TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

Testo della sentenza della corte costituzionale

IL TESTO DELL'ordinanza della Corte di giustizia europea del 4 giugno 2020

1. Premessa.

Le ordinanze della Corte di appello di Napoli, sezione lavoro, del 18 settembre 2019, sollevavano questioni complesse: di carattere procedurale e sostanziale.
In precedenti contributi avevo manifestato delle perplessità sul rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia.
Sul piano procedurale , al di là dell’opinabile scelta di adire in via pregiudiziale entrambe le Alte Corti , era evidente la difficoltà di configurare per la tutela dei criteri di selezione dei lavoratori un obbligo specifico per gli Stati membri derivante dalla direttiva 98/59.
L’art. 2 della direttiva 98/59 menziona, infatti, “i criteri previsti per la selezione dei lavoratori da licenziare” solo all’interno delle “informazioni utili” che il datore di lavoro deve fornire ai “rappresentanti dei lavoratori”.
Insomma, era dubbia la riconducibilità della situazione prospettata dal Collegio napoletano alla nozione di “attuazione del diritto dell’Unione”.
Anche sul piano sostanziale avevo dei dubbi sul rilievo della questione sotto il profilo del rispetto dell’ordinamento dell’Unione europea.
La tutela che deve essere assicurata sulla base della direttiva attiene al rispetto della procedura di informazione e consultazione dei rappresentati dei lavoratori.
La direttiva non si occupa (se non indirettamente) di quella specie di “guerra dei poveri” che deriva dal rispetto dei criteri di scelta che trova una disciplina esclusivamente nel diritto interno.
Il cuore pulsante della direttiva sui licenziamenti collettivi riguarda il rispetto degli obblighi di informazione e consultazione.
I vincoli di carattere procedimentale, nell’economia della direttiva , hanno un’importanza fondamentale e la consistenza di veri e propri “diritti”.
Siamo in presenza “dell’elemento costitutivo della fattispecie” , ciò che lo “identifica” .
La violazione di tale “diritto”, nei casi più gravi, può, a mio giudizio , giustificare un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia.
Resta il fatto che sulle questioni sollevate dalla Corte di appello di Napoli la Corte di giustizia si è dichiarata “manifestamente incompetente” con ordinanza del 4 giugno 2020 (C-32/20), mentre la Corte costituzionale, con sentenza n. 254 del 26 novembre 2020, le ha dichiarate “inammissibili”.
Le decisioni sollecitano alcune riflessioni.
La prima riguarda la “competenza” della Corte di giustizia con riferimento alla nozione di attuazione del diritto dell’Unione.
La seconda attiene alla condivisione, da parte della Corte costituzionale, delle “indicazioni” fornite dalla Corte di giustizia nella ordinanza del 4 giugno 2020.
La terza fà riferimento al c.d. dialogo tra le Alte Corti.
La quarta riguarda, da un punto di vista più generale, l’evoluzione dell’ordinamento multilivello.
All’approfondimento di queste questioni sono dedicate le pagine che seguono.

