TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

INTRODUZIONE
Come è noto, negli anni recenti il nostro ordinamento ha conosciuto delle profonde riforme nella disciplina dei licenziamenti. In particolare, è stato modificato il regime delle sanzioni applicabili a quei licenziamenti che, in varia misura, non rispettano le prescrizioni dettate dalla legge.
Le modifiche legislative hanno mutato il quadro normativo e innescato una nuova elaborazione giurisprudenziale, aprendo dei problemi interpretativi di nuovo conio.
In questo lavoro ci occuperemo di uno di questi problemi: ossia del regime applicabile, nell’ambito di un contratto di lavoro subordinato soggetto alle c.d. «tutele crescenti», al licenziamento in prova comunicato in assenza di un patto di prova efficace.
IL PROBLEMA, NEI SUOI TERMINI GENERALI
Come noto, il nostro ordinamento consente il recesso dal rapporto di lavoro subordinato, da parte del datore di lavoro, solamente in casi predeterminati, nella forma e nel contenuto. Tale regime opera nella generalità dei casi ma gli restano sottratte talune ipotesi. Una di queste è il lavoro in prova.
Le parti possono infatti pattuire che, all’inizio del rapporto di lavoro subordinato, vi sia un periodo di prova nel corso del quale ciascuna possa sperimentare le caratteristiche dell’altra parte. Se il patto di prova è valido , durante la sua efficacia le parti possono recedere dal rapporto liberamente , senza preavviso , senza formalità , senza la necessità di esplicitare una motivazione , senza la necessità di rispettare i presupposti di fatto (o procedurali) necessari negli ordinari casi di licenziamento .
Il patto di prova, tuttavia, per essere valido e consentire dunque il libero recesso sopra descritto, deve rispettare diversi requisiti e ciò non sempre si verifica. Esso, comunque, ha una durata limitata nel tempo, decorsa la quale i suoi effetti vengono meno. Accade pertanto con una certa frequenza che il datore di lavoro receda dal rapporto senza formalità, nella convinzione di essere coperto da un patto di prova che, invece, per qualche ragione risulterà poi nullo o già esaurito. In tali casi il rapporto di lavoro è ormai «stabile» e il licenziamento risulta pertanto immancabilmente viziato .
Occorre pertanto identificare quale sia la sanzione comminata dalla legge.
LA SOLUZIONE ADOTTATA NEI REGIMI PRECEDENTI IL «JOBS ACT»
Nel passato meno recente il problema non si poneva poiché, prima della «Riforma Fornero», qualunque vizio del licenziamento trovava la propria sanzione nella scure del tradizionale art. 18 Statuto dei Lavoratori, con la conseguente applicazione dell’unica e radicale sanzione ivi prevista, ossia la reintegrazione nel posto di lavoro e il pieno risarcimento .
Nel regime del nuovo art. 18, Statuto dei Lavoratori, emerso dopo la L. n. 92/2012, parimenti, seppure privo di espressa regolamentazione, un siffatto licenziamento viene fatalmente attratto nell’area della tutela reintegratoria attenuata prevista dai commi 4 e 7 , vuoi perché l’addebito disciplinare giuridicamente non sussiste (non essendovi per definizione la sua contestazione), vuoi perché l’eventuale motivo oggettivo, non essendo dedotto in motivazione, non può che essere «manifestamente insussistente» .
LA SOLUZIONE DELLE CORTI DI MERITO NELLE «TUTELE CRESCENTI»
Qualora il licenziamento in prova sia comunicato per risolvere un contratto di lavoro a tempo indeterminato soggetto al regime delle «tutele crescenti», invece, le decisioni dei Tribunali e delle Corti d’Appello finora note hanno per lo più applicato le sanzioni prevista dall’art. 3, D.Lgs. n. 23/2015: parte delle decisioni ha applicato l’art. 3, comma 1, escludendo quindi la reintegrazione e determinando l’indennità risarcitoria in favore del lavoratore nella misura minima di 4 mensilità di retribuzione, almeno nei casi precedenti Corte Cost. n. 194/2018 che, come noto, ha abbattuto il meccanismo della liquidazione aritmetica che ha caratterizzato questo passaggio del disegno riformista del «Jobs act» ; altre, hanno applicato il regime dell’art. 3, comma 2, D.Lgs. n. 23/2015, con reintegrazione e risarcimento.
