Testo Integrale con note e bibliografia

Testo della Sentenza

Premessa.
La manovra di accerchiamento al c.d. Jobs Act trova compimento con una sorta di uno-due micidiale, da leggersi da un lato in una residuale ma non indifferente parte del Decreto Dignità (d.l. 87/2018, convertito in l. 9 agosto 2018, n. 96), dall’altro nella decisione della Corte Costituzionale del settembre 2018 e da altri due interventi giurisprudenziali presupposti e conseguenti.
E in effetti l’art. 3, c. 1, del d.l. 87/2018 prevede che “All'articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, le parole «non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità» sono sostituite dalle seguenti: «non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità». In modo molto secco e diretto, cioè, il legislatore modifica quanto già previsto nel d.lgs. 23/2015 (c.d. Jobs Act sul contratto a tutele crescenti) in senso favorevole al lavoratore.
A stretto giro la Corte costituzionale, con una sentenza della quale viene dato annuncio con un comunicato stampa sul quale la dottrina comincia necessariamente a riflettere, ma quasi al buio (C. Cost. 26 settembre 2018, rel. Sciarra).
Nonostante l’oscurità, infine un Tribunale (Trib. Bari, 11/10/2018) ha già provveduto ad intervenire “divinando” quanto sarebbe stato scritto nella motivazione della Corte, forse esagerando in tale attività propiziatoria.
1. Decreto “Dignità” e nuova quantificazione della tutela.
Vediamo in primo luogo quanto ha inciso il legislatore dell’estate 2018: sebbene si tratti di un intervento in fondo minimalistico relativo al quantum dell’indennità riconoscibile al lavoratore, ciò che maggiormente interessa in questa sede è anzitutto la linea di politica del diritto. Che è evidente. Il licenziamento illegittimo, a suo tempo “sdoganato” attraverso la previsione della possibilità, per il datore di lavoro, di sfuggire alla reintegrazione rifugiandosi in un regime meramente indennitario ed economico, deve essere più incisivamente sanzionato; e stanti le difficoltà di reintrodurre, appunto, il precedente strumentario reintegratorio altro non si poteva fare che incidere sul numero delle mensilità sulle quali poi il giudice svolgerà la propria attività quantificatoria.
2. Comunicato stampa vs sentenza.
Quale secondo atto dell’accerchiamento di cui in premessa, con il comunicato stampa del 26 settembre 2018, la Corte Costituzionale ha anticipato quanto deciso con una sentenza del precedente 25 settembre 2018 poi pubblicata l’8 novembre 2018, pronunciandosi sulla questione di legittimità costituzionale del c.d. Jobs Act (disciplina delle cosiddette “tutele crescenti”, in realtà di una sua limitata parte) sollevata dal Tribunale del Lavoro di Roma.
Con tale sentenza, la Corte ha dichiarato, almeno a stare inizialmente al comunicato stampa, sulla cui efficacia giuridica si potrebbe discutere, l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del D.lgs. 23/2015 nella parte in cui prevedeva che il computo dell’indennità per i casi di licenziamento ingiustificato (assenza di un motivo soggettivo o oggettivo, ovvero della giusta causa) dovesse avvenire sulla base della retribuzione globale di fatto ed essere quantificata in considerazione della mera anzianità di servizio maturata dal lavoratore: 2 mensilità per ogni anno di anzianità.
3. Breve storia della disciplina limitativa e risarcitoria.
Per comprendere la portata della decisione occorre tuttavia da un lato ricordare che l’intervento correttivo del D.lgs. 23/2015 traeva origine dal bisogno, esplicitamente dichiarato, di limitare la discrezionalità della magistratura nella determinazione anche della misura del risarcimento previsto in caso di licenziamento illegittimo e, allo stesso tempo, garantire alle imprese la possibilità di calcolare preventivamente, in termini di ragionevole certezza, l’ipotetico “costo” da sostenere per il caso in cui un licenziamento operato fosse stato impugnato in giudizio; dall’altro lato valutare appieno le motivazioni della decisione medesima, conosciute solo in un secondo momento.
