Testo integrale con note e bibliografia

Presenta profili di eminente rilievo, meritevoli di alcune riflessioni, la sentenza n.277/2020 emessa dalla Corte d’Appello di Palermo, Sezione Lavoro (pres. Dott. Michele De Maria; rel. Dott.ssa Cinzia Alcamo) in sede di reclamo Legge 92/2012. I Giudici di secondo grado hanno riformato quanto sancito dal Tribunale del capoluogo siciliano (Tribunale di Palermo, Sez. Lavoro, ordinanza n.44162/2018; Dott.ssa Paola Marino; Tribunale di Palermo, Sez. Lavoro, sentenza n. 2723/2019, Dott.ssa Paola Marino) in tema di legittimità di licenziamento per giusta causa del responsabile del personale di un ente.
La Corte d’Appello con una ricostruzione minuziosa dei fatti ha ribaltato gli assunti e i rimedi prospettati dal Tribunale concludendo per la piena legittimità del licenziamento disciplinare.
Prima della disamina dei punti peculiari e fondanti del giudizio, è opportuno esporre i fatti, come ricavabili dalla sentenza.
A seguito della segnalazione di una lavoratrice e dei risultati di un’indagine interna avviata per l’accertamento dei fatti, al capo del personale di un ente era stato intimato licenziamento per giusta causa per violazione delle disposizioni previste dalla contrattazione collettiva di settore nonché dal Codice Etico dell’ente. I comportamenti posti in essere dal ricorrente avevano avuto una valenza offensiva e umiliante, anche in considerazione del ruolo da lui rivestito nell’organizzazione lavorativa. Il capo del personale aveva dato una “pacca sul sedere” di una lavoratrice. Nel corso dell’indagine interna, era altresì emerso che il ricorrente, si era reso protagonista di un’analoga vicenda nei confronti di un’altra lavoratrice, in specie il capo del personale aveva rivolto commenti sul “sedere” di una dipendente.
Il Tribunale di Palermo al quale si era rivolto il responsabile del personale per opporsi al licenziamento disciplinare intimato dall’ente, aveva ritenuto illegittimo il licenziamento per l’insussistenza della qualificazione giuridica dei fatti contestati, escludendo la configurabilità di atti lesivi nei confronti delle lavoratrici, sia sul piano personale che professionale.
Nella sua decisione, il Tribunale aveva sostenuto che gli accadimenti non erano da classificarsi quale “molestia sessuale” né come “molestia generica” (peraltro, nella contestazione disciplinare non c’era addebito di siffatte specie), né aveva ricondotto i fatti nell’alveo degli atteggiamenti “umilianti” o “discriminatori”. Il Tribunale, piuttosto, aveva riconosciuto nei gesti e nei toni usati, una “natura cameratesca e scherzosa” tale da non configurarsi come apprezzabile sotto il profilo disciplinare.
All’esito del giudizio, il Giudice annullava il licenziamento e disponeva la reintegrazione del ricorrente. In sede di giudizio di opposizione, veniva confermata la pronuncia resa nella fase sommaria.
L’ente presentava reclamo per la riforma della decisione, contestando l’erronea ricostruzione ed interpretazione dei fatti.
La pronuncia della Corte d’Appello pone un elemento granitico che sgombra il campo da ogni travisamento. Afferma la Corte che la “pacca sul sedere” di una dipendente nonché i commenti volgari rivolti ad un’altra lavoratrice, non sono ascrivibili ad un gesto “scherzoso”, “goliardico” o “cameratesco”, come valutato dal Tribunale, ma sono manifestazioni di una condotta di rilevanza giuridica per la natura oggettivamente offensiva e umiliante di quel gesto e di quelle espressioni irrispettose della dignità e della professionalità delle lavoratrici. Condotta ancor più gravata dall’essere perpetrata da parte di un responsabile dell’ufficio del personale e, dunque, stimabile nel perimetro dei rapporti tra chi nell’organizzazione lavorativa esercita un ruolo apicale e tutti gli altri dipendenti.