Ne riportiamo di seguito una rassegna.
Non risultano, al momento, decisioni sul punto della Suprema Corte.
Ad oggi, ci è noto un solo precedente che abbia applicato la tutela reintegratoria piena ex art. 2, D.Lgs. n. 23/2015: si tratta di Tribunale di Piacenza, 17 settembre 2020, n. 119, inedita, a quanto consta. Purtroppo il Tribunale dedica alla decisione una motivazione assai stringata .
La maggior parte delle decisioni esaminate hanno invece in comune l’esclusione delle due sanzioni estreme: si nega, cioè, la nullità del recesso e la conseguente tutela reintegratoria piena ex art. 2, D.Lgs. n. 23/2015; si esclude altresì, esplicitamente o implicitamente, che il licenziamento sia affetto da un mero vizio formale o procedurale, con conseguente applicazione della tutela indennitaria ridotta ex art. 4, D.Lgs. n. 23/2015. La partita viene pertanto giocata tra le due sanzioni previste dall’art. 3, D.Lgs. n. 23/2015.
Alcune decisioni rese dai Tribunali di Torino (n. 1501/2016) e di Milano (6 febbraio 2017) si caratterizzano per il fatto di essersi spinte a qualificare il licenziamento in relazione ai fatti di causa, superando il dato della mera motivazione formale . Entrambi i Giudici hanno ritenuto che le ragioni del licenziamento, al di là della motivazione formale, fossero di natura soggettiva e, per questa ragione, hanno applicato la sanzione per l’insussistenza del fatto addebitato (art. 3, comma 2, D.Lgs. n. 23/2015).
Al contrario, altre decisioni rese dai Tribunali di Milano (n. 730/2017) e di Teramo (n. 60/2017) arrestano l’indagine sul dato formale del licenziamento (motivato in ambo i casi «per mancato superamento della prova» o simili). Escluse le sanzioni estreme, entrambi concludono affermando (esplicitamente o implicitamente) che il licenziamento siffatto non è di per sé ascrivibile né a ragioni oggettive né a ragioni soggettive e, fermandosi su tale constatazione, lo qualificano privo di giustificato motivo, dando applicazione all’art. 3, comma 1, D.Lgs. n. 23/2015.
Il Tribunale di Firenze si è espresso muovendo da premesse in parte analoghe ma pervenendo alla conclusione di applicare l’art. 3, comma 1, D.Lgs. n. 23/2015 per esclusione delle altre ipotesi senza tuttavia offrire una motivazione in positivo di tale scelta . Infine, un’altra decisione del Tribunale Milano (3 novembre 2016) sembra assimilare l’insussistenza del fatto-addebito all’insussistenza-nullità del patto di prova . Tale assimilazione appare però poco persuasiva poiché il patto di prova («insussistente») viene assimilato all’oggetto della motivazione del licenziamento («fatto insussistente») anziché operare quale presupposto di validità del medesimo.
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Per ragioni diverse, nessuno dei precedenti fin qui ricordati appare del tutto soddisfacente.
LA TESI PROPOSTA: IL LICENZIAMENTO IN QUESTIONE CONDUCE ALLA REINTEGRAZIONE
La tesi che illustreremo a breve identifica la sanzione appropriata – nell’ambito del sistema istituito dal «Jobs act» – in quella prevista dall’art. 2, D.Lgs. n. 23/2015, ossia la sanzione massima, caratterizzata da reintegrazione e risarcimento pieno.
Va detto che tale tesi non poggia su una preconcetta quanto soggettiva valutazione di equità ma sull’analisi del sistema della legge. Ciò richiede altresì di riconsiderare in modo critico alcuni arresti giurisprudenziali consolidatisi in un contesto legislativo ormai superato. E di trarre a conseguenza alcuni recenti importanti insegnamenti offerti dalla Suprema Corte.
I REQUISITI DI VALIDITÀ DEL LICENZIAMENTO
I richiami che seguono sono certamente noti ma è opportuna una rapida collazione dei capisaldi per una più agevole lettura delle considerazioni successive.
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Come noto, le riforme degli anni 2012 e 2015 hanno lasciano inalterati i requisiti di validità del licenziamento, fissati dalla L. 15 luglio 1966, n. 604 ; esse sono viceversa intervenute sulle sanzioni applicabili ad un licenziamento viziato.