Il tentativo di limitare la discrezionalità del Giudice in materia storicamente derivava da una sorta di aporia (evidentemente voluta e consapevole) presente nell’ordinamento sin dal 1970, che consentiva allo stesso, investito della soluzione del caso concreto, non solo di valutare unicamente, tramite un giudizio di proporzionalità, se il licenziamento poteva dirsi sorretto da giusta causa o giustificato motivo (soggettivo o oggettivo, a seconda dei casi), ma altresì di disporre la reintegrazione in servizio, che avrebbe consentito il ripristino del rapporto sin dalla data di illegittima cessazione, accollando evidentemente al datore di lavoro tutti gli oneri derivanti dalla durata del processo.
A seguito della modifica dell’art. 18 Stat. lav. ad opera della l. 92/2012 (c.d. riforma “Fornero”) una formulazione delle norme non sempre chiara, se non addirittura ambigua, ha però arricchito l’insopprimibile ruolo interpretativo, se non correttivo, della magistratura. L’intervento riformatore, nel modulare le sanzioni applicabili al licenziamento illegittimo a seconda della gravità della violazione datoriale riscontrata, nel tentativo costante di limitare gli spazi interpretativi della magistratura specie nella valutazione di proporzionalità tra sanzione e comportamento, ha paradossalmente finito per ampliare lo spettro delle tecniche di motivazione delle decisioni e i conseguenti spiragli attraverso cui applicare la reintegrazione.
Inoltre, lo stesso provvedimento legislativo, nel delineare la possibilità per il giudice di condannare il datore di lavoro ad un’indennità risarcitoria fissata in misura variabile tra un minimo e un massimo (con specifica motivazione), sulla scia di quanto già previsto per le piccole imprese dall’art. 8, l. 604/1966 e per i dirigenti dai relativi contratti collettivi di categoria, ha finito per favorire e legittimare soluzioni ancorate alle peculiarità del caso concreto che rendevano difficile, anche in ragione dell’assenza di orientamenti costanti nel tempo, immaginare a priori la misura dell’indennità da “accantonare” da parte dei datori di lavoro. Conclusione, questa, dotata di una innegabile ironia, se solo si pensa che uno degli aspetti più significativi delle innovazioni contenute nelle riforme ora citate consisteva proprio nell’avere portato a compimento quella linea di politica del diritto che intendeva sottrarre alla discrezionalità interpretativa dell’organo giudicante la funzione tipica di tutela dei diritti e di mediazione dei conflitti in uno dei punti più sensibili della nostra materia, vale a dire la protezione del lavoratore di fronte al licenziamento illegittimo.
Non a caso, a pochi anni di distanza, a seguito dell’introduzione del D.lgs. 23/2015, la determinazione dell’indennità viene immediatamente modificata non tanto in relazione alla misura quantitativa, quanto al criterio di applicazione, che viene ancorato ad un dato formale e privo di spazi interpretativi: l’anzianità di servizio. Un criterio destinato a rimanere in vigore anche a fronte dell’emanazione del Decreto dignità, che ha infatti compiuto una mera operazione di maquillage sul D.lgs. 23/2015 esclusivamente in relazione al quantum degli indennizzi, aumentati di 2 mesi nel minimo e di 12 nel massimo (complessivamente, dunque, da 6 a 36 mesi), peraltro attraverso un meccanismo di calcolo che sostanzialmente inizierebbe ad operare solo dal 2027 (il massimo di 36 mensilità sarebbe stato raggiunto addirittura solo a partire dal 2033).
4. L’ordinanza del Tribunale di Roma.
Tra i due interventi legislativi si colloca l’ordinanza di rimessione del Tribunale di Roma che, sulla scorta di un orientamento dottrinale, ha rimesso alla Corte Costituzionale, tra le altre, la questione relativa alla compatibilità con gli artt. 3, 4, 35, 76 e 117 Cost. di un sistema di determinazione dell’indennità attenuato e, soprattutto, dotato di un carattere “automatico”.
