TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. La questione che si affronta in questa sede riguarda il mutamento di orientamento della Cassazione in ordine all’interpretazione dell’art. 18, co. 4, L 20 maggio 1970, n. 300 nella parte in cui dispone la reintegrazione del lavoratore licenziato per un fatto che “rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”.
I termini della questione sono noti e possono essere riassunti ricordando che, in un primo tempo, secondo la Cassazione (9 maggio 2019, n. 12365) “solo ove il fatto contestato e accertato sia espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante per il datore di lavoro, che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con sanzione conservativa, il licenziamento sarà non solo illegittimo ma anche meritevole della tutela reintegratoria prevista dall’art. 18 novellato, comma 4. Coerentemente non può dirsi consentito al Giudice, in presenza di una condotta accertata che non rientri in una di quelle descritte dai contratti collettivi ovvero dai codici disciplinari come punibili con sanzione conservativa, applicare la tutela reintegratoria operando una estensione non consentita, per le ragioni suesposte, al caso non previsto sul presupposto del ritenuto pari disvalore disciplinare”. Successivamente, la Cassazione (11 aprile 2022, n. 11665) ha mutato opinione ritenendo “consentita al Giudice la sussunzione della condotta addebitata al lavoratore ed in concreto accertata giudizialmente nella previsione contrattuale che punisca l’illecito con sanzione conservativa anche laddove tale previsione sia espressa attraverso clausole generali o elastiche. Tale operazione di interpretazione e sussunzione non trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato restando nei limiti dell’attuazione del principio di proporzionalità come già eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo”.
Che non si tratti di una mera precisazione (come viene rappresentata nelle sentenze della Cassazione), ma di una vera e propria svolta è reso palese non solo dai passaggi ora riportati, ma ancor più dagli sviluppi che si sono registrati con il consolidarsi del nuovo orientamento che la Cassazione (28 giugno 2022, n. 20780) ha ritenuto di adottare anche quando “nel testo della disposizione pattizia vi è […] una mera elencazione dei provvedimenti disciplinari applicabili, senza alcuna previa individuazione delle condotte, ma con un rinvio a clausole generali quali la gravità o recidività della mancanza o grado della colpa”. Ciò si verifica allorché il codice disciplinare elenca soltanto le sanzioni, omettendo di pronunciarsi sulle “infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata” (come prescrive l’art. 7, co. 1, L n. 300/1970). Infrazioni, quindi, la cui identificazione non si rinviene in alcun modo nel codice disciplinare, ma è rimessa alla valutazione del datore di lavoro sulla base di indici generici quali la “gravità” ed il “grado della colpa” che palesemente non offrono alcun effettivo e concreto apporto del codice disciplinare all’individuazione della sanzione applicabile all’infrazione, limitandosi a reiterare senza alcuna specificazione i principi legali dell’art. 2106 c.c., peraltro in modo superfluo, essendo tali principi inderogabilmente sanciti dalla legge .
2. Assumendo quest’ultimo orientamento come riferimento da considerare in questa sede, si possono ora elencare alcune delle ragioni di dissenso rispetto ad esso, anche in un immaginario dialogo con chi, con la consueta chiarezza e capacità argomentativa, lo ha invece condiviso .
Il punto da cui partire è quello della finalità che ha indotto il legislatore ad inserire nell’art. 18, co. 4 l’ulteriore ipotesi di reintegrazione qui oggetto di esame (che si aggiunge a quella dell’insussistenza del fatto contestato).
Al riguardo la Cassazione (n. 12365 /2019) aveva inizialmente affermato che “la chiara ratio nel nuovo regime in cui la tutela reintegratoria presuppone l’abuso consapevole del potere disciplinare, […] implica una sicura e chiaramente intellegibile conoscenza preventiva, da parte del datore di lavoratore, della illegittimità del provvedimento espulsivo derivante o dalla insussistenza del fatto contestato oppure dalla chiara riconducibilità del comportamento contestato nell’ambito della previsione della norma collettiva fra le fattispecie ritenute dalle parti sociali inidonee a giustificare l’espulsione del lavoratore”.