Prima di affrontare l’esame di questo secondo aspetto del problema che costituisce l’oggetto di queste riflessioni, occorre tuttavia prendere le mosse dal profilo sostanziale dei requisiti di validità del licenziamento.
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È parimenti noto che il potere di recesso unilaterale attribuito a ciascuna parte del rapporto di lavoro subordinato è istituito dall’art. 2118, comma 1, Cod. civ. il quale non prevedeva speciali requisiti di validità dell’atto se non quelli propri del negozio giuridico . La legge sui licenziamenti individuali, con l’art. 1, L. n. 604/1966, è intervenuta nella regolamentazione dell’istituto restringendolo nei confini di un atto a forma e causale vincolata. L’art. 2, L. n. 604/1966 ha imposto al recesso il requisito essenziale della forma scritta e, nella sua ultima formulazione ex L. n. 92/2012, ha imposto altresì la contestuale esposizione dei motivi che, nella prospettiva del datore, lo fondano; infine, l’ordinamento è punteggiato di norme che variamente scavano ancora nello spazio di liceità dell’atto, sancendone la nullità al ricorrere di questo o quel presupposto: l’ascrivibilità del recesso al matrimonio (art. 35, D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198) o alla domanda o fruizione del congedo parentale (art. 54, comma 6, D.Lgs. n. 151/2001); la sua comunicazione in periodo di maternità tutelato (art. 54, comma 1, 5 e 9, D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151); e via elencando.
Pertanto, oggi, nella generalità dei rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato, il recesso individuale può essere validamente comunicato:
• ad nutum nei casi residuali ed eccezionali ancora ammessi dall’ordinamento, tra cui il periodo di prova (art. 10, L. n. 604/1966 e art. 2096 Cod. civ.) ;
• adducendo (e, in seguito, dimostrando) una delle causali tipiche previste dalla legge in tutti gli altri casi, ossia:
• giustificato motivo o giusta causa (art. 1, L. n. 604/1966);
• superamento del periodo di comporto (art. 2110 Cod. civ.): ipotesi che non tratteremo perché (pur essendovi collegato) non rientra nel tema di indagine .
Qualora non si verta in una delle eccezionali situazioni che legittimano il licenziamento ad nutum, il potere di recesso del datore di lavoro sussiste esclusivamente nei confini tracciati dal combinato disposto degli artt. 2118, comma 1, Cod. civ. e art. 1, L. n. 604/1966.
Il punto richiede un breve approfondimento che illustri il rapporto tra art. 1 e art. 3, L. n. 604/1966.
LE FUNZIONI DIVERSE DELL’ART. 1 E DELL’ART. 3, L. N. 604/1966
Come ricordato, l’art. 1, L. n. 604/1966 ha stabilito che nel rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell’art. 2119 Cod. civ. o per giustificato motivo. Detta norma ha indubbiamente natura imperativa, posto che l’interesse generale e collettivo – non soltanto individuale – cui la stessa presiede, anche in attuazione di principî costituzionali (artt. 1, 4, 35, 36, 41, comma 2, Cost.) non consentono una sua diversa e meno rigorosa qualificazione.
La disciplina è completata dalla norma dell’art. 3, L. n. 604/1966 secondo la quale il licenziamento per giustificato motivo (soggettivo) con preavviso è determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero (oggettivo) da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.
Orbene.
Le due norme non sono tra loro ridondanti ma assolvono due specifiche e diverse funzioni. L’art. 1, L. n. 604/1966 (insieme all’art. 2118, comma 1, Cod. civ. nel quale si innesta) istituisce il potere datoriale di recesso e lo confina nell’ambito delle causali ivi tipizzate, vietandolo all’esterno di quel perimetro; l’art. 3, L. n. 604/1966 definisce che cosa sono tali causali, ne spiega il contenuto enucleando la duplice nozione di giustificato motivo e rinviando all’art. 2119 Cod. civ. per la nozione di giusta causa.
Ne consegue che l’art. 3, L. n. 604/1966 è complementare e logicamente subalterno all’art. 1: infatti, esso interviene solamente allorché il licenziamento si trovi già nel perimetro tracciato dall’art. 1, L. n. 604/1966 e assume rilievo poiché in tali casi è necessario verificare se un licenziamento (astrattamente) fondato sul potere di recesso ex art. 1, L. n. 604/1966, risulti in possesso delle caratteristiche specificate dall’art. 3, L. n. 604/1966.