L’ordinanza di rimessione, invero - oltre a sollevare dubbi in merito alla discriminazione tra neo assunti e vecchi assunti in base al solo “dato accidentale” relativo alla data di assunzione a fronte di licenziamenti intimati per un medesimo fatto e alla compatibilità con l’ordinamento costituzionale di una norma che avrebbe finito con l’incentivare i datori di lavoro a porre condotte speculative fondate su un ipotetico c.d. firing cost - censura la novella del 2015 proprio nella parte in cui essa elideva in toto la discrezionalità valutativa del giudice, con la conseguenza che si finiva così per “disciplinare in modo uniforme casi molto dissimili tra loro”: mentre infatti una tutela efficace contro i licenziamenti deve mirare a proteggere “le libertà fondamentali di lavoratrici e lavoratori nei luoghi di lavoro: la libertà di espressione e di dissenso, la difesa della dignità, quando questa sia minacciata da superiori e da colleghi, la difesa e pretesa dei propri diritti, la possibilità di attivarsi sindacalmente se lo si desidera, ecc.”, il “sistema del”Jobs Act”e in particolare la quantificazione dell’indennità in discorso è, al contrario, costruito su una”consapevole rottura” del principio di uguaglianza e solidarietà nei luoghi di lavoro che non può non spiegare i propri effetti sugli altri diritti dei lavoratori costituzionalmente tutelati (libertà sindacale, libertà di espressione).
È proprio su quest’ultimo punto che – per generalia - risultava all’inizio essere intervenuta la Consulta, statuendo, a dire del comunicato stampa, che “la previsione di un’indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore è, secondo la Corte, contraria ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza e contrasta con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli articoli 4 e 35 della Costituzione”. In proposito vedremo con maggiore attenzione la argomentazione della decisione, ma è stato fin dall’inizio chiaro che la dichiarata inammissibilità ed infondatezza delle altre questioni di legittimità dovrebbe evitare ogni intervento sulla misura dei limiti massimi e minimi, originariamente previsti dalla normativa e modificati dal Decreto “Dignità”, i quali peraltro rappresentano comunque la nuova cornice entro cui il giudice dovrà individuare l’indennizzo in ipotesi di licenziamento illegittimo. Un tema, questo, comunque non di poco conto, se solo si pensa agli effetti che la caducazione sic et simpliciter della norma avrebbe potuto determinare sui licenziamenti già irrogati e sui contenziosi pendenti.
Circa il recuperato e a questo punto insopprimibile ruolo interpretativo riservato alla magistratura, a qualcuno è quindi tornato alla mente l’adagio dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur. Ma in realtà la decisione della Corte, come subito si vedrà, dixit minus quam voluit.
5. Segue: i diversi profili di censura.
Delle diverse censure poste dalla ordinanza del Tribunale di Roma, relative a norme differenti e sotto diversi profili (art. 3, c. 1, 1, c. 7 legge delega, con riguardo ai licenziamenti economici e al diritto europeo e internazionale; lavoratori e in particolare dirigenti - ma per il passato tale questione è stata pacificamente ignorata - assunti dopo il d.lgs. 23/2015; assenza di una tutela compensativa del pregiudizio “reale” subito) e a prescindere da problemi più processuali che sostanziali (intervento avanti alla Corte della Cgil, e conseguente problematica inerente agli interessi collettivi e di categoria e alla loro tutela, anche sub specie di reclamo al Comitato sociale UE), appare evidente come l’attenzione della Corte e dell’estensore si sia soffermata principalmente, se non esclusivamente, su due punti essenziali: la violazione dell’art. 3 Cost., ma nel duplice senso della esclusione della tutela pregressa per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 e della preclusione di qualsivoglia discrezionalità valutativa del Giudice: ed è questo, a nostro avviso, il dark side of the moon della sentenza, quello cioè che ha alfine guidato il processo valutativo del giudice costituzionale. E in realtà esso pare a noi lo strumento per raggiungere l’obiettivo ultimo, inconfessabile ma già palese nella ordinanza, che è quello di garantire la “adeguatezza del risarcimento”, che a seguito del c.d. Decreto “Dignità” appare a molti ravvisabile di regola nel limite massimo previsto (36 mensilità); ciò che appunto, presumibilmente e stando ai primi segnali ricevuti dagli operatori, sarà ciò che avverrà concretamente.