Affermazione successivamente rivista dalla Cassazione (n. 20780/2022) che, ritenendo doveroso farsi carico di “un equilibrato componimento dei diversi interessi in gioco”, ritiene che “il discrimine tra la tutela reintegratoria e indennitaria collocato nella tipizzazione degli illeciti ad opera dei contratti collettivi o dei codici disciplinari non può escludere la possibilità di interpretazione ed applicazione giudiziale delle clausole generali o elastiche finendo per comprimere lo spazio di una interpretazione estensiva”; interpretazione che è il “compito proprio del Giudice che non gli è sottratto da una esigenza di certezza e di previa conoscenza da parte del datore di lavoro delle conseguenze di un uso non corretto del potere disciplinare”. Conclusione che, sempre secondo la Cassazione, è coerente con “la finalità dello Statuto dei lavoratori, art. 18, comma 4, […] di valorizzare l’autonomia collettiva e imporre la tutela reintegratoria nel caso di licenziamento per comportamenti che il c.c.n.l. punisce con una sanzione conservativa”.
Questi ultimi argomenti non sembrano condivisibili, a partire dall’affermazione, peraltro assai diffusa, che la disposizione contenuta nell’art. 18, co. 4 abbia come scopo la valorizzazione dell’autonomia collettiva, con la conseguente necessità di ogni più ampia possibilità di interpretazione dei suoi contenuti.
Infatti, il legislatore assume il codice disciplinare come riferimento vincolante per identificare la sanzione che il datore di lavoro avrebbe dovuto applicare all’infrazione, ciò a prescindere dalla fonte che esprime il codice: sia essa la contrattazione collettiva oppure il regolamento adottato unilateralmente dal datore di lavoro.
Quindi l’operatività del criterio selettivo del rimedio utilizzato dall’art. 18, co. 4 trascura di dare rilievo alla provenienza, collettiva o regolamentare, del codice disciplinare.
Ciò che, invece, appare determinate è la funzione del codice così come precisata nell’art. 7, co. 1, L. n. 300/1970 di pronunciarsi sulle “norme disciplinari relative alle sanzioni, alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata ed alle procedure di contestazione delle stesse”.
In altre parole, il codice è funzionale a circoscrivere l’esercizio del potere disciplinare rendendo edotta la generalità dei dipendenti (con una pubblicità doverosamente assolta in forma collettiva mediante affissione) delle infrazioni, altrimenti indeterminate, punibili dal datore di lavoro ed anche di quale sia la sanzione applicabile in relazione a “ciascuna di esse”.
Quindi la funzione del codice disciplinare è, in via primaria, quella di delimitare l’esercizio del potere disciplinare e, solo dopo, di graduare le sanzioni affidando ai codici la declinazione della proporzionalità nei limiti del principio legale sancito inderogabilmente dall’art. 2106 c.c.
Infatti, la correlazione tra sanzioni ed infrazioni non è rimessa alle insindacabili valutazioni né dell’autonomia collettiva né del regolamento disciplinare, restando ancorata all’art. 2106 c.c., dovendo il Giudice pur sempre verificare in base ad essa se la specificazione della sanzione disciplinare (espulsiva o conservativa) operata dal codice sia proporzionata all’infrazione commessa dal lavoratore, fatti salvi ovviamente i trattamenti più favorevoli. Con la conseguenza che, se all’esito di tale verifica fosse accertata una non conformità per vizio di proporzionalità, il Giudice dovrà disattendere le indicazioni del codice in ordine alla sanzione applicabile.
3. A quanto fin qui accennato si deve aggiungere un’osservazione ulteriore che riguarda i rischi segnalati dalla Cassazione con l’ordinanza interlocutoria 27 maggio 2021, n. 14777 in ordine alla possibilità che l’estrema diversificazione delle norme disciplinari contenute nei codici formulati dalla contrattazione collettiva possa determinare “una irrazionale disparità di trattamento”, “con la conseguenza, irragionevole, di far ricadere sui lavoratori le lacune e la approssimazione della disciplina contrattuale collettiva”, potendo risultare priva di “un nesso eziologico e valoriale rispetto alla funzione di discrimine che viene ad essa attribuita” dall’art. 18, co. 4 che “legittima una diversità di tutela, rispettivamente reintegratoria e indennitaria, tra comportamenti non gravi, tipizzati dal contratto collettivo e puniti con sanzioni conservative, e fatti di pari o minore rilevanza disciplinare solo perché non espressamente contemplati dalla disciplina contrattuale”.
Certamente non può essere messa in dubbio la sussistenza di oggettive diversificazioni di trattamento tra le molteplici discipline collettive dei codici disciplinari e neppure che l’esistenza di tali diversità sia causata dalla tecnica di formulazione dei codici all’interno dei quali la stessa infrazione (tipizzata o meno) potrebbe essere punita con sanzioni diseguali.