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Ma occorre appunto che il licenziamento identifichi la propria causale nella giusta causa o nel giustificato motivo.
Se il licenziamento è privo di causale o munito di una causale estranea all’ambito dell’art. 1, L. n. 604/1966 (quale potrebbe essere, ad esempio, il superamento del comporto), l’art. 3, L. n. 604/1966 non può svolgere alcun ruolo poiché la sua funzione è quella di definire che cosa sia un giustificato motivo e non ha alcun senso avviare una tale indagine laddove il giustificato motivo non sia affatto la causale su cui il licenziamento stesso pretende di fondarsi. E, alla medesima conclusione, deve pervenirsi allorché il licenziamento assuma quale propria causale di liceità, la libera recedibilità sancita dagli artt. 10, L. n. 604/1966 e art. 2096 Cod. civ.
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A differenza di quanto poteva avvenire prima della «Riforma Fornero», l’esplicitazione dei motivi del licenziamento (e, dunque, della causale sulla quale esso assume di fondarsi) deve oggi avvenire contestualmente al recesso stesso . E non potrà (come in passato) essere specificata in un secondo momento : dedotta una specifica causale di licenziamento al momento della sua comunicazione, essa non potrà essere modificata successivamente ).
Questa circostanza impone di riesaminare criticamente alcuni degli arresti che vengono sovente invocati a sostegno degli orientamenti contrari: tali arresti si sono in realtà formati in un contesto normativo nel quale era talora consentito al datore allegare i motivi di licenziamento fino al giudizio e, pertanto, letti oggi fuori dal loro contesto, conducono a risultati fuorvianti .

ESATTA IDENTIFICAZIONE DELLA CAUSALE E INDAGINE SULLA SUA FONDATEZZA: IL LICENZIAMENTO SARÀ «INFONDATO» PER ASSENZA DEL GIUSTIFICATO MOTIVO O DELLA GIUSTA CAUSA O DEGLI ALTRI PRESUPPOSTI MA NON «ILLECITO» PER ASSENZA DELLA CAUSALE
Appare chiaro a questo punto che il vaglio del giustificato motivo (o della giusta causa) possa essere avviato soltanto nei casi in cui il licenziamento li adduca ab origine a propria causale. Allora il Giudice, con il metro dell’art. 3, L. n. 604/1966, potrà e dovrà riscontrare il motivo addotto nel licenziamento nelle circostanze di fatto e nei requisiti di diritto che la legge richiede. Si dovrà pertanto verificare, ad esempio, se la soppressione del posto indicata nel licenziamento sia stata effettiva e se sia stato assolto il repêchage; se l’addebito contestato si sia realmente verificato e se il fatto materiale rappresenti un fatto giuridicamente rilevante; e cosi via.
Si tratta in questo caso di un’indagine sulla fondatezza del giustificato motivo. In questo caso, infatti, il datore esercita un potere che – astrattamente – l’ordinamento gli attribuisce ma lo esercita in assenza dei presupposti; nel caso del quale ci occupiamo, quello di licenziare ad nutum senza avere la copertura dell’art. 10, L. n. 604/1966, invece, il datore esercita un potere che non ha.
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Al contrario, sarebbe errato procedere alla verifica della fondatezza del giustificato motivo (o della giusta causa) qualora tale causale non sia posta a fondamento del licenziamento dal suo stesso autore. Ciò, da un lato, per una necessità di ordine logico: poiché non si può trovare riscontro a ciò che non è mai stato allegato; e, dall’altro, per una necessità di natura formale: stante l’odierno art. 2, L. n. 604/1966, il motivo di licenziamento (e, dunque, la causale assunta dal recedente) deve essere consacrata nella comunicazione di recesso, restando inammissibili e irrilevanti le eventuali «mutationes libelli» successive.