La precedente indennità, pre-fissata né più né meno di quanto avveniva nel vigore della reintegrazione di cui all’art. 18, nella sua versione originaria, viene infatti riparametrata dal legislatore dal punto di vista quantitativo (da 4 e 24 a 6 e 36) ma, a nostro avviso, dal giudice delle leggi, anche qualitativo. Non a caso emerge nella motivazione della ordinanza un richiamo all’istituto del c.d. risarcimento danno punitivo, nel senso di una funzione (anche) “di deterrenza e sanzionatoria del responsabile civile”; un tema, questo, sempre non a caso affrontato dalla dottrina più recente e attenta a tali profili.
Ma come anticipato la ordinanza del Tribunale di Roma solleva il dubbio di incostituzionalità anche per contrasto con gli artt. 4 e 35 Cost., e ancora 76 e 117.
Su questo ultimo punto si è già espressa parte della dottrina, con la quale riteniamo di poter concordare, circa la scarsa rilevanza del possibile contrasto del quantum di tutela con i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dai trattati internazionali. In particolare vengono menzionati il consueto art. 30 della Carta di Nizza, la Convenzione Oil n. 158/1982 e l’art. 24 della Carta sociale europea. Ma si arriva altresì a richiamare, da questo ultimo punto di vista, le decisioni del Comitato Europeo dei diritti sociali (Ceds), comitato di esperti con un ruolo ben delimitato di sollecitazione, al più, del Comitato dei Ministri. E a nulla vale, a nostro avviso, richiamare quanto previsto nella legge delega n. 183/2014 a proposito del rinvio alla regolazione dell’Unione europea e delle Convenzioni internazionali, sul semplice presupposto, ricordato da taluni, che la questione di costituzionalità riguarda, e non può essere altrimenti, il decreto attuativo ovvero, come puntualmente osservato, l’intero quadro normativo, dato dalla legge delega e dal decreto legislativo nel loro insieme.
Quanto al contrasto con gli artt. 4 e 35, l’ordinanza richiama un profilo di incostituzionalità attinente alla stessa ratio del diritto del lavoro o meglio ancora del diritto al lavoro, che trova appunto nell’art. 4 della nostra carta costituzionale pieno riconoscimento, certo come norma programmatica e non self executing, stando alle consolidate prese di posizione di giurisprudenza e dottrina.
In effetti, se è vero che la tutela (quantitativa, perché non si discute, come detto, della legittimità del superamento della logica reintegratoria) nei confronti del licenziamento individuale può incidere anche sulle libertà dei lavoratori e delle lavoratrici nei luoghi di lavoro, va rilevato come la nuova prospettiva accolta dal legislatore da un lato non sembra ripristinare, come invece riferito dal giudice rimettente, una libertà assoluta di licenziamento; dall’altro risulta al contrario strumentale ad una diversa logica, sempre rientrante nel principio espresso nell’art. 4 e anche nell’art. 35 Cost., di favorire in tal modo una espansione dell’occupazione, con particolare riferimento a giovani e donne, in una con la maggiore attrattività nei confronti di investimenti esteri (del quale era avvisata, si ricordi, anche la legislazione del 2012) e una riduzione della imprevedibilità del c.d. firing cost, sul quale tuttavia conserviamo alcune riserve su cui si tornerà in chiusura.
Tale aspetto, come rilevato dalla dottrina, si appalesa proprio riguardando più strettamente la fattispecie da cui ha tratto le mosse l’eccezione di incostituzionalità; laddove in effetti appare anche a nostro avviso eccessivo ritenere non adeguatamente compensativa una indennità che si salda ad un successivo trattamento di sostegno al reddito e ad un rilevante aggravamento dei costi contributivi aggiuntivi. Pensiamo all’applicazione di una simile soluzione con riguardo a imprese medio-piccole, alle quali certo non si può imputare, men che meno in chiave di valutazione di legittimità della norma di legge, comportamenti di legittimo utilizzo di previsioni di legge decontributive.