Il capo del personale ha violato gli obblighi correlati al rapporto fiduciario e di correttezza instaurato con il datore di lavoro e, al contempo, proprio in forza della posizione professionale rivestita, ha generato disvalore sociale e morale nell’ambito dell’organizzazione lavorativa. Elementi, quest’ultimi, di particolare pregio nel legittimare il licenziamento per giusta causa e sui quali la Corte ha anche fondato il suo convincimento.
Poniamo sotto la lente d’ingrandimento quello che è stato il ragionamento logico-giuridico delle questioni poste a fondamento della decisione della Corte.
E’ stato premesso ed accertato che la contestazione disciplinare e il licenziamento per giusta causa sono stati intimati dall’ente in ottemperanza alle disposizioni contrattuali previste nel CCNL di settore e in osservanza delle norme contenute nel Codice Etico dell’ente stesso. Ma nel vaglio della legittimità della giusta causa di licenziamento, i Giudici hanno anche considerato le singole condotte “in quanto lesive di beni, in particolare diritti della persona che costituiscono pilastri fondativi della civile convivenza e dell’ordinamento costituzionale”. E’ acclarato che il capo del personale abbia messo in atto un comportamento di gravità tale da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario con il datore di lavoro. E con altrettanta evidenza, i fatti concreti posti in suo capo hanno reso pregiudizievole la prosecuzione del rapporto di lavoro.
Ma l’analisi del fatto contestato compiuta in sede di giudizio dalla Corte d’Appello si è spinta oltre i confini del “fatto materiale” pur rilevandone l’illiceità. Valutate le ipotesi delle violazioni così come contemplate dal contratto collettivo di categoria e dal Codice Etico dell’ente che, nella loro valenza esemplificativa, sono riconducibili al caso de quo, la Corte ha indicato che la giusta causa di licenziamento è sussistente anche a fronte di un comportamento gravissimo del lavoratore che sia contrario alle regole del buon vivere civile. Un punto questo che s’incardina in analoghi orientamenti giurisprudenziali (ex plurimis Cass., Sez. lavoro, n.30695/2018). Un licenziamento per giusta causa, lo si ricava dal tenore della sentenza, tiene conto anche del sistema di valori che si può trarre dalle previsioni disciplinari del Codice Etico applicato.
Or dunque, in un’interpretazione estensiva, si potrà asserire che, a prescindere anche dall’esemplificazione del Codice Etico, nel caso di specie, la condotta del dipendente licenziato è contraria alle regole di comune e civile convivenza, riconducibile alla nozione del cd. “minimo etico”.
Le argomentazioni della Corte d’Appello “conducono a conclusioni di segno opposto a quello espresso dal Tribunale, convergenti nel senso della sussistenza della causa del recesso”, si legge nella sentenza. Non sono state rinvenute attenuanti nella condotta del ricorrente, peraltro suffragata anche dall’audizione delle testimonianze acquisite in sede processuale. L’appellarsi come ha insistito il capo del personale a “rapporti scherzosi”, avvalorati dal Tribunale, per la Corte d’Appello non trova alcuna corrispondenza nella narrazione dei fatti, come emersi anche dalle prove testimoniali.
Le motivazioni addotte dal ricorrente non hanno convinto i Giudici che le hanno censurate rincanalando la lettura dei fatti su quello che è il punto focale della vicenda e, cioè, i rapporti tra il capo del personale e le lavoratrici offese. I rapporti (come ammesso da entrambe le parti in causa) sono sempre stati improntati alla formalità e contraddistinti da assenza di confidenza. “Non erano camerati volontariamente inclini ad intrattenere uno scherzo ‘pesante’ - scrivono i Giudici con un linguaggio efficacemente rappresentativo – bensì un Capo del personale […] e due sottordinate” le quali gli si rivolgevano usando il “lei” e “con il rispetto dovuto ad un soggetto di posizione di superiorità gerarchica”.