2. Sull’incompetenza della Corte di giustizia.

La controversia oggetto del procedimento avanti la Corte di appello di Napoli, riguardava le modalità della tutela da riconoscere alla lavoratrice vittima di un licenziamento collettivo considerato ingiustificato a causa di una violazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare.
La Corte di giustizia si è dichiarata “manifestamente incompetente” perchè la situazione giuridica della ricorrente “nel procedimento principale non rientra nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione” (punto 23).
La nozione di “attuazione del diritto dell’Unione” richiede, secondo la Corte di giustizia, l’esistenza di un collegamento tra un atto di diritto dell’Unione e la misura nazionale in questione “che vada al di là dell’affinità tra le materie prese in considerazione o dell’influenza indirettamente esercitata da una materia sull’altra”.
Occorre qualcosa di più.
E’ necessario, secondo la Corte, che la direttiva 98/59 “imponga un obbligo specifico in relazione alla situazione oggetto del procedimento principale” (punto 27).
Obbligo (specifico) che la Corte non ravvisa nell’art. 2 della direttiva 98/59 né, più in generale, in altre disposizioni contenute nella direttiva.
In particolare, la Corte ritiene che la violazione dei “criteri di scelta” è “manifestamente priva di relazione con gli obblighi di notifica e di consultazione derivanti dalla direttiva 98/59”, restando di competenza degli Stati membri (punto 32).
Lo stesso art. 6 della direttiva, infatti, si applica solo “alle procedure volte a far rispettare gli obblighi previsti dalla direttiva stessa”.
Da tali considerazioni deriva la “manifesta incompetenza” della Corte di giustizia a rispondere ai quesiti sollevati dall’ordinanza della Corte di appello di Napoli.
Le affermazioni della CGUE, totalmente condivisibili, richiedono un necessario approfondimento .
La Corte di giustizia ha affermato, fin dalla fine degli anni ’80, la sua competenza in due ipotesi: quando gli Stati membri agiscono per dare attuazione a normative comunitarie (la c.d. linea Wachauf ) e quando gli Stati membri invocano una delle cause di giustificazione previste dai trattati comunitari per limitare una delle libertà economiche fondamentali garantite dai trattati (la c.d. linea Ert ).
E’ noto che al fine di delimitare l’ambito di applicazione della Carta, i redattori della stessa hanno adottato la formula ripresa dalla sentenza Wachauf.
L’art. 51, n. 1, della Carta prevede, infatti, che le disposizioni della medesima si rivolgono agli Stati membri:
“soltanto allorchè danno attuazione al diritto dell’Unione”.
Nell’interpretazione dell’inciso si fronteggiano due tesi.
I sostenitori di una concezione restrittiva sostengono che l’ipotesi riguardi soltanto la situazione in cui uno Stato membro agisca come agente dell’Unione.
I sostenitori di una concezione più estesa ritengono che detta nozione si riferisca più ampiamente alla situazione in cui una normativa nazionale rientri nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione .
A favore della tesi estensiva si è espresso l’avvocato generale Yves Bot nelle conclusioni sul caso Scattolon precisando che, se ci si riferisce al caso particolare delle direttive, “è meglio non circoscrivere la nozione di attuazione del diritto dell’Unione alle sole misure di trasposizione delle medesime. Detta nozione, a mio avviso, deve essere intesa come riguardante le applicazioni ulteriori e concrete enunciate da una direttiva, nonché, in modo generale, tutte le situazioni nelle quali una normativa affronta o incide su una materia disciplinata da una direttiva il cui termine di trasposizione è scaduto”.
