Testo integrale con note e bibliografia

1. La nozione di disabilità adottata dalla direttiva 2000/78/CE
Le norme del Trattato, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (articolo 21), o della direttiva 2000/78/CE che affrontano il tema della disabilità in chiave antidiscriminatoria non dettano una definizione esplicita di “disabilità”.
La convenzione ONU 13 dicembre 2006 (articolo 1, comma 2) adotta una nozione ampia ed inclusiva di “persona con disabilità”, riferita a «quanti hanno minorazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali a lungo termine che in interazione con varie barriere possono impedire la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di eguaglianza con gli altri»; siano dette disabilità acquisite prima, o anche durante il proprio lavoro (articolo 27).
Come noto, siffatta nozione di disabilità, per effetto della ratifica del-la convenzione ONU da parte dell’Unione europea è penetrata nel diritto antidiscriminatorio europeo. La Corte di giustizia ha, infatti, a più riprese chiarito che, in ragione dell’avvenuta ratifica della convenzione da parte dell’Unione europea, la direttiva 2000/78/CE deve essere interpretata in conformità alla convenzione stessa . Risulta dunque abbracciato, anche a livello comunitario, il c.d. modello bio-psicosociale di handicap. Anche la malattia cronica, o di lunga durata può essere considerata “handicap”, se ed in quanto effettivamente comprometta la partecipazione del soggetto alla vita (sociale e, per quanto qui di interesse) professionale, in modo duraturo .
Peraltro la Corte di giustizia ha chiarito che non tutte le malattie di lunga durata si traducono in una disabilità, ai sensi della direttiva 2000/78/CE. In particolare, là ove esse non impediscano al soggetto la piena partecipazione alla vita lavorativa .

 

2. Il significato polisenso dei termini “handicap” e “disabilità”, nel nostro ordinamento
Il termine “disabile” è utilizzato dal legislatore nazionale in modo promiscuo. La legge n. 68/1999 considera disabili, ai fini del diritto al c.d. collocamento mirato, i soggetti affetti da invalidità nelle percentuali di cui all’articolo 1. La legge n. 67/2006 utilizza la locuzione “persone con disabilità” per indicare i portatori di handicap, di cui al-la legge n. 104/1992. L’articolo 3, comma 3-bis, decreto legislativo n. 216/2003 , utilizza invece la medesima locuzione (“persone con disabilità”), facendo riferimento testuale alla convenzione ONU del 2006. È utile ricordare la genesi della norma da ultimo richiamata.
Ai sensi dell’articolo 5 della direttiva 2000/78/CE devono essere garantite «soluzioni ragionevoli per i disabili». In conformità a quanto previsto dall’articolo 2, comma 4 e dall’articolo 27 della convenzione ONU sui disabili, gli “accomodamenti ragionevoli” sono «le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali». Il rifiuto di accomodamento ragione-vole è espressamente considerato “discriminazione” dall’articolo 2 della convenzione ONU.
Con sentenza 4 luglio 2013 la Corte di giustizia ha condannato l’Italia per non avere imposto a tutti i datori di lavoro di prevedere, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, soluzioni ragionevoli applicabili a tutti i disabili, come previsto dall’articolo 5 della diretti-va 2000/78/CE.
In tale occasione la Corte di giustizia ha, bensì, dato atto della previsione dell’articolo 42, decreto legislativo n. 81/2008, ma ha precisato come la stessa disciplini «solo un aspetto dei provvedimenti appropriati richiesti dall’articolo 5 della direttiva 2000/78, cioè l’adeguamento delle mansioni alla disabilità dell’interessato» .
Per effetto della sentenza della Corte di giustizia, al fine di dare corretta attuazione alla direttiva europea 2000/78/CE, è stato emanato l’articolo 3, comma 3-bis, d.lgs. n. 216/2003. La genesi dell’intervento normativo non può, dunque, lasciare dubbi sul fatto che la disposizione trovi applicazione non già ai soli “disabili”, riconosciuti tali dall’apposita commissione medica integrata, nelle percentuali utili ai fini dell’accesso al collocamento mirato (cfr. legge n. 68/1999), bensì a tutti i soggetti che, per effetto dell’affezione da cui sono colpiti (handicap, o malattia di lunga durata) incontrino quelle difficoltà di inserimento lavorativo cui la direttiva 2000/78/CE e la stessa convenzione ONU danno rilievo (disabili in senso bio-psicosociale) . Costoro hanno, dunque, diritto a che (in particolare, in caso di licenziamento) siano approntati quei “ragionevoli accomodamenti” diretti a garantire agli stessi la piena uguaglianza con gli altri lavoratori, co-me la Corte di Cassazione ha recentemente statuito in importanti pronunce .
