TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

É difficile negare che il quadro normativo in materia di licenziamenti, così come risultante dalla stratificazione degli interventi legislativi e degli interventi delle Corti, si presenti oggi come disarmonico, e che queste disarmonie generino non poche difficoltà applicative. E, soprattutto, ciò che più importa a lavoratori e imprese, è un quadro caratterizzato dall’incertezza.
Non è un caso, del resto, che nelle stesse recenti sentenze della Corte Costituzionale, che hanno profondamente inciso sulla riforma del 2015, le espressioni disarmonia e incertezza applicativa ricorrano più di una volta.

Questo quadro disarmonico, che non ha ancora trovato un suo assetto stabile e definitivo (basti pensare all’avvertimento rivolto dalla Corte al legislatore nella sentenza 183/2022 ), risente della fitta dialettica degli ultimi anni tra il legislatore e le Corti.

Alle spinte riformatrici del legislatore hanno fatto da contraltare controspinte della giurisprudenza .

Negli ultimi anni le spinte del legislatore, attuate prima con la legge Fornero poi con il Jobs Act, sono andate in una direzione piuttosto chiara:

• La reintegrazione non più l’unico, né il principale rimedio contro il licenziamento illegittimo (Fornero, L. n. 92/2012);
• L’indennizzo come rimedio ordinario, con la reintegrazione applicabile solo in casi circoscritti di discriminazione e, nei licenziamenti disciplinari, di fatto materiale inesistente (Jobs Act);
• Indennizzo certo, predeterminato e prevedibile (Jobs Act)

Le controspinte della giurisprudenza, costituzionale, di legittimità e di merito, hanno puntato decisamente in direzione opposta:
• È stata espunta dall’ordinamento la predeterminazione automatica dell’indennizzo
• Sono stati via via attuati, attraverso declaratorie di incostituzionalità ovvero attraverso interventi interpretativi, meccanismi correttivi che di fatto comportano un riespandersi del rimedio reintegratorio a scapito di quello indennitario.

Il combinarsi di queste spinte e controspinte produce, sul campo, un effetto di notevole e perdurante incertezza.

Per un avvocato è molto difficile, se non imbarazzante, rispondere alla domanda di un cliente (sia esso lavoratore o impresa) che chieda, magari al fine di valutare una proposta transattiva, quali potrebbero essere le conseguenze di un eventuale accertamento dell’illegittimità di un licenziamento.
E questo non è un bene per nessuno.
A meno di non voler ritenere (cosa che nessuno dice apertamente ma che qualcuno pensa) che l’incertezza sugli esiti di un eventuale giudizio possa avere un effetto di deterrenza, dissuasivo rispetto alla scelta di licenziare. Ma sarebbe a mio avviso una impostazione poco consona ai principi di certezza del diritto e civiltà giuridica.

L’incertezza complessiva che pervade il sistema si evidenzia in particolare in due aspetti:
1. La mancanza di un confine chiaro e ben definito tra il rimedio della reintegrazione e quello indennitario
2. La genericità e indeterminatezza dei criteri di quantificazione dell’indennizzo.

IL CONFINE TRA REINTEGRAZIONE E INDENNIZZO

Si deve partire da un principio indiscusso e indiscutibile: la reintegrazione non ha copertura né costituzionale né eurocomunitaria.
Del resto nella quasi totalità dei paesi europei prevale il rimedio indennitario.
La Corte Costituzionale, anzi, ha affermato chiaramente che non contrasterebbe con i principi costituzionali neppure un meccanismo di tutela anche esclusivamente risarcitorio (Corte Cost. sentenza n. 194/2018).
Cionostante, l’abbandono della generalizzata tutela reintegratoria, con cui abbiamo convissuto per oltre 40 anni, ha suscitato reazioni di rigetto, magari anche solo inconsce.
Una sorta di mancata elaborazione del lutto, che condiziona ancora le decisioni giurisprudenziali.
E in effetti si registra una tendenza ad espandere l’ambito applicativo del rimedio reintegratorio, in completa dissonanza con l’intento manifesto del legislatore, che aveva inteso limitare la reintegrazione ai licenziamenti discriminatori e a fattispecie limitate di licenziamenti particolarmente e clamorosamente infondati.

Questa dilatazione della tutela reintegratoria si è realizzata da un lato in conseguenza del noto duplice intervento della Corte Costituzionale che ha dapprima reso obbligatoria (per gli assunti prima del 2015) la reintegrazione in caso di insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, e poi ha eliminato il requisito del carattere “manifesto” di tale insussistenza. D’altro lato (e soprattutto) la reintegrazione ha preso, per così dire, la sua rivincita attraverso orientamenti interpretativi della giurisprudenza di legittimità in via di consolidamento.

Per quanto attiene ai licenziamenti cd. economici dei lavoratori assunti prima del 1 marzo 2015 è determinante la riconduzione dell’obbligo di repêchage all’interno del fatto posto a base del licenziamento per GMO, con la conseguenza che la violazione di tale obbligo si traduce nell’insussistenza del fatto, vizio che fa scattare il rimedio reintegratorio.
Si consideri al riguardo l’estrema incertezza del perimetro applicativo dell’obbligo di repêchage, che oggi, soprattutto a seguito della sua ritenuta estensione dopo la modifica dell’art. 2103 cc, non si sa bene dove si arresti.
Tale incertezza, abbinata alle oscillazioni giurisprudenziali sulla ripartizione degli oneri probatori, fa sì che i margini di discrezionalità del giudice nell’applicare il rimedio reintegratorio si siano fortemente allargati.
Considerato poi che la maggior parte delle cause di impugnazione del licenziamento si giocano proprio sull’adempimento o meno dell’obbligo di repêchage, si comprende come, con riferimento ai licenziamenti per GMO dei cd. vecchi assunti, la reintegrazione abbia riconquistato uno spazio preponderante rispetto all’indennizzo.

