testo integrale con note e bibliografia

Nel lontano 1965 la Corte Costituzionale (sentenza n. 45), pur giudicando non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2118, primo comma, cod. civ., in riferimento all’art. 4, primo comma, della Costituzione, rilevava come il quadro di indirizzo politico prescritto dalla norma costituzionale “esige” che il legislatore adegui “la disciplina dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato al fine ultimo di assicurare a tutti la continuità del lavoro, e circondi di doverose garanzie - particolarmente per quanto riguarda i principi fondamentali di libertà sindacale, politica e religiosa, immediatamente immessi nell'ordinamento giuridico con efficacia erga omnes, e dei quali, perciò, i pubblici poteri devono tener conto anche nell'interpretazione ed applicazione del diritto vigente - e di opportuni temperamenti i casi in cui si renda necessario far luogo a licenziamenti”, come sollecitato anche dalle raccomandazioni internazionali (cfr. 46 e 47 sessione della Conferenza internazionale del lavoro).
La legislazione di poco successiva iniziò a predisporre le doverose garanzie per il lavoratore e gli opportuni temperamenti alla facoltà di recesso del datore di lavoro, consapevole di come il “timore del recesso, cioè del licenziamento spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinuncia a una parte dei propri diritti” (Corte Cost. sentenza n. 63 del 1966), e di come ciò rischiasse di indebolire l’apparato di diritti fondamentali riconosciuti al lavoratore nei luoghi di lavoro, tra cui il diritto alla salute, all’esercizio della libertà sindacale, ad una retribuzione in grado di garantire un’esistenza libera e dignitosa.
Le proclamazioni dei Costituenti sul diritto al lavoro (art. 4, primo comma, Cost.) e sulla tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni (art. 35, primo comma, Cost.) si sono ben presto saldate con i principi della Carta sociale europea (art. 24) e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 30), che riconoscono il diritto di ogni lavoratore a non essere licenziato senza un valido motivo e ad una tutela adeguata contro ogni licenziamento ingiustificato.
Il nesso che lega l’esercizio nei luoghi di lavoro di altri diritti fondamentali costituzionalmente garantiti e il ruolo cruciale che le tutele in caso di licenziamento assumono rispetto alla concreta praticabilità di tali diritti, impongono una particolare cautela nella adozione della disciplina normativa che, pur nell’ampio margine di discrezionalità riservato al legislatore nel contemperare i valori di cui all’art. 41 Cost. e nella assenza di un vincolo costituzionale a favore della reintegra, deve comunque tenere conto del forte coinvolgimento della persona umana nel rapporto di lavoro e farsi carico di correggere il disequilibrio di fatto in esso esistente.
Alcuni anni fa, non moltissimi, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza n. 141 del 2006), esaminando la questione del rapporto regola-eccezione fra risarcimento in forma specifica e per equivalente, ricordavano che l'obbligazione di ricostruire la situazione di fatto anteriore alla lesione del credito costituisce la traduzione nel diritto sostanziale del principio, affermato già dalla dottrina processuale degli anni Trenta e poi ricondotto all'art. 24 Cost., secondo cui il processo (ma potrebbe dirsi: il diritto oggettivo, in caso di violazione) deve dare alla parte lesa tutto quello e proprio quello che le è riconosciuto dalla norma sostanziale. Aggiungevano che “questa conclusione valida sul piano generale serve a maggior ragione nel diritto del lavoro non solo perché qualsiasi normativa settoriale non deve derogare al sistema generale senza necessità […], ma anche perché il diritto del lavoratore al proprio posto, protetto dagli artt. 1, 4 e 35 Cost., subirebbe una sostanziale espropriazione se ridotto in via di regola al diritto ad una somma”.
Immemore della necessità di circondare di doverose garanzie e di opportuni temperamenti il diritto di ogni lavoratore a non essere estromesso dal lavoro ingiustamente o irragionevolmente, il legislatore dell’ultimo decennio ha scelto di comprimere le tutele del lavoratore in caso di licenziamento e lo ha fatto, in maniera sempre più audace, anche giocando con le parole, con gli aggettivi (“manifesta”, “materiale”), i verbi (“può”) e gli avverbi (“espressamente”, “direttamente”), nell’obiettivo di consentire alle imprese, strette nella morsa della competitività, di prevedere e controllare con matematica precisione (“due mensilità dell’ultima retribuzione […] per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità”) il costo del licenziamento, al pari di quello di ogni altra merce.
L’interesse del legislatore si è appuntato sull’art. 18 dello Statuto dei lavoratori che nel 2012 è stato modificato, sezionandone il contenuto e la portata così da differenziare fattispecie e piani di tutela, e nel 2015 in qualche modo aggirato, deviando altrove la disciplina per i neoassunti.
Il sistema integrato di tutele ha così perso la sua razionalità e coerenza, risultando modulato più su obiettivi e regole confliggenti con i principi costituzionali che su una franca e consapevole nuova idea di lavoro e di tutele per il lavoro, capace di individuare rimedi, pur lontani dall’ottica statutaria, ma comunque “idonei a garantire una adeguata compensazione per il lavoratore arbitrariamente licenziato» (di recente, sentenza n. 254 del 2020, punto 5.2. del Considerato in diritto).
Sono stati necessari molteplici interventi della Corte Costituzionale per riallineare la disciplina in tema di licenziamento ai princìpi di eguaglianza e di ragionevolezza con cui le recenti riforme si ponevano, per più aspetti, in conflitto.