Ai fini dell’analisi occorre, poi, fin d’ora precisare che, nella gran par-te dei casi in cui il lavoratore viene licenziato per sopravvenuta inidoneità, egli verserà in una situazione di handicap bio-psicosociale, ma non sempre è così .
Si pensi al caso in cui il lavoratore diviene, sì, totalmente inidoneo al-la specifica mansione, ma non per questo inidoneo all’intera gamma di mansioni esigibili e la sua menomazione non si traduce in una difficoltà di inserimento lavorativo, nel senso fatto proprio dalla convenzione ONU, dalla direttiva 2000/78/CE e dal decreto legislativo n. 216/2003. In tal caso, si è osservato, «il difetto di giustificazione del licenziamento intimato per sopravvenuta inidoneità psicofisica non darà luogo ad una discriminazione per handicap» .

3. Il dovere di introdurre “ragionevoli accomodamenti” per i disabili.
È discussa l’entità dei ragionevoli accomodamenti che il datore di lavoro è tenuto ad introdurre a favore del lavoratore “disabile”. In particolare, ferma la necessità, come meglio si dirà, in ogni ipotesi di licenzia¬mento per sopravvenuta inidoneità alle mansioni (o per aggravamento dell’origina¬ria disabilità) di verificare la possibilità di ricollocare il lavoratore in azienda in mansioni, equivalenti o inferiori, compatibili con la residua capacità del lavoratore, è aperto il dibattito circa l’entità degli adattamenti che il datore di lavoro è, oggi, tenuto ad apportare alla propria organizzazione, per evitare detto licenzia-mento.
Parte delle pronunce, anche recenti, di Cassazione , si sono attestate su una posizione riduttiva, quasi appiattita sul precedente delle sezioni unite n. 7755 del 1998, il quale, come noto, in un contesto normativo diverso – e pur avendo rappresentato, al tempo, una svolta particolarmente apprezzabile nella tutela del lavoratore divenuto inidoneo alle mansioni - aveva affermato la regola dell’“intangibilità dell’assetto organizzativo” unilateralmente deciso dal datore di lavoro.
Si tratta, tuttavia, di posizione non più sostenibile, sia alla luce del d.lgs. n. 216/03 (per quanto riguarda i lavoratori disabili), sia alla luce dell’art. 42 d.lgs. n. 81/2008, riferito a tutti i lavoratori divenuti “inidonei” alle mansioni, come subito si dirà.
Per effetto della disciplina di matrice antidiscriminatoria (d.lgs. n. 216/03), il datore di lavoro ha, infatti, l’obbligo generale di fornire “soluzioni ragionevoli” per i disabili, anche quando queste incidono sulla organizzazione dell’impresa, con l’unico limite dato da un onere sproporzionato per l’impresa stessa. Ed, in effetti, recenti pronunce si sono spinte con maggiore decisone a scardinare il limite dell’ “in-tangibile assetto organizzativo”, ammettendo, bensì, che il datore di lavoro possa rifiutare di introdurre modifiche che comportino oneri organizzativi eccessivi , ma non, invece, rifiutare di introdurre modi-fiche che comportino meri aggravi organizzativi .
Così, in particolare, il datore di lavoro dovrà verificare se non sia possibile conservare il posto di lavoro al lavoratore che diventa disabile, assegnandogli mansioni diverse da quelle concordate, se del ca-so anche introducendo delle modifiche organizzative eccedenti quei normali “accorgimenti minimi” che possono, in ogni caso, essere richiesti al datore di lavoro di buona fede. Sempre che tali modifiche non richiedano un onere economico sproporzionato. Le soluzioni organizzative non sono, però, considerate sproporzionate allorché «l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili» .
Residua poi la questione se il limite dell’ “intangibile assetto organizzativo” resti fermo, o no, per i lavoratori che divengono semplice-mente “inidonei” alle mansioni, ma non disabili.
