Testo Integrale con note e bibliografia

Nel presente convegno in cui è stato presentato dal Presidente Federico Roselli il volume collettaneo a cura di Giuseppe Bronzini e di Roberto Cosio, sono state esaminate le numerose problematiche relative al licenziamento individuale per motivi economici. Problematiche tutte scrutinate da recenti pronunzie della Corte di Cassazione, che è stata chiamata ad individuare lo spazio contenutistico della clausola generale del “ giustificato motivo di licenziamento” ex art 3 della l. 15 luglio 1966 n. 604 sulla base di due contrapposti valori a copertura costituzione: da una parte la libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.) e dall’altra il diritto al lavoro (artt. 1, 4 Cost.). Diritto quest’ultimo che ha trovato una concreta e compiuta specificazione nell’interesse del lavoratore a non essere privato dei mezzi di sussistenza necessari per sé e per la propria famiglia (art. 36 Cost.).
Nel programma del Convegno si è fatto espresso riferimento alla sentenza dei giudici di legittimità del 7 dicembre 2016 n. 25201, ( in Foro it. 2017, I, 134, con nota di G. SANTORO PASSARELLI, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo “organizzativo” : la fattispecie, ed ivi, 590, con nota di V. FERRARI, Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e nomofilachia, ed infine ancora in Mass. giur. lav. 2017, 317, con nota di A. VALLEBONA, Legittimità del licenziamento diretto ad incrementare il profitto). Sentenza questa che ha trovato seguito in altre decisioni tra le quali : Cass. 3 maggio 2017 n. 10699; Cass. 20 ottobre 2017 n. 24882, pronunziatasi pure sull’onere della prova in tema di repechage ; Cass. 6 dicembre 2017 n. 29238 (in Foro it. 2018, I, 160) e, da ultimo, Cass. 2 maggio 2018 n. 10435, con riferimento pur essa alla ripartizione dell’onere della prova.
Prima di esaminare nel merito le citate decisioni è opportuna qualche considerazione sulla citata sentenza n. 25201 del 2016 per essere stato affermato con riguardo ad essa dal Presidente Roselli - in dissenso con l’avvocato Cosio – che detta sentenza è perfettamente in linea con il dettato dell’art. 374 c.p.c.. Opinione questa supportata sulla base della affermazione che la prassi seguita negli ultimi anni dalla Sezione del lavoro della Corte di Cassazione – che è poi quella di discutere in Assemblea su questioni di non agevole soluzione - “tende a prevenire” la rimessione delle suddette questioni alle Sezioni Unite. Rimessione che comunque rimane “sempre possibile ma non auspicabile”, considerata l’eccessiva pendenza di cause davanti alle medesime.
Si è inoltre aggiunto che deve tenersi conto anche , perché .
Per sollevare riserve sulla pur autorevole opinione ora esposta è sufficiente un breve iter argomentativo.
E’ opinione da tutti condivisa che con il d. lgs. 2 febbraio 2006 n. 40 (in materia di processo di cassazione e di arbitrato) si sia inteso rafforzare – con significative innovazioni in materia di giudizio di legittimità – la funzione nomofilattica attribuita alla Corte di Cassazione dall’art. 65 dell’ordinamento giudiziario, cioè quella di assicurare al giudice (civile e penale) di ultima istanza , l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge nonché di garantire <l’unità nazionale="" oggettivo="" diritto="" del=""> (sulla nomofilachia in generale cfr. per tutti : G. VIDIRI, La nuova nomofilachia : diritti più certi e processi più rapidi?, in Il nuovo giudizio per cassazione di cassazione, a cura di G. IANNIRUBERTO – U. MORCAVALLO, Milano 2007, 17 ss., cui adde in precedenza tra i tanti : S. CHIARLONI, In difesa della nomofilachia, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1992, 117 ss.).