L’art. 3, L. n. 604/1966, pertanto, non è un abito buono per tutte le stagioni. Lo si applica nei soli casi di licenziamento ex art. 1, L. n. 604/1966. Negli altri casi, dovrà essere vagliata la validità e la fondatezza del licenziamento in base alla disciplina di riferimento senza che l’art. 3, L. n. 604/1966 possa giocare alcun ruolo. Riprendendo l’esempio sopra accennato, qualora un licenziamento si dichiari (astrattamente) fondato sul superamento del periodo di comporto, la verifica giudiziale si appunterà sul rispetto dell’art. 2110 Cod. civ. non certo sull’art. 3, L. n. 604/1966. E, nel caso in cui il comporto risulti infondato (ad esempio, per insufficienza dei giorni di assenza denunziati) o inapplicabile (ad esempio, perché la malattia è stata causata dal datore di lavoro), il datore non potrà difendersi sostenendo (o finanche dimostrando) che, comunque, sussistono ulteriori assenze per malattia , né tantomeno, a fortiori, che sussistono gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo. Parimenti, tornando al nostro caso, il licenziamento che si dichiari fondato (espressamente o, di norma, tacitamente) sul diritto di recedere ad nutum, ossia sul combinato disposto degli artt. 2118 e 2096 Cod. civ. e art. 10, L. n. 604/1966, non potrà poi essere verificato ancora sulla scorta dell’art. 3, L. n. 604/1966, poiché tale ricerca non potrebbe approdare ad alcun risultato che sia rispettoso della stessa volontà datoriale, cristallizzata nel recesso, e dei limiti posti dall’art. 2, L. n. 604/1966.
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Vedremo a breve che la ricostruzione fin qui tracciata non è fine a se stessa: essa trova specchio nel sistema del D.Lgs. n. 23/2015 con conseguenze applicative di cruciale rilevanza.
L’APPLICAZIONE DEI RICHIAMATI PRINCIPÎ AL CASO IPOTIZZATO. PRIMA CONCLUSIONE: IL LICENZIAMENTO È NULLO PER VIOLAZIONE DELL’ART. 1, L. N. 604/1966
Possiamo ora pervenire alla soluzione del caso che rappresenta l’oggetto della nostra indagine.
Il datore ha (erroneamente) esercitato il potere di recesso ad nutum istituito dal combinato disposto degli artt. 2118 e 2096 Cod. civ. e art. 10, L. n. 604/1966; ossia, un potere del quale nelle condizioni date egli era privo in radice. Il licenziamento in esame, dunque, è nullo perché contrario alla norma imperativa dell’art. 1, L. n. 604/1966, ai sensi dell’art. 1418, comma 1, Cod. civ.
(SEGUE) SECONDA CONCLUSIONE: IL VIZIO DELLA NULLITÀ PUÒ CONDURRE A SANZIONI MODULATE DIVERSAMENTE DALLA LEGGE
Non v’è infatti dubbio che le norme che presiedono alla disciplina del licenziamento siano pressoché tutte qualificabili come imperative. Tale è senz’altro l’art. 1, L. n. 604/1966. Un atto che violi una norma imperativa sarà pertanto immancabilmente nullo ex art. 1418 Cod. civ.
Ciò non significa di per sé che l’ordinamento ricolleghi a tale nullità sempre e comunque la disciplina classica dell’antigiuridicità: secondo l’insegnamento di Cass., SS.UU., 22 maggio 2018, n. 12568 (sulla quale torneremo più diffusamente), infatti, il legislatore può ben graduare la gravità delle conseguenze del medesimo vizio in ragione del diverso disvalore dei casi:
«Infatti, in considerazione d’un minor giudizio di riprovazione dell’atto assunto in violazione di norma imperativa, ben può il legislatore graduare diversamente il rimedio ripristinatorio pur in presenza della medesima sanzione di nullità, di guisa che la citata previsione del comma 7 dell’art. 18 si pone come norma speciale rispetto a quella generale contenuta, nel comma 1 là dove si parla di altri casi di nullità previsti dalla legge» (Cass., SS.UU., n. 12568/2018, punto 3.5).
Data la nullità dell’atto, dunque, l’identificazione della sanzione è un tema altro.
IL RUOLO SVOLTO DAL D.LGS. N. 23/2015
Affrontiamo ora il punto nodale del nostro scritto.
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Il problema dell’interprete nasce dal fatto che il D.Lgs. n. 23/2015 non reca un’espressa disciplina del caso che ci occupa: un licenziamento per mancato superamento della prova comunicato senza la copertura dell’art. 10, L. n. 604/1966. La soluzione dovrà pertanto essere ricavata in via ermeneutica.
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Ricordiamo brevemente il sistema del D.Lgs. n. 23/2015.
