Testo integrale con note e bibliografia

1. Premessa. La decisione della Corte costituzionale del 24 febbraio 2021.
Il 24 febbraio la Corte costituzionale, riunita in camera di consiglio, ha dichiarato fondata con riferimento all’articolo 3 della Costituzione “la questione di legittimità sollevata dal Tribunale di Ravenna in relazione all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, come modificato dalla cosiddetta legge Fornero (n. 92 del 2012), là dove prevede la facoltà e non il dovere del giudice di reintegrare il lavoratore arbitrariamente licenziato in mancanza di giustificato motivo oggettivo”.
Sotto la mannaia della Consulta cade il secondo periodo del settimo comma dell’art. 18, nella parte in cui prevede che il giudice “può” “applicare la predetta disciplina” (ovvero la reintegrazione con risarcimento limitato a 12 mensilità) “nell'ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”.
In particolare, la Corte ritiene “che sia irragionevole – in caso di insussistenza del fatto - la disparità di trattamento tra il licenziamento economico e quello per giusta causa: in quest’ultima ipotesi è previsto l’obbligo della reintegra mentre nell’altra è lasciata alla discrezionalità del giudice la scelta tra la stessa reintegra e la corresponsione di un’indennità”.
In attesa di poter leggere le motivazioni, la decisione si presta comunque già oggi ad alcune considerazioni “a caldo”.

2. Il progressivo “smantellamento” ad opera della Corte delle recenti riforme della disciplina sui licenziamenti.
Innanzitutto si deve sottolineare come prosegua da parte della Consulta l’opera di “smantellamento” delle riforme della disciplina sui licenziamenti realizzata dal legislatore nel 2012 (con legge Fornero) e nel 2015 (con il Jobs act).
Dopo le due sentenze che hanno colpito al cuore il contratto a tutele crescenti (la n. 194 del 2018 e la n. 150 del 2020 ), dichiarando l’illegittimità dell’art. 3, comma 1 e dell’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015 nel momento in cui prevedono in caso di licenziamento ingiustificato o formalmente viziato un’indennità fissa e crescente in funzione della sola anzianità di servizio e quindi restituendo al giudice la possibilità di modulare la sanzione alla, oltre che dell’anzianità di servizio, anche degli usuali criteri desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell'attività economica, comportamento e condizioni delle parti) nonché (per i vizi formali) della gravità delle violazioni, anche l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori come riformato dalla legge Fornero perde un pezzo: laddove rilevi che le ragioni poste alla base del licenziamento siano manifestamente insussistenti il giudice non potrà più scegliere se condannare il datore di lavoro ad un mero risarcimento nella misura compresa fra dodici e ventiquattro mensilità di retribuzione o reintegrare il lavoratore, ma dovrà per forza applicare la tutela reintegratoria.
È curioso a tal riguardo osservare come la discrezionalità del giudice, valorizzata e ripristinata in pieno nelle due sentenze relative al Jobs act, subisca qui una sorte inversa, venendo cancellata.

3. L’impatto “ordinamentale” delle recenti decisioni della Corte costituzionale e l’alterazione dell’equilibrio dei rapporti con il legislatore.
Come è stato correttamente osservato, con le sentenze n. 194 del 2018 e n. 150 del 2020 “la Consulta interviene radicalmente su una precisa scelta legislativa”, rimuovendo un parametro chiaro ed intellegibile, quello della parametrazione automatica dell’indennità risarcitoria alla sola anzianità di servizio, così “eliminando di fatto l’aggettivo “crescenti” dalla disciplina in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti”.
Lo stesso può dirsi in relazione alla decisione del 24 febbraio 2021 che qui si commenta. Anche in questo caso infatti la Corte interviene sostituendo una propria valutazione altamente discrezionale ad una scelta, altrettanto discrezionale, ma esplicita ed inequivocabile, del legislatore.
Siffatte pronunce si inseriscono senz’altro nel nuovo corso inaugurato da tre note decisioni (l. n. 1/2014 sulla legge elettorale proporzionale con premio di maggioranza; la n. 10/2015 sulla Robin Hood Tax; l’ord. n. 207/2018 sul caso Cappato), connotato da un sempre più marcato ruolo politico della Corte.
Si può discutere se quest’ultima stia o no coniando nuovi moduli e superando le regole processuali, se le si possa o no imputare di modificare l’equilibrio dei poteri, se si possa dunque parlare di uno sconfinamento, di “un’attività giurisdizionale lontana dalle forme giuridiche, non oggettiva o non dichiarativa, essenzialmente diretta a creare «realtà» o «forme» nuove rispetto a quelle dell’ordinamento vigente”, e quindi di “suprematismo giudiziario”, o solo di un attivismo molto deciso ma pur sempre condotto con prudente attenzione verso gli effetti non solo giudiziari ma anche politici delle pronunce adottate.
Certo è, in ogni caso, che, come rileva Roberto Romboli, in apertura del volume che raccoglie gli atti del convegno del 2016 a ricordo di Alberto Pizzorusso, si fa sempre più forte la “sensazione che in questi ultimi anni il pendolo della Corte, in continua ed inevitabile oscillazione tra l’anima politica e quella giurisdizionale che in essa coesistono, si stia spostando, più di quanto finora accaduto, verso la prima” e che (citando Spadaro) la Corte, piaccia o no, sia ormai diventata una terza camera e le decisioni siano decisioni politiche, seppure espresse in forma giurisdizionale.
La questione si presenta particolarmente delicata, e meriterebbe una più approfondita riflessione, anche in ambito lavoristico, in relazione a quelle decisioni (come quella che qui si commenta e quelle relative al Jobs act), in cui la Corte utilizza il canone della “ragionevolezza”, declinabile in una pluralità di modi, forme ed aspetti (uguaglianza, congruenza, proporzionalità, bilanciamento), e in forza del quale “la Corte valuta la scelta del legislatore, il corretto uso della sua discrezionalità, per verificare se abbia adeguatamente preso in considerazione tutti i valori e i principi costituzionali suscettibili di incidere su di una certa materia”, all’interno di processi nei quali è “difficile distinguere norme implicite ed esplicite, interpretazione e integrazione, legittimità e merito, diritto e politica”.

