, anche se non gravi, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso” ( ).
La legge delinea, quindi, in primo luogo, un regime meno oneroso rispetto a quello ordinario che avrebbe fatto ricadere sul solo prestatore l’onere di dimostrare la discriminazione: non si tratta di una radicale inversione degli oneri probatori, ma di un meccanismo di parziale attenuazione degli oneri posti in capo al lavoratore, chiamato ad allegare e provare la sussistenza di fatti idonei a fondare la presunzione dell’esistenza di una condotta discriminatoria, presunzione che – una volta acquisita al giudizio – determina il sorgere dell’onere di fornire la prova liberatoria contraria in capo al datore di lavoro. Dunque, se la parte ricorrente offre al giudizio elementi atti a far presumere la sussistenza di una discriminazione, la parte datoriale convenuta è chiamata a provare in giudizio l’insussistenza della condotta lamentata; su quest’ultima, peraltro, grava un onere della prova pieno: “…il datore di lavoro deve dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee ad escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della misura litigiosa...” ( ).
La disciplina prevede, tuttavia, un ulteriore meccanismo di alleggerimento dell’onere probatorio che guarda alla specificità del regime delle presunzioni ivi contemplato.
Ai sensi dell’art. 2729, co. 1, c.c., “le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti”.
Come noto, le presunzioni sono conseguenze che il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignoto (art. 2727 c.c.) e il ragionamento che vi è sotteso è di tipo logico-induttivo: non vi è la percezione diretta del fatto rilevante ai fini del decidere che viene conosciuto, in via indiretta, in ragione di una regola di esperienza sulla base della dimostrata esistenza o meno di un altro fatto.
La norma generale ammette esclusivamente presunzioni partecipi dei requisiti della gravità, della precisione e della concordanza, requisiti da valutarsi in prospettiva globale, in relazione al complesso degli elementi acquisiti al giudizio: la gravità “si riferisce al grado di convincimento che le presunzioni sono idonee a produrre e a tal fine è sufficiente che l’esistenza del fatto ignoto sia desunta con ragionevole certezza, anche probabilistica” (16); il requisito della precisione “impone che i fatti noti, da cui muove il ragionamento probabilistico, ed il percorso che essi seguono non siano vaghi ma ben determinati nella loro realtà storica” (16), non deve trattarsi, quindi, di mere asserzioni – per quanto ragionevoli – di una parte ( ); con il requisito della concordanza, infine, “si prescrive che la prova sia fondata su una pluralità di fatti noti convergenti nella dimostrazione del fatto ignoto” ( ), pluralità di fatti che debbono essere valutati nella reciproca interazione e non atomisticamente ( ).
Calate nel diritto antidiscriminatorio, le presunzioni mutano fisionomia.
Ai sensi dell’art. 40 D. Lgs. 198/2006, difatti, esse rilevano già solo in quanto precise e concordanti, senza che vi sia la necessità di vagliare il requisito della gravità.
Recentemente la Corte di Cassazione ha rammentato i “…principi che regolano la materia come ricostruiti dalla giurisprudenza di questa Corte ed in particolare da Cass. n. 5476/2021, secondo la quale “in tema di comportamenti datoriali discriminatori fondati sul sesso, il D. Lgs. n. 198 del 2006, art. 40 stabilisce un’attenuazione del regime probatorio ordinario in favore della parte ricorrente, la quale è tenuta solo a dimostrare una ingiustificata differenza di trattamento o anche solo una posizione di particolare svantaggio dovute al fattore di rischio tipizzato dalla legge in termini tali da integrare una presunzione di discriminazione, restando, per il resto, a carico del datore di lavoro l’onere di dimostrare le circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della condotta”. Alla luce di tali indicazioni la lavoratrice era onerata della sola dimostrazione di essere portatrice di un fattore di discriminazione e di avere subito un trattamento svantaggioso in connessione con detto fattore; tale connessione andava ricostruita in via presuntiva, sulla base degli elementi offerti dalla interessata che potevano consistere anche nel dato statistico; il ragionamento presuntivo idoneo a far “scattare” l’onere probatorio a carico della parte datoriale si connotava, rispetto a quanto sancito in tema di presunzioni dalla norma codicistica di cui all’art. 2729 c.c., per il venir meno del requisito della gravità (significativo, come noto, di un elevato livello di inferenza probabilistica del fatto ignoto da trarre dal fatto noto)” ( ).