Parte della dottrina aveva sottolineato come – con riferimento a tutti i lavoratori che divengono “inidonei” alle mansioni - lo stesso art. 42 d.lgs. n. 81/2008 (in particolare tramite l’inciso “ove possibile”) superi l’idea secondo cui l’obbligo di adibizione a mansioni inferiori sarebbe escluso, ove esso comportasse aggravi organizzativi e in particolare il trasferimento di singoli colleghi del lavoratore inidoneo.
In sostanza, il riferimento che l’art. 42 t.u. fa all’assegnazione a mansioni equivalenti o inferiori “ove possibile”, consente al giudice, se-condo tale opinione, «di sindacare le scelte imprenditoriali che sono alla base delle scelte organizzative concretamente adottate da quest’ultimo» .
In merito, la stessa giurisprudenza ha recentemente chiarito che l’inciso “ove possibile”, di cui all’art. 42 t.u. obbliga (sul piano so-stanziale) il datore di lavoro a ricercare le soluzioni che, «all’interno del fondamentale piano organizzativo prescelto, risultino le più con-venienti e idonee ad assicurare il rispetto dei diritti del lavoratore» e, (sul piano processuale) pone a carico del datore stesso l’onere di dimostrare di avere fatto tutto il possibile a garantire tale contemperamento.
Tali considerazioni portano ad affermare che, con riferimento tanto ai lavoratori “inidonei” quanto ai lavoratori propriamente “disabili” (in senso bio-psicosociale) il datore di lavoro sia gravato da un più ampio onere di repêchage.
In particolare, per quanto riguarda i lavoratori “disabili”, pare che, nel novero dei ragionevoli accomodamenti che il datore di lavoro de-ve introdurre per evitare il licenziamento, debbano essere anche annoverati quegli specifici oneri di formazione, in mansioni non “equi-valenti” eventualmente necessari, i quali non implichino un onere finanziario sproporzionato. La questione, peraltro, si pone anche con riferimento ai lavoratori “inidonei” ma non “disabili” (in senso bio-psicosociale), per i quali, pure, pare di poter argomentare la necessità di un’interpretazione adeguatrice .
Ancora, merita di puntualizzare che anche una riduzione dell’orario di lavoro può costituire uno degli “adeguamenti ragionevoli”, di cui alla direttiva 2000/78/CE, a meno che non rappresenti un onere sproporzionato per il datore di lavoro. Non essendo l’elenco delle «misure appropriate destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell’handicap» di cui al ventesimo considerando, tassativo «la riduzione dell’orario di lavoro, anche qualora non ricada nel concetto di “ritmi di lavoro”, può essere considerata un provvedimento di adattamento ai sensi dell’articolo 5 di detta direttiva» .
Per le stesse ragioni, deve ritenersi che – anche al netto della più recente legislazione dell’emergenza – la stessa concessione al lavorato-re disabile della modalità di lavoro agile possa, in concreto, a seconda delle circostanze, rappresentare un “ragionevole accomodamento”, ove la misura non sia sproporzionata (o l’onere sia compensato da adeguati finanziamenti statali).
«Nessuna modificazione organizzativa è, in astratto, e come tale esclusa dal raggio applicativo di quel concetto, visto che al giudice si chiede di misurare la ragionevolezza dello sforzo di adattamento e cooperazione richiesto al datore di lavoro sempre in concreto, ovvero in rapporto alle specifiche circostanze del caso» .
Ancora, ci si interroga se - sub specie di “ragionevole accomodamento” il datore di lavoro possa o no dirsi obbligato a dare comunicazione al lavoratore “disabile” dell’approssimarsi della scadenza del periodo di comporto, al fine di consentirgli di usufruire di eventuali periodi di aspettativa non retribuita, cui egli abbia diritto in forza del-la disciplina collettiva applicabile. Come in effetti fanno, apprezzabilmente, talune recenti pronunce di merito .
Per quanto riguarda i “ragionevoli accomodamenti” giova menziona-re anche il caso Ring .
