Testo integrale con note e bibliografia

1. Introduzione: la parità di genere negli atenei dopo la l. 240/2010
Sono due i punti di riflessione su cui mi vorrei concentrare nel mio intervento. Il primo rinvia alla necessità di riflettere di parità collegandosi alla l. 30 dicembre 2010, n. 240 Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l'efficienza del sistema universitario, una legge che ha poco più di 10 anni e sta consolidando lo spostamento del sistema universitario sull'autonomia degli atenei. Nella giornata di oggi si è compreso perfettamente che il ruolo degli atenei è fondamentale e abbiamo potuto comprenderne appieno il valore centrale. La stessa domanda del Magnifico Rettore dell’Università di Padova sugli strumenti di incentivazione per promuovere la parità di genere rinvia proprio a questa dimensione .
Il secondo punto di riflessione è collegato agli approfondimenti elaborati per il convegno dell’associazione Gender a Trento nel 2017 dedicati a Università e carriere accademiche. In quella sede, con la collega Madia D’Onghia, tentando di rispondere alla domanda specifica proposta, abbiamo rovesciato l’assunto di partenza . La domanda di riferimento era la seguente: negli ultimi anni una crescente affermazione dei modelli organizzativi di stampo neoliberista ha caratterizzato le università e il mondo della ricerca. In che modo i nuovi orientamenti di governance e le pratiche organizzative emergenti incidono sulle dinamiche di genere nei contesti accademici? Noi ci siamo chieste, provocatoriamente, se i modelli di stampo non neoliberista hanno inciso sulle dinamiche di genere nei contesti accademici. In quell’occasione, abbiamo maturato una certezza: quella che debbano mutare gli strumenti per affrontare il tema delle carriere accademiche, scontata l’importanza della questione sulla quale ci pare di non dover nulla aggiungere, perché ribadita in ogni sede e con una variabile estesa di dati e indici.
Esiste una linea di continuità che accomuna il presente e il passato delle Università: ora con modelli valutati come di stampo neo-liberista come allora, quando non esistevano, le consuetudini delle «tribù accademiche» non cambiano . I dati disaggregati in base al genere confermano (ora come allora) come il risultato di un’adeguata rappresentazione di genere non sia affatto garantito.
Capitalizzando le concrete esperienze maturate negli anni, mi pare importante proporre la necessità di spostare l’attenzione scientifica sugli strumenti e sul metodo di affermazione e valorizzazione della parità in sede universitaria, una proposta per aggiornare una riflessione disciplinare che – almeno per le competenze lavoristiche – da alcuni anni langue, limitandosi a prendere atto della necessità di un intervento regolativo negli Statuti degli Atenei e dell’altrettanto scontato bisogno di prestare attenzione ai piani triennali di azioni positive. Questa coppia di affermazioni dovrebbe rappresentare non un generico punto di arrivo, ma un rinnovato punto di partenza. Perché la presenza delle donne nelle Università in posti di responsabilità va affermata con strumenti adeguati al mutato contesto di riferimento. E nessuno può negare che le Università siano cambiate. Perché, allora, non approfittare del cambiamento per tentare di reimpostare la questione di genere? In questa logica, avendo rivestito fino al 2019 il ruolo di delegata all’assicurazione della qualità e continuando ad operare come valutatrice di sistema ANVUR, vorrei far confluire queste riflessioni su quel percorso che collega la valorizzazione dell’autonomia delle università con la loro reputazione per arrivare al finanziamento della ricerca comunitaria che richiede a ciascun partecipante l’approvazione di un gender equality plan come condizione per accedere al finanziamento. Perché il destino di queste riflessioni non è solo interno, disciplinare, ma si collega alle attività dell’università come soggetto dello Spazio Europeo della Formazione Superiore (European Higher education Area – EHEA).

2. Il diritto del lavoro gender sensitive e la questione della parità di genere negli atenei
Rispetto alla disciplina – il diritto del lavoro – pare seguire con attenzione le questioni dell’antidiscriminazione (regole, accesso al giudice, fattori di rischio diversi dal sesso, le potenzialità), abbandonando i temi della rappresentanza di genere particolarmente attrattivi negli anni Novanta, nel periodo della prima affermazione delle azioni positive in politica. La proposta intellettuale da condividere in questa sede è di andare oltre la l. 125 del 1991 ovvero simbolicamente oltre il percorso scientifico della parità nel lavoro e della rappresentanza femminile bloccato, da approcci e strumenti superati nel tempo, anche in ragione dell’autonomia universitaria affermata con maggiore vigore dal 2010 in poi.