Il Supremo Collegio, peraltro, a dispetto del differente tenore letterale che lo contraddistingue, non ritiene necessario il requisito della gravità nemmeno ove si faccia applicazione dell’art. 28 D. Lgs. 150/2011: “in tema di discriminazione indiretta nei confronti di persone con disabilità ai sensi della legge n. 67 del 2006, l’art. 28, comma 4, d.lgs. n. 150 del 2011 (disposizione speciale rispetto all’art. 2729 c.c.) realizza un’agevolazione probatoria mediante lo strumento di una parziale inversione dell’onere della prova: l’attore deve fornire elementi fattuali che, anche se privi delle caratteristiche di gravità, precisione e concordanza, devono rendere plausibile l’esistenza della discriminazione, pur lasciando comunque un margine di incertezza in ordine alla sussistenza dei fatti costitutivi della fattispecie discriminatoria; il rischio della permanenza dell’incertezza grava sul convenuto, tenuto a provare l’insussistenza della discriminazione una volta che siano state dimostrate le circostanze di fatto idonee a lasciarla desumere” ( ).
Non potrebbe essere altrimenti.
Il requisito della gravità – in uno con l’esplicito richiamo all’art. 2729 c.c. – è venuto meno a seguito della procedura di infrazione avviata dalla Commissione Europea a carico dell’Italia per la non corretta applicazione della Direttiva 2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro ( ): la previsione originaria non introduceva nessuna misura di alleggerimento dell’onere della prova, poiché la presunzione di cui all’art. 2729 c.c. è strumento ordinario di prova e “le presunzioni semplici costituiscono una prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza, anche in via esclusiva, ai fini della formazione del proprio convincimento, nell’esercizio del potere discrezionale, istituzionalmente demandatogli, di individuare le fonti di prova, controllarne l’attendibilità e la concludenza e, infine, scegliere, fra gli elementi probatori sottoposti al suo esame, quelli ritenuti più idonei a dimostrare i fatti costitutivi della domanda o dell’eccezione…” ( ).
A seguito della procedura di infrazione, il legislatore è intervenuto con l’art. 8sexies e l’8septies D.L. 59/2008 – convertito in Legge 101/2008 – che hanno così sostituito gli originari art. 4, co. 3, D. Lgs. 215/2003 e art. 4, co. 4, D. Lgs. 216/2003 ( ): “quando il ricorrente fornisce elementi di fatto idonei a fondare, in termini gravi, precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione”. Entrambe le norme, poi, sono state abrogate dall’art. 34, co. 33, lettera b) e co. 34, lettera b), D. Lgs. 150/2011, con l’entrata in vigore dell’art. 28 D. Lgs. 150/2011 che ha ridefinito la struttura dell’onere probatorio, circoscrivendo il momento in cui si attiva il meccanismo di parziale inversione dell’onere della prova a carico del convenuto, il quale ultimo non beneficia di nessun alleggerimento della prova ed è, quindi, chiamato a fornire la piena prova contraria.
Il Supremo Collegio ha fatto riferimento, in proposito, a un onere della prova “asimmetrico”: “…ciò, evidentemente non significa che è stata attuata una inversione dell’onere della prova (neppure voluta dal legislatore comunitario) ma semplicemente che è stato introdotto un onere probatorio “asimmetrico” (si è fatto riferimento in dottrina ad una solo parziale relevatio ab onere probandi in favore del soggetto discriminato): rimane fermo per l’attore l’onere della prova, ma l’assolvimento dello stesso richiede il conseguimento di un grado di certezza minore rispetto a quello consueto. In sintesi: dimostrati i fatti che fanno ritenere probabile la discriminazione, spetta alla controparte dimostrarne l’insussistenza” ( ).
Agli interventi normativi in materia si affianca l’evoluzione giurisprudenziale, rispetto alla quale può senz’altro rilevarsi una progressiva attenuazione del rigore con cui sono stati definiti i requisiti della precisione e della concordanza.