5. E poi….la Corte costituzionale.
Con una ponderosa e puntuale decisione la Corte Costituzionale accoglie dunque la questione sollevata dal Tribunale di Roma e dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, anche nel testo modificato dall’art. 3, comma 1, del decreto legge 12 luglio 2018, n. 87, limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto”.
Ma come avvisato supra la Corte aveva provveduto, il giorno successivo alla decisione, a pubblicare un comunicato stampa nel quale anticipava quanto si sarebbe letto solo dopo più di un mese, adeguandosi, pare anche dal punto di vista “organizzativo” alle “primarie” esigenze della “comunicazione” (confermato dalla pubblicazione di un secondo Comunicato stampa dell’8 novembre 2018, che "sintetizza" la sentenza probabilmente ritenendola di difficile o ardua lettura e comprensione: una sorta di interpretazione autentica sui generis sulla quale non è il caso di soffermarsi).
E, come anticipato, un giudice di merito non si è fatto sfuggire l’occasione di decidere una controversia sulla base, appunto, di una sentenza annunciata, in senso comunicativo, ma non ancora motivata e dunque “pubblica”. Un primo dubbio riguarda la stessa “esistenza” giuridica della sentenza n. 194/2018; della quale potrà parlarsi, ci pare, solo dopo la “pubblicazione” in Gazzetta Ufficiale. Ciò nonostante il Tribunale di Bari, con sentenza del 11 ottobre 2018, accoglie la domanda presentata da un lavoratore licenziato in base all’art. 4 della legge n. 223/1991 (e dunque in una procedura di licenziamento collettivo, peraltro emerso nella sentenza del giudice rimettente ma non ripreso dalla Corte costituzionale).
La decisione tratta dettagliatamente molti aspetti e anche i precedenti orientamenti in tema di licenziamenti per riduzione del personale nonché le conseguenze derivanti dall’inosservanza delle norme di cui agli artt. 4, comma 3 e 4, comma 9 della legge n. 223/1991, richiamate dal ricorrente, riservando invece solo poche righe per dare atto della sentenza della Corte costituzionale (in quel momento non pubblicata ma comunicata, ciò che forse oggi vale ancor più….) e del fatto che, a dire della Corte, “la previsione di un’indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore è (…) contraria ai principi dei ragionevolezza e uguaglianza e contrasta con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli articoli 4 e 35 della Costituzione”.
Pur consapevole dei limiti temporali di disapplicazione delle norme dichiarate incostituzionali il giudice decide però di addivenire ad una interpretazione costituzionalmente orientata della norma considerata. Una decisione che lascia, a nostro avviso, il tempo che trova: appunto quello spazio breve che va dal 1 ottobre 2018, data di deposito della sentenza, e 8 novembre 2018, data di “pubblicazione” della sentenza del Giudice costituzionale.
Venendo invece al corpus di quest’ultima, e dato atto, per quanto interessa, che l’udienza si è svolta in composizione leggermente parziale, il primo scrupolo della Corte è quello, procedurale, di confermare l’inammissibilità dell’intervento spiegato dalla Confederazione generale italiana del lavoro (Cgil), da cui deriva una breve ordinanza allegata in calce alla sentenza. Dipoi viene dato atto dell’entrata in vigore, nelle more della decisione della Corte, del citato decreto legge 12 luglio 2018, n. 87, c.d. Dignità (e onestamente tale termine stride con i contenuti e ancor più con altri provvedimenti in itinere che ad esso si richiamano; ma questa è, come si dice, un’altra storia).
Così facendo la Corte conferma quanto abbiamo avuto modo di segnalare in apertura, ovvero che non è in discussione il quantum dell’indennità, bensì il suo meccanismo di definizione e, dunque, il senso stesso della riforma del 2015, con particolare se non esclusivo riguardo alla preclusa “discrezionalità valutativa del giudice”.