L’attenzione delle studiose del diritto (scontata la quasi totale assenza di contributi maschili in tema) di solito si concentra sulle regole nazionali in materia di parità, si estende più di recente alla tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro in considerazione del rinnovato approccio al tema contenuto nel d.lgs. 81/2008 e conferma la perdurante attualità delle regole contenute nel d.lgs. 165/2001, soprattutto dopo gli innesti effettuati dalla l. 183/2010 che ha modificato obiettivi del testo unico sul lavoro prestato nella pubblica amministrazione, introducendo il CUG (ovvero il comitato unico di garanzia). L’estensione delle competenze del CUG rispetto ai superati Comitati pari opportunità degli Atenei non può essere la ragione delle difficoltà di affermazione delle tematiche paritarie tipicamente del personale docente.
Il pluralismo organizzativo garantisce che le università rimangono sedi in cui si sviluppa il pensiero di genere. Il problema pare piuttosto quello di un’affermazione efficace delle presenze di genere perché le università si confermano nel tempo luoghi di lavoro dove il genere rimane un ostacolo alla progressione di carriera, come ci confermano i dati sulla presenza delle donne nei ruoli dell’Università e il quadro delle abilitazioni scientifiche nazionali .
Tra le cause possibili di un’azione complessivamente poco efficace dal punto di vista giuridico ci pare di poter annoverare la sottovalutazione del quadro regolativo complessivo delle Università che deve comprendere, appunto, un approfondimento del sistema modificato di arruolamento con l’abilitazione scientifica nazionale, una lettura della governance degli Atenei dopo la riforma universitaria fissata dalla l. 240/10 , con gli Statuti e i codici di condotta che l’hanno accompagnata e, infine, l’assenza di ogni considerazione del sistema universitario in action dal processo di Bologna fino al sistema AVA (Accreditamento, Valutazione e Autovalutazione) che condiziona in modo significativo la quotidianità degli atenei italiani.
Come a dire che, anche per le giuslavoriste, la questione della parità di trattamento declinata in ambito universitario deve confrontarsi con un contesto completamente modificato. Le parole utilizzate nella giornata di oggi evocano questo contesto modificato in più passaggi.
Quali correttivi apportare al sistema universitario per superare tali persistenti criticità?
Centrale nella proposta formulata è la valorizzazione dell’approccio integrato tra regole della parità e della qualità dei processi (di didattica, di ricerca, di gestione del personale) che nasce da esperienze che trovano nel processo di Bologna la massima affermazione ideale e si nutrono di sollecitazioni provenienti da vari livelli (da quello europeo fino a quello nazionale e locale) e che propongono una riflessione per obiettivi nel rispetto dell’autonomia delle università valorizzando metodologie comuni e comportanti standard degli attori oggi attivi nelle sedi universitarie.
Se le regole fissate negli Statuti e nei codici di condotta rappresentano non il punto di arrivo, ma di partenza per un’azione efficace in materia di parità di genere negli Atenei, la proposta di metodo che considera la necessità di tradurre l’obiettivo della parità di genere in strumenti “concreti ed operativi” [piano strategico di Ateneo, nella parte dedicata ai valori con azioni finalizzate e target al raggiungimento dei quali l’intera comunità si deve impegnare; piano della performance della struttura amministrativa sia per la parte dei valori che per la parte delle azioni e target; lo stesso vale per le linee guida per il funzionamento dei Dipartimenti] risulta finalizzata all’obiettivo della parità integrata all’azione di governo dell’Ateneo, dal livello centrale fino al livello dipartimentale.
Un esempio? Il più semplice, l’uso dei fondi di ricerca e il loro condizionamento a risultati di ricerche gender sensitive o per il supporto alle ricerche di ricercatrici/docenti donne. A seconda dei contesti specifici o aree CUN – come evidenziano i dati delle presenze femminili – la leva dell’incentivo può essere davvero significativa. Un simile metodo può essere utilizzato anche per i punti organico delle chiamate a livello locale? Se pensiamo che il richiamo al rispetto dei principi della parità di genere nei regolamenti delle Università ha valore pressoché simbolico e come tale è interpretato negli stessi bandi, perché non incidere con la logica dell’incentivo per interrompere i riti e le consuetudini delle tribù che governano gli Atenei?
Il metodo aiuta a identificare l’obiettivo, le azioni e gli strumenti che dovrebbero essere incentivati a livello centrale dalle istituzioni di riferimento, in particolare MIUR ed ANVUR.
Il sistema stesso potrebbe comunque già attivarsi per forza propria supportando il sistema di autovalutazione interna degli Atenei correlato ad una serie di proposte interne di miglioramento:
- L’Ateneo attua una politica di parità tra uomini e donne?
- In quali documenti tali obiettivi sono riconosciuti?