La prima e più grave delle sanzioni prevede la reintegrazione nel posto di lavoro ed il risarcimento pieno del dipendente. La norma dell’art. 2, D.Lgs. n. 23/2015 contempla quattro ipotesi:
i) la discriminazione a norma dell’art. 15 Statuto dei Lavoratori (i c.d. «licenziamenti odiosi»);
ii) il licenziamento in forma orale (art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 23/2015);
iii) il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità del lavoratore (art. 2, comma 4, D.Lgs. n. 23/2015);
iv) gli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge (art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 23/2015), ossia:
• a causa di matrimonio (art. 35, D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198);
• nel periodo di tutela obbligatoria della maternità (art. 54, comma 1, 5 e 9, D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151);
• a causa della domanda o dalla fruizione del congedo parentale (art. 54, comma 6, D.Lgs. n. 151/2001).
La quarta ipotesi, norma di chiusura, è quella rilevante per la nostra indagine e sarà ripresa più avanti.
La seconda sanzione, in ordine di severità, è quella sancita dall’art. 3, comma 2, D.Lgs. n. 23/2015. La sanzione prevede l’annullamento del licenziamento, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e il pagamento di un’indennità risarcitoria fino a 12 mensilità, oltre al versamento dei contributi previdenziali.
Tale sanzione è applicabile «esclusivamente» nei casi in cui sia «direttamente dimostrata in giudizio» l’insussistenza del fatto materiale addebitato al lavoratore, quale premessa a licenziamenti per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo.
La sanzione immediatamente più blanda è quella prevista dall’art. 3, comma 1, D.Lgs. n. 23/2015. Salvo quanto previsto nel caso precedente, il licenziamento che risulti ingiustificato, ossia privo di giustificato motivo oggettivo o di giustificato motivo soggettivo o giusta causa, determina l’applicazione di una sanzione indennitaria di misura variabile .
Infine, la sanzione più blanda del catalogo è prevista per i licenziamenti affetti da meri vizi formali o procedurali (art. 4, D.Lgs. n. 23/2015).
IL SISTEMA DEL D.LGS. N. 23/2015: L’OGGETTO DEGLI ARTT. 3 E 4; LA NORMA DI CHIUSURA È DATA DALL’ART. 2 (NON DALL’ART. 3), D.LGS. N. 23/2015
Svolte queste premesse, osserviamo che il sistema del D.Lgs. n. 23/2015 non si incentra sull’art. 3, comma 1. Tale tesi si risolve, in sostanza, nell’attribuire il ruolo di norma generale all’art. 3, comma 1, D.Lgs. n. 23/2015, facendovi confluire le fattispecie non meglio qualificate e relegando tacitamente a fattispecie residuali quelle previste dall’art. 2 e dall’art. 3, comma 2, D.Lgs. n. 23/2015 (nonché dall’art. 4).
Tale ricostruzione paga presumibilmente un tributo eccessivo alle presunte intenzioni del legislatore storico, il quale avrebbe forse voluto completare il superamento della reintegrazione quale rimedio generale ai vizi del licenziamento, avviato dalla L. n. 92/2012, sostituendolo con la tutela indennitaria. Il dato normativo cui l’interprete deve rivolgersi conduce tuttavia a risultati differenti.
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La norma di chiusura della disciplina delle «tutele crescenti» è invece l’art. 2, D.Lgs. n. 23/2015. Le altre disposizioni, a ben guardare, hanno un ambito di applicazione specifico e tassativo. L’art. 3, comma 2, D.Lgs. n. 23/2015 si rivolge alla fattispecie del licenziamento disciplinare il cui addebito si riveli insussistente.;L’art. 3, comma 1, D.Lgs. n. 23/2015, disciplina il (solo) caso in cui:
«[…] risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa […]» (art. 3, comma 1, D.Lgs. n. 23/2015).
Quindi non ogni licenziamento cadrà nell’ambito di applicazione dell’art. 3, comma 1, D.Lgs. n. 23/2015 ma solo quelli che, emanati per un asserito giustificato motivo o un’asserita giusta causa, non resistano alla prova del giudizio rivelandosi infondati.
Tale conclusione è sorretta non soltanto dalla ricostruzione sistematica offerta nelle pagine che precedono ma anche dal tenore letterale della norma che definisce il proprio ambito esclusivamente con riferimento al vizio dei presupposti descritti dall’art. 3, L. n. 604/1966.
Tale conclusione appare oggi indubitabile, tanto più alla luce di Cass., SS.UU., 22 maggio 2018, n. 12568 su cui torneremo.
