Testo integrale con note e bibliografia

1. La nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento
Per la discussione che vorrei proporre sulle recenti sentenze della Corte costituzionale in materia di licenziamenti è necessario un chiarimento preliminare circa la nozione di “giustificato motivo oggettivo” a cui faccio riferimento. È la nozione della quale mi sono proposto di mostrare il fondamento in diverse trattazioni degli ultimi due decenni: l’unica che, a mio avviso, dà conto in modo unitario del concetto sul quale la disciplina del recesso non disciplinare del datore di lavoro è imperniata. Nozione opinabilissima, ovviamente; ma chi non la condivide ha l’onere di indicare quale sia la nozione, unitaria o no, che ritiene preferibile e a cui pertanto ritiene debba farsi, invece, riferimento.
La nozione che propongo, dunque, è questa: il g.m.o. è una perdita attesa dall’imprenditore come conseguenza della prosecuzione del singolo rapporto di lavoro – in termini sia di costo contabile sia di «costo opportunità» – superiore rispetto a una soglia massima ragionevolmente accollabile all’impresa.
Una perdita attesa: dunque un evento futuro. A differenza del giustificato motivo disciplinare, che invece consiste in un fatto già accaduto: la mancanza imputata al dipendente.
Dalla notissima sentenza della Corte di Cassazione n. 25201/2016 e dalle successive che si sono collocate nella sua scia si può trarre una conferma della nozione proposta. Quando, infatti, esse affermano che «Ai fini della legittimità del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, l’andamento economico negativo dell’azienda nel suo complesso non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare […]», esse dicono in sostanza che ciò che conta non è il fatto che l’impresa nel suo complesso abbia un bilancio in passivo, né che sia in rosso il bilancio di una sua unità produttiva, bensì che la cessazione del rapporto di lavoro in questione sia destinata a incidere in misura rilevante sull’efficienza gestionale dell’impresa (perché dalla prosecuzione del rapporto ci si dovrebbe altrimenti ragionevolmente attendere una perdita).
Si osservi come questa costruzione si distingua nettamente da quella che definisce il g.m.o. in termini di “corretta gestione dell’impresa”, implicante un sindacato giudiziale sui criteri di conduzione aziendale, che è escluso dalla giurisprudenza ordinaria e quella costituzionale.
Alla nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento qui proposta fa implicitamente riferimento anche il legislatore quando, con le riforme del 2012 e del 2015, decide di sostituire al vecchio apparato sanzionatorio in materia di licenziamento, centrato sostanzialmente su di una property rule (la reintegrazione nel posto di lavoro, che attribuisce alla persona interessata il potere di fissare il prezzo della rinuncia al posto stesso), un apparato sanzionatorio centrato su di una liability rule, ovvero la predeterminazione – quanto meno nei limiti minimo e massimo – dell’indennizzo dovuto dal datore nel caso in cui il motivo addotto sia stato ritenuto dal giudice inidoneo a giustificare il recesso. Basti considerare in proposito che la prospettiva di dover pagare in quest’ultimo caso un indennizzo di entità n costituirà automaticamente un deterrente perfetto contro il licenziamento il cui motivo effettivo sia costituito dall’attesa di una perdita di entità inferiore a n (a meno che il motivo reale sia un altro non ostensibile: caso che spetta al giudice accertare e per il quale è comminata la sanzione ripristinatoria del rapporto).
In un suo libro recente su questo tema (Anni difficili, Giappichelli, 2020, p. 21) e poi di nuovo nel dibattito che ne è seguito (Risposta, LDE, n. 2/2021, § 3, pp. 6-7 dell’estratto) Stefano Giubboni contesta la classificazione come property rule, nel senso originariamente proposto dai padri del Law & Economics G. Calabresi e D. Melamed, da me proposta a proposito della sanzione reintegratoria prevista dall’articolo 18 St. lav. nella sua versione precedente al 2012. Ma a me – e non soltanto a me (v. sul punto anche Massimo Pallini, Anni difficili… anche per il Law & Economics, LDE, n. 2/2021) – sembra proprio che su questo punto S.G. sbagli e che l’idea del passaggio dalla property alla liability rule colga invece in modo molto preciso il nocciolo della riforma della disciplina dei licenziamenti entrata progressivamente in vigore tra il 2012 e il 2015.