Con sentenza 5 giugno 2013, n. 14206, la Corte di Cassazione aveva affermato che “…il requisito della precisione impone che i fatti noti da cui muove il ragionamento probabilistico (e cioè l’esistenza di atti, patti e comportamenti per l’appunto discriminatori) ed il percorso che essi seguono non siano vaghi ma ben determinati nella loro realtà storica; il requisito della concordanza postula che la prova sia fondata su una pluralità di fatti noti convergenti nella dimostrazione del fatto ignoto. Inoltre l’indicazione, quale elemento tipizzato, dei dati statistici, se non è tale da sostanziare, di per sé, il (non previsto) requisito della gravità – nel senso della attitudine a produrre un significativo grado di convincimento in ordine all’esistenza del fatto ignoto – è tuttavia emblematica della serietà che deve caratterizzare gli elementi su cui fondare il ragionamento probabilistico (una prova statistica, infatti, ancorché non caratterizzata da un rigore scientifico cui resisti non potest non può che essere caratterizzata, ai fini della controllabilità globale dei risultati, da una chiara esplicitazione delle modalità di rilevazione degli stessi, dalla misurazione oggettiva e quantitativa dei fenomeni, da chiare modalità di presentazione delle informazioni)” (parte motiva).
Con la successiva pronunzia del 26 luglio 2016, n. 15435, il Giudice di Legittimità ha chiarito: “la previsione che gli elementi di fatto, idonei a fondare la presunzione di esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori (e, quindi, ad attribuire al datare di lavoro, in caso di indizi precisi e concordanti. In tal senso, l’onere della prova della situazione contraria di insussistenza della discriminazione), possano essere tratti “anche” da dati di carattere statistico, è palesemente diretta a corroborare lo sforzo difensivo del lavoratore e a facilitare l’emersione della condotta illecita, di cui egli sia stato vittima, in un’ottica di affiancamento agli elementi fattuali connotanti la fattispecie (o di chiarificazione, occorrendo, della loro portata) e non già sostitutiva di essi, in presenza di vicende la cui lettura globale non può che essere rimessa, nella quasi totalità dei casi, ad una pluralità di tratti distintivi e alla loro univoca convergenza” ( ).
In epoca ancor più recente, il Supremo Collegio ha sancito – e, si ritiene, non potesse essere altrimenti – l’applicabilità del principio di vicinanza della prova, “…principio (v. Cass., Sez. Un., Cass. 30 ottobre 2001, n. 13533), come è noto, [che] muove dalla considerazione che spesso una parte può incontrare difficoltà, spesso insuperabili, per soddisfare l’onere della prova che perciò, in concreto, viene ripartito tenendo conto della possibilità per l’uno o per l’altro soggetto di provare fatti e circostanze che ricadono nelle rispettive sfere di azione e risponde ad una finalità di agevolare e rendere efficace ed effettivo il processo, supplendo alla carenza probatoria mediante criteri indiziari e presuntivi, di cui può avvalersi il soggetto debole del rapporto nei confronti della parte prossima alla fonte prova e in posizione strategicamente privilegiata, nell’intento di recuperare l’equilibrio di posizioni tra le parti in causa, al fine di assicurare un giusto processo in condizioni di parità tra i contendenti, secondo il dettato dell’art. 111 Cost. e dell’art. 47 Carta di Nizza” ( ).

4. Il Decreto Trasparenza.
La discriminazione è spesso erroneamente sovrapposta al tema della ritorsione nonostante, come noto, si tratti di fattispecie distinte, connotate da tratti differenziali che hanno rilevanti ripercussioni a livello processuale.
Ai sensi del combinato disposto degli artt. 1418 c.c., co. 2, 1345 e 1324 c.c., il motivo ritorsivo – e, come tale, illecito – rileva qualora sia l’unico determinante l’atto o il comportamento datoriale; esso costituisce ingiusta e arbitraria reazione a un comportamento legittimo del lavoratore colpito (diretto) – o di altra persona ad esso legata e, pertanto, accomunata nella reazione (indiretto) – che attribuisce alla condotta datoriale il connotato della ingiustificata vendetta. A differenza di quel che accade per la discriminazione – che opera obiettivamente, in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta, a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro e dalla sussistenza di un motivo oggettivo fondante la decisione datoriale ( ) – per ottenere l’accertamento della nullità dell’atto perché fondato su motivo illecito ex art. 1345 c.c., o comunque ritorsivo, è necessaria la prova del fatto che si tratti dell’unica ragione posta a fondamento della determinazione datoriale ( ).