Nella causa Ring la Corte di giustizia ha chiarito, da un lato, che le assenze che il lavoratore (disabile) non avrebbe fatto se il datore di lavoro avesse introdotto gli “adattamenti ragionevoli” richiesti dall’articolo 5 della direttiva 2000/78/CE (che, nel caso, gli avrebbero consentito di continuare a lavorare) non devono essere prese in considerazione per il calcolo del periodo di comporto .
D’altro canto, la Corte ha dichiarato che una legislazione, come quel-la danese in questione (articolo 5, paragrafo 2 della convenzione di LAFE), ai sensi della quale un datore di lavoro può risolvere il con-tratto con un periodo di preavviso ridotto, se il lavoratore è stato assente per malattia nel periodo immediatamente precedente il licenziamento, può costituire una discriminazione indiretta nei confronti dei lavoratori disabili, che sono più esposti al rischio di malattie lega-te alla loro disabilità. Spetta al giudice nazionale valutare se la disposizione nazionale che introduce tale “discriminazione indiretta” per-segua un obiettivo legittimo e non vada al di là di quanto necessario per il raggiungimento di tale obiettivo. Ai fini della valutazione, si dovrebbe anche tener conto del fatto che lo Stato abbia, se del caso, introdotto disposizioni volte a prevenire o compensare gli svantaggi derivanti dalla disabilità (come, ad esempio, l’esclusione delle assenze dovute alla disabilità dal calcolo del “periodo di comporto”) .
Alla luce di tale sentenza, una voce giurisprudenziale ha ritenuto necessario prevedere una durata differenziata del “periodo di comporto” (al termine del quale il datore di lavoro può licenziare il lavorato-re), rispettivamente per i lavoratori disabili e non disabili, sostenendo che il diritto nazionale deve essere interpretato in conformità alla direttiva comunitaria (“interpretazione conforme”) (e alla Costituzione italiana). Si tratta di un modo per porre rimedio alla discriminazione indiretta che, altrimenti, colpisce i lavoratori disabili. In particolare, Tribunale di Milano ha stabilito che, per escludere l’illegittimità del licenziamento (una volta scaduto il “periodo di comporto”), il datore di lavoro avrebbe dovuto provare almeno uno dei seguenti elementi: che la discriminazione indiretta (risultante dalla legislazione italiana, che stabilisce una durata uguale del “periodo di comporto” per le persone disabili e non disabili) era sostenuta da obiettivi legittimi e che i mezzi erano proporzionati e necessari; oppure (il datore di lavoro avrebbe dovuto dimostrare) che le assenze non erano dovute a malattie legate alla disabilità del lavoratore; oppure che l’ordinamento giuridico italiano aveva adottato altre misure appropriate (articolo 5 della direttiva 2000/78/CE) per porre rimedio agli svantaggi causati al lavoratore disabile (in senso bio-psicosociale) dalla disposizione nazionale in questione.
Ciò, in conformità a quanto si evince dal disposto dell’art. 2, co. 2 lett. b), punti i) e ii) della direttiva 78/2000/CE: sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi apparentemente neutri possano mettere in un posizione di particolare svantaggio il disabile, a meno che le stesse siano oggettivamente giustificate da una finalità legittima e i mezzi impiegati siano appropriati e necessari, o che il datore di lavoro sia obbligato dalla legislazione nazionale ad adottare “ragionevoli accomodamenti”. Le soluzioni destinate ai soli disabili “certificati” sono insufficienti, in quanto non riguardano tutti i lavoratori disabili in senso c.d. bio-psicosociale .

4. Il licenziamento del lavoratore inidoneo, disabile: la disciplina sanzionatoria
Oggi, la legge n. 92/2012 (in “area 18”) e il decreto legislativo n. 23/2015 rimodellano il regime sanzionatorio del licenziamento del lavoratore inidoneo o disabile, ma l’individuazione della sanzione applicabile deve tenere conto dell’“interferenza” con la disciplina anti-discriminatoria, di matrice comunitaria.
Nell’analisi della disciplina sanzionatoria occorrerà tenere presente che, di regola, i lavoratori disabili aventi i requisiti di cui alla legge n. 68/1999 sono anche portatori di handicap in senso bio-psicosociale. Ma che vi sono talora soggetti portatori di handicap in senso bio-psicosociale che non sono “disabili” ex legge n. 68/1999.