2. Il contenuto essenziale della sentenza costituzionale n. 194/2018 e il suo contrasto con la decisione sulla stessa materia del Conseil constitutionnel francese del 2015
I passaggi più rilevanti della prima delle sentenze costituzionali qui considerate sulla nuova disciplina dei licenziamenti sono questi: la Corte, richiamando puntualmente la propria giurisprudenza precedente sul punto, conferma la legittimità della scelta compiuta dal legislatore di sostituire l’apparato sanzionatorio contro il licenziamento ingiustificato centrato su di una property rule con uno centrato su di una liability rule; conferma inoltre la ragionevolezza e congruità dell’entità massima dell’indennizzo per il licenziamento ingiustificato previsto dalla legge (24 mensilità dell’ultima retribuzione) anche prima del suo aumento del 50 per cento disposto dal decreto-legge n. 87/2018; ritiene invece non ragionevole la scelta del legislatore di predeterminare l’indennizzo rigidamente in relazione all’anzianità di servizio della persona interessata; attribuisce pertanto al giudice il compito di determinare l’indennizzo caso per caso, in relazione al danno determinatosi in concreto.
Merita di essere segnalato il contrasto netto fra questa decisione della Corte costituzionale italiana e la decisione con la quale tre anni prima il Conseil constitutionnel francese aveva ritenuto legittima la norma che in quell’ordinamento correlava l’indennizzo all’anzianità di servizio del lavoratore licenziato (sentenza 5 agosto 2015). Non si tratta soltanto di una curiosità comparatistica: la decisione del Conseil constitutionnel si basa su alcuni seri motivi che sconsigliano una correlazione tra indennizzo e danno accertato caso per caso, ciascuno dei quali può essere considerato come un profilo di ragionevolezza della scelta compiuta dal legislatore italiano, al pari di quello francese e di quello della grande maggioranza degli ordinamenti dei Paesi sviluppati occidentali.
La sentenza n. 194/2018, significativamente, non indica neppure uno dei fattori determinanti dell’entità del danno patito dalla persona interessata a cui il giudice dovrà fare riferimento, ulteriori rispetto ai due indicati nella norma italiana ritenuta incostituzionale (entità dell’ultima retribuzione e anzianità di servizio). Vediamo quali possono essere questi altri fattori:
- quantità e qualità dell’assistenza di cui la persona interessata può disporre nella ricerca;
- entità e durata del trattamento di disoccupazione assicurato;
- condizioni del mercato del lavoro entro il raggio di mobilità della persona;
- sua età e suoi carichi di famiglia;
- livello e tipo della sua professionalità;
- intensità dell’impegno che essa profonde nella ricerca dell’occupazione;
- ampiezza della sua disponibilità ad accettare occasioni di lavoro diverse.
Ora, per quel che riguarda i primi due, appare del tutto ragionevole che il legislatore basi le proprie scelte in materia di indennizzo sull’idea che il trattamento amministrativo e previdenziale riservato a chi perde il posto sia sostanzialmente omogeneo su tutto il territorio nazionale (anche perché le eventuali differenze non paiono suscettibili di misurazione in sede giudiziale). Quanto alle condizioni del mercato del lavoro locale, è altrettanto ragionevole che il policy maker decida di non aumentare quello che gli economisti del lavoro chiamano severance cost nelle zone più svantaggiate del Paese, per evitare di innescare una spirale perversa tra condizioni peggiori del mercato del lavoro, costi del c.d. aggiustamento industriale corrispondentemente più alti, peggiore allocazione delle risorse, minore produttività del lavoro. Un discorso in parte analogo vale per l’età e i carichi di famiglia della persona interessata: non sembra che possa considerarsi irragionevole la scelta del medesimo policy maker di non commisurare l’indennizzo a questi due dati per non correre il rischio di penalizzare nel mercato del lavoro proprio le persone cui si vuole assicurare maggiore protezione (un severance cost più elevato costituisce un handicap negativo per chiunque sia alla ricerca di un nuovo lavoro, a parità di altre condizioni). Quanto al livello della professionalità del lavoratore, i soli suoi indicatori cui possa fare riferimento il legislatore sono retribuzione e durata del rapporto, che già costituiscono i parametri indicati dalla legge per la determinazione dell’indennizzo.