Normalmente, è onere esclusivo del lavoratore dimostrare che l’intento di rappresaglia ha avuto efficacia determinativa esclusiva dell’agire del datore di lavoro ( ); tuttavia, alcuni recenti interventi normativi hanno introdotto significative deroghe in materia.
Con il Decreto Legislativo 27 giugno 2022, n. 104, è stata data attuazione alla Direttiva 2019/1152/UE, relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione europea: si tratta del cosiddetto “Decreto Trasparenza” che ha introdotto disposizioni volte a regolamentare le informazioni sul rapporto di lavoro, le prescrizioni minime relative alle condizioni di lavoro, nonché una serie di ulteriori misure a tutela dei lavoratori ( ); l’affermazione dei principi si accompagna alla previsione di specifiche forme di garanzia degli stessi disciplinate agli artt. 13 e 14 D. Lgs. 104/2022.
Ai sensi dell’art. 13 D. Lgs. 104/2022 – rubricato “Protezione da trattamento o conseguenze sfavorevoli” – “L’adozione di comportamenti di carattere ritorsivo o che, comunque, determinano effetti sfavorevoli nei confronti dei lavoratori o dei loro rappresentanti che abbiano presentato un reclamo al datore di lavoro o che abbiano promosso un procedimento, anche non giudiziario, al fine di garantire il rispetto dei diritti di cui al presente decreto e di cui al decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 152 ( ), ferma ogni conseguenza prevista dalla legge derivante dall’invalidità dell’atto, comporta, salvo che il fatto costituisca reato, l’applicazione della sanzione amministrativa prevista dall’articolo 41, comma 2, del decreto legislativo 11 aprile 2006 n. 198. 2. Nelle ipotesi di cui al comma 1, i lavoratori possono rivolgersi all’Ispettorato Nazionale del Lavoro che applica la sanzione. 3. La denuncia può essere presentata dall’interessato o dall’organizzazione sindacale delegata dal medesimo”; il successivo art. 14 D. Lgs. 104/2022 ( ) – rubricato “Protezione contro il licenziamento o contro il recesso del committente e onere della prova” – prevede: “1. Sono vietati il licenziamento e i trattamenti pregiudizievoli del lavoratore conseguenti all’esercizio dei diritti previsti dal presente decreto e dal decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 152, come modificato dal presente decreto. 2. Fatta salva la disciplina di cui all’articolo 2 della legge 15 luglio 1966, n. 604, i lavoratori estromessi dal rapporto o comunque destinatari di misure equivalenti al licenziamento adottate nei loro confronti dal datore di lavoro o dal committente possono fare espressa richiesta al medesimo dei motivi delle misure adottate. Il datore di lavoro o il committente fornisce, per iscritto, tali motivi entro sette giorni dall’istanza. 3. Fatto salvo quanto previsto dall’articolo 5 della legge 15 luglio 1966, n. 604, qualora il lavoratore faccia ricorso all’autorità giudiziaria competente, lamentando la violazione del comma 1, incombe sul datore di lavoro o sul committente l’onere di provare che i motivi addotti a fondamento del licenziamento o degli altri provvedimenti equivalenti adottati a carico del lavoratore non siano riconducibili a quelli di cui al comma 1”.
Dall’esame congiunto delle due disposizioni emerge un dato di immediata evidenza: la qualificazione legale in termini di “ritorsione” di tutti quei comportamenti datoriali che – ponendosi in successione rispetto all’esercizio dei diritti disciplinati dal Decreto Legislativo 104/2022, così come all’azione a tutela dei medesimi – determinino “effetti sfavorevoli” o, comunque, “pregiudizievoli” in capo al lavoratore.