4. Una soluzione diversa sarebbe stata prospettabile? In relazione alla decisione del 24 febbraio, l’esito non era per nulla scontato. Anzi. Laddove avesse considerato la “differenza strutturale” tra le ipotesi di licenziamento disposto per ragioni soggettive o per giustificato motivo oggettivo e la possibilità del giudice di qualificare come disciplinare o in frode alla legge il licenziamento fittiziamente qualificato dal datore di lavoro come “oggettivo” la Corte avrebbe infatti ben potuto pervenire ad una conclusione diversa, giudicando ragionevole la scelta del legislatore di affidare alla discrezionalità del giudice la decisione di applicare o no il predetto rimedio in caso di “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo” (art. 18, c 7, l. n. 300/1970)”.

5. L’impatto immediato della pronuncia.
L’impatto in concreto della pronuncia all’“interno” del regime di tutela dell’art. 18 potrebbe apparire in linea di massima abbastanza limitato, ma non è così.
Da un lato, infatti, è vero che la Suprema corte, confermando le scelte operate dalla giurisprudenza di merito, tende in gran parte dei casi a riconoscere la “manifesta insussistenza” del fatto posto a base del licenziamento ogni volta che sia riscontrabile una evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti giustificativi del licenziamento ovvero un difetto del nesso causale tra la ragione addotta a fondamento del recesso e la soppressione dello specifico posto di lavoro, arrivando anche, in qualche caso, ad affermare che all'accertamento della “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” consegue naturalmente o addirittura necessariamente l'applicazione della tutela reintegratoria, non residuando alcuna discrezionalità del giudice in merito alla scelta del regime sanzionatorio.
Peraltro, non mancano decisioni di diverso tenore, che valorizzano la possibilità, per il giudice, di optare per la tutela indennitaria, quando quella reintegratoria risulti incompatibile con la struttura organizzativa dell'impresa e dunque eccessivamente onerosa per il datore di lavoro. Una recente pronuncia si è spinta persino ad affermare che “il giudice è tenuto ad accertare che vi sia una evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti giustificativi del licenziamento e, in caso di esito positivo di tale verifica, a procedere all'ulteriore valutazione discrezionale sulla non eccessiva onerosità del rimedio, essendo altrimenti applicabile la sola tutela risarcitoria di cui all'art. 18, comma 5”, finendo per cassare la sentenza di merito che, omettendo completamente le suddette verifiche, aveva riconosciuto la tutela reale in favore di una giornalista adibita a un ufficio di corrispondenza all'estero come collaboratrice fissa, sulla base della semplice constatazione che il datore di lavoro non aveva provato il venir meno dell'esigenza di tale figura professionale.
Letture siffatte, ispirate alla ricerca di un ragionevole equilibrio tra tutela del lavoro ed esigenze di sopravvivenza dell’impresa in coerenza con l’assetto voluto dal legislatore, quando verrà pubblicata in Gazzetta ufficiale la decisione della Consulta del 24 febbraio, saranno ovviamente precluse.

6. Le possibili ricadute sul contratto a tutele crescenti.
Vale la pena in conclusione di accennare al possibile impatto “esterno” della pronuncia in esame sulla disciplina del contratto a tutele crescenti. Non è infatti difficile prevedere che prima o poi (più prima che poi) qualche tribunale solleverà analoga questione di legittimità in relazione all’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015 che riserva la tutela reintegratoria alle “ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore”, escludendola tout court in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Altrettanto agevole è il pronostico sull’esito: la Corte, a meno di clamorosi ripensamenti, travolgerà la scelta del legislatore del Jobs act di differenziare le conseguenze a seconda della tipologia di licenziamento e di vizio giudicandola irragionevole per contrasto con l’art. 3 della Costituzione.

7. Alla ricerca della razionalità perduta.
Di fronte ad una disciplina dei licenziamenti che oggi, più di quanto non sia mai accaduto in passato, si presenta come un mosaico scomposto, irrazionale ed illeggibile, che produce un “diritto incalcolabile” e condanna l’interprete ad una rassegnata acatalessia, appare quantomai urgente una risposta del legislatore alle sollecitazioni che gli provengono da più fronti. Anche dalla Corte costituzionale che, al considerando n. 17 della sentenza n. 150 del 2020, lancia un monito equivocabile: “Spetta alla responsabilità del legislatore, anche alla luce delle indicazioni enunciate in più occasioni da questa Corte, ricomporre secondo linee coerenti una normativa di importanza essenziale, che vede concorrere discipline eterogenee, frutto dell’avvicendarsi di interventi frammentari”.
Ma il ruolo della Corte va al di là della mera sollecitazione. Se è vero, infatti, che con i recenti interventi essa ha senz’altro contribuito a rendere sempre più disomogenea e irrazionale la disciplina dei licenziamenti, occorre peraltro considerare che in tal modo ha però fornito preventivamente al legislatore le coordinate per potersi orientare. Le anzidette argomentate decisioni possono in altri termini essere assunte come una sorta di “surrogato funzionale” di un giudizio preventivo di conformità, da più parti invocato, offrendo al legislatore l’occasione per incamminarsi su un percorso di produzione di un testo normativo informato a quei necessari caratteri di ragionevolezza-universalità-discorsività che finora non è riuscito ad imprimere.

 

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