L’avvocato generale ELEANOR SHARPSTON, nelle conclusioni presentate il 14 novembre 2013 nella causa 390/12, ha, peraltro, precisato che l’uso del termine “nell’attuazione”, contenuto nell’art. 51 della Carta non sembra limitarne l’applicabilità ai casi in cui uno Stato membro debba adottare azioni positive specifiche al fine di conformarsi al diritto dell’Unione (punti da 34 a 46).
La Corte di giustizia ha fornito alcune coordinate per affrontare la questione.
In due ordinanze essa ha interpretato l’art. 51, n. 1, nel senso che la Carta si applica se una fattispecie presenta un elemento di collegamento con il diritto dell’Unione .
Nella sentenza Dereci , la Corte ha affermato che la Carta si applica quando una fattispecie rientri nell’ambito di applicazione dell’Unione, riproducendo la sua formula sull’applicazione dei principi generali del diritto .
In due sentenze più recenti (sentenza 6 marzo 2014, causa C-206/13, Siragusa, e 27 marzo 2014, causa C- 265/13, Emiliano Torralbo Marcos) la Corte di giustizia ha fornito due ulteriori precisazioni: da un lato, “la nozione di attuazione del diritto dell’Unione, di cui all’art. 51 della Carta, richiede l’esistenza di un collegamento di una certa consistenza, che vada al di là dell’affinità tra le materia prese in considerazione o dell’influenza indirettamente esercitata da una materia sull’altra”(sentenza Siragusa). Dall’altro, “ove una situazione giuridica non rientri nella sfera d’applicazione del diritto dell’Unione, la Corte non è competente al riguardo e le norme della Carta eventualmente richiamate non possono giustificare, di per sé, tale competenza” (sentenza Torralbo) .
Per stabilire se una misura nazionale rientri nell’attuazione del diritto dell’Unione ai sensi dell’art. 51, paragrafo 1, della Carta occorre, in sostanza, verificare: a) se la normativa nazionale in questione abbia lo scopo di attuare una disposizione del diritto dell’unione; b) se esista una normativa di diritto dell’Unione che disciplini specificamente la materia o che possa incidere sulla stessa (sentenza Hernandez ).
Non basta l’affinità tra le materie prese in considerazione o dell’influenza indirettamente esercitata da una materia sull’altra.
Occorre qualcosa di più.
L’esistenza di obblighi “specifici” desumibili da una disposizione o da una lettura sistematica delle disposizioni della normativa europea (nella specie, la direttiva 98/59).
Obbligo “specifico” che la Corte non ha ravvisato con riferimento alla questione sollevata dalla ordinanza della Corte di appello di Napoli.
Ma nell’ordinanza si coglie un messaggio per il futuro.
Ove venissero in gioco “obblighi specifici” derivanti dalla direttiva la questione pregiudiziale dovrebbe essere dichiarata ammissibile.
E’ questo il caso della violazione dei diritti di informazione previsti nella direttiva 98/59.
La tutela di tali diritti non è definita dalla direttiva, la quale si limita, nell’art. 6, ad imporre agli Stati membri di creare adeguati strumenti per “far rispettare gli obblighi previsti nella direttiva”.
Ma come insegna la sentenza Mono Car l’esistenza di una armonizzazione parziale delle norme a tutela dei lavoratori in caso di licenziamenti collettivi “non può privare di effetto utile le disposizioni della direttiva”.
La Corte, attraverso il richiamo al principio di “effettività” intende garantire, in caso di violazione dei diritti di informazione, che gli Stati membri assicurino “rimedi effettivi” .
Un messaggio nella bottiglia per coloro che intendano coltivare la questione.