Ed in tema si è pure rimarcato come l’espressione più significativa del rafforzamento dei compiti nomofilattici della Cassazione – volto ad arginare una situazione caratterizzata dal frequente verificarsi di contrasti giurisprudenziali destinati ad aggiungere ad un anche un - sia stata da più parti individuata nel disposto del comma 3 dell’art. 374 c.p.c. (riscritto dall’art. 8 del già citato d.. lgs n. 40 del 2006), che vincola le Sezioni semplici della Corte di Cassazione, nel caso in cui ritengano di non condividere il principio enunciato dalle Sezioni unite, a rimettere a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso ( in tali termini : G. VIDIRI, Art. 360 bis c.p.c. e nomofilachia : verso un diritto a formazione giurisprudenziale? Considerazioni di un giudice del lavoro), in Riv. it. dir. lav. 2009, I, 506-507).
E’ vero che le Sezioni semplici non hanno l’obbligo di rimettere – al di là da quanto prescritto dal comma 3 dell’art. 374 c.p.c. - ogni questione controversa alle Sezioni Unite , per cui nulla impedisce sul piano formale di superare i contrasti giurisprudenziali, sorti tra i giudici di legittimità, all’interno delle sole Sezioni semplici, ed è altrettanto vero che la funzione nomofilattica può essere assolta da ciascuna Sezione anche attraverso un'unica decisione, se autorevole per esaustività e correttezza della sua motivazione (cfr. in dottrina sul punto C. M. BARONE, Dottrina delle Corti e funzione nomofilattica, in Foro it. 2013, V, 184; ed in giurisprudenza in motivazione Cass. 30 agosto 2016 n. 17407, ivi, 2016, I, 3468, secondo cui ).
Tutto ciò non ha però impedito che, in presenza di questioni rimaste a lungo controverse, la dottrina abbia evidenziato come, seppure non sia affatto nuovo il superamento di un contrasto giurisprudenziale da parte delle Sezioni semplici, tuttavia non possa sfuggire che, omettendo il passaggio alle Sezioni unite, si rischi in effetti di alimentare ulteriormente il contrasto (cfr. in questi sensi : R. RORDORF, Il precedente nella giurisprudenza, in Foro it. 2017, Parte V, 277 ss.). Rischio questo che, come opportunamente osservato, è tutt’altro che puramente teorico ( così : V. FERRARI, Dimissioni del lavoratore e disoccupazione volontaria: contrasto in giurisprudenza sulla configurabilità della giusta causa, in Foro it. 2017, I, 1688, con specifico riferimento ad una fattispecie in cui è stata rigettata dalla Sezione lavoro, con decisione nel merito, la domanda di indennità di disoccupazione di un lavoratore che si era dimesso per asma bronchiale da una allergia alle farine, che ne rendeva impossibile l’utile impiego all’interno di una panetteria).
Alla stregua, quindi, del combinato disposto degli artt. 374 e 376 c.p.c., non può negarsi che risulti doveroso, per non tradire le finalità del legislatore della novella del 2006, assegnare direttamente alle Sezioni unite tutte le questioni che, oltre ad essere di massima di particolare importanza - anche per le loro ricadute sul piano economico-sociale - includono in via pregiudiziale pure l’esame di questioni processuali di non agevole soluzione.
Con la riduzione drastica degli spazi di praticabilità delle Sezioni Unite si corre infatti, come già rimarcato, il concreto pericolo di un accrescimento del contenzioso attraverso dicta giurisprudenziali di ridotta tenuta temporale e di minore affidabilità in termini di certezza del diritto.
Né la risalente prassi della Sezione lavoro di indire Assemblee per discutere su questioni di particolare complessità sembra utile per eliminare, o quanto meno ridurre, il denunziato pericolo.
E proprio l’istituto del licenziamento per ragioni economici attesta come la suddetta prassi non risulti idonea a perseguire i fini sperati, non consentendo l’Assemblea i tempi, necessariamente non brevi, di “solitaria” riflessione sull’istituto del “repechage”, richiesti sia per quanto riguarda la problematica relativa alla sua identificazione come elemento costitutivo del giustificato motivo del licenziamento, e sia per quanto attiene alla ripartizione dell’onere della prova in tema di ricollocazione lavorativa dopo la sua reintegra del lavoratore licenziato.