- Quali strumenti sono progettati? Gli strumenti sono integrati nella governance progettata dalla l. 240/10?
- Come viene effettuato il monitoraggio degli indicatori? Quali indicatori sono importanti?
Il ragionamento proposto rinvia al metodo, agli strumenti e al ruolo del diritto del lavoro gender sensitive nella costruzione di una riflessione aggiornata in materia, a partire da una questione di metodo: logica integrata v. considerazione separata delle questioni di genere. Lo specchio nella PA della questione di genere separata rinvia alla considerazione della/delle sedi/documenti separate/i in cui si tiene in considerazione la questione della parità di genere. La prima grande cesura riguarda la situazione del personale docente rispetto al personale tecnico-amministrativo. Esiste un elemento che accomuna l’assunzione di responsabilità dirigenziali in un’università da parte di una donna e la direzione di un Dipartimento da parte di una docente?
Scontata la diversità di soggetti e di regole di gestione delle risorse umane per il personale docente e tecnico amministrativo nell’ambito delle Università, l’idea che muove il contributo è quella di sviluppare un’intuizione ovvero che l’approccio di metodo per la valorizzazione delle presenze di genere debba essere unico nelle Università. Infatti, la natura frammentaria delle policy di genere nei diversi Atenei, se presenti, spesso non produce risultati e non è in grado di creare sinergie e reti tra i diversi attori, anche perché si parte dall’assunto che il problema della c.d. segregazione di genere, sia verticale sia orizzontale, riguardi esclusivamente le donne e non gli interi assetti organizzativi. E il più delle volte ciò dipende anche dalla mancanza di un’accurata attività di studio ed analisi dei fenomeni affrontati, dalla assenza di una attenta valutazione delle politiche e degli interventi già attuati e dalla scarsa comunicazione tra i contesti della ricerca e i promotori di policy.
L’analisi dei dati delle presenze femminili nei diversi atenei rappresenta la premessa alla riflessione (organizzazione universitaria complessivamente intesa, con particolare attenzione alle posizioni apicali e agli organi di governo degli Atenei, e dati relativi alle abilitazioni in termini di presenze femminili nelle commissioni di valutazione).
L’idea proposta e da sviluppare dal punto di vista scientifico, è di adottare la logica integrata tra strumenti diversi in attuazione del gender mainstreaming approach, valorizzando un modello bottom up di attenzione alla ricerca alla didattica e al funzionamento della governance nella logica della quality assurance che potrebbe essere declinata anche con l’obiettivo di enfatizzare il funzionamento della parità di genere in action.
L’idea base è quella della contaminazione metodologica tra i modelli di funzionamento delle università derivante dall’affermazione in ambito Ue degli «Standard e Linee guida per l’Assicurazione di Qualità nello Spazio Europeo dell’Istruzione Superiore» e del cd. Processo di Bologna e il funzionamento dell’organizzazione nell’ambito del sistema della performance del personale non docente. La riflessione di tipo organizzativo del PIAO (a prescindere dalle questioni tecnico giuridiche sollevate dal Consiglio di Stato) merita di essere considerata nella sua essenza più profonda: quella di evitare ogni separazione degli strumenti gestionali della parità dagli altri strumenti organizzativi della PA. Meri rinvii tra documenti esistenti, mere combinazioni documentali, non sono destinate ad assolvere l’impegno assunto dalla Piattaforma di Pechino nel 1985. Perché sono due le logiche che muovono da un contesto di riflessione integrato al genere: la strategia della PA che comprende il genere, la valutazione d’impatto di genere di ogni strumento/documento/regola “neutro/a” della PA.
Questa stessa logica integrata è stata fatta propria dai gender equality plan nel rispetto delle indicazioni della CRUI e prima ancora della Horizon Europe Guidance on Gender Equality Plans approntata dalla Direzione Generale per la Ricerca e l’Innovazione della Commissione Europea (CE) in adempimento della decisione consigliare 2021/764 del 10 maggio 2021, dove si individua la priorità della “gender equality, including the integration of gender dimension in the R&I content”.
L’integrazione documentale strategica è, del resto, solo una delle tante forme in cui si manifesta il gender mainstreaming, una manifestazione che varia in ragione del contesto di riferimento (università) e della molteplicità di figure femminili che vi operano (personale docente, personale tecnico-amministrativo a cui vanno aggiunte le figure della ricerca non stabilizzate, come ricercatrici e termine, prima e dopo la cd. riforma Messa, AdR, dottorande inserite nel terzo ciclo della formazione universitaria).