Ma la Corte correttamente e coerentemente sottolinea altresì la rilevanza, anche ai fini della decisione presa, della fattispecie concreta da cui si dipana l’ordinanza e, quindi, il procedimento costituzionale. In effetti il ricorrente nel giudizio di merito aveva sollevato profili non raccolti dal giudice a quo ma forse utili a comprendere il ragionamento stesso della Corte: si fa riferimento alla presunta ratio della normativa del 2015 di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro”; ma soprattutto si evidenzia in qualche misura che il percorso decisorio del giudice rimettente, in fondo, avrebbe potuto essere diverso, se ad esempio fosse stata dedotta la nullità del licenziamento per frode alla legge (sugli incentivi) o per motivo illecito, considerato lo svolgimento della vicenda e il comportamento delle parti, come pure qualcuno ha ritenuto.
Successivamente si sgombra il campo da tutti i profili di incostituzionalità ad eccezione di quelli in definitiva accolti, e in particolare quelli riguardanti l’art. 2, l’art. 3, comma 3 e l’art. 4 del d.lgs. 23/2015 ma pure l’art. 1, comma 7, lettera c) della legge delega 183/2014, in chiave di eccesso di delega ma ancor più di incoerenza con la regolazione Europea e le convenzioni internazionali. Solo l’art. 3, comma 1, dunque, viene in giuoco nel giudizio di costituzionalità escludendosi altresì e correttamente il rilievo di una convenzione, n. 158/1982, mai ratificata dal nostro paese.
Dunque, e andando per ordine, ad avviso della Corte l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/2918 non viola il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. per dare diversa, e deteriore, disciplina di tutela ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015. La Corte conferma cioè la piena discrezionalità del legislatore nel prevedere trattamenti differenziati per fattispecie uguali ma in momenti diversi, nel rispetto del canone della ragionevolezza, non violato, come invece ritiene il giudice rimettente parlando di data di assunzione come “dato accidentale”, alla luce dello “scopo occupazionale” dichiarato e perseguito dal legislatore del 2015. Le stesse, ancor più facili, conclusioni vengono raggiunte con riguardo alla presunta violazione dei principi di uguaglianza nei confronti dei lavoratori privi di qualifica dirigenziale. E ancora non fondata è ritenuta la prima delle questioni sollevate con riguardo agli artt. 76 117, comma 1, Cost., per il tramite del parametro di cui all’usuale, verrebbe da dire, art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Fondate sono ritenute dalla Corte, invece, le questioni relative alla incostituzionalità dell’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015, nei confronti degli artt. 3, 4, comma 1, 35, comma 1, e 76 e 117 Cost.
In effetti, sostiene la Corte, si è affermato nel tempo un indirizzo di progressiva garanzia del diritto al lavoro di cui agli arttt. 4 e 35 Cost., sfociante da un lato nella obbligatoria giustificazione dei licenziamenti e dall’altra nella conseguente tutela avverso i licenziamenti illegittimi. Il tutto per riequilibrare il forte coinvolgimento della persona umana nel rapporto di lavoro, coinvolgimento che caratterizza appunto il contratto di lavoro tra i contratti di durata.
E’ pur vero che la stessa Corte aveva già ritenuto che il legislatore poteva stabilire, nella sua discrezionalità, un qualsivoglia regime di tutela, eventualmente anche solo monetario, ma anche questo nell’ambito di un principio di ragionevolezza.
Si arriva dunque al cuore della motivazione della Corte costituzionale, che si ritiene di individuare nel paragrafo 10 della stessa. Laddove essa ritiene altresì di dover sottoporre a scrutinio complessivo l’intero art. 3, comma 1, del d.lgs. e ricorda che sebbene legittimo, in quanto previsto dal legislatore nella sua discrezionalità, l’atto di licenziamento, pure efficace, costituisce un atto illecito, accogliendosi così parte delle osservazioni della dottrina. Atto illecito che consegue alla perdurante efficacia degli artt. 2119 c.c. da un lato e dell’art. 1 della legge n. 604/1966.