Restano dunque gli ultimi due fattori determinanti del danno conseguente al licenziamento: l’impegno profuso nella ricerca e l’ampiezza della disponibilità della persona interessata per la nuova occupazione. Ma questi sono entrambi pressoché inconoscibili per il giudice e comunque difficilissimamente dimostrabili in un procedimento giudiziario. Senza contare che in tutti i casi in cui il procedimento stesso è debitamente celere essi costituiscono per la maggior parte comportamenti futuri della persona interessata, che pertanto inevitabilmente sfuggono a qualsiasi apprezzamento del giudice cui compete di determinare il danno subito in concreto e il relativo indennizzo.
Tutto questo discorso mira a spiegare il motivo principale per cui non solo nell’ordinamento francese, ma anche nella quasi totalità degli altri l’indennizzo per il licenziamento ritenuto dal giudice ingiustificato viene determinato sulla base dei soli parametri dell’ultima retribuzione e dell’anzianità di servizio. Come può dunque essere considerata “irragionevole” una scelta che tanti altri legislatori nazionali hanno compiuto? Su questo punto cruciale, nella motivazione della sentenza le questioni qui esaminate avrebbero dovuto essere discusse criticamente; invece questa discussione viene omessa. La motivazione si limita a menzionare le due leggi precedenti nelle quali la determinazione dell’indennizzo entro un limite minimo e uno massimo è stata affidata alla discrezionalità del giudice, dimenticando che i criteri cui il giudice dovrebbe attenersi secondo quelle leggi riguardano circostanze – quali le dimensioni dell’azienda e il comportamento delle parti nella determinazione del licenziamento – che nulla hanno a che fare con la quantificazione del danno in concreto.
Vero è che la Corte indica come aspetto di illegittimità costituzionale anche l’insufficiente effetto dissuasivo dell’indennizzo previsto dal d.lgs. n. 23/2015. Ma per aumentare l’effetto deterrente dell’indennizzo sarebbe stata sufficiente la correzione in aumento del limite minimo dell’indennizzo, sul quale invece non ha inciso il dispositivo della sentenza.
Un argomento ricorrente nei commenti a questa sentenza è quello secondo cui essa avrebbe evitato che il ruolo del giudice venisse ridotto a un compito meramente ragionieristico di moltiplicazione dell’ultima retribuzione per l’anzianità di servizio. Ma, considerato quanto ho prima esposto circa i motivi ragionevoli che sconsigliano la commisurazione dell’indennizzo al danno subito dalla persona licenziata in concreto, non si vede perché debba essere considerato come un disvalore il fatto che l’indennizzo stesso sia predeterminato nella sua entità dalla legge, restando affidata al giudice la funzione – di ben maggiore delicatezza e complessità – di valutare il motivo addotto a sostegno del licenziamento e di accertare l’eventuale motivo illecito effettivo.

 

3. La sentenza costituzionale sulla legge Fornero: la questione della disparità di trattamento fra il caso del difetto totale del motivo disciplinare e quello del difetto totale del motivo economico-organizzativo
La sentenza della Consulta n. 59/2021 ha per oggetto la parte della legge n. 92/2012 che disciplina il caso in cui il giudice ravvisi la totale insussistenza della giustificazione addotta dal datore di lavoro a sostegno del licenziamento. La sentenza dichiara irragionevole la disparità di trattamento istituita da questa legge tra il caso di insussistenza del motivo economico-organizzativo e il caso di insussistenza del motivo disciplinare, che essa considera tra loro identici; conseguentemente dichiara costituzionalmente necessaria la parificazione della disciplina del primo rispetto a quella del secondo. Anche nel caso di ritenuta inesistenza del g.m.o., dunque, per effetto di questa decisione della Corte il giudice è senz’altro tenuto a disporre la reintegrazione.