Ma il rimedio alla “irrazionale disparità di trattamento” (Cass. n. 14777/2021) determinata dall’autonomia collettiva non può essere quello di abilitare un’interpretazione estensiva (ma in realtà creativa, come si dirà nel prosieguo) nel tentativo affidato al Giudice di superare “le lacune e la approssimazione della disciplina contrattuale collettiva” e, così, ricondurre ad uniformità l’applicazione del regime sanzionatorio del licenziamento disciplinare ingiustificato.
Infatti, se il legislatore ha ritenuto di attribuire rilievo alla contrattazione collettiva per selezionare la tutela (reintegratoria o indennitaria) da applicare, ciò comporta inevitabilmente esiti diversificati, pur a fronte di infrazioni di analogo disvalore.
Ciò in quanto dalla contrattazione collettiva ci si può attendere tutto, tranne che sia uniforme, operando in base alla valutazione dei contrapposti interessi collettivi destinati a prevalere e comporsi in ragione della volontà contrattuale delle parti stipulanti nei molteplici ambiti di applicazione del contratto collettivo (la categoria, il territorio, l’azienda).
È quindi possibile (anzi probabile) che la gravità dell’infrazione e la conseguente scelta della sanzione applicabile avvenga da parte del contratto collettivo/codice disciplinare in modo diversificato, quindi senza quella uniformità che, secondo la Cassazione, dovrebbe caratterizzare e connotare il “nesso eziologico e valoriale rispetto alla funzione di discrimine” tra “tutela, rispettivamente reintegratoria e indennitaria”.
Né il Giudice può emendare la contrattazione collettiva per ricondurla ad uniformità in quanto ciò costituirebbe una grave mortificazione dell’autonomia sindacale, l’opposto di quella valorizzazione alla quale, contraddittoriamente, la Cassazione si appella.
In questa prospettiva, l’interpretazione estensiva (rectius: creativa) evocata dalla Cassazione per colmare “le lacune e la approssimazione della disciplina contrattuale collettiva” finisce per rimettere all’apprezzamento del Giudice la scelta del rimedio applicabile al licenziamento disciplinare ingiustificato in malcelata applicazione del principio legale di proporzionalità dell’art. 2106 c.c.
L’interpretazione del codice disciplinare deve svolgersi nel solco tracciato dall’art. 18, co. 4 e, quindi, può soltanto estendere un concetto che la contrattazione collettiva ha già espresso e non crearne uno che nel codice disciplinare non c’è.
Infatti, il Giudice in quest’ultimo caso non attinge alcunché (perché nulla c’è da attingere) dal contratto collettivo che non indentifica le infrazioni disciplinari.
Con la conseguenza che la mancata individuazione di esse fa venire meno alla radice il presupposto dell’interpretazione estensiva che, assumendo come riferimento la previsione del contratto collettivo in ordine alla condotta punibile con una sanzione conservativa, dovrebbe ricondurre ad essa l’infrazione contestata al dipendente licenziato. Ma tale riconduzione si fonderebbe sulla creazione di un’infrazione inespressa dal contratto collettivo per agganciarla a quella che ha causato il licenziamento del lavoratore.
Quindi se il Giudice riscontra che il codice disciplinare non si è in alcun modo pronunziato sulla punibilità delle infrazioni o di un’infrazione, non può reagire come se si trattasse di una lacuna incolmabile che lo obbliga a reperire comunque una norma nell’ordinamento, non potendosi arrendere al non liquet, ma deve piuttosto applicare la legge che all’art. 18, co. 5, in carenza dei presupposti per la reintegrazione, prevede il rimedio indennitario.
Quanto poi alla preoccupazione espressa dalla Cassazione in ordine alla “conseguenza, irragionevole, di far ricadere sui lavoratori le lacune e la approssimazione della disciplina contrattuale collettiva”, l’interprete non può dire ghe pensi mi, anche perché in questo modo oblitererebbe le prescrizioni dell’art. 18, co. 4 e 5 che, come si è appena detto, pongono in alternativa i rimedi (reintegrazione/indennità) al licenziamento disciplinare ingiustificato, consentendo la reintegrazione soltanto quando dalla contrattazione collettiva emerga la punibilità dell’infrazione contestata con una sanzione conservativa.
4. Quanto appena detto consente di ritornare sull’operazione interpretativa delineata nell’art. 18, co. 4 che prevede la reintegrazione soltanto quando “il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”.
Correttamente la Cassazione identifica tale operazione nella “sussunzione della condotta addebitata al lavoratore ed in concreto accertata giudizialmente nella previsione contrattuale che punisca l’illecito con sanzione conservativa”.