Quanto al licenziamento disciplinare, due sono gli orientamenti che hanno consentito l’ampliamento, spesso su basi fortemente discrezionali, della tutela reintegratoria.

Il primo, che riguarda il licenziamento dei lavoratori assunti prima del marzo 2015, è quello che consente al giudice di sussumere la condotta contestata in una previsione contrattuale-collettiva espressa attraverso clausole generali ed elastiche, e quindi di applicare il rimedio della reintegrazione anche in assenza di una precisa tipizzazione della condotta meritevole di sanzione conservativa.

Il secondo, che tocca anche gli assunti dopo il marzo 2015, consiste nell’ampliamento della opzione di fatto materiale fino a ricomprendervi non solo i casi in cui il fatto non si sia materialmente verificato, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare.

L’incertezza sul confine tra reintegrazione e indennizzo non solo non si giustifica, ma può portare a ingiuste difformità di trattamento.

A questo proposito va ricordato che la stessa Corte Costituzionale, nella sentenza 125/2022 , ha censurato una “scelta tra due forme di tutela profondamente diverse rimessa ad una valutazione non ancorata a precisi punti di riferimento, tanto più necessari quando vi sono fondamentali esigenze di certezza, legate alle conseguenze che la scelta stessa determina”.

Precisi punti riferimento che oggi mancano.

Per questo, a mio sommesso avviso, un ripensamento critico di questi orientamenti interpretativi sarebbe quanto mai opportuno.

LA MISURA DELL’INDENNIZZO

Anche sotto questo aspetto si registrano forti margini di incertezza ed una fin troppo estesa discrezionalità, in una situazione in cui la forchetta tra minimo e massimo, anche a seguito dei noti interventi legislativi, è estremamente ampia, con un tetto massimo che è il più alto di tutti i paesi europei.

Abbiamo rispettosamente preso atto dell’incostituzionalità di una rigida predeterminazione dell’indennizzo in base alla sola anzianità di servizio, che non lasciava spazio alla personalizzazione del danno, violando così il principio di uguaglianza.

Tuttavia, non si può passare all’estremo opposto, quello della assoluta discrezionalità.

Non è questo, del resto, che la Corte auspica, anzi nella sentenza si afferma la necessità di un prudente bilanciamento tra “l’esigenza di uniformità di trattamento e di prevedibilità dei costi di un atto illecito e l’apprezzamento delle particolarità del caso concreto”.
Con ciò quindi riconoscendo dignità anche all’esigenza di prevedere quali potrebbero essere le conseguenze di un licenziamento illegittimo, che stava alla base del meccanismo delle tutele crescenti.

La Corte, del resto, richiama l’esistenza di criteri di quantificazione desumibili dal sistema che vadano ad integrare e correggere quello dell’anzianità, che rappresenta pur sempre la base di partenza della valutazione.
Sono i criteri previsti dall’art.8 della legge 604/66 e dall’art.18 dello Statuto dei Lavoratori, così come modificato dalla legge Fornero: gravità della violazione, numero degli occupati, dimensioni dell’impresa, comportamento e condizione delle parti.
Si tratta tuttavia, in mancanza di ulteriori indicazioni (in quale ordine devono essere considerati e con quale peso?) di criteri estremamente generali nella loro formulazione, poco idonei a fornire un orientamento chiaro ed uniforme per la determinazione dell’indennizzo.
Non a caso spesso vengono solo tautologicamente richiamati nelle sentenze.

Si tratterebbe dunque di stabilire criteri non rigidi e predeterminati, e soprattutto non ancorati ad un unico parametro (lo impedisce la decisione della Corte Costituzionale), che, pur lasciando spazio alla personalizzazione del danno, orientino la valutazione del giudice e consentano alle parti di fare le proprie valutazioni nel tentativo di conciliazione della lite.
La predeterminazione di criteri uniformi di liquidazione dell’indennizzo non sarebbe del resto in contrasto con i principi costituzionali.
Il meccanismo delle tutele crescenti del Jobs Act è stato dichiarato incostituzionale in quanto considerava un unico esclusivo parametro, quello dell’anzianità di servizio, senza lasciare spazio ad altre valutazioni.
Per contro, va ricordato che, come sottolinea la stessa Corte, l’integrale riparazione del danno non ha copertura costituzionale.

Quindi nulla osterebbe a un sistema di determinazione dell’indennizzo che, pur lasciando uno spazio adeguato alla personalizzazione del danno, offra alle parti e al giudicante criteri precisi di valutazione, basati su più elementi fattuali in concorso tra loro, rendendo così non del tutto imprevedibile l’esito di una lite.
Un meccanismo del genere potrebbe arrivare dal legislatore, ma anche dalla prassi e dalla giurisprudenza, che in altri campi sono state in grado di elaborare e adottare uniformemente criteri non imposti dalla legge ma ormai di uso comune. Si pensi alle tabelle per la liquidazione del danno alla persona, che nella versione elaborata dal Tribunale di Milano costituiscono un consolidato punto di riferimento. Oppure anche alle formule, di provenienza europea, per la quantificazione dell’indennità di scioglimento del contratto di agenzia e per la determinazione dell’equo premio in caso di invenzioni del dipendente.

Credo che in questa direzione, quella di un ragionevole compromesso tra certezza matematica e totale imprevedibilità, si possa e si debba andare.

 

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