A fronte di ciò l’indennità/risarcimento risulta stabilita dal legislatore nella misura di 2 mensilità per ogni anno di servizio, con limiti a loro volta predefiniti verso il basso e verso l’alto. Ciò facendo il legislatore stabilisce una “liquidazione legale forfettizzata e standardizzata” del danno da estromissione del lavoratore e a dire della Corte “predetermina compiutamente le conseguenze del licenziamento illegittimo”; cosa che in sé non appare eversiva ed anzi risponde a quanto sopra riferito. Secondo la Corte invece è proprio questo che si pone in contrasto con il principio di uguaglianza sub specie di “ingiustificata omologazione di situazioni diverse”. Un risarcimento dunque uniforme per tutti i lavoratori con la stessa anzianità ma che non tiene conto di altri fattori che, in altre occasioni, il legislatore ha ritenuto di utilizzare (numero dei dipendenti, dimensioni dell’impresa, comportamento e condizioni delle parti); anche, ad esempio nell’art. 18, comma 5, della legge n. 300/1970, sostituito dalla legge n. 92/2012 ove si determina comunque un minimo e un massimo.
Ma soprattutto, secondo i giudici costituzionali, è qui che emerge il significato e quasi la rivendicazione della discrezionalità del giudice.
Ma se anche si sposasse la linea seguita dalla Corte, ovvero quella per la quale la discrezionalità del giudice dovrebbe riemergere nei confronti dei criteri che “altri” provvedimenti legislativi avevano introdotto, in “altre” situazioni, e tale conclusione intaccherebbe il lavoratore in un momento traumatico, rimarrebbe aperto il problema che i giudici chiamano “personalizzazione” del danno subito dal lavoratore medesimo. Se, cioè, si ritenesse che la disposizione rimessa alla Corte non è in grado di prevedere un adeguato ristoro del concreto pregiudizio né di porre una adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente (ma efficacemente). Come potrebbero trovare applicazione i criteri ulteriori dei quali si è occupata la normativa pregressa e che sopra si sono ricordati? Soprattutto alla luce della apodittica, e non pienamente comprensibile, affermazione per la quale tale normativa non realizza un equilibrato componimento tra “la libertà di organizzazione dell’impresa e la tutela del lavoratore ingiustamente licenziato.
Se tale argomentazione non fosse sufficiente la Corte, infine, riprende i riferimenti agli artt. 4, comma 1 e 35 comma 1 Cost., ma anche 76 e 117, comma 1, pure posta dal giudice rimettente a corollario rispetto al vizio di cui all’art. 3 Cost. E fa questo recuperando quanto deciso dal Comitato europeo dei diritti sociali: richiamo a nostro avviso ultroneo e in fondo già accantonato precedentemente dal giudice rimettente e dalla stessa Corte.
Ne rimane un’impressione, già in qualche misura anticipata: quella per la quale se possiamo condividere la scelta della Corte con riguardo ai limiti opponibili alla soluzione del legislatore del 2015, quantomeno con riguardo alla previsione di un’indennità fissa, omogenea ed esclusivamente legata all’anzianità di servizio, non appare altrettanto accoglibile il vero messaggio quasi ecumenico che la Corte sembra affidare a tale decisione, meno concreto e più politico: quello per il quale va riaffermata una piena discrezionalità del giudice anche di fronte di scelte in di per sé legittime del legislatore. Se è vero che il grido di dolore della Corte riguarda in questo caso una fattispecie precisa e sensibile quale il momento del licenziamento del lavoratore subordinato, ci si augura che esso non costituisca invece una chiamata generale alle armi in tal senso. Sebbene proprio il legislatore più recente, forse, sarebbe un ottimo destinatario di un richiamo alla serietà nella previsione di discipline in materia di lavoro tanto estemporanee quanto foriere di improvvide conseguenze.

 

 

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