Dall’approvazione della Piattaforma di Pechino, l’Unione europea ha perfezionato lo strumento e ha concorso a definire le tecniche di valutazione, ha identificato le ampie aree di interesse e ha dedicato al gender mainstreaming una specifica disposizione nella direttiva rifusione 2006/54. Vorrei ricordare che nell’art. 1 del codice delle pari opportunità rinnovato nel 2010 si recupera quel riferimento contenuto nella dir. 2002/73/CE al gender mainstreaming trasposto nel nostro ordinamento solo 2010 che prevedeva espressamente l’integrazione dell’obiettivo della parità tra donne e uomini in tutte le politiche e attività con ciò concorrendo a completare il quadro delle disposizioni generali dedicate agli strumenti complementari finalizzati al perseguimento delle pari opportunità: divieti di discriminazione, politiche di azioni positive e mainstreaming (ovvero l’integrazione orizzontale delle pari opportunità nelle politiche generali) .
La gender mainstreaming strategy si articola in quattro fasi: a) getting organised, b) learning about gender differences, c) assessing the policy impact; d) redesigning policy.
Alla prima fase di avvio della strategia con la programmazione e la pianificazione della valutazione di impatto (« Implementation and organisation of gender mainstreaming refers to the process of providing a structural and cultural basis for equal opportunities »; cit. pag. 5), segue una seconda meramente descrittiva della situazione di ineguaglianza/disuguaglianza da valutare per individuare in modo compiuto le aree sulle quali focalizzare l’attenzione; la Commissione ha concorso a definire quattro dimensioni cardine della valutazione di genere: la partecipazione delle donne, le risorse distribuite (in termini economici, ma anche di potere), il valore sociale attribuito alle caratteristiche femminili e maschili e, infine, i diritti riferendosi alla presenza di discriminazioni dirette e indirette, al rispetto dei diritti fondamentali, all’accesso alla giustizia). La valutazione quanti-qualitativa si effettua nella terza fase, mentre nella quarta ed ultima, si è chiamati a ridisegnare le politiche sulla base della promozione dell’eguaglianza di genere.
E’ ampia la gamma di questioni trattate e trattabili nell’ottica del gender mainstreaming che appare di centrale rilevanza in quanto evidenzia che la strategia è applicabile a macro settori di interesse come le politiche del lavoro, le politiche salariali, retributive e di carriera, le politiche di riconciliazione vita-lavoro e le politiche di flexicurity. Non vi è dubbio che il diritto del lavoro svolge un ruolo significativo in questa riflessione, per ogni figura inserita nell’università.
A cascata, dall’accettazione della logica integrata di approccio al tema, discendono conseguenze in ordine alla portata del confronto teorico da sviluppare (decisamente allargato rispetto al passato) e che si accompagna a soluzioni operative molto diverse da quelle del passato (il GEP è solo uno degli esempi, sicuramente uno dei più recenti). La strada era stata segnata nel 2018 dal gruppo di lavoro Genere e Università dall’allora ministra Valeria Fedeli. Il gender equality index sul quale cominciare a riflettere in modo sistematico ci consentirà di uscire dalle pieghe un po' dell'autonomia differenziata che non consente nessuna di riflessione di tipo strutturale.
Oltre la 125, come anticipato in premessa, è un modo non retorico per affermare la centralità della questione di genere nelle università a partire dal diritto del lavoro gender sensitive, quel diritto settoriale attento alle questioni di genere, ma che guarda oltre le soluzioni di quel passato in cui, un’altra generazione di studiose, ha concorso ad affermare una centralità lavoristica nella specifica materia, nel corso del tempo, inaridita.
Alle giuriste del lavoro, il cambiamento di contesto deve imporre di allargare la gamma di soluzioni operative utili all’affermazione della parità della rappresentanza all'interno delle università, con una particolare attenzione alla governance e al suo funzionamento; la strategia giudiziaria è solo una delle strade praticabili, ma non appare quella privilegiata; la raccolta dei dati è il punto di partenza, ma non basta arrivare, non basta esserci. Come ci ricorda Michela Murgia , contarsi è il primo step della riflessione femminista, ma non si esaurisce nella raccolta dei dati. Femminista è usare quel successo per rendere possibile anche ad altre donne il superamento degli ostacoli sessisti che impediscono loro di essere riconosciute e valorizzate. Aggiunge l’autrice che «se serve solo a te non è femminismo».
A partire da queste premesse, capitalizzando le sollecitazioni del pensiero femminista (o, detto altrimenti, come ci ha ricordato Francesco Bilotta, l’attenzione prestata al regime patriarcale che governa le università), l’emancipazione non coincide con il successo dentro il sistema, per emanciparsi davvero occorre essere capaci di mettere in discussione la matrice schiacciante del meccanismo di cui si è appropriate all’interno degli atenei.

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