In questa prospettiva, la disciplina introduce senz’altro una deroga all’ordinario riparto degli oneri probatori, posto che il lavoratore – gravato dell’allegazione dell’esistenza di trattamenti pregiudizievoli e/o meno favorevoli – andrà esente dall’onere di dimostrare la ritorsività della condotta datoriale: in forza della disciplina in commento, il solo datore di lavoro risulta onerato di provare la legittimità del proprio operato; in questo senso depone, d’altronde, il tenore letterale dell’art. 14, co. 3, D. Lgs. 104/2022 nella parte in cui prevede che – fermo il disposto di cui all’art. 5 Legge 604/1966 in materia di licenziamento – è compito del datore dimostrare che “i motivi addotti a fondamento del licenziamento o degli altri provvedimenti equivalenti adottati a carico del lavoratore” non siano conseguenza dello “esercizio dei diritti previsti dal presente decreto e dal decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 152”.
La previsione non va esente da criticità.
In primo luogo, dovrà comprendersi se il meccanismo sia destinato a operare indipendentemente dal diritto azionato e dal suo contenuto specifico: non essendovi alcuna indicazione in tal senso, deve ritenersi che la risposta sia positiva e che prescinda, peraltro, dal fatto che il datore di lavoro adempia o meno agli obblighi di legge a seguito della richiesta del prestatore.
In secondo luogo, sarà necessario valutare la natura del collegamento circoscritto dagli artt. 13 e 14 D. Lgs. 104/2022, ossia se riconoscere allo stesso una declinazione meramente temporale ovvero eziologica.
A questo proposito, pare opportuno osservare che la qualificazione normativa non deroga alla definizione di cui all’art. 1345 c.c. (ossia alla necessità che l’intento di rappresaglia abbia efficacia determinativa esclusiva dell’operato datoriale), con la conseguenza che l’atto non potrà considerarsi illecito ove il datore di lavoro dimostri la sussistenza di un giustificato motivo a fondamento del medesimo; ciò induce a ritenere che il collegamento da ricercarsi sia di tipo causale, in quanto la prova della sussistenza di una ragione giustificatrice a base del provvedimento contestato dovrebbe precludere, comunque, la possibilità di concludere per la sua ritorsività.

5. La tutela dell’equilibrio tra attività professionale e vita familiare.
Discriminazione e ritorsione si incontrano – nella prospettiva che qui ci accompagna – in un altro recente intervento normativo, quello di cui al Decreto Legislativo 30 giugno 2022, n. 105, con il quale è stata data attuazione alla Direttiva 2019/1158/UE relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza.
L’art. 3 D. Lgs. 105/2022 ha aggiunto l’art. 2bis Legge 104/1992 – rubricato “Divieto di discriminazione” – che prevede: “1. È vietato discriminare o riservare un trattamento meno favorevole ai lavoratori che chiedono o usufruiscono dei benefici di cui all’articolo 33 della presente legge, agli articoli 33 e 42 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, all’articolo 18, comma 3-bis, della legge 22 maggio 2017, n. 81, e all’articolo 8 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, nonché di ogni altro beneficio concesso ai lavoratori medesimi in relazione alla condizione di disabilità propria o di coloro ai quali viene prestata assistenza e cura. 2. I giudizi civili avverso atti e comportamenti ritenuti discriminatori in base al presente articolo sono regolati dall’articolo 28 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150. 3. Chi intende agire in giudizio per il riconoscimento della sussistenza di una delle discriminazioni di cui al presente articolo e non ritiene di avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi, può promuovere il tentativo di conciliazione ai sensi dell’articolo 410 del codice di procedura civile. 4. Resta salva la giurisdizione del giudice amministrativo per il personale di cui all’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165»”.
Medesimo meccanismo di tutela, peraltro, è stato inserito dall’art. 4, co. 1, lett. b), n. 1), D. Lgs. 105/2022 all’art. 18, co. 3bis, D. Lgs. 81/2017: “I datori di lavoro pubblici e privati che stipulano accordi per l’esecuzione della prestazione di lavoro in modalità agile sono tenuti in ogni caso a riconoscere priorità alle richieste di esecuzione del rapporto di lavoro in modalità agile formulate dalle lavoratrici e dai lavoratori con figli fino a dodici anni di età o senza alcun limite di età nel caso di figli in condizioni di disabilità ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104. La stessa priorità è riconosciuta da parte del datore di lavoro alle richieste dei lavoratori con disabilità in situazione di gravità accertata ai sensi dell’articolo 4, comma 1, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 o che siano caregivers ai sensi dell’articolo 1, comma 255, della legge 27 dicembre 2017, n. 205. La lavoratrice o il lavoratore che richiede di fruire del lavoro agile non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro. Qualunque misura adottata in violazione del precedente periodo è da considerarsi ritorsiva o discriminatoria e, pertanto, nulla”.