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Nel caso che esaminiamo, viceversa, l’unico presupposto che merita di essere verificato è quello della sussistenza, al momento del recesso, di un patto di prova valido ed efficace: unico presupposto necessario e sufficiente a fondare un licenziamento ex artt. 2118, 2096 Cod. civ. e art. 10, L. n. 604/1966.
Per converso, l’inefficacia del patto al momento del recesso è tutto quanto serve al Giudice per pervenire all’esatta identificazione del vizio (nullità per contrasto con l’art. 1, L. n. 604/1966) e della sanzione (l’art. 2, D.Lgs. n. 23/2015).
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Come si è detto, la nullità dell’atto di licenziamento in esame discende dal combinato disposto della norma generale dell’art. 1418, comma 1, Cod. civ. che colpisce gli atti (ex art. 1324 Cod. civ.) contrari a norme imperative, identificata, nel nostro caso, dall’art. 1, L. n. 604/1966.
Le conseguenze immediate della disposizione, dunque, dovrebbero essere quelle della c.d. «nullità di diritto comune» .
Sennonché lo stesso art. 1418, comma 1, Cod. civ., fa salvi i casi in cui «la legge disponga altrimenti». Nel caso che ci occupa, a nostro avviso, una tale disposizione speciale esiste e va identificata proprio nell’art. 2, D.Lgs. n. 23/2015. È infatti all’art. 2, D.Lgs. n. 23/2015 che la legge affida la regolazione dei casi di nullità del licenziamento, abbracciando nel proprio ambito, tra gli altri, gli «altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge».
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Va detto che, ad avviso di chi scrive, l’art. 2, D.Lgs. n. 23/2015 si presta ad accogliere tutti i casi di nullità. L’unico ostacolo interpretativo che potrebbe impedire l’approdo ad una tale piana conclusione è dato dall’avverbio «espressamente» che il legislatore ha introdotto nella formulazione dell’art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 23/2015, innovando rispetto al proprio precedente diretto rappresentato dall’art. 18, comma 1, Statuto dei Lavoratori (sul dettaglio di questo tema torneremo a breve).
Se cosi non fosse, come si è detto, la chiusura del sistema del D.Lgs. n. 23/2015 non sarebbe comunque data dall’art. 3, comma 1, che ha il limite ben preciso, come si è detto, dei casi di infondatezza del giustificato motivo o della giusta causa; bensì dall’art. 1418 Cod. civ. e dal regime della nullità di diritto comune .
IL PROBLEMA ERMENEUTICO DETERMINATO DALL’AVVERBIO «ESPRESSAMENTE»
Come ricordato, secondo l’art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 23/2015, sono assimilati nella più grave sanzione i licenziamenti:
«nulli perché discriminatori ovvero perché riconducibili agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge».
L’avverbio «espressamente» ha sollevato non poche perplessità in dottrina poiché è lecito domandarsi se esso introduca un discrimine all’interno dei licenziamenti affetti da nullità, tale da condurre ciascun gruppo ad una diversa disciplina .
L’avverbio «espressamente» non può sottrarre ipotesi di nullità all’ambito di applicazione dell’art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 23/2015. Una diversa lettura della norma, incentrata sul mero dato letterale, presterebbe infatti il fianco a dubbi di costituzionalità per eccesso di delega.
È infatti agevole ricordare che l’art. 1, comma 7, lett. ‘c’, L. 10 dicembre 2014, n. 183 indicava al legislatore delegato altri obiettivi:
«c) […] tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, […] e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento».
Schematizzando, la delega mandava il legislatore:
• ad escludere la reintegrazione per i soli licenziamenti economici;
• a limitare la reintegrazione ai licenziamenti nulli;
• ai licenziamenti discriminatori;
• a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato.
La delega, dunque, non consentiva al legislatore delegato di selezionare tra «diverse» nullità, essendo queste tutte contemplate tra quelle destinate alla reintegrazione. In altri termini, la riduzione del campo di applicazione della reintegrazione delineata dalla legge delega riguarda esclusivamente i licenziamenti economici e i licenziamenti disciplinari (e non tutti) ma non riguarda assolutamente l’area del licenziamento nullo e discriminatorio. Non vi è quindi nella L. n. 183/2014 alcuna delega a modificare il regime dei licenziamenti discriminatori e nulli .