Il capo del personale dell’ente non ha interpretato i suoi obblighi in maniera confacente al ruolo ricoperto. Invece, il superiore gerarchico proprio in considerazione del ruolo che ricopriva avrebbe dovuto adottare una condotta avveduta e rispettosa nell’ambito di un fisiologico e corretto svolgimento dei rapporti di lavoro così come avrebbe dovuto adeguare le sue azioni al contesto in cui operava. Sono queste le medesime violazioni contestate disciplinarmente dall’ente che ha evidenziato i comportamenti di controparte di portata “offensiva ed umiliante, resi ancor più gravi in considerazione del sovraordinato ruolo di capo ufficio del personale”, un soggetto che per le funzioni rivestite avrebbe dovuto essere garante della concreta applicazione delle norme e dei principi contemplati dal CCNL e dal Codice Etico.
Seppur l’orientamento del Tribunale e quello della Corte si collochino nel più ampio dibattito della dottrina e della giurisprudenza che, con una certa vigoria, ha tenuto impegnati Tribunali e Corti sul punto dirimente della nozione di “fatto materiale” e su quella di “fatto giuridico” è da porre in evidenza che il Tribunale ha ridimensionato la qualificazione giuridica dei fatti così come addebitati dall’ente nella sua contestazione disciplinare introducendo, ai fini della legittimità della sanzione, il requisito della corretta qualificazione giuridica del fatto contestato non previsto dalla legge e dalla contrattazione collettiva né richiesto in giurisprudenza. Così la Corte: “I fatti dedotti in addebito andavano, dunque, valutati esclusivamente per il loro obiettivo disvalore sociale”.
Sul punto dell’irrilevanza della qualificazione giuridica del fatto contestato si è a più riprese pronunciata la Suprema Corte. In specie, Cass., Sez. lavoro n.2289/2019, la contestazione è stata ritenuta “rispettosa del canone di specificità” evidenziando la non necessarietà che “la lettera di contestazione contenesse oltre che la descrizione della condotta addebitata nei suoi termini fattuali anche la qualificazione giuridica di tale condotta”. In tal senso, anche Cass., Sez. Lav. n.7277/2011: “è pacifico che la contestazione disciplinare è specifica quando sono fornite le indicazioni fattuali necessarie ed essenziali per individuare nella sua materialità il fatto o i fatti disciplinarmente rilevanti, indipendentemente dalle qualificazioni giuridiche”.
La Corte ha apprezzato le difese dell’ente ribadendo anche (e più volte), nel suo excursus argomentativo, la condotta offensiva perpetrata dal capo del personale nei confronti delle lavoratrici. Un rilievo (di peso non soltanto sul piano giuridico, ma anche per quanto impatta nell’organizzazione del lavoro) che si salda alla mancata corretta interpretazione del ruolo apicale ricoperto e all’assenza di responsabilità riverberate sul rapporto fiduciario che lo legava al datore di lavoro.
Quanto poi, alla necessaria valutazione della proporzionalità del licenziamento per giusta causa rispetto alla gravità dei fatti accaduti, la Corte ne ha ravvisato la gravità di rilevanza disciplinare connessa alla manifesta contrarietà agli obblighi contrattuali, nonché la grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro quale quello fiduciario. La Corte ha accertato la sussistenza della giusta causa di licenziamento valutando l’incidenza del rapporto fiduciario violato dal ricorrente e in relazione “alle esigenze poste dall’organizzazione produttiva e delle finalità delle regole di disciplina postulate da detta organizzazione”.
Per il giudizio sulla gravità dell’inadempimento posto in essere dal capo del personale, ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, merita anche richiamare l’orientamento di Cass., Sez. Lavoro, n.7860/2019: “rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento, denotando scarsa inclinazione all'attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza”.
Le pronunce qui oggetto di riflessione indicano come, nelle controversie giudiziarie relative ai rapporti di lavoro, il Codice etico aziendale stia acquisendo sempre maggiore rilevanza quale fonte dell’autonomia privata al vaglio delle Corti.

 

 

 

 

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