E’ agevole infatti comprendere come - in presenza di tematiche suscettibili per la loro natura di essere declinate in termini politico-ideologici e/o teorico-filosofici - l’esito del loro esame in Assemblea può tradursi da utile occasione di arricchimento professionale in una contrapposizione tra differenti e rigide opzioni culturali e nella conseguente formazione di maggioranze sfocianti in scelte decisionali capaci o di incentivare i contrasti o di condizionare in qualche misura, con una eterogenesi dei fini, il naturale e libero iter formativo della giurisprudenza di legittimità.
Nell’iniziare ora l’esame sul distinto versante contenutistico della normativa riguardante il licenziamento per motivi economici si ha l’impressione di trovarsi avanti ad un terreno. già compiutamente arato e seminato, ma i cui frutti sono ancora acerbi.
In tema sono sicuramente in via di consolidamento i seguenti principi : la ragione inerente all’attività produttiva costituente il giustificato motivo oggettivo ex art. 3 l. 804 del 1966 è quella che determina un effettivo ridimensionamento riferito alle unità di personale impiegato in una ben individuata posizione lavorativa, a prescindere dalla ricorrenza di situazioni economiche sfavorevoli o di crisi aziendali ; la modifica della struttura organizzativa che legittima l’irrogazione di un licenziamento può essere colta sia nella esternalizzazione a terzi dell’attività lavorativa cui è addetto il lavoratore licenziato, sia nella ripartizione delle mansioni di questi tra più dipendenti già in forze, sia nella innovazione tecnologica che rende superfluo il suo apporto nel perseguimento della migliore efficienza gestionale o produttiva o dell’ incremento della redditività , fermo restando in ogni caso, da una parte, l’insindacabilità dei profili di congruità ed opportunità delle scelte datoriali e, dall’altra, il pieno controllo in sede giudiziaria sull’effettività e non pretestuosità della ragione concretamente addotta dall’imprenditore a giustificazione del recesso e sul nesso causale tra l’accertata ragione e l’intimato licenziamento ( in questi sensi di recente : Cass. 2 maggio 2018 n. 10435 cit. e le decisioni citate in motivazione).
L’indicato indirizzo giurisprudenziale è supportato dall’art. dell’art. 41 Cost., il cui testo non può più essere, come in passato, letto “ con gli occhiali dell’ideologia” (cfr. amplius, per quanto attiene alla sempre dominante tradizione della nostra cultura giuridica di leggere in termini ideologici la Costituzione : F. GALGANO, in F. GALGANO - S. RODOTA’, in Rapporti economici, Commentario della Costituzione a cura di G. BRANCA, Tomo II, sub art. 41, Bologna-Roma 1982, 1-68 e spec. 40-43, che in tale tradizione ha individuato la ragione per la quale è mancata una chiave unitaria di lettura dell’art. 41 Cost., ed in particolare del suo secondo comma sulla nozione di “utilità sociale” ).
La norma in esame deve ora essere invece interpretata, alla luce dell’attuale normativa europea, nel senso di un rafforzamento della libertà economica dell’imprenditore e dei suoi poteri gestionali nel senso cioè che, in un mercato sempre più globalizzato, tale libertà debba essere funzionalizzata all’efficienza produttiva delle imprese ed alle sue consequenziali ricadute positive in termini occupazionali nel mercato del lavoro ( cfr. al riguardo sul punto : G. VIDIRI, Art. 41 Cost. : licenziamento per motivi economici e “repechage” dopo il Jobs Act, in Corriere giuridico 2017, 559 e ss. ed ID., Il licenziamento per motivi economi nel “nuovo corso” del diritto del lavoro, in Lavoro,Diritti, Europa, 2017/1).
Se con riguardo al licenziamento per ragioni economici si è pervenuti ad un concreto consolidamento nei termini succintamente ora esposti, per quanto attiene invece al repechage le relative problematiche risultano allo stato avvolte da una spirale di incertezza determinata da una rivisitazione del suddetto istituto a seguito della legge Fornero e del Jobs Act..