3. (segue) Le convergenze della Corte costituzionale.

La Corte costituzionale, nella sentenza n. 254 del 2020, ha condiviso le indicazioni della Corte di giustizia.
La CDFUE può essere invocata “quale parametro interposto, in un giudizio di legittimità costituzionale soltanto quando la fattispecie oggetto di legislazione interna sia disciplinata dal diritto europeo” .
La violazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare “così come le modalità adottate dal datore di lavoro nel dar seguito ai licenziamenti, sono materie che, nella ricostruzione fornita dalla Corte di Lussemburgo, non si collegano con gli obblighi di notifica e di consultazione derivanti dalla direttiva 98/59 CE e restano, in quanto tali, affidate alla competenza degli Stati membri”.
La Corte, sul tema, richiama il punto 8 del Considerato in diritto della sentenza n. 194 del 2018.
La Corte Costituzionale, nella sentenza 194/18, dichiarava “non fondata” la questione di legittimità sollevata in riferimento agli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., con cui il Tribunale di Roma deduceva che l’art. 3, 1 comma, del d.lgs n. 23 del 2015 violava le sopraindicate disposizioni costituzionali tramite il parametro interposto costituito dall’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
La Corte, dopo aver richiamato l’art. 52 della CDFUE e la sentenza della CGUE del 26 febbraio 2013, C-617/10, ribadiva, in linea con la costante giurisprudenza della Corte di Giustizia , che hai fini della applicabilità della CDFUE, “l’art. 3, comma 1, del d.lgs n. 23 del 2015 dovrebbe rientrare nell’ambito di applicazione di una norma del diritto dell’Unione diversa da quelle della Carta stessa”
Ciò premesso, affermava che “nessun elemento consente di ritenere che la censurata disciplina dell’art. 3, 1 comma, del d. lgs n. 23 del 2015 sia stata adottata per dare attuazione del diritto dell’Unione”.
Tre sono gli argomenti a sostegno di tale affermazione.
Il primo poggia sulla constatazione che l’Unione non ha adottato “direttive o prescrizioni minime” in materia di licenziamenti individuali.
La seconda considerazione poggia sulla (ovvia) considerazione che il primo comma dell’art. 3 del d.lgs n. 23/2015 non è stato adottato in attuazione della direttiva 98/59, in materia di licenziamenti collettivi.
La terza, ed ultima considerazione, attiene al richiamo (“in verità molto generico”, afferma la Corte) alle raccomandazioni previste dall’art. 148, paragrafo 4, TFUE che “rientrano nella discrezionalità del Consiglio e sono prive di forza vincolante”.
Per tali ragioni la Corte escludeva che “l’art. 30 della Carta possa essere invocato, quale parametro interposto, nella presente questione di legittimità costituzionale”.
Rispetto a quella decisione, la Corte costituzionale fa un passo in avanti (condividendo l’orientamento della Corte di giustizia).
Nella specie, una direttiva era stata adottata (la 98/59), ma dalle disposizioni della stessa non era dato desumere, in materia di criteri di scelta, un obbligo specifico per gli Stati membri.
L’affermazione è certamente da condividere.
Un passo in avanti in quel dialogo tra le Alte Corti su cui occorre indugiare.