Contrariamente a quanto si legge nella motivazione della sentenza, a me sembra che le due fattispecie presentino alcune differenze abbastanza evidenti, per aspetti direttamente rilevanti ai fini dell’apparato sanzionatorio contro il licenziamento ingiustificato.
L’accertamento giudiziale di un comportamento colposo o doloso del dipendente nello svolgimento della prestazione lavorativa presenta una marcata analogia con l’accertamento svolto dal giudice penale sul comportamento di un imputato, ai fini della punizione di un reato: si tratta della verifica circa la sussistenza e l’imputabilità di un fatto (atto commesso dall’imputato) appartenente al passato, suscettibile di prova testimoniale e/o documentale. E, nel caso di non compiuta dimostrazione della colpevolezza della persona imputata, la presunzione di innocenza impone di assolverlo perché il fatto non sussiste, o per non averlo commesso. Infine, l’imputazione del tutto infondata di colpe disciplinari tali da giustificare il licenziamento ha una intrinseca valenza diffamatoria ai danni della persona interessata: essa lede, dunque, in qualche misura il diritto assoluto della persona stessa alla propria onorabilità.
Il controllo del giudice sul giustificato motivo oggettivo è invece un’attività cognitiva di tutt’altra natura. Se è corretta la definizione del g.m.o. proposta all’inizio di questo intervento, l’oggetto del controllo è l’attesa di una perdita destinata a verificarsi nel caso di prosecuzione del rapporto: si tratta dunque della verifica non circa un accadimento passato, bensì circa la ragionevolezza della previsione di un accadimento che ancora deve prodursi; in altre parole, essa consiste in una valutazione de futuro. Il motivo addotto, inoltre, anche se totalmente disatteso dal giudice, non può considerarsi in alcun modo lesivo del diritto assoluto della persona interessata all’onorabilità e all’integrità della propria immagine.
Non sono differenze da poco, queste, fra i due casi. E sono differenze particolarmente rilevanti proprio per la valutazione della differenziazione della disciplina dettata dal legislatore per ciascuno di essi. Nel caso del licenziamento disciplinare è del tutto ragionevole una applicazione del principio della presunzione di innocenza che, nel caso di non compiuta dimostrazione del fatto imputato o della sua imputabilità alla persona interessata, porta ad azzerare senz’altro gli effetti del licenziamento. Nel caso del licenziamento per motivo economico-organizzativo e in particolare del motivo che il datore non ha saputo dimostrare, invece, innanzitutto non si applica la stessa presunzione a favore della persona interessata che opera sul versante disciplinare; inoltre, trattandosi di una valutazione de futuro (rinvio in proposito alla prima parte di questo intervento), i margini di opinabilità delle risultanze istruttorie sono assai più ampi rispetto all’accertamento di un fatto passato. Non può dunque considerarsi di per sé irragionevole che in questo caso la legge lasci alla discrezionalità del giudice la scelta tra la sanzione reintegratoria e quella indennitaria. Né, sempre in considerazione del diverso oggetto del controllo giudiziale, appare irragionevole lasciare qui maggiore spazio a una valutazione del giudice circa il possibile significato del difetto del giustificato motivo oggettivo addotto dal datore, come indice su cui fondare la presunzione di sussistenza di un motivo illecito.
A me sembra dunque che l’affermazione della perfetta identità tra le due fattispecie, contenuta nella sentenza in esame (e ripresa dai primi commenti in sede dottrinale: v. per tutti A. Perulli, La disciplina del licenziamento per g.m.o. ecc., in corso di pubblicazione in RIDL, n. 2/2021, I), non sia condivisibile: le differenze tra i due casi ci sono, eccome, a meno che l’accertamento su un fatto passato si possa considerare come la stessa cosa rispetto alla valutazione circa la prevedibilità di un fatto futuro; e a mio modo di vedere sono differenze più che sufficienti per fornire un fondamento ragionevole alla parziale differenziazione operata dal legislatore del 2012. Ma se anche le si potessero ritenere non sufficienti, sarebbe comunque doveroso che esse venissero attentamente considerate e che si spiegasse analiticamente perché esse non possano ragionevolmente essere poste a base della diversità di disciplina dei due casi.