Occorre, ancora, come si è argomentato, distinguere tra mera inidoneità alle mansioni e disabilità (in senso bio-psicosociale). Inoltre, anche quando il lavoratore divenuto inidoneo debba essere conside-rato “portatore di handicap” non è “immediata” l’equazione tra “licenziamento di soggetto portatore di handicap” e “licenziamento discriminatorio” . Al di là del fatto che il lavoratore potrebbe essersi limitato a dedurre in giudizio la sopravvenuta inidoneità, ma non già la sua condizione di disabile “bio-psicosociale”, occorre rilevare, in limine, che la sopravvenuta inidoneità alle mansioni del soggetto “disabile” potrebbe, cionondimeno, non essere legata alla sua disabilità . In tali casi, il requisito della sopravvenuta inidoneità alla mansione non può dirsi “apparentemente neutro ma tale da svantaggiare in modo proporzionalmente maggiore il lavoratore disabile”.
Con riferimento alla disciplina sanzionatoria, consideriamo i lavora-tori assunti prima del 7 marzo 2015, non soggetti al c.d. “contratto a tutele crescenti”. Due recenti sentenze di merito sondano “fino in fon¬do” le potenzialità del diritto antidiscriminatorio. Si trattava in entrambi i casi di licenziamento di lavoratrice pretesamente inidonea al-lo svolgimento delle mansioni contrattuali, intimato, in un caso, in ragione della mancanza di mansioni compatibili cui la stessa potesse essere adibita; e, nel secondo caso, per il suo preteso rifiuto di svolgimento delle mansioni contrattuali (in realtà il rifiuto non c’era stato, la lavoratrice si era solo riservata di agire in giudizio) .
Il Tribunale addiviene in entrambi i casi a qualificare come “disabile” la lavoratrice, in quanto affetta da malattia di lunga durata, tale da ostacolarne in modo dura¬turo l’inserimento lavorativo in condizioni di uguaglianza con gli altri lavoratori; ed in entrambi i casi arriva a qualificare “discriminatorio” il licenziamento. Nel primo caso, traendo da specifici elementi di fatto la convinzione che esso fosse proprio “fondato” sull’handicap (malattia di lunga durata) . Nel secondo caso (Tribunale di Pisa), invece, il licenziamento veniva considerato illegittimo, in quanto fondato sul rifiuto da parte del datore di lavoro di introdurre “accomodamenti ragionevoli” a favore della disabile. Ed ugualmente dicasi in pronunce più recenti, nelle quali il giudicante, accertato il rifiuto da parte del datore di lavoro di “ragione-voli accomodamenti” a favore del “disabile” ha applicato la tutela reintegratoria piena, di cui ai primi tre commi dell’art. 18 Stat. lav., come modificato dalla l. n. 92/2012 .
È nota la nozione di discriminazione diretta, o indiretta, di cui al decreto legislativo n. 216/2003, di derivazione comunitaria . Come si è detto, con riferimento all’handicap, in particolare, ai sensi dell’articolo 2 della convenzione ONU, la discriminazione sulla base della disabilità «include ogni forma di discriminazione, compreso il rifiuto di un accomodamento ragionevole».
Ora, in linea generale (a prescindere per un attimo dalle pronunce in commento), occorre chiedersi a quali fattispecie si riferisca l’articolo 18, comma 7, allorché menziona «il difetto di giustificazione del licenziamento» intimato ai sensi dell’«articolo 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68 , per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore».
Possiamo distinguere tre situazioni: il caso in cui la Commissione abbia indicato ragionevoli adattamenti, ma il datore non li abbia adottati, intimando, invece, il licenziamento. Il caso in cui il datore abbia introdotto i ragionevoli adattamenti, eventualmente richiesti dalla Commissione ma abbia in ogni caso valutato insussistente il proprio interesse alla prosecuzione del rapporto con il disabile (o più semplicemente, il caso in cui il thema decidendum non si sia allargato a considerare se vi sia stato o no rifiuto di ragionevoli accomodamenti); il caso in cui il datore abbia omesso di attivare la procedura di cui all’articolo 10, comma 3, legge n. 68/1999.
Ora, nel caso in cui il datore abbia rifiutato di introdurre i ragionevoli adatta¬menti indicati come possibili dalla Commissione, il licenzia-mento assume carattere discriminatorio, se non altro perché tale da porre certamente il disabile in una situazione di particolare svantaggio. Si applica, dunque, la tutela antidiscriminatoria (tutela reale piena) .