4. Sul dialogo delle Alte Corti.

Sulla questione è estremamente utile porre a raffronto la più recente giurisprudenza delle Corte costituzionale tedesca con quella italiana.
La Corte costituzionale tedesca, in due importanti ordinanze del 6 novembre 2019, in materia di diritto all’oblio ha “disegnato una nuova teoria dei rapporti fra i sistemi di protezione dei diritti fondamentali garantiti dall’ordinamento costituzionale da un lato, e dall’ordinamento dell’Unione europea dall’altro” .
La BVerfG, nel caso di una materia non interamente “coperta” da norme europee (come nella nostra ipotesi), ritiene che i diritti fondamentali sono principalmente regolati dalla Costituzione tedesca anche quando il diritto interno serve ad attuare quello dell’Unione.
Un’ulteriore valutazione sulla base del diritto dell’Unione diviene necessaria solo quando vi siano sufficienti e specifiche indicazioni che mostrino “l’insufficienza di protezione assicurato dal Grundgesetz” .
In questa ipotesi, quindi, la “regola” è l’applicazione della Costituzione tedesca.
Resta, comuque, fermo per i giudici tedeschi applicare direttamente la Carta, o rinviare alla CGUE, qualora il diritto dell’Unione lasci agli Stati membri un margine di discrezionalità .
La posizione della Corte costituzionale italiana, come si desume dalle sentenze degli ultimi anni, è decisamente più articolata.
La Corte costituzionale, nella famosa sentenza n. 269/2017 , ha affermato che, nel caso in cui “la violazione di un diritto alla persona infranga, ad un tempo, sia le garanzie presidiate dalla Costituzione italiana, sia quelle codificate dalla Carta dei diritti dell’Unione”, è necessario “un intervento erga omnes di questa Corte, anche in virtù del principio che situa il sindacato accentrato di costituzionalità delle leggi a fondamento dell’architettura costituzionale”.
La Consulta, pur non imponendo la necessità dell’inversione (la Corte giudicherà “alla luce dei parametri interni ed eventualmente di quelli europei secondo l’ordine di volta in volta appropriato”), lascia intendere che la questione di legittimità costituzionale sarà ordinariamente trattata per prima, lasciando la pregiudiziale comunitaria in posizione temporalmente successiva ed eventuale.
La sentenza ha suscitato un acceso dibattito in dottrina , trovando un riscontro (diversificato) in sede di giudizi di legittimità. .
Sulla questione sono intervenute due sentenze della Corte costituzionale (le sentenze nn. 20 e 63/2019) e l’ordinanza n. 117 del 10 maggio 2019 dove la Corte “riassume” il suo pensiero.
Nell’ordinanza si legge che resta fermo “che i giudici comuni possono sottoporre alla Corte di giustizia europea, sulla medesima disciplina, qualsiasi questione pregiudiziale a loro avviso necessaria anche al termine del procedimento incidentale di legittimità costituzionale; e fermo restando, altresì, il loro dovere – ricorrendone i presupposti – di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al loro esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta ”.
Il tutto, come già evidenziato dalla sentenza n. 269 del 2017, “in un quadro di costruttiva e leale cooperazione fra i diversi sistemi di garanzia, nel quale le Corti costituzionali sono chiamate a valorizzare il dialogo con la Corte di giustizia (da ultimo ordinanza n. 24 del 2017), affinché sia assicurata la massima salvaguardia dei diritti a livello sistemico” .
In sostanza, la Consulta ritiene di essere “competente” ad esaminare un caso in cui la materia non è regolata, completamente, dal diritto dell’Unione potendo sindacare gli eventuali profili di contrasto delle disposizioni nazionali con i principi enunciati dalla Carta.
“Quando è lo stesso giudice rimettente a sollevare questione di legittimità che investe anche le norme della Carta” la Corte non può esimersi dal valutare “se la disposizione infranga, in pari tempo, i principi costituzionali e le garanzie sancite dalla Carta” .
L’integrarsi delle garanzie della Costituzione con quelle sancite dalla Carta determina, infatti, “un concorso di rimedi giurisdizionali, arricchisce gli strumenti di tutela dei diritti fondamentali e, per definizione, esclude ogni preclusione” .
In quanto giurisdizione nazionale (ai sensi dell’art. 267 del TFUE) la Corte costituzionale esperisce il rinvio pregiudiziale “ogniqualvolta ciò sia necessario per chiarire il significato e gli effetti delle norme della Carta; e potrà all’esito di tale valutazione, dichiarare l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata, rimuovendo così la stessa dall’ordinamento nazionale con effetti erga omnes” .
Il rinvio pregiudiziale , in un campo segnato dall’incidenza crescente del diritto dell’Unione, è, infatti, lo strumento “principe” per valorizzare il dialogo con la Corte di giustizia.
L’attuazione “di un sistema integrato di garanzie ha il suo caposaldo nella leale e costruttiva collaborazione tra le diverse giurisdizioni, chiamato – ciascuna per la propria parte – a salvaguardare i diritti fondamentali nella prospettiva di una tutela sistemica e non frazionata”
L’integrazione tra fonti che la Corte costituzionale evoca richiama un sistema in nuce in cui convivono forme di coordinamento (con l’ordinamento dell’Unione europea) e di utilizzo (quali parametri interposti) di disposizione della UE.
Quindi, più di una “integrazione di fonti” si intravede una “integrazione di norme” di natura diversa che vivono nell’interpretazione di Corti diverse e che, progressivamente, costituisce un “sistema di sistemi” , come, peraltro, aveva già affermato la Corte costituzionale nella parte finale della sentenza n. 194/18.
Questa affermazione richiede un ulteriore approfondimento.