Infatti, la verifica della riconducibilità dell’infrazione contestata (e commessa, atteso che il fatto addebitato al lavoratore è sussistente) ad una infrazione punita dal codice disciplinare con una sanzione conservativa non è rimessa all’apprezzamento del Giudice, ma deve necessariamente essere eseguita “sulla base delle previsioni dei contratti collettivi”, non già prescindendo, anche parzialmente, da esse.
Ciò significa che, applicando l’art. 18, co. 4, il Giudice non deve valutare l’infrazione oggetto della contestazione mossa al lavoratore per stabilire se essa meriti o meno di essere punita con una sanzione conservativa (come, invece, avviene quando si accerta la legittimità del licenziamento), ma deve piuttosto verificare se il codice disciplinare nell’elencare le infrazioni punibili ne annovera una all’interno della quale può essere ricondotta quella commessa dal lavoratore.
La sussunzione postula, quindi, a monte la definizione nel codice disciplinare della fattispecie astratta (le infrazioni punibili con sanzione conservativa) ed il riscontro a valle che in essa rientri la fattispecie concreta (l’infrazione commessa e contestata al dipendente).
Ed è proprio questo il punto.
L’operazione ermeneutica della sussunzione evocata dall’art. 18, co. 4 implica indefettibilmente ed è, quindi, praticabile soltanto quando la condotta posta in essere dal lavoratore ed a lui contestata dal datore di lavoro è riconducibile all’interno delle previsioni del codice disciplinare che selezionano le infrazioni in astratto punibili per correlarle alle sanzioni ad esse applicabili.
La sussunzione, quindi, non risulta praticabile in mancanza del presupposto su cui si fonda: l’avvenuta individuazione nel codice disciplinare dell’infrazione punibile con la sanzione conservativa, nella quale ricondurre il fatto oggetto della contestazione.
Questa affermazione deve essere accompagnata da almeno tre precisazioni.
La prima: si può anche ammettere che la reintegrazione prevista dall’art. 18, co. 4 non si esaurisca ai soli casi in cui l’infrazione è tipizzata dal codice disciplinare nel qual caso l’operazione interpretativa della sussunzione si risolverebbe nel riscontro della mera identità tra infrazione contestata e infrazione prevista dal codice disciplinare.
Ma se tale coincidenza in termini di sovrapponibilità non è necessaria è, invece, essenziale per rispettare l’art. 18, co. 4 procedere con il riscontro in esso stabilito che la sanzione conservativa applicabile all’infrazione contestata avvenga “sulla base delle previsioni dei contratti collettivi”.
Ciò significa che la sussunzione si palesa impraticabile quando (come avviene nel caso esaminato da Cass. n. 20780/2022) “nel testo della disposizione pattizia vi è … una mera elencazione dei provvedimenti disciplinari applicabili, senza alcuna previa individuazione delle condotte”, perché la valutazione della punibilità della condotta con la sanzione conservativa è e deve restare di esclusiva competenza del contratto collettivo e, quindi, leggibile in esso.
Così non è e non può essere se il contratto collettivo non individua in alcun modo le infrazioni punibili, ma anche quando dalle infrazioni seppur individuate non è possibile risalire alla sanzione conservativa applicabile a quella oggetto della contestazione che ha portato al licenziamento del lavoratore.
In altre parole, si tratta di un percorso guidato all’interno di un binario tracciato dal contratto collettivo che deve portare dalla infrazione contestata al lavoratore alla punibilità di essa con una sanzione conservativa, secondo la volontà espressa nel codice disciplinare.
Se così non fosse – ed è questa la seconda precisazione – si verificherebbe proprio quello che nel principio di diritto enunciato dalla Cassazione suona come un monito all’interprete affinché l’“operazione di interpretazione e sussunzione non trasmod[i] nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato”, dovendo invece restare “nei limiti dell’attuazione del principio di proporzionalità come già eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo”.
Quindi il Giudice deve accertare se e in che limiti il codice disciplinare ha espresso una graduazione delle sanzioni applicabili idonea ad individuare le infrazioni punibili con misure conservative, prendendo atto dell’attuazione del principio di proporzionalità così come “già eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo”.
Si tratta, quindi, di una graduazione elaborata ex ante dal contratto collettivo e che non può avvenire ex post attraverso l’apporto creativo dell’interprete, anche perché altrimenti tale apporto non potrebbe far altro che utilizzare impropriamente il criterio legale della proporzionalità, ancorché surrettiziamente attribuito al contratto collettivo che, invece, non si è pronunziato al riguardo né ha offerto elementi sufficienti e concreti in tal senso.