* * *
Si noti altresì che una lettura formalistica e letterale dell’avverbio «espressamente» respingerebbe al di fuori del campo di applicazione dell’art. 2, D.Lgs. n. 23/2015, in generale, le c.d. «nullità virtuali», le quali rappresentano ipotesi tutt’altro che marginali. Ad esempio:
• quelle derivanti da contrarietà a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume («causa illecita»: art. 1344, 1324, 1418 Cod. civ.);
• quelle che costituiscono il mezzo per eludere una norma imperativa («causa illecita per frode alla legge»: art. 1344, 1324, 1418 Cod. civ.);
• quelle derivanti da un motivo illecito determinante (artt. 1345, 1324, 1418 Cod. civ.) .
L’INSEGNAMENTO DI CASS., SS.UU., 22 MAGGIO 2018, N. 12568
La tesi esposta, si ritiene, trova oggi un solido supporto nella sentenza delle Sezioni Unite che, pur trattando la materia del licenziamento per superamento del periodo di comporto, fissa principî applicabili anche al caso che ci occupa.
Afferma Cass., SS.UU., 22 maggio 2018, n. 12568 che:
«[…] Infatti, mentre l’oggetto dell’accertamento giurisdizionale va calibrato in ragione del motivo di licenziamento enunciato, l’individuazione dell’eventuale sanzione applicabile (nullità, inefficacia, annullamento etc.) va pur sempre parametrata al fatto come in concreto emerso all’esito del giudizio, a prescindere dall’originaria prospettiva di parte datoriale.
[…]
L’opzione ermeneutica della mera inefficacia non può suffragarsi neppure adducendo che, ad ogni modo, la fattispecie legittimante il recesso (vale a dire il, superamento del periodo di comporto) si potrebbe realizzare successivamente: a ciò è agevole obiettare che i requisiti di validità del negozio vanno valutati al momento in cui viene posto in essere […] e non già al momento della produzione degli effetti […].
3.5. Deve altresì escludersi che il licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto, ma anteriormente alla sua scadenza, sia meramente ingiustificato, tale dovendosi - invece considerare solo quello che venga intimato mediante enunciazione d’un giustificato motivo o d’una giusta causa che risulti, poi, smentita (in punto di fatto e/o di diritto) all’esito della verifica giudiziale.
[…]
Né per definire come meramente ingiustificato il licenziamento intimato prima dello spirare del termine massimo di comporto si dica che, esclusa tale ipotesi, quel che residua è un licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo e, come tale, ingiustificato: si tratta d’un mero artificio dialettico che trascura il dato di fatto che il licenziamento è stato pur sempre intimato per il protrarsi delle assenze del lavoratore sul presupposto giuridicamente erroneo (perché contrastante con l’art. 2110 cod. civ., comma 2) che ciò sia consentito ancora prima dello spirare del termine massimo di comporto.
Diversamente opinando, qualunque licenziamento nullo (perché discriminatorio, viziato da motivo illecito determinante o lesivo di norma imperativa di legge) verrebbe pur sempre a collocarsi nell’area della mera mancanza di giustificazione.
3.6. Deve, invece, darsi continuità alla giurisprudenza di questa S.C. che considera nullo il licenziamento intimato solo per il protrarsi delle assenze dal lavoro, ma prima ancora che il periodo di comporto risulti scaduto […].
Muovendo dall’interpretazione, dell’art. 2110 cod. civ., comma 2, […] va evidenziato che il carattere imperativo della norma, in combinata lettura con l’art. 1418 cod. civ., non consente soluzioni diverse.
[…]» .
CONCLUSIONI
Possiamo pertanto riassumere la tesi esposta nelle seguenti conclusioni. Il D.Lgs. n. 23/2015 si presta ad una ricostruzione sistematica nella quale la norma generale di chiusura del sistema è data dall’art. 2, non dall’art. 3, comma 1, che, viceversa, è dedicato alla regolazione di una fattispecie precisa e limitata. Tale fattispecie è quella del licenziamento per giustificato motivo o giusta causa che non vengano adeguatamente dimostrate in giudizio. Un licenziamento ad nutum, viceversa, sarà valido ed efficace se adottato nei casi e limiti consentiti dall’ordinamento; viceversa sarà un licenziamento illecito e, come tale, nullo. La sua sanzione, nell’ambito delle «tutele crescenti» sarà pertanto quella propria prevista dall’art. 2.

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