5. L’evoluzione dell’ordinamento multilivello.

La sovranità statuale si diluisce”, scrive Cassese , “I poteri pubblici si riarticolano in forme pluralistiche e policentriche (…). Questo pluralismo ha bisogno di un ordine: occorre riempire i vuoti tra i diversi sistemi (…) indurli a cooperare; stabilire gerarchie di valori e principi”.
Ordine sempre precario perché si basa (non su un rapporto gerarchico) ma su una forma di “primazia per cooperazione quasi volontaria ”.
La creazione di un “sistema di sistemi” si basa, quindi, sull’interpretazione di norme appartenenti a ordinamenti diversi.
Probabilmente è questa la chiave per comprendere l’evoluzione dell’ordinamento multilivello .
Si tratta di un processo lento, non privo di contraddizioni, che scorre tra le pieghe delle sentenze delle Alte Corti.
Cerchiamo di cogliere alcuni passaggi di questa evoluzione.
A)Il primo segnale è l’evoluzione da una visione dualistica del rapporto tra l’ordinamento nazionale e quello dell’Unione europea a una sorta di “monismo interpretativo”.
La sentenza Granital (170/1984) costituisce il punto di partenza del ragionamento.
La Corte, venti anni dopo la Costa/Enel, si allineò, almeno in parte, alla tesi della Corte di giustizia, con un overruling esplicito .
Vi è un punto fermo da cui la sentenza muove: l’ordinamento comunitario e il diritto interno sono due sistemi “autonomi e distinti, ancorchè coordinati”.
Ciò presuppone, spiega la sentenza, che “la fonte comunitaria appartenga ad altro ordinamento, diverso da quello statale. Le norme da essa derivanti vengono, in forza dell’art. 11 Cost., a ricevere diretta applicazione nel territorio italiano, ma rimangono estranee al sistema delle fonti interne”.
Le norme poste dall’ordinamento comunitario (nel caso della Granital, da un regolamento comunitario) non entrano a far parte del diritto interno, né vengono soggette al regime disposto dalle leggi.
In sostanza, l’ordinamento interno “si ritira” a seguito della cessione di sovranità a favore degli organi comunitari.
Il giudice nazionale si trova ad applicare la norma comunitaria che regola la materia mentre “la legge interna non interferisce nella sfera occupata da tale atto la quale è interamente attratta sotto il diritto comunitario”.
In sostanza, la norma interna, “più che venire disapplicata, non ha ragione di essere applicata perché la fattispecie è interamente ed esclusivamente regolata dalla norma comunitaria (…). La prevalenza della norma comunitaria non discende dunque dal rango che essa occupi in un sistema delle fonti unitariamente considerato (…) ma dal fatto che, nella singola fattispecie, la disciplina applicabile è dettata solo dalle norme comunitarie”
Siamo in presenza della c.d. “teoria dualistica” che si contrappone alla concezione monistica che trova un manifesto nella sentenza Simmenthal della Corte di giustizia dove si afferma che le disposizioni comunitarie direttamente applicabili “fanno parte integrante, con rango superiore rispetto alle norme interne, dell’ordinamento giuridico vigente nel territorio dei singoli Stati membri”.
Ma la contrapposizione fra le due impostazioni (monista o dualista) è, in parte, venuta meno attraverso “segnali” che si colgono nella stessa giurisprudenza della Corte costituzionale.
Basti pensare alla sentenza n. 389/1989 della Consulta dove, con significativa variazione lessicale, si definivano i due ordinamenti come “coordinati e comunicanti”, si parlava di “immissione diretta nell’ordinamento interno delle norme comunitarie direttamente applicabili”.
Ritenere che questa decisione, insieme ad altre successive, abbia portato ad un “sostanziale abbandono” di ogni premessa dualistica è affermazione forse eccessiva.
Ma è indubbio che si stia facendo strada un “monismo interpretativo” allorchè “la Corte tende a rileggere e reinterpretare il parametro costituzionale alla luce dei principi fondamentali dell’ordinamento comunitario” .
In questo contesto, è estremamente importante quanto precisato dalla Consulta (nelle pronunce del 2019) in ordine alla possibilità “che i giudici comuni possono sottoporre alla Corte di giustizia europea, sulla medesima disciplina, qualsiasi questione pregiudiziale a loro avviso necessaria anche al termine del procedimento incidentale di legittimità costituzionale” , in un quadro di dialogo con la Corte di giustizia “affinchè sia assicurata la massima salvaguardia dei diritti a livello sistemico”.
Si tratta di affermazioni di grande rilievo dove viene ribadito il ruolo centrale del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia nella costruzione dell’ordinamento multilivello.
B) Un secondo segnale è la fine di quella sorta di autoemarginazione della Corte costituzionale nel dialogo con la Corte di giustizia.
La Corte costituzionale, con le note ordinanze nn. 102 e 103 del 2008, ha, per la prima volta, utilizzato lo strumento del rinvio pregiudiziale .
Anteriormente, con l’unica eccezione costituita dall’obiter dictum della sentenza n. 168 del 1991 , aveva, infatti, affermato di non essere legittimata ad utilizzare lo strumento del rinvio pregiudiziale poiché essa, esercitando “essenzialmente una funzione di controllo costituzionale, di suprema garanzia, della osservanza della Costituzione della Repubblica da parte degli organi costituzionali dello Stato e di quelli della Regione non (poteva) essere inclusa fra gli organi giudiziari, ordinari o speciali che siano ”.