L’articolo 18, comma 7, (tutela reintegrato¬ria solo attenuata) troverà invece applicazione quando il datore non abbia rifiutato i ragionevoli adattamenti, ma (pur avendoli introdotti) abbia comunque valutato il disabile inidoneo, o solo parzialmente idoneo alle mansioni, intimando il licenziamento (e il giudice sovverta tale giudizio). O, più semplicemente, (si applica l’articolo 18, comma 7) ove la questione del rifiuto di “ragionevoli accomodamenti” sia rimasta estranea al thema decidendum, per non essere stata dedotta, e si controverta solo della residua idoneità o no del lavoratore.
Sorte ancora diversa sembra, invece, dovere avere il licenziamento nel caso in cui il datore abbia omesso la procedura. Perché, qui, non si tratta, a rigore di «difetto di giustificazione del licenziamento» intimato ai sensi dell’articolo 10, comma 3, ma di violazione di norma imperativa con la conseguenza che dovrebbero applicarsi i primi tre commi dell’articolo 18 Stat. lav.
Quanto agli altri lavoratori, divenuti inidonei alle mansioni e pretesamente non utilmente reimpiegabili, la disciplina sanzionatoria di cui all’articolo 18, comma 7, Stat. lav. (nel suo campo di incidenza) tro-verà applicazione sia che si tratti di “invalidi in¬terni” (articolo 4, comma 4, legge n. 68/1999); sia che si tratti di lavoratori “disabili” in senso biopsicosociale (licenziati, previa valutazione di inidoneità ex articolo 42 TU o articolo 5 Stat. lav.); sia che si tratti di lavoratori “non disabili” in senso bio-psicosociale, ad esempio, come si diceva, inidonei alla “sola” mansione specifica e inutilizzabili in altre mansioni, in quanto già “coperte” (ma non portatori, in sé, di reali difficoltà di reinserimento lavorativo), anch’essi soggetti alla disciplina di cui agli articoli 41 e 42 TU e 5 Stat. lav.
Vale anche qui quanto appena precisato: se il lavoratore è disabile, ex legge n. 68/1999, anche “interno”, o disabile in senso bio-psicosociale occorre, da un lato, che il datore, prima di licenziarlo, tenti “a monte” i ragionevoli adattamenti; e, a valle, il “rifiuto” di introdurli, sarebbe discriminatorio (articolo 2, convenzione ONU: carattere discriminatorio del “rifiuto” di ragionevole adattamento).
Ove il datore non abbia affatto rifiutato di introdurre i ragionevoli accomoda¬menti, ma, pur avendoli introdotti, abbia ritenuto (errando) inidoneo il lavoratore, trova applicazione l’articolo 18, comma 7, e cioè la tutela reintegratoria solo attenuata .
Come si è detto, infatti, ai sensi dell’art. 2, co. 2 lett. b), punto ii) del-la direttiva 78/2000/CE non sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi apparentemente neutri possano, bensì, mettere in un posizione di particolare svantaggio il disabile, ma siano approntati i “ragionevoli accomodamenti” atti a compensare tale svantaggio .
Se pare, in definitiva, arbitrario porre l’equazione “licenziamento del lavoratore disabile uguale licenziamento discriminatorio”, non pare affatto errato porre l’equazione “rifiuto di accomodamento ragione-vole, nei confronti del disabile uguale licenziamento discriminatorio”. Questo perché, come detto, tale rifiuto svantaggia senz’altro in modo “particolare” il disabile.
Quanto al decreto legislativo n. 23/2015, l’art. 2, co. 4 espressamente prevede l’applicazione della più forte tu¬tela reintegratoria (piena) «anche nelle ipotesi in cui il giudice accerti il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli articoli 4, co. 4 e 10, co. 3 della legge 12 marzo 1999, n. 68» .
Ora, con riferimento ai disabili che si aggravano, l’omissione della procedura di cui all’articolo 10, comma 3, non pare integri il «difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità». Si tratta, piuttosto, di violazione di norma imperativa. Con conseguente applicazione, secondo l’opinione che pare preferibile della tutela reale c.d. di diritto comune.