Permangono, ancora oggi, non poche disarmonie e distonie che rendono ardua l’opera di interpretazione sistematica della materia e la possibilità di ricondurre le singole previsioni ad un quadro coerente e unitario, che tragga linfa dai valori costituzionali, come è necessario nel mondo del diritto. A tal punto le aporie di sistema e di disciplina intralciano l’attività interpretativa e applicativa della legge, in una materia così nevralgica per il mondo del lavoro, da aver indotto la Corte Costituzionale a lanciare più di un monito al legislatore a cui è affidata la responsabilità di “ricomporre secondo linee coerenti una normativa di importanza essenziale, che vede concorrere discipline eterogenee, frutto dell’avvicendarsi di interventi frammentari” (sentenza n. 150 del 2020).
La Scuola Superiore della Magistratura, come ogni anno, anche nel 2023 ha organizzato un corso di formazione sul tema dei licenziamenti, richiamando nel titolo “il ruolo della giurisprudenza della Corte Costituzionale nella cornice delle tutele”.
Gli scritti pubblicati di seguito riproducono, sia pure con approfondimenti, aggiornamenti e integrazioni, le relazioni tenute al corso e che affrontano, dando voce alle complesse e articolate tesi dottrinali e alle interpretazioni giurisprudenziali, alcuni dei tanti aspetti problematici di una disciplina, stratificata e rimodellata, difficile da riportare a sistematicità e razionalità.
Nel dibattito, che si è svolto nella suggestiva cornice di Castel Capuano, si sono confrontate e affiancate, sovrapposte e distinte, molte riflessioni, ricostruzioni, analisi, prospettive, che hanno rivelato e confermato, accanto alle indiscusse doti dei relatori, quanto inestricabile sia diventata la regolamentazione, proprio là dove si voleva portare certezza e prevedibilità.
L’analisi, che qui si ripropone, parte dal licenziamento per giustificato motivo oggettivo su cui le pronunce della Corte Costituzionale hanno inciso in maniera più significativa, scardinando, insieme ad alcune parole e all’insensato uso delle stesse, un modello basato sul carattere meramente facoltativo della reintegrazione. Il dibattito si è soffermato, tra l’altro, sul ruolo da assegnare, nell’ottica della legge n. 92 del 2012, al mancato adempimento dell’obbligo di repêchage, quale elemento idoneo a determinare l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento oppure da collocare tra gli altri casi in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo.
Sul versante del licenziamento disciplinare, si è ricostruita l’evoluzione della giurisprudenza approdata alla nozione di fatto disciplinarmente rilevante e alla verifica di proporzionalità filtrata attraverso le clausole, anche generali, dei contratti collettivi, con il banco di prova rappresentato dal residuo ambito di applicazione dell’art. 18, comma 5, come modificato dalla legge del 2012.
La riflessione si è poi soffermata su un tema non del tutto esplorato, concernente i vizi procedurali del licenziamento e le forme di tutela, incuneandosi nei meandri delle pronunce giurisprudenziali una distinzione tra vizi procedurali così gravi da poter essere assimilati alla insussistenza del fatto o del potere disciplinare, e vizi della procedura inidonei ad incidere sull’essenza della motivazione e del potere di recesso. Si è messa in risalto, inoltre, la distonia indotta dalla apparente priorità logica dell’esame dei vizi formali di recesso rispetto ai vizi sostanziali, là dove la diversa graduazione delle tutele impone un rapporto, come ordine logico delle questioni da affrontare, esattamente opposto.
Le nullità del licenziamento sono state indagate, tra l’altro, con particolare riferimento al tema, attualissimo, degli effetti in termini di discriminazione indiretta della previsione di un termine unico di comporto applicabile anche ai lavoratori disabili e in relazione alle assenze connesse alla disabilità.
Specifici interventi sono stati dedicati alle questioni in cui il licenziamento si intreccia con i diversi fenomeni interpositori, legati a forme illegittime e non genuine di somministrazione, appalto, distacco ecc., con gli addentellati relativi ai destinatari dell’impugnativa nei termini di decadenza e all’operare della regola di imputazione degli atti di costituzione e di gestione del rapporto.
Uno sguardo attento e approfondito è stato dedicato al versante delle tutele dei lavoratori nella crisi di impresa, in cui ancora più difficile è l’individuazione del punto di equilibrio tra le plurime istanze e categorie coinvolte.
Alcuni dei temi oggetto delle relazioni sono stati approfonditi, attraverso un confronto più concreto e condotto anche mediante esame di casi singoli o specifiche pronunce, nell’ambito dei gruppi di lavoro e questi corposi confronti, di particolare utilità nello studio quotidiano dei fascicoli, sono stati tradotti in testi schematici riportati di seguito agli articoli.
La tavola rotonda che ha concluso il corso ha spaziato, a partire dalla introduzione del presidente Raimondi, sul rapporto tra il giudice delle leggi e le fonti internazionali, passando attraverso riflessioni sulla necessaria sistematicità della materia e approdando ad una considerazione più pragmatica, ma di estrema importanza, sulle ricadute che la disordinata stratificazione della disciplina in tema di licenziamento produce in termini di vulnus per la certezza del diritto e la prevedibilità delle decisioni.
L’ampio approfondimento ci ha messo davanti uno scenario per alcuni versi rassicurante, dato l’ottimo stato di salute dei meccanismi ordinamentali di salvaguardia dei principi costituzionali, per altri versi preoccupante, per l’estrema difficoltà di regolare efficacemente un mondo del lavoro attraversato da dinamiche troppo complesse da decifrare e in continua rapida evoluzione, che sembra aver ormai assimilato l’idea di precarizzazione e smarrito ogni dimensione sociale e solidaristica.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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