Con uno spostamento di accento nella formulazione del ragionamento la Consulta superava il rubicone nelle ordinanze nn. 102 e 103 del 2008 affermando che: “questa Corte, pur nella sua peculiare posizione di organo di garanzia costituzionale, ha natura di giudice, e in particolare di ultima istanza”.
A sostegno della sua legittimazione, la Corte aveva poi introdotto un ulteriore argomento: il suo eventuale rifiuto di effettuare il rinvio “comporterebbe un’inaccettabile lesione del generale interesse all’uniforme applicazione del diritto comunitario”.
Affermazione, quest’ultima, di grande importanza ma la cui rilevanza sistemica veniva depotenziata, nell’ambito della motivazione delle ordinanze, dalla “timidezza” dell’apertura della Corte limitata ai giudizi in via principale .
La Corte, fino all’ordinanza n. 207 del 2013, non ha sollevato questioni pregiudiziali dinnanzi alla Corte di giustizia .
Ma la svolta europeista era nell’aria .
Varie Corti europee (austriaca, spagnola e francese, nella decisione del 4 aprile 2013 del ) avevano aperto la strada al dialogo.
E la stessa Corte costituzionale tedesca, nell’ordinanza del 6 luglio 2010 , aveva annunciato la “svolta” che si è poi concretizzata nella decisione del 7 febbraio 2013 sulla legittimità dell’OMT .
Con l’ordinanza n. 207 del 2013, la Corte costituzionale compie un balzo nel suo cammino comunitario.
Diventa, insieme alle altre Corti costituzionali, un interlocutore fondamentale nel dialogo con la Corte di giustizia come testimonia, alcuni anni dopo, la vicenda Taricco .
C) Il terzo segnale si coglie nell’evoluzione dell’oggetto del rinvio pregiudiziale.
Non si tratta più (o, almeno, soltanto) di chiedere alla Corte di giustizia di interpretare il diritto dell’Unione europea.
Il quesito (formulato nei termini di: se tali norme del diritto dell’Unione ostino a che sia applicata la tale norma del diritto nazionale) comporta che la CGUE deve effettuare una diretta valutazione della compatibilità della norma interna rispetto a quella dell’ordinamento europeo secondo uno schema simile a quello utilizzato dal giudice nazionale quando solleva una questione di legittimità costituzionale.
In tal modo, come è stato sottolineato “la funzione della Corte di giustizia, che pure formalmente non si pronuncia sulla legge interna (né sulla sua interpretazione, rimessa ai giudici interni, né sulla sua validità) diviene in sostanza del tutto assimilabile ad un sindacato accentrato di conformità delle leggi interne a vincoli che esse incontrano (nella specie il vincolo del rispetto degli obblighi derivanti dall’ordinamento comunitario, che sul piano interno si fonda sull’art. 11 e sull’art. 117, comma 1, della Cost.), strutturalmente non dissimile da quello della Corte costituzionale: con l’unica differenza che la pronuncia di quest’ultima, se riconosce l’illegittimità della legge, la dichiara con effetto erga omnes, di cessazione di efficacia della stessa, mentre la pronuncia della Corte di giustizia si limita a imporre al giudice interno di non applicare la legge riconosciuta incompatibile con il diritto comunitario nel caso sottoposto al suo esame, anche se di fatto non potrà non essere seguita, con effetto di disapplicazione della stessa norma interna anche negli altri casi simili”.
Se combiniamo tale mutamento (relativo all’oggetto del rinvio pregiudiziale) con l’efficacia delle sentenze della Corte di giustizia nell’ordinamento nazionale il risultato è straordinario.
L’efficacia della sentenza della Corte di giustizia non è limitata al giudice remittente ma si estende anche al di fuori del giudizio principale (efficacia extraprocessuale ) con effetto anche per gli altri giudici e le amministrazioni nazionali che devono fare applicazione delle norme dell’UE nell’interpretazione datane dalla Corte di giustizia .
L’efficacia delle sentenze della Corte di giustizia, peraltro, non è limitata all’ordinamento dello Stato in cui deve trovare applicazione ma estende la sua portata vincolante a tutti gli Stati membri dell’ordinamento dell’Unione .
Ma non basta.
Di fronte al dubbio di non conformità sarà sufficiente che il giudice di merito si rivolga alla Corte di giustizia con un rinvio pregiudiziale per “trasformare”, con la mediazione della sentenza della CGUE, l’atto comunitario (ad esempio una direttiva self executing che, però, è priva di effetti orizzontali) in un atto (la sentenza) che vale come diritto comunitario immediatamente applicabile .
Con la conseguenza (per il giudice nazionale) di potere decidere la controversia in base all’applicazione del diritto comunitario discendente dall’interpretazione della Corte di giustizia.
Una sentenza-norma che crea una sorta di nomofilachia europea vincolante per tutti i giudici dell’Unione.
In questo contesto, il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia continua ad essere (forse anche più di prima) la via privilegiata da seguire.

 

 

 

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