4. Un aspetto di non piena coerenza tra la sentenza del 2018 e quella del 2021: riduzione e ampliamento della discrezionalità del giudice
Sia la sentenza n. 194/2018 sia la n. 59/2021 ribadiscono la legittimità della scelta del regime basato sulla liability rule, che si conferma dunque come regola generale (costituzionalmente legittima anche se fosse posta dal legislatore senza eccezioni). Questo è l’orientamento della Corte, più volte ribadito nell’arco dell’ultimo ventennio, poi di nuovo in queste due sentenze, dunque consolidato. Orbene, quand’anche potesse prescindersi da tutto da quanto osservato poc’anzi e dovesse quindi condividersi la tesi della perfetta identità fra il caso dell’insussistenza del g.m.o. e quella dell’insussistenza del g.m.s., nonché del conseguente vincolo costituzionale di parità di trattamento legislativo dei due casi, questo vincolo potrebbe essere rispettato dal legislatore sia obbligando il giudice in entrambi i casi all’applicazione della sanzione reintegratoria, sia lasciando al giudice in entrambi i casi la facoltà di scegliere quale delle due sanzioni applicare, tenuto conto delle circostanze.
Corrispondentemente, anche la Consulta, nell’esercizio della propria funzione di correttrice dei difetti di costituzionalità della legge ordinaria, avrebbe potuto eliminare la disparità di trattamento fra i due casi non solo allineando la disciplina del caso del g.m.o. a quella del caso del g.m.s., come ha fatto, ma anche operando l’allineamento in senso inverso: cioè attribuendo al giudice la facoltà di scelta tra le due sanzioni anche nel caso di radicale insussistenza del motivo disciplinare. Considerato il contenuto della decisione del 2018, orientata nel senso dell’allargamento della discrezionalità del giudice, ci si sarebbe potuti attendere una decisione orientata in questo senso anche nella sentenza del 2021. Questa invece è orientata nel senso opposto. Come si spiega questo contrasto?
Adalberto Perulli, nel suo scritto già citato, lo spiega sostenendo l’intrinseca diversità tra la discrezionalità attribuita al giudice per “modulare il quantum dell’indennizzo all’interno di una specifica ‘categoria normativa’ definita dal legislatore (il rimedio indennitario)” e la discrezionalità che “conduce a una decisione costitutiva della stessa ‘categoria normativa’ da impiegare”; nel primo caso si tratterebbe di una discrezionalità “meramente tecnica”, mentre nel secondo si tratterebbe del potere discrezionale di scelta del rimedio […] esso stesso contrario al principio di eguaglianza-razionalità”. Ma se le cose stessero così, la sentenza n. 59/2021 avrebbe potuto e dovuto essere motivata con questo stesso argomento, essendo a quel punto irrilevante il confronto con la disciplina legislativa dettata per altri casi analoghi; nella sentenza, invece, non c’è il minimo cenno a una intrinseca incostituzionalità dell’attribuzione al giudice di una facoltà di scelta tra le due sanzioni, a seconda delle circostanze del caso concreto. E che non ce ne sia il minimo cenno ben si spiega, se si considerano i numerosi casi che possono reperirsi nel nostro diritto penale, amministrativo e minorile, nei quali a un giudice è attribuita la facoltà di determinare discrezionalmente, a seconda delle circostanze, non soltanto il quantum, ma anche il tipo di sanzione. Se l’argomento in esame fosse fondato, in tutti questi casi dovrebbe ravvisarsi la “violazione del principio di uguaglianza e razionalità” ravvisata da Adalberto Perulli.