Il riscontro della corretta applicazione di tale interpretazione implica che nella motivazione della sentenza che dispone la reintegrazione del lavoratore ex art. 18, co. 4 il Giudice dovrà puntualmente indicare gli elementi, attinti direttamente dal codice disciplinare, che consentono univocamente di ritenere che l’infrazione contestata al lavoratore licenziato era invece punibile con una sanzione conservativa, secondo l’attuazione del “principio di proporzionalità come già eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo”.
Quest’ultima precisazione induce a riflettere sulla lettura costituzionalmente orientata dell’art. 18, co. 4 invocata dalla Cassazione a sostegno della nuova interpretazione.
Se, com’è pacifico, la reintegrazione non è il rimedio costituzionalmente obbligato per sanzionare il licenziamento ingiustificato essendo parimenti applicabile quello dell’indennità (dissuasiva e compensativa), non si può elidere quel nesso che nell’art. 18, co. 4 lega “le condotte punibili con una sanzione conservativa” alle “previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”. Infatti, è solo “sulla base” di esse, non già per effetto dell’integrazione apportata dall’interprete, che si dovrà verificare la ricorrenza del presupposto necessario per disporre la reintegrazione in luogo dell’indennizzo.
Non si tratta, quindi, di “comprimere lo spazio di una interpretazione estensiva” che è il “compito proprio del Giudice” (Cass. n. 20789/2022), ma di ricondurre l’interpretazione dei codici disciplinari alle specifiche prescrizioni impartite dal legislatore nell’art. 18, co. 4 che prevalgono sui canoni generali di ermeneutica contrattuale.
Tale conclusione, peraltro, trova un riscontro anche nella giurisprudenza costituzionale – che la Cassazione, invece, mobilita ad univoco sostegno della tesi interpretativa da ultimo accolta –, infatti la sentenza della Corte costituzionale 19 maggio 2022, n. 125 (richiamandosi anche a precedenti decisioni nn. 194/2018, 150/2020 e 59/2021) non ha mancato di criticare il sistema sanzionatorio dell’art. 18 quando “vanifica l’obiettivo della rapidità e della più elevata prevedibilità delle decisioni e finisce per contraddire la finalità di una equa redistribuzione delle tutele dell’impiego (art. 1, comma 1, lettera c, della legge n. 92 del 2012), che ha in tali caratteristiche della tutela giurisdizionale il suo caposaldo”. Ciò avviene, secondo la Corte, quando il criterio selettivo delle tutele “demanda al giudice una valutazione sfornita di ogni criterio direttivo” e “non racchiude alcun criterio idoneo a chiarirne il senso; esso entra anche in tensione con un assetto normativo che conferisce rilievo al fatto e si prefigge in tal modo di valorizzare elementi oggettivi, in una prospettiva di immediato e agevole riscontro”.
In questa prospettiva si deve ribadire ed evidenziare che rispetto alle infrazioni tipizzate nel codice disciplinare la sussunzione opera senza margini di incertezza, tanto da consentire di qualificare con sicurezza l’esercizio del potere di recesso del datore di lavoro alla stregua di un “abuso consapevole del potere disciplinare”, meritevole di essere represso con la reintegrazione. In questo caso, infatti, vengono a coincidere la fattispecie concreta (l’infrazione contestata) con quella astratta (l’infrazione punita con la sanzione conservativa).
Man mano che ci si allontana da questo punto l’operazione della sussunzione rischia di trasmodare “nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato” riconducibile all’art. 2106 c.c., poiché la riconduzione non avverrebbe, come richiede l’art. 18, co. 4, soltanto “sulla base delle previsioni dei contratti collettivi”.
In questo caso, infatti, il materiale enucleato dal codice disciplinare è insufficiente all’interprete per individuare in base alla mera sussunzione la punibilità dell’infrazione con una sanzione conservativa.
Tra le due ipotesi a cui si è fatto riferimento – quella della tipizzazione delle infrazioni e quella del codice che indica solo le sanzioni – si possono annoverare una serie di ipotesi intermedie rispetto alle quali il Giudice dovrà prendere posizione misurando il dosaggio tra materiale fornito dal codice e apporto dell’interprete che, per le considerazioni fin qui accennate, dovrà verificare se la formulazione delle infrazioni punite dal codice con una sanzione conservativa sia tale da consentire di rinvenire in essa e – si badi – non aliunde gli elementi che costitutivi dell’infrazione contestata al dipendente licenziato.

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