Non si intende certo in questa sede riassumere in maniera articolata tutte le diverse tesi ed opinioni che hanno animato nel tempo il dibattito sull’istituto in esame su cui tra l’altro si è già scritto in termini esaustivi, ma si intende unicamente limitarsi ad alcune brevi considerazioni critiche su alcuni recenti dicta giurisprudenziali fortemente innovativi.
Si è sostenuto per lungo tempo che il licenziamento costituisce una estrema ratio oltre la quale non può spingersi il bilanciamento tra la libertà imprenditoriale e l’interesse del lavoratore alla conservazione del suo posto. E tale premessa si è vista come ragione fondante dell’assunto secondo cui incombe sul datore di lavoro la prova della impossibilità di adibire dopo la sua reintegra il lavoratore licenziato a mansioni differenti da quelle in precedenza svolte.
Si è al riguardo precisato che però pure il lavoratore è tenuto con una condotta collaborativa - alla stregua dei principi di correttezza e buona fede che presiedono il contratto di lavoro prima, durante e dopo il suo svolgimento - a fornire indicazioni e chiarimenti oltre che sulle posizioni lavorative in cui può, seppure in mansioni inferiori, essere utilmente occupato anche sulla sua disponibilità ad essere ricollocato in un diverso settore dell’organizzazione produttiva o in una diverso ramo o sede aziendale (sostanzialmente in questi sensi tra i molti v. : M PERSIANI, Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e obbligo di repechage, in Giur. it. 2016,1166-1167, il quale ha rilevato che “ non è ragionevole imporre al datore di lavoro una probatio diabolica” quale quella dimostrare da solo e compiutamente che, nell’ambito della sua intera organizzazione produttiva, non si rinviene alcuna possibilità di ricollocare utilmente in un posto lavorativo il dipendente licenziato).
In contrapposizione a tale indirizzo è rinvenibile una recente giurisprudenza che, ricalcando in parte un precedente minoritario orientamento, ha affermato che sul datore di lavoro grava interamente l’onere di provare tutti gli elementi integrativi del giustificato motivo oggettivo e quindi anche l’impossibilità del repechage sicché al lavoratore non può addossarsi alcun onere sostitutivo compreso quello di allegare le diverse posizioni lavorative in cui può essere utilmente ricollocato (cfr. al riguardo cfr. : Cass. 13 giugno 2016 n. 12101 e Cass. 22 marzo 2016 n. 5592 ambedue pubblicate in Riv. giur. lav. lav. e prev. soc. 2016, II, 302 ss., con nota adesiva di L. MONTEROSSI, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo e repechage : nessun onere di allegazione, le quali infatti rimarcano come - gravando sul datore di lavoro l’onere di provare ogni elemento integrativo del giustificato motivo oggettivo, e quindi anche l’impossibilità del repechage - il lavoratore risulti libero da ogni onere probatorio).
Esigenze di chiarezza portano ad evidenziare, per quanto attiene il regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo, che la legge Fornero e la normativa sul Jobs Act hanno ridotto drasticamente l’ambito applicativo della tutela forte per il lavoratore, riconoscendo la reintegra nel posto di lavoro - in relazione alla quale soltanto può configurarsi il repechage – solo in pochi e tassativi casi, laddove in tema di licenziamento è ora di generale applicazione la sanzione risarcitoria ed in posizione del tutto residuale invece la reintegra.
Nella stessa direzione non può inoltre tralasciarsi di considerare, da un lato che il repechage è una delle più formidabili “creazioni giurisprudenziali” riguardanti il rapporto di lavoro non essendo tuttora previsto da alcuna norma (in tali sensi C. PISANI, La nuova disciplina del mutamento delle mansioni, Torino 2015, 132, cui adde in generale sulla “giurisprudenza creativa” e sulla sovraesposizione del potere giudiziario su quello legislativo : G. VIDIRI, Creatività del giudice e processo del lavoro, in Riv. dir. proc. 2011, I, 1205 ss., e più di recente ID., Il c.d. “rito Fornero” : incertezza del diritto e giusto processo, ivi, 2016, 1149 ss. ); e dall’atro, che a seguito del disposto dell’art. 3 del d. lgs n. 81/2015, il lavoratore può essere ora adibito anche a mansioni inferiori purchè rientranti nella medesima categoria legale, e ciò all’evidente fine di rendere più flessibile il rapporto di lavoro anche durante la sua durata.