Anche l’ordinamento tedesco, del resto, attribuisce al giudice del lavoro la facoltà di opzione tra la sanzione reintegratoria e quella indennitaria, sulla base delle allegazioni del datore di lavoro circa l’impatto negativo che la reintegrazione potrebbe avere sull’organizzazione aziendale, senza che – a quanto mi risulta – nessuno abbia mai pensato di ravvisare in questo una “violazione del principio di uguaglianza e razionalità”.
Se dunque l’argomento della violazione del principio di uguaglianza non regge al vaglio critico, resta l’interrogativo circa l’inversione di rotta tra la sentenza n. 194/2018 e la sentenza n. 59/2021 per quel che riguarda la discrezionalità del giudice. Un interrogativo che forse avrebbe meritato almeno un accenno di risposta nella motivazione della seconda sentenza. In particolare avrebbe meritato una spiegazione la scelta della Corte di operare l’allineamento delle due discipline secondo un modello più coerente con il vecchio regime che con il nuovo, nonostante che di quest’ultimo la stessa Corte riconosca la complessiva conformità ai principi costituzionali.

5. Dissenso sulla lettura di queste due sentenze che emerge dai commenti citati
I rilievi critici circa il contenuto delle due sentenze nulla tolgono, ovviamente, all’apprezzamento per la parte di entrambe nella quale la Corte ha ribadito la legittimità dell’impianto complessivo della riforma progressivamente realizzata fra il 2012 e il 2015: la legittimità, cioè, del passaggio dal regime sanzionatorio centrato su di una property rule e quello centrato su di una liability rule. Questa parte delle due sentenze mi sembra invece fortemente svalutata nei commenti già citati di Stefano Giubboni e di Adalberto Perulli, nei quali affiora la tesi della intrinseca incompatibilità di quella riforma con i principi costituzionali. Una cosa è l’opera di “rammendo” compiuta dalla Corte correggendo singole incoerenze ravvisate all’interno del nuovo ordinamento, alla stregua del principio fondamentale di uguaglianza e di ragionevolezza; altra cosa è sostenere l’intrinseca incompatibilità con i principi costituzionali dell’allineamento del nostro Paese agli altri Paesi dell’UE su questa materia.
Auspicare un ritorno all’ordinamento precedente è, ovviamente, del tutto legittimo. Ma non lo è altrettanto affermare che questa scelta sia in qualche modo costituzionalmente obbligata, come mi sembra facciano negli scritti citati Stefano Giubboni e Adalberto Perulli, e come quest’ultimo fa di nuovo nell’intervento introduttivo svolto poc’anzi, giungendo ad accusare il legislatore del 2012-2021, oltre che di “sonno antropologico”, anche di “tradimento costituzionale”. Tesi, quest’ultima, oltretutto, difficilmente sostenibile se si considera che lungo tutto l’arco dell’ultimo mezzo secolo, dopo l’entrata in vigore dello Statuto dei Lavoratori, metà della forza-lavoro italiana è stata costantemente esclusa dal regime centrato sulla property rule contenuta nell’articolo 18: onde appare davvero molto problematico sostenere che questo regime sia il solo compatibile con la protezione del lavoro assicurata dalla Costituzione.
Se il vecchio apparato sanzionatorio, che la riforma del 2012-2015 ha inteso superare, fosse il solo che rispetta i diritti fondamentali dei lavoratori, metà della forza-lavoro italiana dipendente sarebbe stata privata di quei diritti per tutto il mezzo secolo passato e continuerebbe a esserlo: tutti i dipendenti di aziende sotto la soglia dei 16 dipendenti, gli assunti a termine, i collaboratori continuativi, i collaboratori familiari, i dirigenti. Esito, questo, inevitabile perché l’applicazione del regime fondato sulla property rule alla forza-lavoro che gode della protezione più intensa presuppone sempre l’esistenza di una fascia più o meno ampia di peripheral workers che portino su di sé tutto il peso della flessibilità di cui il tessuto produttivo ha bisogno. Ma non è, evidentemente, concepibile un diritto fondamentale della persona suscettibile di applicarsi soltanto a una parte dei cittadini a spese di un’altra parte che – per necessità strutturale – ne resti permanentemente priva.

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