La disciplina in commento libera il lavoratore, ricorrendo le circostanze di legge, dall’onere di dimostrare la natura ritorsiva della condotta datoriale, così come di fornire “elementi di fatto… dai quali si [possa] presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori”: la qualificazione, una volta ancora, è operata in via presuntiva dal legislatore.
La ragione per cui discriminazione e ritorsione si affiancano nelle previsioni in commento ben si comprende ove si rifletta sul fatto che la disciplina in esame è destinata a operare sia nei confronti di soggetti portatori, anche per associazione (come nel caso dei caregivers), di fattori di protezione, sia nei confronti di prestatori privi del medesimo requisito: per i primi, i trattamenti pregiudizievoli – o, comunque, meno favorevoli – ricadranno nell’ambito del diritto antidiscriminatorio; per i secondi, opererà un meccanismo analogo a quello già esaminato in relazione agli artt. 13 e 14 D. Lgs. 104/2022, con la conseguenza che il datore di lavoro sarà chiamato a dimostrare la legittimità del proprio operato. A differenza di quanto osservato in relazione al Decreto Trasparenza, tuttavia, qualora la violazione di cui all’art. 2bis Legge 104/1992 e all’art. 18, co. 3bis, D. Lgs. 81/2017 risulti riconducibile alla fattispecie della discriminazione, la prova non potrà essere limitata alla sussistenza di un giustificato motivo a fondamento del provvedimento adottato, ma dovrà avere per oggetto – ex art. 28 D. Lgs. 150/2011 – “l’insussistenza della discriminazione”.
E, d’altronde, la Suprema Corte ha chiarito che “la discriminazione – diversamente dal motivo illecito – opera obiettivamente, ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta, ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro” ( ).

6. Concludendo.
Con gli interventi normativi di cui al Decreto Legislativo 27 giugno 2022, n. 104, e al Decreto Legislativo 30 giugno 2022, n. 105, il legislatore è stato chiamato a dare sostanziale attuazione al principio di effettività delle tutele.
Il meccanismo risulta chiaramente individuato dall’ordinamento europeo che, una volta ancora, pone in capo agli Stati Membri l’obbligo di adottare “…le misure necessarie a garantire che, quando i lavoratori che ritengono di essere stati licenziati a causa della domanda o della fruizione del congedo di cui agli articoli 4, 5 e 6 presentano dinanzi a un tribunale o a un’altra autorità competente fatti in base ai quali si può presumere che vi sia stato un licenziamento di tal genere, incomba al datore di lavoro dimostrare che il licenziamento è stato basato su motivi diversi. 4. Il paragrafo 3 non osta a che gli Stati membri impongano un regime probatorio più favorevole ai lavoratori” ( ), nonché “…le misure necessarie per garantire che, quando i lavoratori di cui al paragrafo 2 presentano, dinanzi a un organo giurisdizionale o a un’altra autorità od organo competente, fatti in base ai quali si può presumere che vi siano stati tale licenziamento o tali misure equivalenti, incomba al datore di lavoro dimostrare che il licenziamento è stato basato su motivi diversi da quelli di cui al paragrafo 1. 4. Il paragrafo 3 non osta a che gli Stati membri impongano un regime probatorio più favorevole ai lavoratori” ( ).
In questa specifica prospettiva, lo strumento processuale – con i principi e le regole che gli son propri nelle materie sin qui esaminate – assume una precipua funzione di governo degli equilibri sostanziali sottesi alla salvaguardia dei diritti e alla correzione delle vicende patologiche del rapporto; l’ordinamento giuridico mostra, così, una progressiva consapevolezza della misura degli interventi necessari e svolge, in via sempre più netta, il compito che gli è proprio: la regolazione degli interessi in ambiti connotati da un connaturato, e oltremodo peculiare, disequilibrio delle posizioni contrapposte.
Con quale efficacia questi interventi normativi potranno garantire la pienezza dei correlati diritti, sarà possibile comprenderlo solo dopo un attento esame dell’attuazione che in concreto ne verrà data.

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