Condizioni queste tutte idonee a tracciare le coordinate attestanti la infondatezza del recente indirizzo nella parte in cui configura il repechage come elemento integrativo del giustificato motivo di cui all’art. 3 della legge n. 604 del 1966 al fine di addossare poi - con un uso disinvolto del disposto art. 2697 c.c. e contro il principio generale della “ragionevolezza” - sul solo datore di lavoro l’onere probatorio sulla impossibilità della utile ricollocazione del lavoratore licenziato.
Risulta invero contrario od ogni logica di coerenza ordinamentale il ritenere che una “creazione giurisprudenziale” come il repechage possa configurarsi - nell’assoluto e perdurante nonché eloquente silenzio del legislatore - quale elemento contenutistico integrativo della fattispecie di cui all’art. 3 della legge n. 604 per essere tale diposizione emanata in un epoca in cui non era prevista ancora la tutela reintegratoria dell’art. 18 stat. lav.. Per di più si finirebbe per tale via per “vivificare” un istituto “moribondo” e conseguentemente per vanificare di fatto il chiaro intento del recente legislatore di ridurre la reintegra nel posto di lavoro – istituto cui è ontologicamente collegato il repechage – a casi del tutto residuali ed – è bene ribadirlo – previsti tassativamente.
Ed ancora, non è “ragionevole” imporre, pur dopo l’entrata in vigore dell’art. 3 del d. lgs 81/2015, al solo datore di lavoro una probatio diabolica come quella di provare, che nella sua organizzazione produttiva – spesso articolata in una pluralità di rami aziendali, settori produttivi ed in una molteplicità di livelli rientranti nella stessa categoria legale - non esista alcuna possibilità di utilizzazione delle prestazioni del lavoratore licenziato (cfr. ancora sul punto M. PERSIANI, Licenziamento per giustificato motivo cit. 1166-1167, cui adde G. VIDIRI, Art. 41 Cost. cit., 671 ss., e sempre per la riduzione degli spazi di operatività dell’istituto del repechage dopo l’entrata in vigore dell’art. 3 del d. lgs n. 81 del 2015 V. MARSIGLIA, La Corte di Cassazione ritorna sull’obbligo di repechage, in Giur. it., 2016, 2199- 2201).
Per concludere, alla stregua delle argomentazioni svolte risulta privo di qualsiasi fondatezza giuridica l’indirizzo volto a far “risorgere” l’obbligo del repechage a totale carico del datore di lavoro ( così invece da ultimo Cass. 4 maggio 2018 n. 10425 cit.), dovendosi di contro dare continuità all’indirizzo per lungo tempo maggioritario che ha fatto in materia costante riferimento, oltre che al principio di “ragionevolezza”, anche ai canoni di “correttezza e buona fede”, estensibili di certo pure sul versante del diritto processuale ( per l’affermazione che anche i giuristi continentali ed i progetti di codice civile europeo sono influenzati dai canoni della “ragionevolezza” e propensi “a misurare il dovere di buona fede alla luce dello standard della ragionevolezza” v. amplius : S. PATTI, Ragionevolezza e clausole generali, Milano 2013, 22-30).
Le soluzioni in questa sede patrocinate presentano l’indubbio vantaggio di ammortizzare il pericolo, sempre incombente, che la presenza di clausole generali e di norme legislative dal contenuto indecifrabile diventino occasione propizia per risposte giudiziarie “creative” o “ideologicamente orientate”, capaci di vanificare la volontà del legislatore attraverso la formazione di indirizzi giurisprudenziali “manipolativi” del dato normativo. Vizio questo non del tutto estraneo alla nostra scienza giuridica, di leggere non soltanto la Costituzione, ma anche le leggi ordinarie, comprese quelle processuali, con .  

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