Al contrario, a fronte dell’intervento della commissione medica, il licenziamento del disabile (intimato nonostante la residua idoneità) è considerato, per tabulas, discrimina¬torio.
Quanto agli altri lavoratori (diversi da quelli assunti tramite il collocamento mirato, di cui all’art. 10, co. 3), pare che l’art. 2, co. 4 si ri-ferisca tanto ai “disabili” ex legge n. 68/1999, quanto ai “disabili” nel senso bio-psicosociale del termine, ma non ai lavoratori meramente “inidonei” alle mansioni. Secondo l’interpretazione accolta si ha, dunque, una “sottoscomposizione” del¬le tutele, nel caso di licenzia-mento di lavoratore per sopravvenuta inidoneità.
Ove si tratti di soggetto disabile ex legge n. 68/1999 o in senso bio-psicosociale, la oggettiva mancanza di giustificazione del licenzia-mento determina l’applicazione della tutela reintegratoria piena.
Non sarebbero, invece, “coperti” dall’articolo 2, ma rifluirebbero nel-la più generale tutela indennitaria di cui all’articolo 3, comma 1, quei (residui, pochi) casi in cui il lavoratore divenga, sì, inidoneo alle mansioni contrattuali e non sia possibile collocarlo utilmente in altre mansioni, ma egli non sia, in realtà, un lavoratore con difficoltà di inserimento lavorativo. Si pensi all’esempio, da altri fatto, dell’acrobata di circo (lavoratore subordinato) che diventa, sì, inidoneo alle mansioni di funambolo e incollocabile in altre mansioni, ma non per questo necessariamente “disabile” in senso bio-psicosociale , ove la sua condizione non si traduca in una significativa e duratura limitazione alla possibilità di partecipare alla vita professionale, nell’interazione con barriere di ogni tipo. O al soggetto cui la lussazione di un gomito impedisca in modo duraturo lo svolgimento delle mansioni contrattuali (egli non è, perciò solo, disabile) .
E tuttavia anche questa lettura, se può superare gli attriti con la legge di delegazione, non supera l’impressione di irragionevolezza (pur autorevolmente negata) di un doppio circuito di tutele, differenziato unicamente in ragione del momento dell’assunzione del lavoratore (spartiacque del 7 marzo 2015).
Quanto ai datori di lavoro di più piccole dimensioni, le distinzioni sopra proposte dovrebbero portare al seguente quadro sanzionatorio: con riferimento ai lavora¬tori assunti prima del 7 marzo 2015: per i disabili che si aggravano, in caso di omessa procedura di cui all’articolo 10, comma 3, tutela reale piena; in caso di rifiuto di accomodamento ragionevole, tutela reale piena (licenziamento discri-minatorio); licenziamento semplicemente “ingiustificato” (cioè thema decidendum non allargato alla questione del rifiuto di accomodamento ragionevole): applicazione dell’articolo 8, legge n. 604/1966.
Con riferimento ai lavoratori assunti a far data dal 7 marzo 2015: per i disabili che si aggravano, in caso di omessa procedura di cui all’articolo 10, comma 3, tutela reale di diritto comune; per i lavora-tori disabili ex legge n. 68/1999 o disabili in senso bio-psicosociale, tutela reale piena, sia in caso di rifiuto di accomodamento ragionevole (licenziamento discriminatorio), sia in caso di licenziamento semplicemente “ingiustificato” presunto per tabulas discriminatorio (cioè thema decidendum non allargato alla questione del rifiuto di accomo-damento ragionevole). Per i lavoratori non disabili in senso bio-psicosociale: licenziamento per supposta inidoneità, insussistente (non disabile non inidoneo, o inidoneo ma ricollocabile): articolo 9, decreto legislativo n. 23/2015, tutela indennitaria.
Resta, come si è notato (pur se ridotta), l’anomalia «che non sembra risolubile sul piano interpretativo, ma solo su quello, peraltro assai scivoloso, della (ir)razionalità di un trattamento uniforme per situazioni diverse» dei datori di lavoro di piccole dimensioni che vedono ampliarsi i casi di applicazione della tutela reale piena anche se, in effetti, solo al licenziamento “presunto discriminatorio” del disabile (ex legge n. 68/1999 o in senso bio-psicosociale).

 

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